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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

luoghi da conoscere

Un restauro in mezzo al mare

30 Luglio 2016 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #luoghi da conoscere

Un restauro in mezzo al mare

Accade a volte anche in Italia che un piccolo tesoro artistico che rischiava di andare perduto sia salvato da un gruppo di privati, spinti in questo caso dall’amore per un angolo di Toscana bellissimo e prezioso.

E’ avvenuto a Capraia, una delle sette isole dell’Arcipelago toscano, dove lo splendore della natura e del mare circonda la chiesa di Sant’Antonio e l’ex convento di San Francesco, uno dei complessi di maggiore rilevanza architettonica e artistica di tutto l’arcipelago.

Capraia è un luogo speciale dove non è sempre facile armonizzare lo sviluppo con la necessità di conservarne la bellezza. Diventa dunque importante evitare che quanto già esiste, e ha un grande valore artistico, vada perduto. Questo vale tanto più per la chiesa di Sant’Antonio, che fa parte della storia di quest’isola. Costruita a metà del ‘600 per iniziativa dei capraiesi che la dedicarono al patrono dei pescatori, e proprio dalla comunità di Capraia mantenuta per i successivi due secoli, non ha subito nel tempo nessun significativo intervento architettonico che ne abbia alterato il rigore e la purezza.

Dal desiderio di salvare questo luogo unico è nata la Fondazione Amici della Chiesa di Sant’Antonio che, in sinergia con il Comune, ha reso possibile il restauro della splendida facciata che richiedeva un intervento urgente. Il progetto dell’arch. Franco Maffeis ha ricevuto l’approvazione della Sovrintendenza ai Beni Architettonici e, grazie ai finanziamenti della Fondazione Livorno, della Regione Toscana, della Camera di Commercio di Livorno e del Comune, è stato possibile iniziare i lavori di restauro che sono stati appena ultimati.

La cerimonia d’inaugurazione avverrà il 6 agosto alle ore 18.30 e sarà accompagnata da un concerto della pianista Bice Costa Horszowski e dalla proiezione di un Live video mapping sulla facciata della Chiesa.

La felice conclusione di questa iniziativa lascia sperare che l’opera di restauro, iniziata con la facciata, possa proseguire con un intervento più ampio che coinvolga tutta la Chiesa di Sant’Antonio.

https://amicidisantoniocapraia.com

Un restauro in mezzo al mare
Un restauro in mezzo al mare
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Giuliana Caputo e Marianagela Cioria, "A chi appartieni"

11 Luglio 2016 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #recensioni, #cinema, #personaggi da conoscere, #luoghi da conoscere

Giuliana Caputo e Marianagela Cioria, "A chi appartieni"

A chi appartieni

Ettore Scola -Trevico

Di Giuliana Caputo-Mariangela Cioria

Non si può parlare di Ettore Scola se non partendo da un simbolo, vale a dire un sontuoso albero di tiglio, simbolo di Trevico, paese natio del noto regista cinematografico. Simbolo ben raffigurato nella foto che occupa una delle prime pagine del libro. Il tiglio è allo stesso tempo memoria e speranza per gli abitanti del piccolo paese situato tra i monti dell’Irpinia, descritto dettagliatamente nel libro citato.

ciò che maggiormente piaceva ai due fratelli (Pietro ed Ettore Scola trasferitisi a Roma da bambini)) erano le serate fredde e nevose dell’inverno, trascorse vicino al caminetto con nonno Pietro che raccontava le storie dei briganti e le leggende. Ricordavano spesso con nostalgia anche quel giorno in piena estate in cui il nonno li aveva portati vicino alla Cattedrale lungo via Roma ad osservare un bell’albero di tiglio”.

Ecco il simbolo del paese di cui si narra nel libro fin nei minimi particolari. Simbolo ben raffigurato nella foto, che occupa una delle prime pagine del libro, del dott. Vito Isidoro Calabrese De Feo, un vero appassionato di fotografia, autore anche di un catalogo intitolato Cento scatti a Trevico e... venti altrove pubblicato nel 2006.

Il tiglio, come altrove la quercia, ritenuto sacro dai popoli slavi, simbolo delle forze invisibili della natura ma anche della coesione sociale, nei suoi mille anni di vita è il testimone più accurato delle decisioni prese in piazza sotto i suoi folti rami sulle questioni comuni come anche per amministrare la giustizia, cosa che avveniva presso i popoli germanici perché si pensava che sotto le sue fronde fosse difficile mentire e che le sue proprietà ispirassero serenità e giudizio. Sempre sotto il tiglio si praticavano le contrattazioni commerciali.

Tale considerazione per il tiglio si consolida anche nelle popolazioni meridionali, forse ad opera dei Longobardi.

Un intrecciarsi di miti, usi, simboli che attraverso questo albero secolare offre uno particolare spaccato delle tradizioni locali, sempre oscillanti tra evoluzione e ritorni al passato, tra voglia di cambiamento e nostalgia.

Ma non sono i particolari, ricercati sicuramente con attenzione da Mariangela Cioria attraverso la memoria vivente degli anziani o attraverso i documenti, che danno valore alla narrazione, bensì il senso generale del recupero della memoria quale terreno fertile per costruire o ricostruire le radici di un passato da cui sono nati meravigliosi frutti. Non si tratta di sapere come si viveva, di che cosa ci si nutriva oppure quali mestieri si praticavano, quanto di perpetuare il senso di riti e miti, come il valore sacro del rispetto reciproco, il gusto del desco condiviso, il conforto reciproco in fatiche spesso disumane, il sostegno spontaneo nelle immancabili disgrazie della vita.

Sicché possiamo dire che la biografia romanzata così capillarmente creata da Giuliana Caputo rappresenti non la realtà di quanto ci si aspetta di ascoltare o di leggere, ma la sua metafora, vale a dire tutto ciò che è sedimentato nella memoria, tutto ciò che si riscopre avendolo immaginato, tutto ciò che è potuto accadere o anche se non è accaduto non è lontano dal senso generale delle cose. Direi che allora questo volumetto ha un pregio storiografico, secondo l’insegnamento dello storico Tucidide, che ammoniva a non cercare con il lanternino se i fatti accaduti corrispondessero a quanto scritto o descritto ma a coglierne il senso generale. Solo in questo senso la storia poteva essere uno ktema eis aiei, un possesso perenne.

E dunque emerge dalla descrizione il ritratto di un paese povero, ma forte, umile e orgoglioso al tempo stesso, sottoposto ai travagli della sorte, ma con la caparbia volontà di risalire la china. Nessuno ignora le devastazioni della guerra, benché avvertita come lontana - come mirabilmente descritto nella storia di Rocco, ricca di pathos - la piaga della povertà, il fardello dell’emarginazione inutilmente scrollata di dosso nei viaggi della speranza di migliorare altrove le condizioni di vita.

Ben ce lo racconta Ettore Scola nel film-documentario Trevico-Torino del 1972/3, proiettato nelle piazze di tutta Italia, in cui si evidenziano i disagi concreti, il senso di smarrimento e di alienazione, di frustrazione per la scarsa o nulla considerazione del protagonista da parte della gente del posto e l’enorme nostalgia della propria terra. Difficoltà tutte aggravate da un mezzo di comunicazione quanto mai oscuro ed emarginante quale doveva apparire ai torinesi il dialetto irpino. Sicché il rischio è la perdita dell’identità.

La conseguenza di ciò per molti emigrati, soprattutto della classe operaia, era la rivoluzione sempre più vagheggiata, per altri un difficile e umiliante adattamento a realtà sentite come estranee, per altri il ritorno al paese natio.

Paese perfino bistrattato da scelte politiche inopportune, che però ha temprato generazioni e generazioni di individui che, una volta allontanatisi con fortuna, hanno portato in giro per il mondo il tratto della loro identità formatasi tra qui monti e quelle valli. Una forma mentis che non si cancella mai, neppure con l’andar del tempo, anzi trasferisce nelle nuove vite e nelle nuove realtà di appartenenza quelle tracce antiche che saranno i motori propulsori dell’impegno tenace, della creatività originale, in una parola del segno di provenienza da terre dure, granitiche e non facili a soccombere. Forse chiamiamo pazienza questa qualità, che è un po’ il segno distintivo della gente del sud, che ad altri sembrerà inclinazione alla sottomissione, all’essere proni a qualcuno, è invece l’atteggiamento filosofico che proviene da antiche scuole che dall’antica madrepatria trasferì nel meridione d’Italia la sapienza greca.

