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Dal realismo al simbolismo: Ignazio Silone, "Vino e pane"

7 Febbraio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Vino e Pane

di Ignazio Silone

Mondadori, 1955

Vino e Pane di Ignazio Silone, al secolo Secondo Tranquilli (1900- 1978), uscito nell’edizione definitiva Mondadori nel 1955, s’iscrive nell’ambito della narrativa meridionalista degli anni ’30, molto diversa da quella verista della fine dell’800, quella cioè di Verga, di Capuana e de Roberto.

Alvaro, Brancati e, in parte, Silone, accompagnano il loro grido di protesta sociale con un moto di nostalgia verso un mondo che va scomparendo. La città, nella fattispecie Roma, rappresenta la realtà, il vero, mentre la campagna abruzzese dei cafoni ha connotazioni ancora tardo romantiche, liriche, è popolata di figure ottocentesche e attraversata da un senso della natura panico e mistico.

Laddove, fra ottocento e novecento, il reale perde senso, si fa simbolo e decadenza, l’opera dei meridionalisti oscilla fra naturalismo e simbolismo. Possiamo dire che Verga passa attraverso d’Annunzio, che i Malavoglia s’intridono del lirismo delle Novelle della Pescara.

Il prete tardò a tornare nella locanda. Si sedette sul ciglio erboso della strada, oppresso da molti pensieri. Voci perdute si udivano in lontananza, richiami di pecorai, latrati di cani, sommessi belati di greggi. Dalla terra umida si levava un leggero odore di timo e di rosmarino selvatico. Era l’ora in cui i cafoni rientravano gli asini nelle stalle e andavano a dormire. Dai vani delle finestre le madri chiamavano i figli ritardatari. Era un’ora propizia all’umiltà. L’uomo rientrava nell’animale, l’animale nella pianta, la pianta nella terra. Il ruscello in fondo alla valle si gremiva di stelle. Di Pietrasecca sommersa nell’ombra, non si distingueva che la cervice di vacca con le due grandi corna arcuate sulla sommità della locanda.

È nostro convincimento che brani come questi non si possano né spiegare né insegnare, il lettore deve sentirli da solo, dentro di sé.

Vino e pane descrive l’angoscia dell’intellettuale di sinistra che vede crollare tutti gli ideali, ridotti a schemi e regole di partito, malvagi quanto il potere al governo che sfrutta e opprime la popolazione, i cafoni, ora rinominati “rurali”. La differenza fra il protagonista Pietro Spina e le altre figure letterarie di ribelli, immaginate da autori contemporanei di Silone, è l’inazione. Spina è costretto dalla malattia all’inattività, la sua rivolta è tutta interiore, sta nel passaggio da un nome all’altro, da Pietro a Paolo, don Paolo, (non a caso entrambi nomi di apostoli) per poi tornare di nuovo a Pietro senza preavviso. Pietro è il rivoluzionario, Paolo il finto prete, alla disperata, ma autentica, ricerca di Dio. La sua ribellione è interna, morale, intellettuale, per questo “Vino e pane” si configura come testo incerto fra romanzo d’azione e d’idee.

La figura di Luigi Murica, il giovane comunista infiltrato tra i fascisti ucciso dalla milizia, ha connotazioni fortemente cristologiche. Un intero capitolo, il penultimo, è dedicato al suo martirio che richiama la crocifissione, dove il vino e il pane sono quelli della comunione e rappresentano, com’è esplicitamente detto, l’unità, la fraternità, la solidarietà fra uomini.

Cristina Colamartini, l’aspirante novizia di cui Pietro s’innamora, raffigura l’innocenza, l’agnello sbranato dal lupo, e la sua morte ha tratti decadenti e sensazionali.

Matalena, Cassola, Sciatàp, Magascià e tutti gli altri protagonisti, sono figure realistiche ma anche simboliche, attingono al naturalismo di Zolà ma anche a d’Annunzio, a Mistral e allo stesso Verga di Storia di una capinera e di La lupa, bestia evocativa di lussuria, di pulsioni rimosse.

