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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

Phobic pride

11 Luglio 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #psicologia

Il problema è il silenzio. Finché nessuno di voi avrà il coraggio di fare come me, di dire pubblicamente: “Mi chiamo Mario Rossi, sono socialfobico e ci sono cose che non posso fare nella vita, ma non sono scemo, anzi, tutto il contrario, ho un mucchio di talenti nascosti e tanta forza che voi nemmeno ve la sognate”, finché un altro come lui non avrà il coraggio di rispondergli: “Anch’io”, finché non sarà intavolata una discussione sull’argomento davanti a tutti, così come si parla del fumo, della paura di prendere l’aereo o dell’emicrania, questa malattia resterà sconosciuta e noi non avremo un nostro posto nel mondo che non sia quello della dissimulazione, dello stare nascosti, del non ottenere mai niente dalla vita. Lo so, è impossibile parlare di cosa vi sta accadendo nel momento acuto della crisi di panico. Situazione tipo, quella che io odio di più: state lavorando, nel vostro ufficio, nel vostro negozio, nella vostra classe e qualcuno che conoscete, qualcuno al cui giudizio tenete, entra e vi osserva. Voi andate in tilt, non riuscite più a fare niente, le orecchie avvampano, il viso scotta, la cute suda, le ascelle puzzano, la vista si annebbia, le ginocchia cedono, i gesti diventano goffi, impacciati. Vi cade di mano la penna, inciampate negli oggetti, balbettate, le parole vengono meno. Al massimo, con un filo di voce dite: ”Oh, che caldo”, per giustificare la vampata, v’inventate una scalmana anche se il menarca è ancora vicino, anche se avete sedici anni. No, certo non è il caso di parlare ora, soprattutto se di quella gente non v’importa un cazzo e, se invece v’importa, adesso non conta, vorreste non averla mai conosciuta, vorreste scappare e avere un'amnesia totale. Qualcuno che non soffre di fobia sociale sa dirmi cosa significa per una donna passare in mezzo ad un gruppo di uomini riuniti davanti ad un bar? Sa cosa vuol dire vedere un’amica, dall’altro lato del marciapiede, e cambiare strada? Sa che il trillo del telefono ti paralizza e ti spinge alla ricerca affannosa di un altro cui far rispondere? Sa, forse, che lo sguardo innocente di una ragazzina, che potrebbe esser tua nipote, ti trafigge al punto che non sai più dove guardare? Sa che le orecchie ronzano, il corpo si bagna, la testa gira, il cervello si svuota, il cuore pompa, la vista si appanna, i movimenti diventano scoordinati? La nostra guerra quotidiana - tenda bene le orecchie chi parla di lotta e forza di volontà - noi la combattiamo ogni giorno, solo per fare quello che gli altri fanno automaticamente e sovrappensiero. Così sprechiamo le nostre migliori energie. Ha detto bene Claire: “Come un aracnofobico al museo degli insetti”, così ci sentiamo, e non finisce mai davvero.

In altre circostanze, però, si può provare a parlarne, a rendere più “consueta” la materia, più ovvia, più banale. È difficile, ne sono consapevole, ma si può tentare di essere fermi, dicendo: “Mi dispiace, questa cosa non è nelle mie corde, preferisco non farla, scelgo, se possibile, altre modalità”. Parlare di ansia generalizzata sarà più facile e più comprensibile. Ultimamente si tende a chiamare la fs "ansia sociale", che fa meno sfigato senza rimedio.