A ciò si aggiunga, come evidenziato in precedenza, la capacità di accogliere, accettare, condividere, il senso di altruismo e generosità gratuiti ravvisabili non solo nella povera gente per una sorta di comunanza di condizione, ma anche nei nobili, come Don Giuseppe, il papà di Ettore e Pietro Scola, medico condotto che non esitava ad accorrere gratuitamente, laddove il bisogno lo chiamasse per un parto improvviso, o per l’aggravarsi di una salute malferma. Sicché tutte le scelte che indirizzavano l’educazione dei propri rampolli erano nel senso del rispetto, della relazione umana inclusiva, come leggiamo in un altro passo di questa bella storia... donna Dina che sostiene moralmente e materialmente una ragazza madre, da tutti additata come la peccatrice.

Ma non è facile tirar su i figli e forse non lo fu neppure per il dott. Giuseppe che avrebbe voluto che la sua professione fosse seguita dai due figli maschi. Ma Ettore, al contrario di Pietro, non voleva saperne, attirato com’era da altri interessi che trovavano la leva principale nella sua fertile curiosità. Probabilmente fu proprio lo spirito di osservazione già avanzato per la sua età che gli fece cogliere con puntualità le differenze, gli aspetti reconditi, le particolarità di un ambiente semplice come quello di Trevico che, a confronto con la città, prima Benevento dove la Famiglia Scola si trasferì per breve tempo, poi Roma in cui venne definitivamente catapultato, lo orientò verso il cinema, linguaggio a lui più consono per comunicare così come il fumetto satirico a cui si dedicò ben presto. Si immedesimò dunque Ettore nella vita, nelle vite, e prese a raccontarle da regista scrupoloso, mentre su altri binari un oriundo irpino dava luogo alle fantastiche avventure di spaghetti western, Sergio Leone.

Le vicende si ingarbugliano, la vita procede con i suo alti e bassi, ma ormai la carriera di Ettore aveva spiccato il volo e si avviava a raccogliere riconoscimenti meritati e statuine d’oro.

Ma Trevico non scivolò mai dal suo cuore. Per essa un atto d’amore, con il beneplacito di Pietro e delle stesse figlie di Ettore, decise a far crescere nel paesino irpino, il più altro dell’Irpinia, la pianta della cultura e l’amore per il cinema, con la donazione al Comune della casa gentilizia, trasformata in un centro attivo per convegni e incontri culturali, secondo le disposizioni testamentarie del dott. Giuseppe, padre di Ettore. Ma con la clausola che la dimora non fosse conservata “come un museo o un ossario", soggiunse Ettore in un incontro con rappresentanti culturali del Comune qualche mese prima della sua dipartita ma come “uno spazio di aggregazione di giovani e anziani per conservare le tradizioni, con una biblioteca, una sala computer e una sala conferenze”, invitando da ultimo i giovani a considerare casa Scola come casa loro.

Era stato programmato un evento che celebrasse a maggio appena trascorso il suo ottantacinquesimo genetliaco proprio nella sua abitazione d’origine. Il destino ha disposto altrimenti. Rimarranno i suoi film a perpetuarne il ricordo.

Ma il fatto che noi siamo qui riuniti per celebrare Ettore dimostra che il programma ideale affidato alla sua gente continuerà nel tempo, solo se sapranno, con la stessa curiosità che animò il Nostro e con la stessa disposizione mentale, aprirsi al confronto, all’accoglienza, all’arricchimento anche attraverso l’altrui esperienza.

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Gordiano Lupi, "L'Avana, amore mio"

8 Luglio 2016 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #gordiano lupi, #luoghi da conoscere, #il mondo intorno a noi, #recensioni

Gordiano Lupi, "L'Avana, amore mio"

L’Avana amore mio

Gordiano Lupi

Edizioni il Foglio, 2016

pp 161

12,00

Che sia Piombino, che sia L’Avana, la nostalgia di ciò che è perduto strazia Gordiano Lupi allo stesso modo. Nel primo caso si tratta di qualcosa di lontano nel tempo, che non può tornare perché non esiste più, cioè la città natale di quando l’autore era ragazzo. Nel secondo è un luogo che non si può riavere, perché distante nello spazio e proibito, l’Avana che Lupi non deve visitare in quanto “persona non gradita”, L’Avana che sua moglie Dargys si è portata dietro nell’abbandonarla, consapevole che salire sull’aereo significava dare un taglio al passato, rompere i ponti con la famiglia e con tutto il mondo conosciuto fino a quel momento. È la stessa Avana di tanti poeti e scrittori esuli, invisi al regime e desiderosi di libertà, una libertà che ha un sapore non dolce bensì dolciastro, quasi stucchevole, mentre le memorie si tingono del rosso acceso degli alberi flamboyant, del sangue dei tramonti, del muro sgretolato del Maleςon.

Sia che parli di Piombino, sia che rimembri i giorni perduti dell’Avana, Gordiano Lupi ha la stessa marcia struggente, la stessa malinconia che ti afferra, lo stesso stile fatto di ripetizioni estenuanti, di parole reiterate, che mi fa venire in mente come Anne Rice descrive la sua New Orleans.

L’Avana è un luogo amato perché vi si è amato, un luogo di cui, per apprezzarlo a pieno, bisogna sentire la mancanza, magari morendo esule fra le nebbie di Londra. Lupi si riconosce nel dolore degli scrittori, specie di quelli proscritti, Carpentier e Cabrera Infante, ci racconta la città attraverso le loro parole, parafrasandole, riprendendole qua e là come in un contrappunto, una melodia triste e sensuale.

L’Avana affacciata sul mare, sgretolata, fatiscente, fetida di odori scaldati dal sole, eppure bellissima per chi sa vedere, per chi ama le cose come sono e non come dovrebbero essere. Sole spietato, belle donne dai fianchi sensuali, jineteras maliziose, vicoli e colonne, facciate di vecchie case coloniali mai restaurate, rovine del tempo di Battista e penosi cartelloni pubblicitari di un regime che ha “nazionalizzato la miseria”. A Cuba io sono stata di recente e posso confermare che c’è giustizia sociale, nel senso che stanno male tutti allo stesso modo.

Fanno sorridere le idee dei propagandisti della fame, della serie a Cuba non c’è niente ma sono tutti felici. Felici un cazzo. Vorrei vedere voi, razza di cretini, vivere con dieci dollari al mese in tasca in un posto dove per campare decentemente ne servono almeno cento. I cubani hanno un buon carattere, questo è vero, ma non ci dimentichiamo che soffre anche chi prende la vita per il verso giusto.” (pag 84)

È proprio così, i cubani sono sereni e gentili, uno mi ha detto, con uno sguardo malinconico dove si leggeva il contrario: “Non mi manca ciò che non conosco”. Ma la vita sull’isola è dura se non hai soldi in tasca, se i negozi sono vuoti e sprovvisti di tutto, se solo ai visitatori è riservato il meglio, se essere laureato significa fare la fame e bisogna inventarsi guida turistica per campare.

Andarsene, però, comporta il rischio del dolore perenne, della rinuncia, della delusione di un consumismo che riempie la pancia ma non il cuore, di perdere per sempre “la felicità di una notte di luna piena con una bottiglia di rum e un registratore che suona un bolero spagnolo.”

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Sergio Costanzo, "I racconti della mano destra".

18 Maggio 2016 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #luoghi da conoscere

Sergio Costanzo, "I racconti della mano destra".

I racconti della mano destra

Sergio Costanzo

Marchetti Editore, 2016

pp 170

12,00

ognuno viva il proprio tempo e io mi tengo il ricordo dei miei giorni andati. A quella purezza scanzonata, a quella leggerezza della mente, è piacevole talvolta ritornare.”

I Passi, quartiere a nord di Pisa, periferico, esposto a tramontana, delimitato da ferrovia e fiume, un mazzo di case moderne e squadrate, disegnate a tavolino e divise da strade che s’intersecano come decumani e cardi. Agli inizi degli anni sessanta vi si trasferiscono giovani famiglie con bambini piccoli e qualche vecchio al seguito. Le celle dell’alveare pian piano si riempiono a formare una comunità, con i suoi negozi, la chiesa, il cinematografo dell’oratorio, i campi di calcio improvvisati. Qui cresce Sergio Costanzo, autore de I racconti della mano destra e di molti romanzi storici, fra i quali Io Busketo, dedicato alla cattedrale della sua città. Costanzo è pisano ed è orgoglioso di esserlo (tocca proprio a me che sono livornese ricordarlo, ahimè). Costanzo è un ragazzo del popolo, padre operaio e madre casalinga che arrotonda lo stipendio del marito con lavori di cucito.

