recensioni
Don Giovanni Mangiapane, "Poesie del Santo Rosario e della via Crucis"
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Poesie del Santo Rosario e della Via Crucis
Don Giovanni Mangiapane
Guido Miano Editore, Milano 2025.
Del Santo Rosario sono illustrati poeticamente dall’Autore tre misteri: i ‘gaudiosi’ (contemplati al lunedì e al giovedì), i ‘dolorosi’ (al martedì e al venerdì) e i ‘gloriosi’ (al mercoledì, al sabato e alla domenica). Non sono proposti i misteri ‘della luce’, introdotti nel 2002 da San Giovanni Paolo II (al giovedì, con modifica della sequenza delle contemplazioni degli altri tre misteri: i ‘gaudiosi’ lunedì e sabato, i ‘gloriosi’ mercoledì e domenica, rimanendo al martedì e al venerdì i ‘dolorosi’). Tutto è trattato nel pieno rispetto della tradizione della preghiera mariana più nota ed usuale, fin da quando i monaci Cistercensi ne ‘fissarono’ la forma nel Medioevo. Ogni mistero si conclude con due versi che si ripetono per salutare Maria: nei misteri gaudiosi come Madre di Dio, per mezzo della quale l’opera del Padre ha il suo compimento («Ti salutu, Maria, Matri di Diu/ cu tia l’opra sua tutta finiu»); nei Misteri dolorosi come «… Madre Addolorata,/ ai piedi della croce sei piantata»; nei Misteri gloriosi con queste parole: «Io ti saluto, del cielo Regina,/ della gloria di Dio sei tutta piena».
I versi di questo Rosario ci offrono una chiave didascalica efficace e piena di acume interpretativo. Tre soli esempi, uno per ogni mistero, valgono a far tesoro di questa preghiera. Nel terzo mistero gaudioso si ‘vive’ la concitazione del momento che precede la nascita di Gesù: «Nun c’è postu, troppa genti,/ vonnu essiri presenti/ e na grutta li ripara,/ pi l’Eventu di la Storia» («Non c’è posto, troppa gente:/ voglion essere presenti/ e una grotta li ripara,/ per l’evento della storia»): niente di più vicino alla comune vita delle donne e degli uomini di tutti i tempi di fronte ad un ‘lieto evento’. Nel quarto mistero doloroso si rivive in una sola quartina tutta l’angoscia di un’ingiusta condanna e nello stesso tempo si raccoglie un segno della permanente presenza di Cristo nel tempo della vita del mondo: «Nciampà cadì si susì/ la matri la binidicì,/ facci cè ncapu linzolu/ donni avvisò pi cunsolu» («Inciampò, cadde, si alzò,/ la madre là lo consolò;/ c’è un volto sul lenzuolo:/ a voi, donne, così vi consolo»). Nel secondo mistero glorioso, al momento dell’ascensione di Gesù, c’è la succinta ed abile descrizione della vita dei discepoli che non si ferma, ma va avanti con un nuovo scopo: la missione verso tutte le genti attraverso il proprio quotidiano vivere: «Mentri parlava acchianava/ di cori binidicia;/ cu acchianà dopu scinni/ ura è: a li facenni» («Mentre parlava se ne saliva/ e di cuore li benediceva./ Chi è salito dopo scende;/ e ora, alle nostre faccende»).
La seconda parte della raccolta è dedicata alla Via Crucis. Le prime quattordici stazioni, nella traduzione italiana, sono introdotte da una breve meditazione in prosa. Le stazioni sono quindici: è compresa quella della Resurrezione, introdotta nel XII secolo dall’Arcivescovo di Colonia, ma percorsa saltuariamente (l’itinerario tradizionale, quello riportato sulle pareti delle chiese cattoliche in tutto il mondo, si ferma alla XIV stazione con la sepoltura di Gesù). Si ripercorre l’ultimo tragitto di Gesù in Gerusalemme: dopo la condanna di Pilato, caricato della croce, incontra la Madre; poi Simone di Cirene è costretto ad aiutarlo; incontra la Veronica, cui ‘regala’ l’immagine del proprio volto impressa su un velo, e le donne di Gerusalemme, cui dice di piangere su loro stesse e i propri figli e non su di lui. Gesù, messo in croce, parla al ‘buon ladrone’ ed infine alla madre e al discepolo prediletto Giovanni, affidando l’una all’altro prima di esalare l’ultimo respiro. E le tre cadute, e la deposizione dalla croce, e la sepoltura di Gesù che conclude provvisoriamente la vicenda – perché la fine vera non c’è, arrivando la Resurrezione che apre mille e mille vie alla testimonianza cristiana.
In tutto questo tragitto, l’Autore si percepisce compartecipe di ogni vicenda ripercorsa, e sentiamo il suo caldo invito a riconoscerla come ‘nostra’, a meditarla con cuore umile e aperto, a lasciarci sconvolgere la vita da un incontro tanto intenso e vero come quello di Gesù – ancora qui con noi. Una compartecipazione che si propone con tanta discrezione quanta decisione, come, ad esempio, nella seconda e terza quartina della IX Stazione: prima Gesù si rivolge al lettore e poi l’Autore richiama l’attenzione sulla vicenda del Cristo («Ce lo hai detto tante volte,/ timorosi per le svolte:/ “State attenti, non sbandati;/ voi con me siete impastati.”// Nella vita lo facesti,/ con coraggio sempre andasti;/ ma quel giorno hai sudato,/ sangue vivo hai versato»). Una compartecipazione ‘richiesta’: infatti, mentre la preghiera del Rosario è sia personale che comunitaria, la Via Crucis è un gesto per sua natura comunitario. In essa si rivivono le ultime ore di vita di Gesù prima della Resurrezione: ore vissute in mezzo alla gente di allora, coi suoi pensieri e pene, indifferenze e passioni. Un gesto che anche oggi coinvolge chi, come il Cireneo della V Stazione, si trova a passare per caso. Un gesto “pubblico”, al quale l’Autore invita a compartecipare, soprattutto, direi, con la giaculatoria ricorrente che (al posto della tradizionale «Santa Madre, deh! Voi fate/ che le piaghe del Signore/ siano impresse nel mio cuore») suona così: «O Gran Virgini Maria,/ vostra pena è curpa mia» («O gran Vergine Maria,/ la vostra pena è colpa mia»). Tanti altri sarebbero gli esempi, ma è meglio che il lettore li scopra da sé.
Lo schema delle poesie è fisso: nel Rosario c’è la sequenza di quattro quartine di quattro versi, più un saluto a Maria nel distico finale, quasi sempre con rima baciata a due a due. Anche nella Via Crucis i versi sono a schema fisso: tre quartine e un distico finale, quasi sempre con rima baciata, più il “ritornello” di chiusura su citato, uguale fino alla quattordicesima stazione. È uno schema utile alla memorizzazione, che nella traduzione italiana inevitabilmente si perde, anche se c’è il tentativo di conservarlo intatto – ove possibile.