Non vergognatevi della vostra paura, non abbiate paura della vostra paura. Pensate a quante fobie non avete: magari non avete timore di prendere l’aereo, o di nuotare, o dei cani, o di entrare in ascensore. E se, invece, aveste qualcuna di queste fobie, ve ne vergognereste? Lo terreste nascosto? No, perché sono comuni. Ecco, non ci sono paure lecite e paure illecite, le emozioni negative sono una gamma enorme e ognuno ha la sua. Conosco una che non riesce ad attraversare le gallerie e, ogni volta che andiamo in qualche posto, ci costringe tutti a lunghe deviazioni per evitare i tunnel. A me la cosa fa ridere ma la rispetto. Imparate a esigere rispetto, a non farvi liquidare con un risolino imbarazzato o compassionevole. Imparate ad ottenere le cose per vie traverse, ad aggirare gli ostacoli alla luce del sole, spiegando le vostre esigenze, le vostre ragioni, imponendole, se necessario, con educata fermezza. Siate pronti a sfidare il biasimo degli stupidi, delle menti ignoranti, di quelli che “non sanno quello che fanno”, anche perché, diciamocelo, non è neppure colpa loro, se nessuno ne parla mai, come possono capire? Anni fa la dislessia non era riconosciuta, come non era riconosciuta la sindrome da stanchezza cronica. Anche allora si parlava di pigrizia, di svogliatezza, d'incapacità di concentrazione. Ora le persone afflitte da questi problemi sanno di cosa soffrono e come devono comportarsi. Chi è vittima di un incidente e fa un percorso di riabilitazione, si sentirà dire dalla fisioterapista che deve mettere in atto nuove strategie per ottenere ciò che prima aveva senza sforzo, dovrà muoversi in un altro modo, dovrà porre più attenzione e concentrazione nei gesti o nei ragionamenti e nessuno si sognerebbe di prenderlo in giro per questo, perché cammina con l'aiuto di un bastone o porta occhiali spessi. Anche la nostra è una disabilità e mai come nel nostro caso vale il termine diversamente abile. Siamo abili, anzi, abilissimi in certi campi, ma abbiamo bisogno di più calma, più silenzio, più spazio, più rilassamento per fare le cose che gli altri fanno senza nemmeno pensarci.

Respirare è un movimento non del tutto involontario ma lo si fa senza ragionarci sopra. Per noi vivere non è come respirare, non è automatico, per noi ogni gesto è volontario, ponderato e ci costa fatica enorme, ma possiamo farlo seguendo le nostre modalità che non devono per forza essere quelle degli altri. Un sordomuto usa la lingua dei segni per comunicare, un dislessico trova che gli legge la pagina, voi cercate chi possa aiutarvi a raggiungere il vostro scopo, almeno fin dove è possibile, è chiaro che nessuno potrà presentarsi agli esami al posto vostro. Insomma, rivendicate senza vergogna il diritto alla vostra paura.

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Domenico Vecchioni, "Ana Belén Montes La spia americana di Fidel Castro"

10 Luglio 2014 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni

Domenico Vecchioni, "Ana Belén Montes La spia americana di Fidel Castro"

Domenico Vecchioni
Ana Belén Mont
es
La spia americana di Fidel Castro
Greco & Greco
Euro 12 – Pag. 152