Egli mostrò sulla collottola della bestia il segno dell’amore, il morso profondo di una femmina. L’amore dei lupi è serio. Banduccia sapeva riconoscere da lontano gli urli dei lupi: l’urlo del pericolo, che il lupo lancia quando è attaccato con le armi; l’urlo della carnaccia, che vuol dire che ha trovato qualche bestia da sbranare e chiama i compagni, perché alle bestie non piace mangiare da sole; l’urlo dell’amore, che vuol dire che avrebbe bisogno di una femmina e non si vergogna di farlo sapere.

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Riferimenti bibliografici:

Ignazio Silone, Introduzione a Vino e pane, Oscar Mondadori, 1970

Romano Luperini, Il Novecento, 1981

Salinari Ricci, Storia della Letteratura italiana, 1978

Rita Verdirame La Rosa di Gèrico, La Sicilia fantastica da Linares a Brancati, Dimensione Cosmica anno 7, luglio/agosto 1991

 

Bread and Wine by Ignazio Silone - Secondo Tranquilli (1900- 1978) - published in the definitive Mondadori edition in 1955, is part of the southernist narrative of the 1930s, very different from the realist narrative of the late 1800s that is Verga, Capuana and de Roberto.

Alvaro, Brancati and, in part, Silone, accompany their cry of social protest with a movement of nostalgia for a world that is disappearing. The city, in this case Rome, represents reality, the truth, while the Abruzzo countryside of cafoni still has late romantic, lyrical connotations, is populated with nineteenth-century figures and crossed by a mystical sense of nature.

Where, between the nineteenth and twentieth centuries, the real loses its meaning, becomes symbol and decadence, the work of the southernists oscillates between naturalism and symbolism. We can say that Verga passes through d'Annunzio, that the Malavoglia are intruding on the lyricism of the Pescara novels.

 

The priest was late returning to the inn. He sat on the grassy side of the road, overwhelmed by many thoughts. Lost voices could be heard in the distance, the calls of shepherds, the barking of dogs, the low bleating of flocks. A slight smell of thyme and wild rosemary rose from the damp earth. It was the time when the peasants returned the donkeys to the stables and went to sleep. From the windows, the mothers called their latecomers. It was an hour conducive to humility. Man re-entered in the animal, the animal in the plant, the plant in the earth. The stream at the bottom of the valley was full of stars. Of Pietrasecca submerged in the shade, we could only distinguish the cow's cervix with the two large arched horns on the top of the inn.

 

It is our belief that passages like these cannot be explained or taught, the reader must feel them alone, within himself.

Bread and Wine describes the anguish of the leftist intellectual who sees all the ideals collapse, reduced to party schemes and rules, as evil as the government power that exploits and oppresses the population, the peasants, now renamed "rural". The difference between the protagonist Pietro Spina and the other literary figures of rebels, imagined by contemporary authors of Silone, is inaction. Spina is forced by sickness into inactivity, his revolt is entirely internal, lies in the passage from one name to another, from Peter to Paul, don Paolo, (not surprisingly both names of apostles) and then back again to Peter without notice. Peter is the revolutionary, Paul the fake priest, desperate, but authentic, in search of God. His rebellion is internal, moral, intellectual, which is why "Wine and bread" is configured as an uncertain text between action and ideas novel.

 

The figure of Luigi Murica, the young communist infiltrated among the fascists killed by the militia, has strongly Christological connotations. An entire chapter, the penultimate one, is dedicated to his martyrdom which recalls the crucifixion, where wine and bread are those of communion and represent, as is explicitly said, unity, fraternity, solidarity between men.

Cristina Colamartini, the aspiring novice with whom Pietro falls in love, depicts the innocence, the lamb torn to pieces by the wolf, and his death has decadent and sensational features.

Matalena, Cassola, Sciatàp, Magascià and all the other protagonists, are realistic but also symbolic figures, they draw on the naturalism of Zolà but also on d'Annunzio, Mistral and  Verga of Storia di una capinera and La lupa, an evocative beast of lust, of impulses removed.

 

He showed on the scruff of the beast the sign of love, the deep bite of a female. The love of wolves is serious. Banduccia was able to recognize from afar the screams of wolves: the scream of danger, which the wolf casts when attacked with weapons; the scream of flesh, which means that he has found some beast to tear and calls his companions, because the beasts don't like to eat alone; the scream of love, which means that he would need a female and is not ashamed to let her know.