Per quanto riguarda l’uso, voluto, della lingua siciliana per i suoi versi, Don Giovanni Mangiapane ‘gioca in casa’. Non è la prima volta, infatti, che pubblica in Siciliano; e la Regione Sicilia, per promuovere l’uso della lingua isolana e farla conoscere a scuola, ha inserito i suoi Versi Siciliani in due volumi di poesie editi dal Liceo Umberto I di Palermo nel 2024. Da tempo si è abbandonato l’uso del termine di “poesia dialettale”, perché con questa espressione solitamente si sottintende l’uso di una lingua morta. Merito di questo sacerdote poeta è di produrre letteratura in ‘viva’ lingua siciliana, affinché la ricchissima cultura isolana venga tramandata così come è nata, senza ‘traduzioni’.
Le poesie proposte nella raccolta sono state pensate e scritte per essere lette e recitate in Siciliano, e il classico problema dei testi poetici è che, quando vengono tradotti da una lingua ad un’altra, inevitabilmente perdono un po’ del loro fascino stilistico. L’aiuto a comprendere la lingua siciliana ci viene qui dallo stesso Autore, che a fianco del testo siciliano propone quello italiano. Così anche i meno avvezzi alla lingua isolana possono avvicinarsi al senso pieno delle parola scritte. In ciò si è abbastanza facilitati, se si conoscono già gli argomenti stessi delle poesie – cosa probabile, perché il Rosario e la Via Crucis sono preghiere e gesti ben noti alla gran maggioranza dei possibili lettori. Però ci sono parole “intraducibili”, e nel tradurre l’Autore fa ricorso a delle parafrasi. Tuttavia, in certi casi bisogna ‘entrare’ nella lingua originaria per comprendere il significato del tutto, perché ci sono modi di dire che, a chi non conosce la lingua originaria, dicono poco. Ad esempio il “mortorio” del quarto verso della XIV Stazione della Via Crucis è il suono di campane a morto, usato anche, per le “chiamate d’emergenza”. Nel nostro caso, dal venerdì della sepoltura di Gesù alla sua Risurrezione all’alba della domenica di Pasqua, il tempo di un “mortorio” significa una brevissima attesa – nella prospettiva dell’Eterno. Devo questa spiegazione alla cortesia dell’Autore, perché io non ci sarei mai arrivato! Ma, per il resto, tutti i versi in Siciliano sono facilmente godibili e fruibili da chiunque, con l’ausilio della ‘traduzione d’autore’.
Diciamolo pure: questa raccolta poetica vale molto per chi conosce già la sequenza dei Misteri della preghiera del Rosario e per chi già pratica il ‘pio esercizio’ della Via crucis; ma vale anche, e forse ancor di più, per chi non li conosce. Sì, perché la forma poetica (tanto in lingua siciliana quanto nella traduzione italiana) è tanto semplice quanto potente, capace di avvicinare anche chi si accosta solo per curiosità a questi testi di Don Giovanni Mangiapane. Che, in tal modo, esercita la sua missione in bellezza.
Marco Zelioli
Don Giovanni Mangiapane, Poesie del Santo Rosario e della Via Crucis, testi in lingua siciliana con traduzione italiana a fronte; prefazione di Marco Zelioli, Guido Miano Editore, Milano 2025, pp. 72, isbn 979-12-81351-52-3, mianoposta@gmail.com.
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L’AUTORE
Giovanni Mangiapane, nato a Cammarata (AG) il 24 maggio 1944, è stato sacerdote e parroco della diocesi di Agrigento per cinquantaquattro anni, ordinato il 29 maggio 1970 parroco sino ad ottobre 2023. Ha ricoperto l’incarico di Direttore Ufficio Beni Culturali in Diocesi dal 2002 sino al 2009, dopo avere ricostruito la Cattedrale di Caltabellotta, per le grandi celebrazioni del 7° centenario della pace di Caltabellotta del 31 agosto 1302. Ama scrivere, in lingua italiana e in vernacolo, anche versi, con piccoli messaggi augurali, concorsi parrocchiali, epitaffi, ricorrenze di vita. La Regione Siciliana, nel promuovere il Siciliano come lingua da far conoscere a Scuola ha inserito i suoi versi in due volumi di poesie, Versi Siciliani di Giovanni Mangiapane, edizioni Liceo Umberto I di Palermo 2024.
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Leopardi, il poeta dell'infinito
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Se Leopardi il poeta dell’infinito fosse una qualsiasi serie in costume, mi sarebbe piaciuta. Ma è una serie su Leopardi e non va bene.
La prima puntata si salva: Ranieri che si batte per una degna sepoltura al poeta malvisto dall’intellighenzia e dalla chiesa, il conte Monaldo, superbamente interpretato da Alessio Boni (molto migliorato negli anni come attore), la cui tensione morale e affettiva si rivela da ogni tendine e muscolo facciale, l’austera e terribile madre, felice che il figlio sia malato per poterlo immolare al suo Dio corrucciato. Bello, per dirla in breve, l’inizio.
La seconda puntata lunga, tronfia e quasi inguardabile, con l'improbabile carteggio alla Cyrano de Bergerac fra Raneri e l’Aspasia/Targioni Tozzetti. Passano gli anni e questa sorta di gobbo di Notre Dame rimane troppo giovane, troppo bello, troppo dritto e con lo stesso, anonimo filo di voce per tutto lo sceneggiato (sì, io chiamo ancora così le serie tv e me ne vanto).
Non trovo giusto aver puntato tutto sul Leopardi filosofo, sul suo nichilismo, disfattismo e pessimismo, quando, in realtà, questo “giovane favoloso” era innamorato della vita, dalla quale si sentiva escluso. Ebbene sì, avrebbe rinunciato a tutta la sapienza, a tutta la cultura, alla fama e alla gloria pur di essere come qualsiasi altro. Leopardi amava l’amore e s’infatuava, Leopardi gridava alla luna il suo dolore e la sua rabbia per la cattiveria con cui la natura matrigna si era accanita contro di lui. Insomma, non mi è piaciuto l’aver puntato tutto sulle Operette Morali piuttosto che sui grandi e piccoli Idilli.
La figura del Ranieri, poi, è completamente sbagliata. Da Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi si evince la figura di uno sfruttatore, certo non di un grande, sincero e disinteressato amico, come si vuol far credere qui; il quale non si è battuto perché venisse ricordata la grandezza del genio leopardiano, ma piuttosto le bizzose meschinità di un povero malato: nevrastenia, golosità, piccole cattiverie che sicuramente erano presenti in una figura tanto sofferente e delle quali, però, non c’è traccia nella serie di Rubini.