Intelligente, discolo quanto basta e, soprattutto, sveglio, il ragazzino sperimenta la vita, l’amicizia, la solidarietà del quartiere. Impara dagli altri, dai ragazzi più grandi, dai vecchi, dagli artigiani che tramandano conoscenze ed esperienze. Intorno, c’è il mondo del sentito dire: quella Storia con la esse maiuscola, colata attraverso i telegiornali, le riviste, le conversazioni captate con disinteresse infantile che, tuttavia, scavano e seminano nell’animo ricettivo del ragazzo. E Costanzo filtra la storia attraverso il suo personale sentire, non si perita di rivelarci il suo pensiero, il suo credo che mi pare non sia frenato da preconcetti ma sappia vedere tutti i lati della medaglia. Intorno, c’è anche lo sport che aggrega e disciplina, c’è, soprattutto, per questo ragazzino precoce, la tempesta degli ormoni, suscitata, più che altro, dal fatto di non sapere, non avere accesso, desiderare senza poter ottenere. E la mano destra, allora, impara a muoversi guidata dalla fantasia, che alimenta pure la sessualità degli adulti, quando questi siano intellettualmente vivaci.

Il clima è quello che si respira nel film Malizia di Salvatore Samperi. La sensualità del protagonista è fatta di sovraeccitazione mentale, d’ipersensibilità agli stimoli, siano essi visivi, olfattivi, tattili. Emana da luoghi e oggetti apparentemente insignificanti. Una calza velata, l’orlo di una gonna a rivelare paradisi inconoscibili, il profumo e il tepore d’un cappotto tenuto fra le braccia, il fruscio d’una stoffa, la morbidezza d’una sottoveste intravista da uno spiraglio, bastano a scatenare un erotismo soffuso, raffinato, d’altri tempi come i calendarietti del barbiere, come le gambe affusolate delle Kessler. Una lascivia tutta nella gola, nel battito del cuore, carnale ed estetizzante insieme.

Un colpo, un’emozione, un profumo acuto e penetrante, ancor prima di vederla. Era un aroma volatile, indefinito. Lieve, pareva sfiorare la mia pelle e subito evaporare lasciandomi occhi, labbra, bocca secca come fossi stato abbandonato nel deserto. Penetrava nella mente all’inizio del respiro, poi, inalando l’aria, si perdeva.” (pag 79)

L’eleganza è la cifra di questo erotismo vecchia maniera e impronterà il futuro gusto dell’autore. Saranno, perciò, scarpe “alte di tacco” e scollate sul piede, foulard svolazzanti nel vento, grandi occhiali da diva e gonne a tubo a creare quell’alone di mistero senza il quale l’attrazione viene a mancare. Sarà, di rimando, stile di scrittura fulgido e poetico, capace di trarre languore spirituale anche dalle più semplici parole toscane e annodarti la gola.

e più d’una partita percepii puppe appoggiate sul mio corpo e sorrisi e baci. Ed eran corse a casa e bocca asciutta dai lupini e abiti puzzolenti di sudore e mani salate dalle bucce delle seme e pelle calda e rossa per il sole e sensi all’erta e somma eccitazione.” (pag 133)

L’altra grande componente del libro è la nostalgia. Ho già fatto notare come, leggendo testi di autori vicini a me per età o anche più grandi, si riscontri dirompente, nei loro scritti, il richiamo, più o meno doloroso, del rimpianto.

Ciò che appare distante, rimosso, finito, riemerge con potenza e prepotenza.” (pag 31)

In certi casi è lo strazio del tempo che non torna più, del tempo fuggito e ritrovato solo nella memoria, della madeleine dolce perché trasfigurata dal ricordo che, come ha detto qualcuno, sa vedere “il bello del brutto”, sa farti affezionare a “un metro di sconnesso marciapiede e lì sognare”. Per altri è una rievocazione divertita, dolceamara, scanzonata e, come in questo caso, anche occasione di confronto fra le passate generazioni e le presenti, fra il mondo che fu e quello, non per forza sbagliato ma comunque molto diverso, dei propri figli.

Forse oggi, in un mondo estremamente frammentato e segmentato, questa idea di aggregazione sembra improbabile, ma noi eravamo tutto e il tutto era in noi, eravamo lavagne pulite sulle quali le molteplici esperienze lasciavano segni. Assorbivamo il bene e il bello, percepivamo il giusto e lo sbagliato e questo nostro essere ovunque e in perenne movimento ci permise di acquisire senso critico, visione più ampia, molteplicità di espressione.” (pag 30)

Sì, quelli erano tempi dove i genitori, i nonni, gli zii, i maestri, i preti ti mostravano la netta divisione fra Bene e Male, fra Giusto e Ingiusto. Giusto era rispettare gli anziani, dar loro il posto sull’autobus, onorare il padre e la madre, essere leale con gli amici, guadagnarti il pane onestamente. Erano tempi dove la forma non aveva ancora preso il posto della sostanza.

(c’era comunque nelle famiglie italiane) l’idea dell’educazione al rigore, al rispetto delle leggi, degli altri, dei disagiati, degli anziani. C’era il rispetto dei migliori, di quelli che si meritavano le cose perché si impegnavano, di quelli che lavoravano perché avevano studiato. C’era l’idea di un mondo giusto se si fossero rispettate le norme. Se pure si aspirava a emancipazione e libertà, le regole morali e civili erano sacre e il rispetto veniva dall’esempio, dal buon comportamento degli adulti, da una rettitudine e osservanza delle forme, tradotte in tangibile sostanza.” (pag 68)

Per chi non l’avesse capito, questo libro mi è piaciuto immensamente, per i bei ricordi, per le atmosfere così ben ricostruite, per lo sguardo romantico sulla vita in cui sempre mi rispecchio, per la prosa con tutti i ritmi giusti e lo stile che è, insieme, poetico (“quando le lucciole ritmano i respiri”) ma anche povero, attaccato alle piccole cose di tutti i giorni, capace di restituire pregnanza alle parole, alte o basse che siano, italiane o vernacolari, capace di farti sentire odori e sapori, di farti rievocare ambienti e stati d’animo, di farti vedere i ragazzi che non scendono dall’autobus, bensì “esondano”.

Forse I racconti della mano destra mi è piaciuto così tanto perché anch’io mi ritrovo in ciò che afferma Costanzo: “Non sono un giovane d’oggi e non voglio giudicare, mi tengo i miei ricordi, li custodisco e ne sono assai geloso”

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L'Avana Amore mio

15 Maggio 2016 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #luoghi da conoscere

L'Avana Amore mio

L’Avana amore mio - Taccuino avanero e storie cubane

Il Foglio - Pag. 180 - Euro 12

Fotografie originali di Orlando Luís Pardo Lazo e Stefano Pacini.

Raccontare L’Avana attraverso le pagine dei suoi scrittori: Carpentier, Piñera, Gutiérrez, Valdés, Estevez... E nella seconda parte una selezione di storie cubane. Un libro di viaggio, una passeggiata per L’Avana più vera e cadente, meno turistica e più cubana.

Non posso essere fedele a una causa persa, ma posso esserlo a una città perduta."

Questa è L’Avana di Cabrera Infante: una città perduta che lo scrittore non riesce a ritrovare. Forse era proprio quello che temeva, scriveva di Cuba per esorcizzare la paura di morire prima di rivedere il suo mare. Povero Cabrera Infante, morto tra la nebbia di Londra sognando un bambino che si arrampica come un gatto su una palma reale. L’Avana per un infante defunto suona adesso come un titolo beffardo, un sogno irrealizzabile di rivedere palazzi e porticati, guaguas affollate, biciclette e Chevrolet sul lungomare, Lada e sidecar che sfidano buche sul selciato, sensuali trigueñas e mulatte dai fianchi larghi. Niente è più possibile, resta solo la fedeltà a una città perduta, espressa in milioni di parole gettate in faccia al vento e disperse tra le braccia della storia”.

’Avana, io non so se ritorneranno quei tempi/ L’Avana, quando cercavo la tua luna sul Malecón/ L’Avana, quando potrò vedere di nuovo le tue spiagge/ L’Avana, e rivedere le tue strade sorridere/ L’Avana, nonostante le distanze non ti dimentico/ L’Avana, per te sento la nostalgia del ritorno (da Zoé Valdés, La vita intera ti ho dato).

lupi@infol.it

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In giro per il mondo: Cipro

18 Aprile 2016 , Scritto da Liliana Comandè Con tag #liliana comandè, #luoghi da conoscere

In giro per il mondo: Cipro

SPIAGGE, MARE, SITI ARCHEOLOGICI, STORIA, CULTURA, BUON CIBO E DIVERTIMENTO FANNO DI CIPRO UNA META IDEALE PER LE VACANZE.