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Giuseppe Benassi, "Omicidio a Calafuria e altri putiferi"

6 Febbraio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Giuseppe Benassi, "Omicidio a Calafuria e altri putiferi"

Omicidio a Calafuria e altri putiferi

Di Giuseppe Benassi

Bastogi 2011

pp. 210

15.00

Rischia volutamente l’insofferenza del lettore, Giuseppe Benassi, in questo “Omicidio a Calafuria e altri putiferi”, giallo destrutturato, senza inchieste e senza deduzioni logiche, ambientato in una Livorno dove di vero ci sono solo strade e monumenti, popolato da un sottobosco di personaggi erotomani che praticano orge e scambi di coppia.

Sull’omicidio di Filippo Bondelli - rampollo di famiglia nobiliare con villa ad Antignano, trovato morto, nudo e unto d’olio, sugli scogli sotto la torre di Calafuria - indaga l’avvocato Borrani, personaggio sgradevole, cinico, irriverente, dalla sessualità volgare e dionisiaca. Borrani getta in padella pesci vivi per il gusto di osservarli mentre guizzano e si contorcono, prova soddisfazione alla vista di un gatto spiaccicato sull’asfalto, è profondamente misogino, non ama il suo mestiere né i colleghi avvocati, non ama l’umanità e il suo prossimo, fa e dice cose che c’infastidiscono perché sappiano vere.

“Si vede che siamo proprio dei fuscelli al vento basta un niente e diventiamo diversi io per esempio non ho ancora capito se sono un uomo serio o un buffone se sono intelligente o un coglione” (pag 71)

Attorno all’omicidio si muove una folla di caratteri che sembrano usciti dalla Torino di A che punto è la notte di Fruttero e Lucentini o dalla penna di un Dickens iperrealista. Personaggi di cui seguiamo il flusso di coscienza in lunghi capitoli che non sviluppano la trama ma la attorcigliano su se stessa senza sbocco, in modo involuto. La maga Gilda aleggia su tutta la storia senza mai concretizzare il suo peso nell’intreccio, attempato travestito che legge i tarocchi alle madame con le quali un tempo copulava. Silvana Oldini, la fidanzata casta del morto, sembra appartenere a una poesia del suo amato Gozzano, sorta di signorina Felicita d’altri tempi, incarnazione del femminino puro cui tutti i libertini in fondo tendono, donna irraggiungibile, angelicata, stilnovista. Solo a lei, alle sue lettere appassionate, sono affidati gli unici momenti lirici di tutta la storia. Mafalda, la madre del giovane praticante dell’avvocato, vive persa nelle sue credenze esoteriche che vanno dagli angeli alla New Age. Artemisio Cocci, scultore blasfemo e dissacrante sta per partecipare alla biennale di Venezia. Marcello, il praticante senza stipendio, è alla disperata ricerca di una ragazza. C’è, più in generale, una folla fatta di avvocati, pretori, giudici, giornalisti, una moltitudine ghignante, onirica, oscena come in un quadro surreale.

E per cercare chi ha ucciso Bondelli, si riflette sulla reliquia del santo prepuzio, sulla possibile clonazione di Gesù, sull’energia vitale della Kundalini, sull’astrologia, sulla musica e sulla pittura.

I capitoli hanno stili diversi, come se Benassi stesse ancora cercando il suo e ne sperimentasse più di uno, anche per mostrarci la sua versatilità. Dal lirismo delle lettere di Silvana, si passa alla mimesi ironica del linguaggio della critica e del giornalismo. Grande spazio è dato a fitti ed estenuanti dialoghi, ricchi di giochi di parole, di aforismi quasi wildiani, “sposarsi vuol dire prendere una persona e farla diventare la peggiore delle nostre abitudini”, di botta e risposta da teatro dell’assurdo, di volgarità scatologiche e ironiche citazioni colte, fra narrazione in terza persona e flusso di coscienza, fra presente storico e passato, in un tentativo di riscatto da una perenne, frustrante, alienazione dal resto del mondo. Borrani è descritto per sentito dire, “c’è chi dice che”, ma anche, e soprattutto, tramite il suo incessante monologo interiore.