Concludendo, molto meglio Il giovane favoloso di Martone.
Benedetta Sanna, "Avere la pazienza del pane"
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Avere la pazienza del pane di Benedetta Sanna (Eretica Edizioni, 2024 pp. 68 € 15.00) discioglie l'origine del fermento esistenziale mescolando gli ingredienti con un espediente indispensabile per far maturare l'amalgama emotivo attraverso la fragranza dei versi e il profumo della memoria. Benedetta Sanna concede il suo tempo interiore nella preparazione di una riflessione umana, lungo il tracciato delle parole, la qualità panteistica delle immagini, immersa tra isola e città, nella reazione alle avversità e alle difficoltà della vita. Se il pane elabora la pazienza, la poetessa raggira l'antico e proverbiale modo di dire per alimentare l'atteggiamento alla comprensione, la disposizione alla fiducia nella natura e nel suo stupore e alla volontà di percorrere l' evoluzione personale, nella stabilità di tracciare su carta la destinazione della propria anima. I versi delineano le reazioni istintive, provocate dalle aspettative sensibili, fondono l'irrequietezza nelle schegge di lucida immediatezza, scuotono l'affanno della coscienza, persistono nella loro urgenza di espressione, nell'esigenza di trovare un'entità autentica, capace di rivelare l'intensità dell'intonazione elegiaca. La poetessa vive la ragione poetica, coniuga l'esperienza della dimensione estetica di ogni visione del reale nella quotidianità con la pratica di una scrittura meditata nell'attenzione intenzionale alle sensazioni, inaugura la stagione di una fusione spirituale, condensa l'indagine negli affetti e salda la qualità dei componimenti appesi nella sospensione dei ricordi. Benedetta Sanna suggerisce, con l'impeto suggestivo delle sue poesie, l'indicazione interpretativa dell'attesa, come indugio silenzioso e minuzioso nei rapporti relazionali, assiste l'asprezza e la severità degli eventi, evidenzia la dolcezza della speranza e la consistenza dell'assenza. Accoglie nel suo cuore l'avidità insaziabile di trasmettere amore, oltre la rabbia e il dolore, aggira la voragine inaccessibile dello sconforto e l'intuizione indefinibile della malinconia con il significato profondo di una schiettezza urlata e decantata nella vicinanza delle superfici animose e solitarie dei pensieri, oltre l'indolenza del distacco e l'accerchiamento della solitudine. Avere la pazienza del pane ricorda di cogliere l'opportunità di sorvegliare, capire e seguire l'estensione della consapevolezza, proietta il valore del presente nella benignità del tempo che sa sempre restituire gli intrecci della vita scandendoli oltre il frammento dei turbamenti. Benedetta Sanna confessa la fragilità dei rimpianti e la ruvidezza delle separazioni, esprime l'energia coraggiosa della parola, dà senso alla voce sfumata e disillusa della nostalgia, pone la quiete all'inquietudine. Manifesta l'intenzione di dare forma e corpo al grumo indistinto e indecifrabile dei sentimenti, confida nella previsione temporale delle esperienze, fa riemergere la riflessione antica e generativa degli intervalli. Dedica alla risorsa preziosa dell'indulgenza la ripartizione della tensione impaziente, interroga l'anima e ne ascolta il principio vitale, identifica l'eco del rimpianto, le occasioni inesorabili di impastare le fascinazioni e i disinganni del proprio cammino. Benedetta Sanna ci insegna a saper prevedere, ad attendere il tempo necessario affinché le prospettive umane migliorino, a nutrire le trasformazioni e ricevere compiutamente le conseguenze della saggezza popolare: “A chi sa attendere, il tempo apre ogni porta”.
Rita Bompadre - Centro di Lettura “Arturo Piatti” https://www.facebook.com/centroletturaarturopiatti/
Al mare basterebbe
sapere che torniamo,
che il viaggio non è breve
ma l'orizzonte lo vediamo:
i contorni del suo volto,
l'isola e il suo solco,
uno sbadiglio nel Mediterraneo.
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Se la notte porta il sogno
e nel sogno c'è un consiglio
di saper essere anche io notte,
quando voglio:
una penna che non dubita del foglio.
E io che resto serva del tuo giorno
so bene che ti vedo
solamente alla sua fine,
dove il nero è tutt'uno con la stanza.
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Sapessi come te dimenticarmi
dell'affanno dei miei anni,
che invece io pronta ricordo
ogni volta
che scordo l'origine dei venti
e cosa scosse il maestrale
nelle radici,
in quegli occhi tuoi sempre spenti
e le tue spalle come colline,
alle mie pendici.
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Solamente scrivendo
posso togliere la rabbia.
Evitare di sputare la tovaglia,
aggredire i tuoi costumi ed usi,
così sporchi e truci
di giostre secolari,
violenze e torti.
Di netto poi trafiggo
dal polso fino al torace
lo spettro sudicio e ingombrante
dell'elefante in una stanza.
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Distinguere parole
come rose dalle spine,
tra le mani tue supine
in grado di abbracciare
ogni mio indizio alieno.
Su quella spiaggia bianca e dolce,
dove ancora
dormo e tremo.
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Sono arrivate molte cose
negli anni
a salvarmi.
Prima dalla provincia,
poi da ogni mia piccola stanza.
Quasi come un passaggio
di mano in mano
di una chiave
o di un segreto,
e quella devozione.
L'occhio aperto
sulla terra stanca.
Il tuo antico rituale.
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Gomitolo di niente,
briciola
scarto
e restanza.
Pregarti voglio oggi
per avere un segno,
da un cielo
il cui colore appena distinguo.
Dal tetto del palazzo,
da un urlo sotto casa.
La notte non ha suono.
Il fascino e la pena del vivere nell’arte di Daurija Campana
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Daurija Campana
Qualcosa di nuovo, qualcosa di vecchio, qualcosa di blu, qualcosa di prestato
Guido Maino Editore, Milano 2024
Una caratteristica della ricerca poetica di Daurija Campana - ora antologizzata nel volume Qualcosa di nuovo, qualcosa di vecchio, qualcosa di blu, qualcosa di prestato, pubblicato dalla Casa Editrice Miano - è il ricorso invero frequente a un sistema di rime, talora evidenti nella loro regolarità (“Socchiudi il sole tra le ciglia scure/ e lascia che il tempo i pensieri pasca/ hic et nunc, tra prati, piane e paure/ hai nascosto le cinque lire in tasca…”, Il canto del cuculo), talora più rare e sfumate (“…Ed io restavo a casa a prepararmi/ per la scuola e pensavo/ quanto avrei desiderato destarmi/ una volta col tuo bacio”, Madre) o magari maggiormente elaborate in un sapiente gioco fonico-ritmico di lontana, ma inequivoca ascendenza dannunziana: “Non piace./ La pioggia che dice/ che tace… Che pace!/ Tra gli orti, contorti/ pensieri distorti/ su vivi e su morti/ che pace, che sensi…/ Che pensi? (…) Sembriamo/ uccelli dagli aurei capelli, fringuelli/ leggeri e soavi/ che lievi/ distendono ali/ sul cielo sereno” (Non piace).