Omero nei suoi racconti fa spesso riferimento ad Afrodite, dea dell’amore e della bellezza, nata dalla schiuma del mare in una località chiamata Paphos (dal greco: luogo della luce), che si trova sulla costa Sud-Ovest di Cipro. L’isola, che è la terza per grandezza del Mediterraneo, sin dall’antichità era meta di turismo da parte delle popolazioni che si affacciavano sul bacino del grande mare. Il suo clima mite e le sue bellezze naturali venivano spesso associate alla beltà della dea stessa. Cipro si estende per 240 km da ovest ad est e per 90 km da nord a sud con due imponenti catene montuose che racchiudono la vasta pianura della Mesaoria. Il paesaggio è ricco di contrasti che spaziano dalle verdi colline alla maestosa valle dei cedri, dalle numerose spiagge sabbiose alle montagne che nascondono piccoli e caratteristici paesi, ognuno dei quali ha il proprio particolare fascino e le proprie tradizioni.
La vegetazione, ricca di agrumi, cedri, banani, olivi e vigneti dà l’idea di una terra fertile e ben coltivata. L’isola, la cui archeologia risale all’era neolitica, custodisce ancora testimonianze dell’antica Grecia e del periodo romano ma in tutto il territorio sono ben conservati monumenti, chiese bizantine, castelli, palazzi risalenti ai tempi dei crociati e monasteri. Inoltre, le splendide mura di cinta della capitale Nicosia, vecchie più di quattro secoli, sono la testimonianza del dominio veneziano.

Nella città è interessante visitare il Museo Bizantino, contenente una importante collezione di icone molto antiche; l’Arcivescovado, centro della chiesa ortodossa cipriota; la Cattedrale di san Giovanni, completamente affrescata e il Museo Municipale. All’interno delle mura si trovano le vie Ledra e Onassagorov, che costituiscono la linea di demarcazione che divide in due la città, la cui parte settentrionale è stata occupata di turchi dal 1974.
Da Nicosia, in circa trenta minuti, è possibile raggiungere i Monti Todros, ricoperti di magnifici boschi che difendono l’intimità di chiese e monasteri bizantini.
Larnaka, una delle città più importanti di Cipro, è “adagiata” in una baia che prende il suo nome e il suo lungomare – fiancheggiato da numerose palme – è “brulicante” di caffè, taverne e negozi. Dotata di un porto molto attrezzato, può dare ormeggio a numerose barche e yachts che vengono usati per le escursioni alle varie spiagge dell’isola.

Nella città sono ancora visibili le mura ciclopiche del XII secolo a.C. e la chiesa di San Lazzaro, che contiene le vestigia del santo patrono di Larnaka, che arrivò lì dopo la sua resurrezione eleggendola a sua seconda patria. La città è famosa anche per le celebrazioni della Pentecoste greco-ortodossa, che richiama i ciprioti da ogni parte dell’isola per le celebrazioni.
Ad un’ora di macchina dalla città si trova il grazioso paese di Lefkara, centro rinomato per la lavorazione dei merletti fatti a mano che vengono esportati in tutto il mondo. Si racconta che Leonardo da Vinci, visitando questo villaggio abbia acquistato una tovaglia d’altare e l’abbia donata al Duomo di Milano.

Dirigendosi verso la parte ovest di Cipro si incontra la città di Choirokotia, che conserva i resti di uno dei più importanti insediamenti neolitici del Mediterraneo orientale risalenti al 6800 a.C., ed alcuni dei reperti ritrovati nel sito possono essere ammirati nel Museo di Nicosia.

Proseguendo verso sud-ovest, percorrendo una buona autostrada, si arriva a Limassol, la più grande città balneare dell’isola che sin dal medioevo era conosciuta dai mercanti per i suoi vini e la canna da zucchero che veniva coltivata qui. Oggi è un centro turistico con la più vivace vita notturna e dove si svolgono eventi di rilievo. Naturalmente ci sono numerosi hotel oltre a pub, discoteche e night club.

Le spiagge sono tutte attrezzate ma è possibile trovarne alcune deserte. Nelle vicinanze del nuovo porto si trova il Castello di Limassol dove nel 1191 Riccardo Cuor di leone sposò Berengaria di Navarra incoronandola regina.
Ad un’ora di auto si trova l’antica città-stato di Kourion, che gode di uno splendido panorama sull’estesa spiaggia di sabbia fine della baia di Episkopi, e che conserva un teatro greco-romano utilizzato ancora oggi per le rappresentazioni di antichi drammi greci e di Shakespeare oltre a concerti di musica classica.

Un’altra bella località di Cipro è Pissouri, ricca di agrumeti, vigneti e luogo di riproduzione di fenicotteri e uccelli acquatici perché qui hanno trovato il loro habitat ideale. Ad ovest dell’isola si trova invece la bella città di Paphos, la cui vita ruota attorno al piccolo porto dove è possibile mangiare dell’ottimo pesce in uno dei tanti caratteristici ristoranti. Non mancano però importanti siti archeologici, ed essendo Paphos il luogo nel quale è nata Afrodite, si può ancora ammirare il tempio a lei dedicato e che era adibito a santuario di feste pagane.
La città fu per ben sette secoli la capitale di Cipro e di quel periodo, storicamente molto importante per la città, conserva molti reperti archeologici tra i quali gli splendidi mosaici raffiguranti scene mitologiche, oltre a tombe e catacombe dei re. Paphos è stata dichiarata dall’Unesco “patrimonio culturale mondiale” e non si può non essere d’accordo. Storia, mitologia, religiosità, tradizioni, monumenti, chiese, monasteri e bellezze naturali sono l’essenza di Paphos.
Ma se dobbiamo giudicare l’isola le daremmo sicuramente un voto molto alto. L’ospitalità della sua gente, il clima dolce 8 mesi l’anno, la buona cucina accompagnata da qualche bicchiere di ottimo vino locale, il sole, le belle spiagge, un mare cristallino, gli alberghi di alto livello, storia e cultura ne fanno una destinazione sicuramente adatta alle esigenze del turista italiano e raggiungerla non è affatto un problema.

In giro per il mondo: Cipro
In giro per il mondo: Cipro
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Donne che Emigrano all'Estero

17 Aprile 2016 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #il mondo intorno a noi, #luoghi da conoscere

Donne che Emigrano all'Estero

Donne che Emigrano all’Estero

Da un progetto di Katia Terreni

Amazon

pp 289

Non stupisce più che la rete faccia incontrare, aggreghi e dia vita a progetti che escono dal virtuale (ma esiste davvero questo universo?) per diventare reali. È il caso di Donne che Emigrano all’Estero, raccolta di trentaquattro testimonianze – brani estrapolati da blog, post pubblicati su un’apposita pagina Facebook, frammenti d’interviste e diari – di donne expat, ovvero italiane che, per scelta, per motivi professionali o familiari, si sono trasferite all’estero. Le autrici hanno età e professioni molto diverse da loro, vivono attualmente in paesi sia dell’unione europea sia non comunitari. I testi non sono accompagnati da immagini e sono liberi, ognuna si racconta parlando di ciò che più le aggrada, di aspetti molto diversi della vita nel paese d’adozione. Tante sono emigrate perché qui da noi non trovavano lavoro, a causa della crisi che ci ha colpito dal 2008 e che, forse, solo adesso sta cominciando ad attenuarsi. Altre hanno cercato un luogo meno provinciale, meno moralista, molte, infine, hanno seguito un amore.

Le donne expat, quelle che trovano dentro di sé la grinta e il coraggio per lasciare i propri luoghi di origine, accettando incarichi lavorativi altrove o inseguendo un amore in terra straniera, o semplicemente spinte dal desiderio di ricostruirsi una vita, hanno una grande forza che le contraddistingue. Si mettono in gioco e ripartono da zero. Affrontano le difficoltà di adattamento e le differenze culturali, non come donne guerriero, ma con la dolcezza, il sorriso e la voglia di conoscere la nuova terra che chiameranno “casa”. (pag 69)

Fondamentale, appunto, il concetto di “casa”. Per l’una è quella che si è lasciata alle spalle:

Oggi casa, per me, significa tutto: dentro c’infilo tutti gli affetti che ho lasciato in Italia, i negozianti di fiducia, il bar dove prendevo il cappuccino la mattina, le vie e le strade che percorrevo ogni giorno, tutto ciò che mi sono lasciata alle spalle nel momento in cui sono salita su quell’aereo. Se fino a ieri la casa era l’abitazione del corpo, oggi è l’abitazione del cuore.” (pag 118)

Per l’altra è la nuova, a cui non saprebbe più rinunciare perché, magari, lei è una di quelle expat che si sentono apolidi e cittadine del mondo, più che italiane.

Donne che Emigrano all'Estero è, in primo luogo, un “libro coach” per donne espatriate, ma anche un testo utile per noi lettori rimasti a casa, per farci comprendere usi e costumi stranieri conosciuti solo da chi ci vive. Spesso c’è da trarre esempio ma non siamo per forza perdenti nel confronto.