E stare ore a pescare non vuol dire per l’avvocato cercare di prendere pesci, vuol dire stare ore a vedere nel galleggiante una parte di sé che vaga fra l’aria, l’acqua del fiume, l’acqua del mare. Vuol dire inebetirsi nel sole del pomeriggio, dimenticarsi di sé e del mondo e raggiungere uno stato animale, una consistenza di vegetale, una natura minerale" (pag 22)

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La "Signora dei filtri"

5 Febbraio 2013 , Scritto da Fabio Marcaccini Con tag #fabio marcaccini, #poli patrizia

Patrizia Poli nasce a Livorno nel 1961 e qui risiede. Laureata in lingua e letteratura inglese con una tesi su Il Signore degli anelli di Tolkien, ha vinto il premio Guerrazzi con il suo racconto "Quand'ero scemo", a sua volta pubblicato anche sulla rivista "La Ballata". Attualmente responsabile della sessione "Arte e Cultura" per la nostra rivista LivornoMagazine.it e del relativo social forum su facebook, collabora a "CriticaLetteraria" e gestisce, insieme a Ida Verrei, la pagina "Laboratorio di Narrativa" su Facebook.

Ha scritto "Il Respiro del Fiume", "Signora dei Filtri", "Bianca come la Neve", ed è autrice di una lunga serie di racconti. Insieme ad un gruppo di autori livornesi ha anche pubblicato "La Livorno che c'è", una raccolta di storie brevi e poesie.

Leggere Patrizia ha senz'altro qualcosa di magico. Le sue narrazioni ti afferrano con delicata prepotenza e ti proiettano da subito in un tourbillon di emozioni, le stesse che molto probabilmente la scrittrice vive quando dà vita a personaggi, ambientazioni e situazioni. Mai banale, mai distaccata dai suoi racconti, è un perfetto cocktail di maestria e creatività. E di creatività dimostra di averne davvero tanta, visto gli innumerevoli racconti prodotti dalla sua mente, con storie sempre nuove e dai contenuti mai abusati. Nel racconto, il protagonista dimostra di avere sempre un cuore ed un anima: un contraddittorio di emozioni buone e cattive, come poi si riscontra sempre nella vita di tutti i giorni. Sentimento, amore, odio, pietà si mescolano tra loro. Così è per il bambino down (Quand'ero scemo), lo stesso vale per il boia che deve sopprimere la vita di un efferato criminale (Dead Man Walking), ma lo è perfino quando il protagonista della storia è una macchina di ferro computerizzata ed inviata dalla Terra ad esplorare il pianeta Marte (Solo il rumore del vento).

Ciò che resta difficile da spiegare è perché in una letteratura che dà spazio e fama anche ad orrende creazioni, non sia ancora stato riconosciuto il valore che si deve ad una scrittrice vera come la nostra Patrizia. O forse, molto più semplicemente, le cose stanno come la stessa scrittrice ci insegna nel suo articolo "Caro aspirante scrittore...".

Insomma per farvi capire meglio il tutto e darvi la possibilità di apprezzare o meno, vi invitiamo a leggere alcuni dei suoi racconti che segnaliamo a seguito con accanto il nostro personalissimo giudizio.

- Asili ****

- Bugie e fantasie ****

- Di spalle ****

- Dona Sol ****

- Effimera ****

- Gli Angeli di St. Jeremy ****

- Il bastone e la conchiglia ****

- Il campo di mais ****

- Il figlio dell'uomo *****

- Il vento libero ****

- Incompiuta ****

- Io e Evelyn *****

- Io e te ****

- La corda e la pietra ****

- La scelta ****

- La terza notte ****

- L'inchiesta ***

- Marta ci vede ****

- Nessun dolore ****

- Quand'ero scemo *****

- Solo il rumore del vento *****

- Sordocieco *****

- Ultime ore prima dell'alba *****

- Un'estate sola ****

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Livorno Magazine - Periodico di Informazione

5 Febbraio 2013 , Scritto da Patrizia Poli

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Piero Paniccia, "Chernobylondon"

5 Febbraio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Piero Paniccia, "Chernobylondon"

Chernobylondon

Piero Paniccia

Edizioni del Faro, 2012

Pp 338

15,00

Non si fa notare per lo stile, che è corretto, lineare, documentaristico - seppure viziato da un uso non sintattico né ritmico bensì personale della punteggiatura - ma piuttosto per il contenuto, Chernobylondon di Piero Paniccia.

La storia ha come protagonista una famiglia italiana che vede intrecciarsi il suo destino con quello di un’altra famiglia bielorussa. Al centro di tutto, al nucleo della vicenda è proprio il caso di dirlo, c’è il disastro di Chernobyl.