Tale particolarità compositiva implica un effetto di stabilità, di equilibrio armonioso, di indubbia scioltezza formale, pur in presenza di procedimenti costruttivi di segno opposto, quali l’enjambement, rivolto a esiti di “spezzatura”, di frangimento disarticolante la compagine strofica: “…Le tue cangianti vesti non ingannino/ il marinaio che il tuo volto ammira/ non si neghino al folto dei cipressi:/ così lui ti vedrà dalla dimora/ eterna…” (Luna); oppure, più specificamente, come le pause indotte dall’inversione dell’ordine sintattico nell’organizzazione del discorso logico, dall’impiego della figura dell’anastrofe: “Ti alzi, soffio di vita nell’aria/ dorato grano tra spighe e respiro,/ sopra la terra leggera che varia,/ sguardo di cielo immenso blu ammiro…” (Il vento); “Il cielo è sereno, cade la pioggia,/ oggi il sorriso è turbato dal pianto,/ il viso riga scendendo la goccia,/ l’animo giace perduto ed affranto…” (Cade la pioggia); “Per te io piansi le lacrime in cuore,/ la giovanile età del gioco/ in cui la gioia dimostravo lieta/ e al sorriso spesso ricorrevo.// Ma poi ti vidi e fu in me il dolore/ che mi sussurrava il tuo sguardo fioco/ mancato sorriso lo sguardo vieta/ e nel guardarti, ricordo, piangevo…” (Amore).
Nondimeno una sollecitazione antitetica anima profondamente la struttura dei testi lirici di Campana. Una nota vitale, uno slancio positivo e proiettivo si precisano come attesa di un incontro morale-affettivo, come desiderio di piena intesa sentimentale, bisogno di integrazione con gli altri e di immedesimazione con il respiro pacificante della natura; questa istanza fiduciosa ed espansiva tende successivamente a contrarsi e a cadere, inappagata e respinta, risolvendosi in scacco emotivo, privazione, rimpianto, dolorosa solitudine: “…E spira il silenzio sopra il mio canto,/ la nuvola bella appare più rosea/ sorrisi sul sole e sui solchi scuri/ in petto il cuor mesto ora riposa” (Cade la pioggia, cit.); “…Continuo a bramar, ogni istante, ogni ora/ che il padre mio, che tanto io adoro/ ritorni da me e resti per ore/ per giocare con la sua bimba ancora” (Re Evandro); “…ma il desiderio seguiva il timore.// Giorni lontani, di gaudio e di festa/ giorni di vita, di spensieratezza/ tutto oggi è perso, come la pula/ che porta via il vento, troppo lontano…” (Mietitrebbia).
Anche nella produzione pittorica dell’autrice si alternano colori vivaci, un cromatismo esuberante e tonalità più cupe, dal blu al grigio: quest’ultimo, ad esempio, domina la rappresentazione del padre, ritratto di spalle sul trattore, figura indeterminata poiché ormai remota e perduta.
Il prefatore Michele Miano acutamente pone in risalto il fatto che la poetessa in varî dipinti “sembra prediligere la figura umana femminile”, riprodotta in atto problematico e pensoso. Aggiungerei che detta figura si staglia su un fondale uniforme e spesso nero, e concentra nello sguardo uno spirito suggestivamente enigmatico e interrogativo, pronto a misurarsi con le prove della vita, ma ad aprirsi altresì alla speranza: “Ti prenderei la mano/ tra spighe meste e campi di fieno,/ e assetata di vita/ correrei al lago, mentre i rossi papaveri/ condurrebbero i passi/ alla quiete…” (Vanessa cardui).
Floriano Romboli
Daurija Campana, Qualcosa di nuovo, qualcosa di vecchio, qualcosa di blu, qualcosa di prestato, prefazione di Michele Miano, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 80, isbn 979-12-81351-41-7, mianoposta@gmail.com.
Andrea Cattania, "Amore per sempre"
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Amore per sempre
Andrea Cattania
Guido Miano Editore, Milano 2024.
“Amore per sempre” in Andrea Cattania e in Edward Estlin Cummings
“L’amore per sempre” dei nostri due poeti, come suggerisce il titolo di questa tematica, riguarda la poesia amorosa dedicata ad un’unica donna amata, al sentimento che sfida il tempo, all’eterna promessa fra due entità che s’incontrano per non più perdersi: solo la morte potrà segnare la dimensione dell’assenza, della distanza, ma forse neanche Lei, poiché il ricordo, la memoria dell’unione infranta, sopravvive spiritualmente anche agli artigli della Straniera, e ciò vale per l’esperienza umana e letteraria di Andrea Cattania. Succede a lui – l’amore non conosce differenziazioni di epoche o di mentalità – quel che capitò a Dante con Beatrice (la donna angelicata, salvatrice della sua anima, guida spirituale nel Paradiso della Commedia) e al Petrarca con Laura (la protagonista del Canzoniere, dove il poeta aretino suddivide il suo canto fra le rime “in vita” e “in morte” dell’amata). Assistiamo dunque alla sublimazione del sentimento amoroso, poiché poco importa se Beatrice e Laura non sono mai state realmente a fianco dei due poeti toscani e sono andate all’altare con altri uomini: per loro esse sono rimaste sempre la vera idealizzazione della donna perfetta o perfettibile, fino a costituire costante fonte di ispirazione poetica per tutta l’esistenza. Così anche per Cattania, che nei suoi versi esprime ora il rammarico e l’amarezza per un amore non corrisposto, poi la felicità con la donna che ha amato “in vita” e che amerà per sempre anche “in morte”: Lila» […].