Oltre l’interesse culturale e geografico, colpiscono i sentimenti di queste donne, lo slancio, l’entusiasmo con cui, forse, celano qualche malinconia. Molte hanno nostalgia del paese di origine, altre non ne hanno per niente e questa cosa non ci piace. L’Italia è una nazione che ha molto da imparare, in termini di civiltà, da altri paesi ma anche qualcosa da insegnare.

Le emozioni principali sono la voglia di scoprire, il desiderio e le difficoltà di integrarsi nel nuovo paese, il senso di solitudine, lo sprint del nuovo inizio, i sensi di colpa verso i figli sradicati e le famiglie abbandonate. Alcune hanno sofferto emarginazione e razzismo, altre si sono sentite subito integrate e accettate in società multiculturali. Tutte sono passate dal desiderio di mimetizzarsi nella nuova nazione a quello, successivo, di rimanere se stesse, diverse ma non estranee.

Di là dal discorso espatrio, emigrazione e adattamento culturale, è interessante vedere come procedono le vite, come si sviluppano, come si aprono e si chiudono le sliding doors, come a fiorire, imprevisti, siano a volte proprio i rami secondari, come le cose importanti siano costruite con pazienza e dedizione, sì, ma anche, spesso, capitino per caso. Perché "il destino è destino".

Sempre in bilico fra nostalgia e voglia di guardare avanti - specialmente per il bene dei figli - fra entusiasmo e depressione, queste donne mostrano soprattutto coraggio, quello che ci vuole a tagliarsi i ponti alle spalle, smettere di parlare la propria lingua, rinunciare agli orizzonti che ci limitavano ma, pure, ci definivano; e il libro vuole aiutarle, fare da supporto emotivo alle mille sfaccettature di un’operazione così sconvolgente.

La vita da immigrata è un’altalena di emozioni, un giorno sei triste, il giorno dopo sei al settimo cielo, il giorno dopo ancora vorresti mollare tutto e tornare a casa. Le cose che ti rendono felice adesso, possono svanire nel nulla cinque minuti più tardi. Il più piccolo dei problemi può apparire come un ostacolo insormontabile.” (pag 127)

Lo stile degli interventi è molto piacevole, alcuni sono scritti veramente bene, con piglio da scrittore, come, ad esempio, quello della "snob berlinese".

Per concluder, precisiamo che al libro è collegato il sito web http://donnecheemigranoallestero.com e che il ricavato della vendita sarà devoluto in beneficenza ad una Onlus che si occupa di infanzia in difficoltà e adozioni internazionali.

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In giro per il mondo: Polinesia

12 Aprile 2016 , Scritto da Liliana Comandè Con tag #liliana comandè, #luoghi da conoscere

In giro per il mondo: Polinesia

ISOLE CHE SONO NELL’IMMAGINARIO DI OGNI PERSONA. NATURA, MARE, SPIAGGE E LA NATURALEZZA DEGLI ABITANTI SONO UN GRANDE RICHIAMO COME LE “SIRENE” PER ULISSE.

Suoni, profumi, sapori, libertà, bellezza, sensazioni…sono queste le unicità delle isole che ognuno di noi vorremmo visitare una volta nella vita. Sono lontane da noi ed il viaggio è lungo, ma ciò che si ha la fortuna di ammirare compensa della stanchezza del lungo volo. Polinesia, il solo nome evoca un paradiso non ancora perduto e che ci si augura resti ancora naturale nel suo paesaggio e nella sua popolazione.
Non a caso molte persone ci si sono trasferite per recuperare quella naturalità perduta nelle città, e per riacquistare quella pace e serenità che la vita quotidiana ci ha fatto perdere da tempo. Polinesia, luogo incantato nel quale è possibile ritrovare sé stessi, il proprio io, la propria “animalità” o il vivere senza le costrizioni che c’impone il vivere nei paesi cosiddetti industrializzati.
Ma incominciamo parlando un po’ della storia di queste isole uniche.
I primi europei che approdarono nelle isole della Polinesia avranno sicuramente pensato di essere arrivati nel paradiso terrestre. Lo sanno bene i protagonisti dell’ammutinamento più famoso di tutti i tempi, reso noto dalle versioni cinematografiche. Ma i marinai del Bounty non furono i soli a perdere la testa per queste terre. La cupidigia e la violenza degli occidentali, infatti, arrivarono in poco tempo a devastare e a distruggere tutto ciò che volevano conquistare. Fortunatamente queste isole magiche si sono salvate e ancora oggi rappresentano il sogno di un luogo incontaminato e sereno comparato al grigiore delle nostre città.
La Polinesia è una macroarea che comprende diversi arcipelaghi sparsi nell’Oceano Pacifico, a ridosso dell’Equatore tra la Nuova Zelanda e l’America Centrale: quelle che vengono definite Polinesia Francese, Hawaii, Tonga, Samoa Occidentali e Sporadi Equatoriali.
Sono cinque i gruppi di isole che costituiscono la Polinesia Francese. Abitate, secondo alcuni, da popolazioni provenienti dall’America Centrale, furono scoperte nel 1521 dalle prime spedizioni spagnole, ma solo nel 1595 ebbero i primi contatti con gli abitanti, che conobbero, oltre all’uomo bianco, anche le armi da fuoco e la sifilide.


Nel XVIII° secolo s’intensificarono le spedizioni scientifiche degli inglesi; nel 1767 Samuel Wallis trovò Tahiti, cominciando la colonizzazione degli europei. Gli indigeni persero pian piano la potestà sulle terre che nel 1880 vennero date in dono dal loro re alla Francia, mentre dinastia regnante e larga parte della popolazione di Tahiti si erano convertire nel frattempo al cristianesimo. Ne è nata una società multiculturale nella quale si sono poi integrati diversi popoli orientali, portati dagli europei come braccianti nelle piantagioni.
Nelle isole della Società, l’aeroporto internazionale di Tahiti-Faa, della capitale Papeete, e il suo porto rappresentano le porte della Polinesia nel mondo. Tutti i turisti che arrivano passano di qui. L’arcipelago è diviso in due gruppi: le isole del Vento, con Tahiti e Moorea, più densamente popolate, e le Isole di Sotto Vento, con Bora Bora, Raiatea, Tupuai.


Prevalentemente montagnose e di origine vulcanica presentano la particolarità di una vegetazione rigogliosa che lambisce le spiagge sabbiose e bianchissime. L’isola di Tahiti, la più grande della Polinesia francese, incantò i viaggiatori francesi che descrissero le meravigliose cascate di acqua purissima e l’estrema fertilità di quelle terre.
I visitatori che amano la montagna non possono fare altro che avventurarsi in luoghi nascosti e impervi alla ricerca delle tre cascate di Tiarei, ai piedi una foresta di bamboo.
A Tahiti il pittore Gauguin visse molti anni, affascinato dai colori di questi luoghi e, non secondario, dalla grande bellezza delle vahiné tahitiane che ha ritratto in tante opere. L’artista scrisse: ”Nessun uomo, neanche il più felice, può resistere al loro sguardo”. A lui, europeo che l’ha amata molto, l’isola ha dedicato un museo che raccoglie molte opere originali che, insieme ad altre esposizioni, attende i viaggiatori che vogliono conoscere la cultura e le tradizioni di queste popolazioni.
Ma sono le spiagge e il mare cristallino che attirano i turisti, e non solo quelli che amano “oziare" sulla sabbia, ma anche quelli che praticano il surf. La spiaggia di Papara, infatti, vede riunirsi i giovani amanti della tavola con i migliori surfisti mondiali.
Per chi ama invece le immersioni e la fotografia subacquea, l’isola ideale è MOOREA, con le spiagge di sabbia bianca, i meravigliosi fondali e la ricchezza della fauna sottomarina, abitata – un tempo – così come si racconta – da una gigantesca lucertola gialla che con la sua coda creò le baie di Cook e di Opunohu.
Ma per chi ama trascorrere lunghi e rilassanti momenti sull’acqua, non si può perdere un giro in piroga nella cristallina purezza della laguna di Bora Bora. A RAIATEA, culla della civiltà polinesiana, regna la sacralità.
Ogni luogo, lì, è dominato dal mito e il monte Temehani è l’Olimpo polinesiano che veglia su questo angolo di mondo per preservarlo da ogni intervento esterno. Sotto il Tropico del Capricorno, decentrate rispetto a Tahiti, le isole Australi sono quelle che hanno mantenute uno stile di vita più autenticamente polinesiano.
Dal clima più fresco, l’arcipelago è un insieme di colori per le splendide abitazioni color pastello, costruite in pietra corallina. Tra la gente permane un diffuso sentimento religioso e nell’isola di Rurutu, nel mese di gennaio, gli antichi riti terminano con una tradizionale gara di sollevamento pesi, cui partecipano uomini e donne.