“Mia madre, quando venne la prima volta in Italia e conobbe mio padre, era venuta come accompagnatrice dei bambini bielorussi, che avevano sofferto per le radiazioni conseguenti il disastro di Chernobyl. Lo sai cos’è Chernobyl, no? Ora tu pensa: grazie a quel disastro sono nato io. Se tanta gente non avesse sofferto, io non sarei mai nato, ci pensi?” (pag 284)

È a causa di Chernobyl se Alessandro e Natasha s’incontrano in Italia, si amano e mettono al mondo Yuri. Natasha è un’accompagnatrice di bambini contaminati dalle radiazioni, accolti in Italia per una vacanza disintossicante. A Senigallia incontra Alessandro, del quale s’innamora e che sposa, facendo conoscere a lui e a tutta la sua famiglia la città di Minsk, spalancando le porte di un mondo fino ad allora sconosciuto, quello della Bielorussia.

Il racconto è costruito in modo volutamente spiazzante, con flash back, avanzamenti e ritorni al passato, incursioni nei ricordi di entrambe le famiglie. La storia copre un arco temporale che va dal giorno in cui si ebbe per la prima volta sentore del disastro, nell’aprile del 1986, a un futuro 2040 con scenari da fantapolitica. I blocchi di contenuto sono essenzialmente tre: il disastro di Chernobyl e le sue conseguenze sulla salute, la scherma di cui diventeranno campioni Yuri e suo cugino Mirco, la Bielorussia.

L’ombra della radioattività aleggia su tutto il racconto, dal titolo fino alla tragica conclusione. Yuri nasce “a causa di” Chernobyl ma a essere contaminato non è lui bensì suo cugino. Mirco si ammalerà di leucemia e sarà proprio Yuri, nato da Chernobyl, a salvarlo donandogli il suo midollo. E tuttavia, per una vita che si salva, ce ne sarà una da restituire alla fine del romanzo, per la felicità ricevuta, qualcuno comunque dovrà pagare.

Attorno all’atomo si svolge il racconto, dal disastro fino agli studi di fisica nucleare ai quali Yuri si dedicherà da adulto, grazie all’amore per Felicia. L’utilizzo della fusione fredda porterà, nel 2040, alla sostituzione di tutte le centrali con nuovi impianti puliti.

Il secondo blocco è costituito dalla scherma. Questa passione attraversa tutto il romanzo, dai primi contatti dei due cugini con le palestre e gli insegnanti, fino alle medaglie conquistate nelle Olimpiadi di Londra del 2012 che, quando il libro è stato scritto, ricordiamo, ancora non si erano svolte. S’intuisce l’amore del Paniccia per questo sport, e la sua competenza, al punto che il libro è stato presentato nell’ambito dei festeggiamenti per Valentina Vezzali, jesina come l’autore e medaglia d’oro olimpica. Nell’incontro finale, descritto minuto per minuto, punto per punto, luce verde per luce rossa, fra Yuri - che il destino beffardo ha portato a gareggiare sotto la bandiera bielorussa - e suo cugino Mirco, rappresentante l’Italia, si può per contrasto evidenziare la nascente amicizia di due nazioni.

E qui giungiamo al terzo - e secondo noi al migliore - dei tre nuclei di contenuto: la Bielorussia. Nessuno, prima di Paniccia, ci aveva descritto la vita in quella nazione con tanti particolari, con così grande e affettuosa partecipazione. Scopriamo boschi di alti alberi frondosi e cespugli di bacche succose, automobili come la Lada Zighuli, cibi e profumi, ma anche la burocrazia arcigna e pachidermica, aggirabile con un cesto di leccornie ben confezionato, la corruzione, il retaggio di poca democrazia e il vuoto lasciato dell’ex Unione Sovietica. Scopriamo anche pagine nere e sconosciute della storia europea, come l’eccidio di Kathyn, evento controverso, orribile massacro di cui Paniccia attribuisce la totale responsabilità ai nazisti ma che gli storici hanno rivelato essere stata opera dei sovietici.

L’interrogativo esistenziale, che accompagnerà il protagonista Yuri Mancini per l’intero romanzo, è se anche da una sciagura come quella di Chernobyl possa scaturire il bene, se sia lecito sentirsi felici in conseguenza di una disgrazia, se non si debba ricompensare il destino che ci ha regalato gioia traendola dal male.