Enzo Concardi
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Le problematiche dell’essere in Andrea Cattania e in Charles Baudelaire
La profonda dicotomia dell’essere che sin dai primordi turba l’animo umano e scuote gli intellettuali di ogni epoca, emerge anche nell’opera del poeta - ingegnere Andrea Cattania; un’ossimorica tensione tra ragione e sentimento, tra angoscia esistenziale e desiderio di elevazione pervade infatti le sue liriche. La poesia di apertura di questo capitolo, Il futuro dell’homo sapiens, pone subito un’accorata domanda, enfatizzata dall’apostrofe e dal rincorrersi di potenti antitesi: «Che ne sarà di te, Uomo Sapiente?// […]/ Vinci sfide impossibili, raggiungi/ le vette della conoscenza astratta.// Spingi al limite il pensiero simbolico.// Incapace di volgere in amore/ la folle ebbrezza di un sapere immenso,/ non sai se non ipotizzare quando/ si estinguerà, e come, la tua specie». L’ammirazione per i risultati raggiunti dalla mente umana, sottolineata dai verbi vinci, raggiungi, spingi, si accompagna alla triste consapevolezza della leopardiana infinita vanità del tutto: l’uomo non sa trasformare la sua conoscenza in condivisione (incapace… non sai), non si innalza al di sopra del contingente e il suo folle volo è ancora una volta fallimentare. Tuttavia i versi sono mossi da un’incessante ricerca, tesa a svelare il senso dell’esistenza e a scoprirne la bellezza, anche quando i sentieri sono impervi e le vie d’uscita lontane: «…Noi,/ piccole talpe cieche sottoterra,/ allunghiamo lo sguardo, ci illudiamo/ di scorgere un chiarore in fondo al tunnel…» (L’intuizione di Anassimandro). […].
Gabriella Veschi
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La contemplazione dell’universo e della natura in Andrea Cattania e in Paul Claudel
Non è raro il caso di una personalità dalla solida preparazione scientifica, che nondimeno riveli vivi interessi artistico-letterarî, che coltivi anche attivamente non superficiali inclinazioni estetico-culturali, una spiccata propensione alla scrittura poetica. Sono d’altronde pienamente ammissibili opzioni tematiche extra-scientifiche, svolgimenti di motivi etico-sentimentali, intimistico-psicologici o storico-sociali, confessioni di esperienze di vita sofferte e inconfondibili.
Invece la ricerca lirica dell’ingegner Andrea Cattania non sa prescindere dalle problematiche logico-matematiche, specificamente astrofisiche, che urgono alla sua mente, stimolano la sua fantasia, la quale se ne alimenta intensamente con risultati di indubbia incisività creativa: «La materia diffusa, l’energia/ che pervade/ l’intero cosmo, ovunque,/ nell’universo/ genera il campo gravitazionale./ La distorsione del mondo reale./ La curvatura dello spaziotempo» (La distorsione dello spazio); «…La luce/ si propaga intrecciando al proprio interno/ i due campi in un’unica natura/ nell’universo dello spazio-tempo./ La sua velocità costante è un limite/ irraggiungibile, esprime il rapporto/ in cui la massa diventa energia» (Vorrei conoscere i pensieri di Dio).
A un discorso imperniato sulla univocità e determinazione lessicali unite a essenzialità sintattica è immanente il rischio dell’aridità intellettualistica o comunque dell’appiattimento prosastico, mentre l’autore non si nasconde le peculiarità preziose della poesia: «La tempesta quantistica flagella/ gli elementi del brodo primordiale./ Li sfibra, li divelle, li affastella/ in seno al cono gravitazionale/ (…) Non solo lo scienziato, anche il poeta/ osa raffigurare lo scenario/ dell’Universo nell’Istante Zero./ La traccia folgorante di un pensiero./ L’origine del tempo immaginario» (La nascita del cosmo, corsivi miei come sempre in seguito). […].
Floriano Romboli
Andrea Cattania, Amore per sempre, prefazioni di Enzo Concardi, Floriano Romboli, Gabriella Veschi; Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 100, isbn 979-12-81351-46-2, mianoposta@gmail.com.
Alessandro Falciola, "Alex Complete"
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L’autore di Alex Complete – “completo” in quanto raccolta di tutti gli “Alex-racconti” pubblicati con Passerino Editore – Alessandro Falciola, (con le illustrazioni di Fabrizio Lorenzelli) descrive il suo testo come “un esperimento, un ibrido tra il fumetto con tavole disegnate e parti scritte”. E ancora: “con la formula dell'ebook, posso inserire nuove tavole o aggiungere parti e il mio editore può modificare in 48 ore tutti gli ebook su tutte le piattaforme, una cosa atipica… in movimento”.
In effetti, se si riesce a districarci fra gli errori d’ortografia, i troppi puntini di sospensione, la punteggiatura tutta sbagliata, gli apostrofi mancanti, gli accenti errati, che nessuno si è preso la briga di editare, si evince una sorta di canovaccio, di sceneggiatura per fumetto o anche per film.
I racconti hanno per protagonisti il capitano Hassler delle SS e il giovane Alex Hinder, suo fedelissimo. Le storie, che si susseguono in ordine cronologico, sono ambientate in un tempo distopico- dispotico, dove Hitler ha vinto la guerra e non è morto, per essere poi sostituito da un certo Becker suo successore e, alla fine, addirittura da uno dei due protagonisti principali, Hassler. Gli Stati Uniti, invece, sono sotto il dominio giapponese.
Il mondo intero è comandato da regimi totalitari nazifascisti che fanno capo al Reich e – nella scia di Indiana Jones e l’ultima crociata – i nazisti sono sulle tracce di alcune sante reliquie, fra le quali un chiodo della vera Croce che darà il via agli eventi.
Ogni storia è un piccolo delirio “politically scorrect”, fatto di trame veloci, quasi fulminee, pochissimo sviluppate e solo per appassionati del genere, all’interno delle quali “la giustizia non entra”.
Ci si muove fra savane, tombe, cripte, conventi, miniere. Gli attori sono SS e monaci, poliziotti neri e spie, sciamani e narcos, il tutto condito da esoterismo ed eccidi, da sangue, violenza e barbare esecuzioni.
Parecchi i temi trattati, la lotta fra l’esercito e la Gestapo e all’interno delle stesse SS, il misticismo, il contrasto fra ideale e reale, l’idea che la vera scienza sia la religione.
Lo stile è frammentato e secco, molto colloquiale. Ogni tanto qualche immagine si distingue per un certo languore decadente non spiacevole, ad esempio la figura del cantante in frac nel locale notturno.
Wanda Lombardi, "Tempi inquieti"
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Wanda Lombardi
Tempi inquieti
Guido Miano Editore, Milano 2024.
Wanda Lombardi torna a far sentire la sua voce poetica con una breve ma intensa raccolta, Tempi inquieti, per Guido Miano Editore: venticinque nuove poesie, seguite dalla riproposizione di altre quattordici già pubblicate e raccolte sotto il significativo titolo Perché nulla vada perduto. Il tutto conferma quanto la poetessa sia ‘presente’ al nostro tempo, pur così travagliato; e la sua ricca bibliografia a chiusura del libro lo attesta senza ombra di dubbio.