Segno, forse, della lontananza dell’uomo bianco e della presenza della natura incontaminata, le balene si trovano in queste acque ed è possibile ammirarle tra giugno e ottobre.

L’arcipelago delle Gamblier è quello che reca le maggiori tracce dell’arrivo degli europei. Furono i gesuiti a distruggere i resti della cultura politeista preesistente con la costruzione, al posto dei tradizionali luoghi di culto, di imponenti edifici religiosi.
La sua morfologia ha caratteristiche eccezionali, perché il 95% delle isole sono atolli, una percentuale unica nella Polinesia francese. Per questo l’arcipelago è noto per essere la culla delle perle polinesiane. La perla nera è invece caratteristica dell’arcipelago delle TUAMOTU, famose anche per essere il paradiso del diving.
RANGIROA, che significa “cielo infinito” per la continuità del colore azzurro del cielo che si rispecchia nelle numerose lagune, è l’atollo più grande della Polinesia francese, con 240 motu (isolotti), separati da più di 100 piccoli canali.
Squali grigi, mante, pesci napoleone, cernie, sono solo alcune delle creature che popolano le acque circondate da questo nastro di isole. Henua Enana, “terra degli uomini”, così venivano chiamati dai nativi dell’arcipelago delle Marchesi, ma oggi, l’esiguo numero della popolazione che le abita è concentrata in poche delle 12 isole di cui è composto l’arcipelago. A 1500 chilometri da Tahiti è il gruppo situato più a nord, in prossimità dell’Equatore. Qui è nata l’antica arte del tatuaggio.
Continuando il nostro viaggio arriviamo a TONGA, forse l’unica terra del pacifico a non essere stata colonizzata.
Gli abitanti erano guerrieri valorosi e seppero salvarsi dalla conquista degli europei che a più riprese giunsero sulle loro coste.

La cultura di questi popoli, governati da una monarchia ereditaria, si è sposata pacificamente con la religione cristiana, cui hanno aderito con fervore. Le terre di Tonga sono costituite da 171 isole e atolli, di cui solo 40 abitate e si dividono in quattro gruppi: Tongatapo, He’apai, Vava’u e Niuas.

Queste isole conservano ancora la tradizionale cordialità e benevola e festosa accoglienza, insieme ad un patrimonio naturale unico: foreste pluviali, laghi vulcanici e bocche eruttive – che possono essere visitati in lunghe escursioni.
Immersioni subacquee e discese alla corda sulle pareti delle scogliere attendono i più avventurosi che potranno ammirare anche due specie di iguane molto rare, volpi volanti, pipistrelli considerati sacri e protetti nelle sette aree tutelate, tra parchi naturali e riserve marine.
Il 4 luglio si festeggia il tradizionale Heilala festival, festa del fiore nazionale. Nella capitale Nuku’alofa, “dimora dell’amore”, si fondono gli elementi caratteristici della tradizione autoctona, i Palazzi e le Tombe reali, le antiche e magnifiche chiese cristiane, testimonianza della cultura occidentale.
Il Tongatapo orientale conserva la più grande concentrazione di siti archeologici del pacifico, resti delle tombe delle antiche dinastie.
Ecco, quando pensiamo alla Polinesia, la mente va subito al mare e alle spiagge ma, se si desidera capire un po’ di storia degli atolli e vedere oltre il mare, anche qui è possibile farlo.
E’ sempre il paradiso desiderato da tutte le persone, ma si deve andare anche oltre quello che ci hanno sempre mostrato. C’è molto di più.

Liliana Comandè

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In giro per il mondo: Seychelles

11 Aprile 2016 , Scritto da Liliana Comandè Con tag #liliana comandè, #luoghi da conoscere

In giro per il mondo: Seychelles

UN ARCIPELAGO ANCORA INCONTAMINATO LA CUI BELLEZZA FA RIMANERE SENZA FIATO.

Il nome è indubbiamente melodioso e ricco di fascino esotico e chi non ha mai visitato anche una sola delle tante isole che ne compongono l’arcipelago, non può immaginarne la grande bellezza. Una bellezza che spazia dal mare limpido e cristallino alle bianchissime spiagge, dalla vegetazione rigogliosa, piena di colori e di profumi, alla popolazione creola ben predisposta all’accoglienza del turista. Nel mondo, fortunatamente, ci sono ancora alcuni luoghi incontaminati e le Seychelles, a pieno diritto, possono definirsi tali. Un Governo lungimirante, infatti, da molti anni ha a cuore la conservazione del suo ecosistema impedendo anche la costruzione di nuove strutture alberghiere per non alterarne l’equilibrio.

Niente turismo di massa, quindi, nessun sovrappopolamento in ogni periodo dell’anno. Tutto rimane circoscritto nell’ambito di un turismo che non altera l’armonia delle isole, della loro flora, della loro fauna e della loro popolazione.

Le Seychelles sono un grande patrimonio naturale da rispettare e conservare per tutta l’umanità. È questo il compito che i seychellesi si sono prefissati da tanti anni e che ogni “buon” turista, consapevole dell’importanza del mantenimento di un simile paradiso, dovrebbe aiutare a proteggere e a conservare. Un turista con una coscienza ecologica è il miglior turista che queste meravigliose isole possano ospitare.

CONOSCIAMONE UN PO’ LA STORIA…

Le Seychelles, oltre 65.00 abitanti distribuiti su una trentina di isole in parte coralline e in parte granitiche, si trovano nell’Oceano Indiano a 1.100 Km circa a nord est del Madagascar e poco più a sud dell’equatore. Scoperte dai portoghesi nel XVI secolo, furono colonizzate dal francese L. Picault, inviato dal governatore delle Mascarene, che le chiamò inizialmente “Boudonnais”. Nel 1756 passarono alla Compagnia Francese delle Indie Orientali con il nome di Seychelles, derivato dal cognome dell’intendente generale delle finanze sotto Luigi XV, Moreau de Seychelles. Sotto Napoleone, invece, divennero luogo di deportazione di detenuti politici. Con il trattato di Parigi del 1814 le Seychelles vennero cedute agli inglesi ma nel 1976 hanno ottenutol’indipendenza. I primi abitanti si stabilirono alle Seychelles un paio di secoli fa ed erano costituiti da schiavi liberati dalle navi negriere, da coloni di origine francese, da indiani e cinesi. Tutte queste unioni hanno dato origine alla bella razza creola che vive soprattutto a Mahè, e in particolare a Victoria, capitale e centro vivacissimo con il suo mercato pieno di banchi di pesce, di frutta esotica, di oggetti di artigianato locale e con un’incredibile miniatura del Big Ben londinese “ che campeggia” nella piazza centrale.

LE PRIME IMPRESSIONI…

Appena si esce dall’aeroporto di Mahé, non si può fare a meno di notare che il paesaggio è molto più bello di quello che viene descritto da chi già ha avuto la fortuna di visitare le Seychelles. Si rimane stupefatti davanti alla vegetazione lussureggiante e varia. Ovunque palme, banani, felci, enormi acacie dai fiori rossi, fiori profumati, filodendri che si arrampicano sulle palme, alberi del pane, takamaca – tipico albero locale che cresce e quasi si adagia con il suo tronco e le verdi foglie sulle candide spiagge – e tantissime piante, che da noi raggiungono a malapena il metro di altezza, e qui, invece, sono alberi “vigorosi”.

Lontani dal traffico delle città, e liberi di respirare aria priva di smog, è facile farsi condizionare dai ritmi lenti e rilassati degli abitanti del luogo. Un inconsueto profumo di terra, piante, fiori e mare permea l’aria dell’isola più grande, così come quella di Praslin e La Dique – le altre due isole più conosciute dell’arcipelago.

Qui è tangibile il trionfo della natura rispetto all’uomo. Gli occhi si beano di tanto splendore e non possono fare a meno di ammirare le lunghissime e candide spiagge – orlate da alte palme e da takamaca – il mare, veramente incontaminato e di un colore che si fonde facilmente con quello del cielo; la fitta vegetazione, la varietà di uccelli che volano a bassa quota e sembrano non aver paura dell’uomo.

Vale proprio la pena di girare le isole e conoscerne sia i luoghi più nascosti e più belli, sia gli abitanti e il loro modo di vivere semplice e a stretto contatto con l’habitat. Al tramonto, in un’atmosfera che ha il sapore di tempi lontani, è facile incontrare gruppi di pescatori che, sulla riva di una qualsiasi spiaggia, scaricano dalle loro barche il pesce appena pescato. Nessuno grida, nessuno ha fretta, e il pesce viene spostato dalle piccole imbarcazioni con la massima calma.