“Maledetta Chernobyl, disse nostro nonno quando nacqui io, credendo che fossi stato ricoverato in ospedale per colpa delle radiazioni. Lui pensava che mia madre fosse stata contaminata. Così mi hanno raccontato più volte mio padre e mia madre. Nel mio caso, invece, Chernobyl non c’entrava niente. Ma oggi Chernobyl mi sta presentando il conto. Prima mi ha fatto nascere. Perché è inutile nasconderlo: io sono nato grazie a Chernobyl e non lo dimentico. Ora la maledetta Chernobyl si vendica; mi sta portando via una delle cose più care che abbia mai avuto.” (pag 315)

Intorno a tutto, avvolgente e rassicurante, pronta a sostenere e consolare i due cugini, c’è la famiglia, sia quella italiana che quella bielorussa, formata da genitori, nonni e zii, da persone oneste, capaci di strappare un sorriso e asciugare una lacrima con un semplice gesto pieno di amore come la preparazione di una teglia di lasagne, la stessa che l’autore vuole immortalata sul suo sito.

Alla fine questo romanzo con molte anime non sempre amalgamate fra loro si congeda da noi con una nota metanarrativa.

“Forse è giusto così, mica un autore può seguire una storia all’infinito. A un certo punto, quando ha detto quello che si sentiva di dire, la smette. Poi l’autore può lasciare la storia aperta o chiusa, non ha importanza. Questa credo che possa essere una prerogativa. Mica lo obbliga qualcuno. Saranno poi i suoi lettori a giudicare se per quella storia fosse la giusta fine” (pag 325)

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Rifletto ancora sull’ipertrofia dell’ego.

5 Febbraio 2013 , Scritto da Patrizia Poli

Rifletto ancora sull’ipertrofia dell’ego.
Si sentono in rete affermazioni deliranti: “La Mazzantini non sa scrivere, Pavese era un pivello, non si capisce perché Erri de Luca stia su Wikipedia, quel tal libro è vomitevole, in libreria c’è solo spazzatura, gli editori pubblicano stupidaggini.” Ed io, invece, m'inchino sempre a tutti, imparo da tutti, anche da quello che non mi piace, apprezzo le sfumature, le differenze, la varietà. Penso che un best seller non lo diventa per caso, che un classico resta nell’immaginario collettivo per un motivo preciso. A me, alla fine, piace tutto, anche Moccia. “Tre metri sopra il cielo” mi ha catturato sotto l’ombrellone, “Hunger Games” mi ha tenuto incollata alle pagine, la Meyer mi ha appassionato. E, se leggo una poesia di Pavese, ancora mi si smuove dentro qualcosa. Intuizioni, scorciatoie, cortocircuiti fra mente e cuore, fra forma ed emozione. Non ne posso fare a meno, mentre posso benissimo rinunciare ai miei scritti.
Forse si scrive solo se si riconosce la scrittura degli altri prima della propria.

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Rai Eri: la televisione da leggere

4 Febbraio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #educazione

Rai Eri: la televisione da leggere

Chi ha una nonna con il grembialetto come armatura e il mestolo brandito a mo’ di spada, si sarà forse accorto che il leggendario Artusi è stato sostituito ormai ai fornelli dai libri de La prova del cuoco, a marchio Eri Rai. Eri è il marchio editoriale con il quale la Rai pubblica libri, riviste e prodotti multimediali connessi con la sua programmazione, sfornando una media di cinquanta testi l’anno e definisce se stessa “La Rai da leggere”.

L’inizio dell’attività editoriale della Rai risale al gennaio del 1925, con la pubblicazione del settimanale “Radio Orario” che riportava i programmi delle stazioni radio italiane ed europee. Nel 1930, “Radio Orario” con l’EIAR divenne il Radiocorriere e nel 1954 il Radiocorriere TV.

Il 15 settembre del 1949 si costituì la società ERI Edizioni Radio Italiana che produsse molte collane. Si spaziava dall’arte alla letteratura, dai libri per ragazzi ai corsi di lingue. Scrissero per la Eri autori del calibro di Emilio Cecchi, Carlo Emilio Gadda, Mario Praz, Folco Quilici, Natalino Sapegno, Giorgio Saviane, Giani Stuparich, Demetrio Volcic. Al Radiocorriere si aggiunsero riviste specializzate fra le quali “L’Approdo letterario” e “L’approdo musicale”.