Nell’accostare i versi di questa raccolta di Wanda Lombardi, non si può prescindere dall’osservazione di Maria Rizzi nella Prefazione all’opera, laddove, riportando i versi che alludono all’«… immane dolore / che stretto ho serrato nel cuore / dinanzi a muri di ferro …» (da Nell’andare), afferma proprio tale esperienza permette all’Autrice “di calarsi nel sociale con sguardo caldo di pietas, valutando i pericoli del male, schegge di guerra in periodi bui come quello che attraversiamo”. Il “coraggio delle ferite” (citando ancora la Rizzi) permette alla Lombardi di affrontare ogni argomento con spirito al tempo stesso umile e combattivo – come testimoniano poesie come Rialzarsi per continuare.
Come le rondini che fuggono dai consueti posti, perché dall’alto vedono «i risultati dell’odio,/ devastazioni, strade insanguinate,/ infanzia violata, crudo dolore/ per rancore tra genti mai sopito,/ per un diritto mai ottenuto» (da Rondini addio), così lo scoramento può prendere anche le persone capaci di pensare con la propria testa, perché «…in ogni angolo della Terra si soffre,/ si langue, si muore/ per contrasti a volte minimi/ che dialogando si potrebbero evitare» (da Abitudini). E poi, «In un mondo che corre vorticosamente,/ in un’epoca in cui sempre più veloci andiamo,/ spesso dimentichiamo la necessità/ di pensare, di usare il cervello/ che tempi più lenti ha per lavorare» (inizio de Il tempo della velocità). Non per nulla Tra ombre e dubbi finisce così: «È vero o falso il mondo in cui viviamo?/ Forse è da preferire questo a quello di domani». In ogni caso, «Malgrado gli alti e bassi,/ meravigliosa è la vita/ ché anche i momenti bui/ forza ridanno, la volontà nutrono/ e trasformarsi possono/ in coralli luminosi/ sì come le stelle dal caos/ si distinguono» (da La collana della vita). Ciò conforta anche di fronte alle perdite di affetti e di persone, come testimoniano le poesie dedicate al fratello Ubaldo e A un ragazzo prematuramente scomparso.
Una poetessa capace di scrivere «qualcosa di grande avverto/ nella profondità dell’essere» (da La musica della vita) è senza dubbio persona aperta sempre alla novità, ma nello stesso tempo critica – giustamente critica sul senso di tale novità. Ci sono, infatti, novità che sconvolgono («Spaurita, dall’alto mi par di osservare/ un mondo lacerato che sembra crollare/ …/ rapidi cambiamenti epocali/ con diritti raggiunti, imprese spaziali,/ progressi nei paesi musulmani,/ robot, intelligenza artificiale,/ e accanto guerre, genocidi, povertà,/ dignità calpestata» – da Contrasti) e novità che confortano come la presenza di un amico (amico evocato con queste parole in chiusura della prima parte della raccolta: «Con viso aperto/ e trasparenza negli occhi,/ è un vento benefico/ che un equilibro restituisce,/ è una brezza marina/ che adagio ti sprona a ripartire,/ a riprendere in mano/ le redini della vita» - da L’amico vero). Sta all’uomo avvertire la direzione alla ‘piena umanità’ cui ogni persona è chiamata, rendersi conto che occorre «la capacità di meditare sulla vita,/ sui cambiamenti repentini,/ le cose irrisolte, i problemi accantonati/ e guerre… guerre nate con l’uomo/ e che con l’uomo periranno» (da Silenzio amico). È però inutile rifugiarsi «nel ricordo di tempi lontani/ quando tutto affascinava/ e un niente appagava», perché «Vivere in pace con tutti è un sogno/ che morirà con l’uomo» (da Sguardo sul mondo).
Così Wanda Lombardi ci sprona ad essere consapevoli del nostro tempo nel nostro tempo, cioè ad essere ‘presenti’ e non ‘assenti’ col cuore e con l’anima: il mondo in cui viviamo è il nostro mondo, non ce n’è un altro. Un richiamo da non sottovalutare, mai.
Marco Zelioli
Wanda Lombardi, Tempi inquieti e altre poesie, prefazione di Maria Rizzi, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 60, isbn 979-12-81351-38-7, mianoposta@gmail.com.
Pasquale Ciboddo, "Labirinti della memoria"
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Pasquale Ciboddo
Labirinti della memoria
Guido Miano Editore, 2024
Il poeta sardo della Gallura, Pasquale Ciboddo, continua i suoi itinerari lirici con questa pubblicazione del novembre 2024, edita, con la prefazione di Michele Miano, nei tipi della collana di testi letterari Alcyone 2000, appartenente alla produzione della milanese Casa Editrice Guido Miano.
Pasquale Ciboddo è uomo d’altri tempi, non nel senso riduttivo del termine, ma nel suo significato altamente positivo, ovvero quello di persona, intellettuale e scrittore sempre coerente con i valori della società in cui è nato, cresciuto, e vissuto fino ad oggi, mantenendo radici e identità culturali e geografiche intatte. È così che possiamo senz’altro definirlo come un autentico testimone del tempo, che ha quindi resistito alle sirene consumistiche e agli illusori miti di un progresso disumanizzante, per ergersi a portabandiera e simbolo di un’altra civiltà: il mondo contadino-agreste-pastorale dell’economia degli stazzi, un microcosmo autarchico dell’entroterra sardo legato ad una rete sociale e umana di fratellanza, solidarietà, lavoro, ideali in via di estinzione.
Tale premessa è necessaria per comprendere a fondo la genesi, l’origine della poetica di Ciboddo, espressione ed epifania di un’etnia particolare ma, nel suo caso, non chiusa in se stessa, bensì aperta alle istanze universali dell’anima artistica che ogni sensibilità creativa possiede. La poesia dell’autore deriva essenzialmente dagli incanti, dalle ragioni di esistere, dalla vita dura del passato che è, allo stesso tempo, ora, quale un bel sogno vissuto e quindi non più revocabile ma, come dice egli stesso, ancora vivente nelle memoria. È dunque la ricerca del tempo perduto il centro delle sue liriche, sebbene nella presente silloge emergano altre componenti tematiche, altri motivi d’ispirazione: il profondo desiderio della pace duratura per l’umanità distrutta e divisa dalle guerre; la condanna di ogni riduzione e minimalizzazione dei sentimenti umani altruistici; lo sguardo cognitivo oltre i confini della terra isolana natia; l’amore per la spiritualità e la religiosità dei padri, contemplanti una fede semplice al servizio del bene, contro le forze diaboliche del male.