Le semplici case dei seychellesi sono circondate da giardini nei quali gli alberi di papaya e banani sono carichi di buoni frutti. I bambini sono molto socievoli belli, con la loro pelle vellutata e gli occhi scuri, e si lasciano fotografare volentieri anche quando si incontrano all’uscita della scuola. Come in ogni altro posto del mondo – tranne in Italia – Indossano tutti ordinatamente la divisa scolastica, anche i ragazzi delle scuole superiori.

COSA SI PUÒ FARE?

Oltre alle escursioni che si possono effettuare all’interno di Mahé, è consigliabile quella al Parco Marino di Sainte Anne. Un’immersione nel suo reef, con maschera e boccaglio, è una delle esperienze più entusiasmanti che si possano provare. La barriera corallina pullula di vita e la moltitudine di pesci e coralli variopinti la fanno quasi somigliare ad un giardino fiorito.

Il paesaggio sottomarino è quantomai affascinante: coralli rossi, blu, neri e bianchi, a gruppi o isolati, formano una specie di scenografia unica nel suo genere, mentre pesci di piccole e medie dimensioni e dai nomi curiosi, come quello di pesce-leone, pesce-angelo, pesce-Picasso – nuotano tranquillamente fra questi organismi viventi.

A chi piace tuffarsi in un mare dal colore inimmaginabile, ma non protetto dal reef, per cui è spesso “mosso” con delle alte onde, non deve perdere l’occasione di farlo ad “Anse Intendence”, dotata anche di una larga e bianca spiaggia sulla quale si può sostare in tutta tranquillità.

PRASLIN, CANDIDE SPIAGGE E FORESTA PRIMORDIALE

Non si può andare alle Seychelles e non soggiornare o visitare la sua seconda isola, per grandezza, Praslin. Di origine granitica e meno montagnosa di Mahé, Praslin ha le spiagge sabbiose di un colore bianco così abbagliante che è quasi impossibile guardare la sabbia senza indossare gli occhiali da sole. E’ ricoperta da una fitta e insolita vegetazione che raggiunge il suo culmine nella Vallée de Mai, foresta incontaminata e unico posto al mondo – e unica isola delle Seychelles – dove cresce spontaneamente quel frutto raro che è il “coco de mer”, così somigliante agli organi genitali maschile e femminile da suscitare sempre tanto stupore fra le persone che hanno la fortuna di osservarlo da vicino. Una leggenda locale narra che il suo nome derivi dal fatto che fosse il frutto di un grande albero sottomarino, mentre un’altra – più affascinante ma non credibile – racconta che l’accoppiamento delle due palme avviene nelle notti di tempesta e solo in quest’isola. Ma nessun essere umano può assistere all’incontro amoroso perché ne riceverebbe sciagure.

Nella Vallée de Mai è stato creato un percorso che permette di osservare questa specie di jungla primordiale nella quale, in alcuni punti, a malapena riesce a trapelare la luce. Fa impressione quando il vento fa muovere le palme perché le foglie, nello sbattere, riproducono un suono quasi metallico – simile a quello delle lamiere. Nella Vallée si ode soltanto il canto solitario di qualche uccello che rompe il silenzio di quel luogo incantato la cui bellezza selvaggia attira ogni anno numerosi turisti

Ma Praslin è nota anche per la bellezza di quella che qualcuno definisce la spiaggia più bella del mondo il cui nome, Anse Lazio (si, avete letto bene, è proprio Anse Lazio), ci sembra familiare perché è uguale a quello di una delle nostre regioni. Situata a nord ovest dell’isola, su questa bianchissima spiaggia c’è addirittura un piccolo lago nel quale si riflette il verde della vegetazione che ricopre un’altura situata alla sua sinistra.

Fa impressione vedere quello specchio d’acqua incastonato nella sabbia, ma anche le formazioni granitiche che si trovano sia a destra che a sinistra dell’ampia spiaggia, e che, se ci s’inoltra nei piccoli passaggi che ci sono nelle rocce – sulla parte sinistra – si può sostare nelle splendide insenature, tutte circondate da alti alberi di cocco i cui frutti cadono sulla sabbia. Descrivere lo splendido colore del mare e gli incontri “ravvicinati” che si effettuano con i suoi coloratissimi pesci potrebbe sembrare esagerato e ripetitivo, ma è la pura verità. Si può soltanto dire che è meraviglioso e indimenticabile poter nuotare in posti simili!

LA DIGUE, I SUOI GRANITI E LA SUA BELLEZZA UNICA…

A circa 30 minuti di barca da Praslin c’è la Digue, intatto atollo dalle granitiche sculture e dalle inimmaginabili spiagge solitarie lambite da un mare trasparentissimo. Il suo fascino maggiore consiste nell’aver conservato l’antica atmosfera coloniale rifiutando – nei limiti del possibile – la modernità dei mezzi di trasporto meccanici.

Poche automobili sono adibite al trasporto delle merci, mentre per lo spostamento delle persone sono utilizzate le biciclette e alcuni carri trainati da buoi. Ma anche andare a piedi è piacevole perché in un’ora si riesce ad arrivare da una parte all’altra dell’isola. A La Digue, come in tutte le isole delle Seychelles, le palme sono le regine incontrastate della vegetazione, ma qui sono più alte che nelle altre isole.

Se ci si va a fine ottobre-novembre si possono osservare anche le numerose varietà di orchidee selvatiche che crescono nei cespugli che costeggiano i sentieri. La Digue è naturalmente protetta dal reef e le sue spiagge sono circondate dalle rocce granitiche che sembrano quasi volersi congiungere con il mare.

È su quest’isola che sono stati girati film come “Robinson Crosue” ed “Emanuelle”, perché ritenuto l’ambiente ideale per rappresentare una natura incontaminata.

Le sue spiagge sono bianche o bianco-rosato e sono ricche di conchiglie e coralli (che è proibito, però, raccogliere). L’isola è nota per la lavorazione del cocco e della vaniglia ed è interessante visitare la “fabbrica” dove le noci di cocco vengono vuotate del guscio per prepararle alla trasformazione in olio da esportare poi all’estero. All’interno dell’isola, una grande roccia granitica e la visione di tartarughe giganti merita senz’altro una escursione.

TANTI MOTIVI PER TORNARE ALLE SEYCHELLES…

Se si disponesse di molto tempo si potrebbero visitare anche le altre isole che compongono l’arcipelago perché ognuna è diversa dall’altra. Si potrebbe andare, ad esempio, a Denis Island, meta d’obbligo per chi pratica la pesca d’altura; a Bird Island, isola prediletta degli ornitologi e di chi ama il bird watching.

Da maggio a settembre, infatti, è il regno di oltre due milioni di uccelli che vi nidificano. Aldabra, inoltre, non è da trascurare perché è considerata una delle ultime meraviglie “al naturale”. È il più grande atollo al mondo – protetto e gestito dalla Fondazione isole Seychelles – nel quale vivono ancora allo stato selvaggio le tartarughe giganti. Ormai solo ad Aldabra e alle Galapagos si possono osservare queste enormi testuggini che altrove si sono estinte.

Ma le Seychelles meritano più di una visita anche per la loro gastronomia. La cucina creola, infatti, è l’esaltazione dei profumi e dei sapori dei prodotti naturali delle sue isole. Naturalmente gli ingredienti base sono il pesce e il riso sapientemente combinati con l’aggiunta di spezie esotiche. La frutta, poi, è veramente saporita: dalla papaya al mango, dal frutto della passione alle banane e all’ananas, si possono fare delle vere “scorpacciate” senza il timore di ingerire concimi chimici o OGM.

Liliana Comandè

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Islanda, Finlandia e i miti cari a Tolkien

3 Marzo 2016 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #luoghi da conoscere, #fantasy

Islanda, Finlandia e i miti cari a Tolkien

Thingvellir: alle spalle il contrafforte di basalto nero, davanti l’immenso prato ricoperto di lichene dove si svolgeva l’Althing, il parlamento a cielo aperto degli islandesi. Nell’aria fredda e odorosa di zolfo, in questa terra di lava color asfalto, fra dune di pomice e sbuffi di geyser, necessita compiere una classificazione di ricordi e associazioni mentali che ci si affastellano confusi nella testa.

Cominciamo con l’Edda.

Il termine Edda, al plurale Eddur, si riferisce a due testi in norreno entrambi scritti in Islanda durante il XIII secolo. L’Edda poetica, o Edda antica, e l’Edda in prosa, quella di Snorri.