Domenico Vecchioni è un ex diplomatico di carriera, ambasciatore italiano all’Avana, che da alcuni anni dirige la collana Ingrandimenti della Greco & Greco, nata per ospitare agili biografie di personaggi storici controversi. A sua firma ricordiamo: Richard Sorge, Pol Pot (ottimo), Kim Philby, Felix Kersten. Per altri editori ha pubblicato biografie di Raúl Castro ed Evita Peron, alcuni testi sulle spie e sugli 007 del passato. Questo nuovo lavoro si segnala per originalità e getta nuova luce su una figura indefinibile come la portoricana Ana Belén Montes, la spia americana al servizio di Fidel. Vecchioni tratteggia con precisione biografica la vita di una donna che per sedici anni è stata una vera e propria spina nel fianco della DIA, lavorando alacremente per divulgare segreti militari e politici ai suoi corrispondenti cubani. Il problema è che se chiedete a un dirigente cubano chi sia Ana Belén Montes si chiuderà nel più totale riserbo. Soltanto Felipe Perez Roque – ormai caduto in disgrazia – ha pronunciato parole di stima nei confronti di una spia che “pur non prendendo un solo penny dal governo cubano ha reso grandi servizi alla causa della libertà dei popoli oppressi”. Ana Belén è una spia molto sui generis, infatti pare che la sua attività non sia stata guidata da brama di potere e denaro, ma soltanto da motivi ideologici e psicologici, perché identificava nel governo nordamericano quel padre repressivo e violento che aveva dovuto subire da piccola. La sua è stata una condivisione ideologica dettata dall’intima convinzione di dover aiutare il governo di Fidel Castro a liberare le popolazioni oppresse, tra queste anche la sua Porto Rico che chiedeva l’indipendenza. “Ana Belén è stata un’eroina della Rivoluzione dal destino paradossale” afferma Vecchioni “perché condannata a Washington e ignorata all’Avana, sconosciuta all’opinione pubblica cubana, spia senza mandanti. Non ha goduto nemmeno della notorietà, che in genere emana dalle grandi spie, né è stata confortata dalla riconoscenza del suo idolo, Fidel Castro”. Quasi come se Ana avesse spiato per Cuba all’insaputa di Cuba, cosa impossibile, ma che di questi tempi va molto di moda anche dalle nostre parti. Ben altro destino hanno avuto i Cinque Eroi prigionieri dell’Impero, in realtà spie cubane in trasferta USA, ma per L’Avana vittime di un regime che sogna la normalizzazione di Cuba. Ana Belén Montes è rimasta vittima della politica cubana che non ammette l’esistenza di una sua rete di spionaggio, addestrata dall’Isla Grande, per infiltrarsi nei meandri della politica statunitense. Arrestata nel 2001, ripudiata anche dal compagno tradito dal suo comportamento antiamericano, additata al pubblico ludibrio dai giudici: “Se non voleva amare il suo Paese, poteva almeno fare a meno di danneggiarlo”, risulta una figura quasi patetica di spia solitaria, dalla doppia vita e dal destino infelice. La condanna finale: 25 anni di carcere duro, senza possibilità di libertà condizionata. “Ana è stata una delle spie più dannose per gli USA e solo gli attentati alle torri gemelle hanno potuto oscurare nell’attenzione dell’opinione pubblica americana e internazionale il caso di spionaggio più clamoroso del secolo scorso”, scrive Vecchioni. “Ana serviva a Fidel per conoscere in anticipo le posizioni di Washington alle Nazioni Unite e per sapere fino a che punto nei momenti di tensione poteva spingersi nella provocazione senza rischiare reazioni forti, magari di tipo militare”, aggiunge. Un libro da leggere, che rivela novità interessanti e particolari inediti sui Servizi Segreti Cubani, sulla Red Avispa, sull’Intelligence Americana e sui Dioscuri di Cuba. Un libro che racconta la vita di un’eroina idealista che si assegna la missione di aiutare la liberazione delle masse oppresse in una lotta guidata dal suo mito Fidel Castro. Mentre lo leggevo mi sono chiesto più volte: e se anche la tanto osannata blogger Yoani Sánchez fosse una spia di Castro? Se fosse una spia d’influenza, oppure uno strumento inconsapevole nelle mani dei Servizi Segreti cubani? Soltanto il tempo svelerà troppi misteri. Una cosa è certa: quando c’è di mezzo Cuba tutto è possibile.