Pasquale Ciboddo si è prefissato un programma per il suo fine-vita; l’ha scritto nella prima lirica del libro, in piena coscienza e lucidità: “Chi sarà il bastone / della mia vecchiaia? / Vivo solo, dopo la morte / della mia cara mamma. / Già vecchio, cucino / e mangio con la speranza / di campare a lungo. / Prego e scrivo poesie / e racconti sulla storia / del mio vissuto a contatto / con la natura dove sono nato, / cresciuto e incanutito. / Spero che il Signore mi / aiuti a essere sano e indipendente / sino all’ora della morte” (Prego e scrivo). Il suo stile semplice, diretto, scarno e senza fronzoli ci mostra subito la tempra di un uomo che ama l’essenzialità della vita, così ben rappresentata dall’immagine degli ossi di seppia montaliani. Da questi versi paradigmatici possiamo già trarre alcuni motivi a lui cari. La natura è interpretata come la casa propria, come le radici da non divellere senza dolore e lacerazioni: la natura inoltre È poesia (“Immersi in un mondo / senza tempo / le nostre radici / rinascono / dalle proprie ceneri. / Il tempo trascorso / diventa l’alba / di vita nuova. / E poi la natura / è poesia”. Madre terra è come un teatro all’aperto e i monti maestri muti di vita (Un teatro): immagine, quest’ultima, reminiscenza di derivazione goethiana, con uomini “discepoli silenziosi” delle montagne. Così il canto nostalgico si risveglia nel ricordo del garrire armonioso delle rondini … “musica e poemi / del tempo passato” (Rondini). La luna dei poeti, in lui non è quella leopardiana da interrogare sui quesiti esistenziali, né quella degli innamorati, ma un corpo celeste che aiuta la Terra a non essere un solo deserto (Per arricchire). La religiosità non ha in lui bisogno di problematiche complesse, ma si sviluppa nell’umiltà e nella semplice lode al Signore, nel vivere in pace le beatitudini spirituali, nella fiducia nell’opera della Provvidenza di manzoniana memoria.
E il viaggio nella memoria ricostruisce molti momenti del passato, tra cui l’allevamento in Gallura, la scomparsa del già citato mondo degli stazzi, la malinconia per il declino delle iniziative culturali, la tristezza per la fine dell’arte delle “chiudende” (muri a secco) … ma l’andare a ritroso nel tempo ha una funzione importante: tenere in vita ciò che si è stati, l’essere che fu. Il poeta sa che è vicino il momento dell’addio, il distacco dai beni terreni; ma la brevità della vita (Seneca) fa dire a Ciboddo: “E si è subito vecchi” (che è come “Ed è subito sera” di Quasimodo”). Tuttavia egli aggiunge da credente: “La speranza di vita eterna / si trova nell’al di là”.
Enzo Concardi
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L’AUTORE
Pasquale Ciboddo è nato a Tempio Pausania (SS), in Gallura (Sardegna), nel 1936; già docente delle scuole elementari, è uno dei poeti sardi più noti in Italia (è conosciuto anche a Cuba), e ha al suo attivo numerose pubblicazioni poetiche e di narrativa con prefazioni e introduzioni di prestigiosi critici. Ha conseguito molti premi e riconoscimenti.
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squale Ciboddo, Labirinti della memoria, prefazione di Michele Miano, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 80, isbn 979-12-81351-45-5, mianoposta@gmail.com.
Silvana Ramazzotto Moro, "Van Gogh, l'uomo"
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Van Gogh, l’uomo
Silvana Ramazzotto Moro
Guido Miano Editore, Milano 2024.
Dalla stagione del simbolismo che non ha cessato ancora di influenzare e sollecitare tanta parte della letteratura e dell’arte contemporanea, il sodalizio tra artisti e poeti si è ripetuto in vari momenti delle “avanguardie” storiche dove l’immagine visiva ne rivelava nel linguaggio formale le più profonde significazioni. Nell’arte figurativa il simbolo accentra i significati nascosti e remoti dell’universo, che vanno intuiti e non descritti, nella identità assoluta tra l’emotività individuale e l’anima universale attraverso l’uso di colori accesi e tormentati come i colori di Vincent van Gogh.
Il lavoro di Silvana Ramazzotto Moro non vuole assurgere a un erudito trattato di pittura né tantomeno a un atlante d’arte cui rinviamo nelle competenti sedi, ma se mai a una nuova visione in chiave antropologica del pittore van Gogh. L’autrice infatti ha individuato i temi esistenziali più importanti relativi alla vita del pittore, poi ha ricercato e quindi riportato tutti i brani delle sue lettere che trattano tali temi, in modo da offrire al lettore il pensiero completo e soprattutto autentico dell’uomo. Riusciamo così a constatare la breve e tormentata vita del celebre artista con tutti i suoi risvolti umani, ambizioni, fallimenti, i rapporti con i familiari, con il fratello Theo, con gli amici e altri artisti del suo tempo.
Il sofferto epistolario che Vincent van Gogh ha scritto nell’arco della sua breve vita smentisce tante leggende sul pittore. Il mito «genio e follia» era lontanissimo dalla realtà, frutto di una superficiale mistificazione e di abili operazioni di marketing commerciale. Un artista senz’altro succube di profonde angosce ed ansie esistenziali, dovute a un’anima sensibilissima e mai compresa in vita; negli ultimi tempi, tuttavia, come afferma l’autrice, gli abituali stereotipi che lo riguardavano sembrano scomparire per presentare un van Gogh ben diverso.
Vincent van Gogh non era pazzo. Era un pittore culturalmente aggiornato, lettore e collezionista di volumi e di stampe, attento alle nuove tendenze artistiche del suo tempo. Frequentava i poeti simbolisti al caffè Voltaire a Parigi insieme all’amico Gaugin e teorizzava ciò che sarebbe diventato il «vêtir l’idée d’une forme sensible» (espressione dell’idea con le forme).
L’opera VAN GOGH, L’UOMO risulta strutturata in tredici capitoli che scandiscono appunto gli itinerari più salienti della sua vita. Le tematiche trattate più importanti sono: alcuni cenni di un suo autoritratto, la vocazione mistico-religiosa dell’età giovanile, i tormentati e sfortunati amori con l’altro sesso, i rapporti con i genitori, i rapporti con il fratello Theo, il concetto di arte, il tentativo di creare un cenacolo di artisti che potessero sostenersi anche materialmente nella loro difficile e misera vita fatta di stenti.
E poi i temi ricorrenti della sua pittura: le tonalità pure e primitive del colore, i paesaggi, la natura carica di simboli, il maledetto rapporto con il denaro, l’ammirazione per l’arte giapponese, la sua malattia…. Argomenti trattati con dovizia di particolari dallo stesso Vincent che racchiude in queste lettere tutta la sua disperazione di vita ma anche la gioia di chi è consapevole della propria identità, della propria rabbia divoratrice della vita.
La ricerca esistenzialmente rilevante dell’artista procede nel tentativo di afferrare l’inesorabile scorrere del tempo e del conseguente divenire attraverso l’unico strumento in possesso dell’uomo, non la scienza che è illusa dal presente, ma il “delirio creativo” che è sublime e tragica peculiarità dell’artista.