L’Edda antica trae origine dal Codex Regius, manoscritto composto nel XIII secolo, di cui si sono perse le tracce fino al 1643. La parte iniziale è la nota Völuspa, la profezia della veggente, fonte preziosa di conoscenza della mitologia e della cosmogonia norrena. La veggente parla con Odino e gli narra della creazione del mondo e del Ragnarök, il suo catastrofico destino. All’interno della Völuspa sei stanze sono dedicate a un elenco di nomi di nani, da cui Tolkien ha attinto a piene mani per la sua trilogia. Nel 2009 la Harper e Collins ha pubblicato un lavoro postumo di Tolkien sull’Edda poetica, intitolato La leggenda di Sigurd e Gudrun, in un inglese che cerca di riproporre il metro allitterativo del norreno.

L’Edda in prosa, scritta attorno al 1220 da Snorri Sturluson, poeta e politico facente parte dl parlamento islandese, comincia con una rievocazione dei miti e delle leggende già presenti nell’Edda antica ma poi evolve in un manuale di poetica, mirato a far capire i meccanismi della poesia scaldica.

Derivata dalla voce islandese skald, cioè poeta, la poesia scaldica è complessa, intricata, allitterativa, spesso composta in lode di un particolare signore. Abbonda in Kenningar, cioè metafore ermetiche, perifrasi poetiche e immaginative che sostituiscono il nome di una cosa. L’uso della Kenning è comune nella letteratura norrena, celtica e anglosassone, se ne ritrovano esempi anche nel Beowulf, e la poesia scaldica si avvicina a quella trobadorica e provenzale.

Snorri è anche noto per aver sostenuto che gli dei non fossero altro che capi militari poi venerati (in questo riproponendo la teoria del filosofo Evemero).

Occupiamoci adesso delle Saghe degli islandesi.

La forma letteraria più vicina al romanzo moderno avutasi nel medioevo, capace addirittura di coniare un termine nuovo, è, appunto, la “saga”, che ha nella sua radice il verbo “dire”.

Le Islendigasögur sono storie di famiglia - scritte su velli di pecora in un periodo dal dodicesimo al quattordicesimo secolo - che parlano di persone realmente esistite, di fatti accaduti alle prime generazioni di coloni trasferitesi dalla Norvegia in Islanda, di viaggi avventurosi in Groenlandia e Nordamerica (prima di Cristoforo Colombo), dell’insofferenza verso i re norvegesi e danesi, delle razzie compiute per conquistare terra, bottino e indipendenza.

La società descritta è simile alla borghesia del diciottesimo secolo in cui prenderà piede il genere del romanzo.

The society imagined by the Islanding sour is as precisely observed as those of Daniel Defoe and Jane Austen”. (Robert Kellog)

Dalle saghe apprendiamo la storia, la geografia ma anche dettagli minuti della vita quotidiana dell’epoca, le complicate relazioni familiari, il concetto di onore, il potere dei godi, a metà fra preti e capi politici.

Sia i due libri dell’Edda che le Saghe Islandesi sono tentativi di conservare la tradizione del passato pagano operati durante un medioevo già cristiano.

Contemporanee di Chrétien de Troyes, di Chaucer e di Dante, non sono scritte per un pubblico aristocratico ma per gente comune, proprio come il romanzo. Le saghe sono il prodotto del popolo, di agricoltori e pescatori che sedevano attorno al fuoco la sera e rievocavano le gesta di antenati e persone famose. I protagonisti non sono eroi semidivini ma contadini e possidenti terrieri, un universo maschile di rudi combattenti e fuorilegge, sebbene alcune storie diano spazio anche ad eroine femminili.

Se in spirito ricordano l’epica, non sono in versi bensì in una prosa che mescola ironia, umorismo e nostalgia. Si differenziano dal romance medievale per la poca attenzione data alla fantasia e all’amor cortese e per la mancanza del lieto fine.

Ospitano, tuttavia, molti elementi magici e fantastici, alcuni dei quali sono stati ripresi da Tolkien: i trolls, i fantasmi, i Berserker, ovvero feroci guerrieri scandinavi che avevano fatto giuramento a Odino.

La più famosa è l’Egils saga, da molti ritenuta opera di Snorri. Egil Skallagrimsson fu il più grande scaldo islandese. Molti degli eroi di cui si narra nelle saghe erano anche poeti, capaci di recitare versi celebrativi, ma non falsamente adulatori, in onore dei loro sovrani. E tuttavia le parole erano usate anche come armi per ferire e umiliare.

Gli autori delle saghe sono ignoti e le storie sono state prima tramandate oralmente e poi, solo successivamente, raccolte in forma scritta, dopo l’ introduzione della scrittura sull’isola nel XII secolo ma, anche su questo, non c’è nessuna certezza. Lo stesso concetto di autore è molto diverso dall’attuale, indicando solo “l’iniziatore” di una storia, che non impronta di sé e del suo stile personale la materia trattata.

Una prosa come quella delle saghe era rara nella letteratura del periodo, se si eccettuano il Decamerone e la vulgata francese del ciclo arturiano.

“The development of a prose fiction in medieval Iceland that was fluent, nuanced and seriously occupied with the legal, moral and political life of a whole society of ordinary people was an achievement unparalleled elsewhere in Europe.” (Robert Kellog)

Le storie non iniziano mai in medias res ma cercano di raccontare gli eventi in ordine cronologico. Il linguaggio è diretto e semplice, grande spazio è dato al dialogo. I personaggi sono introdotti da una complicata genealogia e dal patronimico, che Tolkien riprenderà e svilupperà nelle appendici. Una delle funzioni delle saghe era anche la trasmissione di queste genealogie, ed esse avevano un intento didascalico oltre che d’intrattenimento.

Di solito la saga si apre bruscamente, con un’introduzione banale: “C’era un uomo di nome etc”. La precisione nella localizzazione geografica del racconto e nell’individuazione dell’esatto contesto storico è massima. La storia racconta di un conflitto, nato per questioni banali e comuni, del suo sviluppo sanguinoso e di faide e vendette successive. I personaggi, tuttavia, mantengono qualcosa di mitico, capacità magiche nel loro canto, potere divinatorio.

Sebbene, come abbiamo detto, siano in prevalentemente in prosa, contengono al loro interno anche dei versi, inizialmente visti come una fonte d’informazione e autorità storica, in seguito divenuti mezzo di espressione della mente e dei pensieri dei protagonisti.

Concludiamo con il molto più recente Kalevala.

Nel 1835 Elias Lönrot riordina e pubblica sotto forma di poema una vasta collezione di ballate eroiche in careliano. La versione successiva, del 1849, è più completa. I Careliani sono finnici che hanno avuto contatto – guarda caso – con i vichinghi. La loro lingua, appartenente al gruppo ugrofinnico, non è di origine indoeuropea. Kalevala significa “Terra di Kaleva”, ossia, appunto, Finlandia.

Anche in questo caso si tratta del recupero di antiche tradizioni e antichi canti. Il poema è tuttora cantato da alcuni anziani bardi con valenze sciamaniche.

Fu tradotto da Igino Cocchi nel 1909 e nel 1010 dal livornese Paolo Emilio Pavolini (padre del famoso gerarca Alessandro). Quest’ultima versione, in ottonari - il metro originale del testo finnico - è disponibile in un’edizione curata da Roberto Arduini e Cecilia Barella per la casa editrice Il Cerchio di Rimini.

La storia dell’eroe e poeta Väinamöinen, del fabbro Ilmarinen e del guerriero Lemminkäinen ha in parte ispirato il poeta americano Longfellow, il compositore Sibelius e, infine, Tolkien con Il Silmarillion e la struttura delle lingue elfiche. Tutto gira intorno alla ricerca di una sposa per gli eroi protagonisti, e del Sampo, un mulino magico che assicura ricchezza a chi lo possiede.

Molti gli adattamenti e riduzioni per ragazzi, in particolare ci piace ricordare quella edita nel 1961 per i tipi di Malipiero, di cui riportiamo uno stralcio:

L’intrepido vegliardo Vainamonen, immensamente forte, era il cantore di Kalevala” (Per cantore intendiamo uno scaldo, un eroe poeta simile a quelli presentii nell’Edda e nelle Saghe islandesi, che ha nel suo canto anche capacità magiche e taumaturgiche). “Il suo canto era come il cielo: copriva tutta la grande regione di Kalevala, e la copriva di giorno e di notte, come un vento gagliardo capace di profferire parole musicate che tutti udivano anche chiusi dentro le capanne. La sua fama giunse lontano, come un’acqua che si spande nelle pianure. Giunse così fino alle terre di mezzogiorno, nei luoghi di Poiola.

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Riferimenti

Robert Kellog, Introduzione a “The Sagas of Icelanders”, Penguin 2000

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