Dagli anni 90 Eri pubblica i libri delle trasmissioni più importanti e reportage giornalistici a firma Enzo Biagi, Bruno Vespa, Sergio Zavoli, Piero Angela, Antonio Caprarica. Dal 1996 ha ceduto l’attività editoriale alla capogruppo Rai.

In particolare vogliamo riferirci qui a un periodo in cui la Rai ancora assolveva diligentemente il suo compito di funzione pubblica, di alfabetizzazione di massa, di didattica popolare.

Nel 1970 uscì un libro collegato strettamente a una trasmissione molto seguita dagli adulti ma anche da qualche bambino curioso e precoce. Il testo s’intitolava En Français, era una coedizione con Le Monnier, e si legava all’omonimo corso di lingue, basandosi su una serie di film pedagogici prodotti dal Ministero degli Affari Esteri francese per l’insegnamento della lingua nel mondo.

Era un’epoca, quella, in cui il francese ancora contendeva il primato all’inglese come lingua straniera indispensabile, sebbene l’inglese cominciasse ad avere quell’ammiccante bagliore di modernità che tanto ci affascinava, collegato alla swinging London, ai Beatles e alle minigonne di Mary Quant.

Il libro si articolava in due volumi, riportando i dialoghi dei micro film della trasmissione, piccoli sketch ambientati nella Francia tradizionale. C’era un intermezzo in cui veniva illustrato il contenuto lessicale del testo e una parte successiva in cui i vocaboli erano inseriti in un contesto più moderno. Seguivano poi esercizi linguistici e grammaticali.

“Né le trasmissioni, né il libro”, è spiegato nell’introduzione, “hanno lo scopo di insegnare una grammatica. Gli esercizi stessi non sono esercizi grammaticali, ma tendono, attraverso la ripetizione, alla “fixation”delle forme studiate.” (pag. 4)

Pur con molta cautela, possiamo trovare qui il nucleo del moderno insegnamento delle lingue, quello che non si basa più sull’apprendimento di regole grammaticali, bensì sull’immersione con uso contestuale delle formule linguistiche. A nostro avviso, questo metodo, portato poi alle estreme conseguenze, ha creato più danni che benefici, impedendo la destrutturazione delle frasi, l’analisi logica e grammaticale, la distinzione fra soggetto, predicato e complemento, riportando l’apprendimento a un pre-razionale incamerare frasi fatte, valido per chi operi davvero in un contesto di full immersion (o per i bambini molto piccoli dal cervello plastico) ma non nelle poche, sbrigative, ore concesse dal ministero alla didattica delle lingue straniere.

Il corso di francese andava in onda nel primo pomeriggio ed univa adulti e bambini, le mamme lo seguivano rispolverando ricordi di scuola, ai ragazzi piacevano le scenette - fra pecorelle e fiere di paese, fra trattorie campestri e ricette di cucina – guardandole assorbivano parole e modi di dire, affascinati dalle storie ironiche, dalla vita quotidiana, dal ragazzino che nell’intermède girava le caselle del quadro a pannelli mobili.

Non mancavano, alla fine di ogni lezione, pezzi scritti in italiano (per essere ben comprensibili a tutti) sulla Francia contemporanea, volti ad attirare il turismo internazionale, denunciando forse quale fosse, in realtà, il vero scopo della pur lodevole iniziativa. Ma a noi non interessa questo, a noi piace ricordare l’ansia con la quale aspettavamo l’inizio della trasmissione nel dopopranzo, la gioia con la quale prendevamo in mano il librone ad essa collegato – pesante tomo bianco bordato di giallo col profilo della Francia in copertina – la soddisfazione quando riuscivamo a capire tutti i brani che ritrovavamo scritti dopo averli uditi in televisione, arrivando a leggerli, a pronunciarli correttamente, a ricordarli, a farne un patrimonio personale al quale poi avremmo sempre attinto.

Insomma, il corso di francese Eri Rai (Le Monnier) appartiene al quel bagaglio di conoscenze che, una volta acquisite, non ci lasciano più per la vita.

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