Vincent van Gogh nelle sue lettere percorre le vie del mondo attraverso i colori, le ombre: insomma ci apre le porte di un diverso modo di osservare il mondo per scoprire che la simbiosi dell’uomo con la natura può diventare osmosi, se sappiamo leggere nelle cose la profonda essenzialità poetica.
E questa Casa editrice, che nel suo piccolo, vanta 70 anni di storia, ringrazia Silvana Ramazzotto Moro, l’autrice del volume, per averci regalato uno scorcio di mondo che ci pare essere patrimonio di tutti.
Il che non è poco.
Michele Miano
Silvana Ramazzotto Moro, Van Gogh, l’uomo, prefazione di Michele Miano, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 376, isbn 979-12-81351-51-6, mianoposta@gmail.com.
Biancamaria Valeri, "Di fiore in fiore"
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Biancamaria Valeri
Di fiore in fiore
Guido Miano Editore, Milano 2024.
Con la prefazione di Marco Zelioli – nella collana di testi letterari Alcyone 2000, della Casa Editrice Guido Miano di Milano – è stata pubblicata, nel novembre 2024, la raccolta poetica di Biancamaria Valeri: Di fiore in fiore. Il titolo richiama, sebbene parzialmente, il noto verso sabiano: “... M’incantò la rima fiore / amore”, che leggiamo in Amai, lirica della sezione Mediterranee del suo Canzoniere. Nella scrittura della Valeri, tuttavia, non vi sono solo motivi naturalistici (madre natura) e sentimentali (amore duale), ma più poetiche s’intrecciano a comporre un mosaico di emozioni, ricordi, meditazioni, spaziando dalla presenza del dolore nell’esperienza umana – lacerazioni affettive personali e lutti provocati dalla violenza delle guerre e del potere – alle speculazioni sulle tematiche dell’essere e del tempo, alla memoria delle profonde radici del luogo elettivo e natio di Ferentino, alle istanze spirituali dell’anima, alla manifestazione di un bisogno religioso di Trascendenza. A ciò va aggiunto, per meglio inquadrare l’estetica della sua poetica, il legame linguistico e semantico con la tradizione letteraria italiana classica per taluni aspetti, ermetica novecentesca per altri.
Il canto naturalistico della poetessa è un invito all’ascolto delle voci provenienti dal cosmo più grande e dai mondi più piccoli, che talora si sovrappongono. S’innestano sovente metafore e simbologie proiettanti le immagini nell’alterità e nell’oltrità, creando raffigurazioni di sicuro effetto lirico, anche con l’uso di sinestesie. Un esempio ci è dato da Pioggia, in cui essa è paragonata alla “voce del cielo” che “scende fitta sulla terra”; il suo linguaggio assomiglia a “trilli” o “cinguettii”; penetra nell’animo del “sognante / ascoltatore”; le gocce sembrano “lacrime amare … inconsapevoli e fredde” perché “del dolore umano” sono “ignare”. E qui abbiamo la stessa concezione leopardiana insita nella sua filosofia della natura, trasformatasi da madre in matrigna, poiché conosce il destino degli umani, ma non ne svela i segreti. Più consuete sono le immagini coloristiche descrittive delle atmosfere autunnali ed estive (Vento d’autunno, Estate), stagioni che segnano le trasformazioni climatiche. Da segnalare in Estate la reminiscenza foscoliana tratta dal quinto verso dei Sepolcri: “bella d’erbe famiglia e d’animali”, che in lei diventa: “la bella d’erbe e animal / famiglia”, anastrofe di sapore neoclassico. Ed ancora il rimando dannunziano di Falce di luna calante, in cui il satellite terrestre, caro ai romantici ma, invero, a tutti i poeti, nella poetessa fa da alter ego al “bagliore spettrale / delle luci cittadine”, creando un contrasto fra natura e tecnologia aliena.
I concetti di viaggio, navigazione, cammino - con tutti i rischi, le contraddizioni, le problematiche insite – si attanagliano ai percorsi esistenziali dell’autrice. Infatti l’immagine della Zattera le ispira una composizione nella quale risuonano questi versi: “Come una zattera / è il nostro andar / pel pelago in burrasca / ...”, ma alla fine essa sarà l’ancora di salvezza che ci farà guadagnare la terraferma e scopriremo che la vita, l’amore, sconfiggono la morte. Sono care a lei le metafore marine, ed ecco allora Naufraghi, l’immagine della nostra condizione umana, nella quale emerge – come altrove – la funzione fortificatrice del dolore, che ci migliora e rende solidali e fratelli. Anche Vorrei si pone sulla linea delle antitesi ontologiche, in quanto la vita “è un finissimo equilibrio / tra essere e non essere, /desiderare e avere”. Il ritmo dialettico passioni-illusioni si dimostra uno scacco esistenziale, mentre una svolta avviene con “la speranza della luce” che “è più forte dei muti terrori”, e con l’abbandono nell’infinito, ancora di tipo leopardiano (“profonda quiete”), contemplato dai colli dell’amatissima Ferentino.
Ora il passo è breve per penetrare nelle dimensioni religiose, spirituali, nel mondo pneumatico, così ben evocato in Paese dell’anima, lirica paradigmatica delle realtà interiori vissute dalla poetessa (“È un paese la mia anima”) e rese anche formalmente efficaci mediante iniziali maiuscole, anafore congiuntive e possessive, versi brevi, ritmi incalzanti, concetti oblativi dinamici, come comunione, comunicazione, comunità. Il gradino finale è raggiunto: l’abbandono nelle braccia di Dio Amore, nella sua pace e nella sua luce, nell’estasi della Pasqua di Resurrezione, come insegna San Paolo: “Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?” (1 Corinzi 15,55). E chiosa con convinzione nell’ultimo verso: “E non ci fu più fine”.
Enzo Concardi
Biancamaria Valeri, Di fiore in fiore, pref. Marco Zelioli, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 72, isbn 979-12-81351-49-3, mianoposta@gmail.com.
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L’AUTRICE
Biancamaria Valeri è nata a Ferentino (FR) una ridente cittadina nel cuore della Ciociaria. Dopo aver completato gli studi classici nel locale liceo “Martino Filetico”, ha conseguito nell’Università “La Sapienza” di Roma le lauree in Filosofia e in Lettere con indirizzo storico. Successivamente, seguendo i suoi interessi culturali, ha conseguito i diplomi di Archivista Paleografo, di perfezionamento in Storia Moderna e in Filosofia. Ha conseguito anche due master in didattica museale: uno nell’Università di Ferrara, l’altro nell’Università di Roma Tre. Ha approfondito gli studi Filosofici e Storici per prepararsi per la sua carriera di insegnante, insegnando Storia e Filosofia nei licei per circa 27 anni. Nel 2007 è diventata Dirigente Scolastico.
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