Gordiano Lupi - www.infol.it/lupi

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Due poesie di Assunta Castellano

9 Luglio 2014 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #poesia

Due poesie di Assunta Castellano

Vi presento un'amica, una bella persona, si chiama Assunta Castellano, è di Napoli e io amo molto le sue poesie, sia quelle vernacolari che quelle in lingua. E' con le sue stesse parole che voglio farvi conoscere un po' del suo carattere

Sono una napoletana verace e come ogni cittadino napoletano che si rispetti, ho nelle vene l'amore per la pittura e nell'anima la poesia,scrivo prevalentemente in lingua napoletana in quanto la trovo molto musicale ed e' quella in cui riesco ad esprimere al meglio le mie sensazioni. Non mi ritengo una poetessa,anche se molti mi appellano come tale. Ho a mio carico diverse antologie ed un libro tutto mio che scrissi nel 1997.Mi piace spaziare sia quando scrivo che quando dipingo, non amo gli spazi angusti né le rime baciate, a parte qualche eccezione. Adoro scrivere anche per i bambini. Sono una persona... ma penso che questo non sia compito mio,ma di chi avrà modo di leggermi. Un grazie di cuore a tutti e buona lettura!!

Vi propongo qui di seguito due poesie di Assunta, liriche delicate che esprimono profondi sentimenti, capaci di toccare le corde dell’anima. La prima, “Inesorabile tempo”, è poesia capace di mutare lo stato emotivo di chi la riceve e ci scuote con l'amara certezza che il tempo nemico “scorre fra le dita “e passa velocenell'angoscia che si fermi”. Con la seconda l'autrice ci parla di “Un amore” una poesia dunque, che può essere goduta da tutti, o se non da tutti, da molti, perché l'amore fa parte della vita di ogni persona. Per concludere rubo le parole a un attore, regista che tanto mi piace Giancarlo Giannini quando dice “È vero che il poeta scrive le parole, ma è bello leggere la poesia tra una riga e l'altra, cioè nello spazio bianco, quello spazio che ti lascia la possibilità di fantasticare e di pensare al sottotesto.” (Franca Poli)

INESORABILE TEMPO

Come sabbia

scorre tra le dita

il tempo

si ferma giusto un attimo

lì... tra le tempie e batte

incerto

confusi ormai i pensieri

come nuvole di marzo

alternano

sole... vita e voglia di sapere

conoscenza

confusa o volutamente ignorata?

Passa

nell'angoscia che si fermi

il tempo

e tu umile e rassegnato uomo

cerchi

in quell' ultimo anelito di vita

l'amore

che non fu tuo come volevi

transito

breve ed intera parentesi d'amore.

UN AMORE

Rapita da un sole morente

sulla fresca risata del mare

che portava conchiglie tra i denti

mentre il verde smeraldo lontano...

dipingeva sulla mia pelle

le due ali di un bianco gabbiano;

Sulla spiaggia deserta

le orme

percorrevano antichi sentieri...

e cantava una vecchia canzone

di un settembre di foglie gia' morte;

Poi fu tutto un bagliore di luci

tra le mura di antiche vestigia..

ci perdemmo infilando parole

che di perle tenevano strette

le due bocche anelanti d'amare;

Non fu piu' forestiero il tuo cuore

e albergammo in un solo capanno...

un sol corpo

e due anime tese

come archi centrati all'amore!!

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Sesso muto? No, grazie.

8 Luglio 2014 , Scritto da Mari Nerocumi Con tag #mari nerocumi, #erotismo

Sesso muto? No, grazie.

Amici miei, amiche mie,

finalmente è arrivata l’estate…

Forse vi sarà capitato di sentirvi contenti di poter tenere finalmente le finestre di casa aperte, la sera, per far entrare quella frescura che, delicata, carezza la pelle infine sbocciata dalle stoffe occludi-pori?

Orbene, io ieri sera stavo giusto contenta così, anche perché tutto il famigliame era scivolato anzitempo tra le braccia del provvido Morfeo, e ho quindi potuto guadagnare una felice posizione sul bel terrazzo di casa per godermi pochi minuti di voluttuoso silenzio. Voluttuoso e raro il silenzio che si può sperimentare in una casa abitata da due bambini pestiferi e da genitori cronicamente stravolti dalla stanchezza!

Sorseggiavo il mio thè freddo appoggiata alla ringhiera, facendo il morto a galla in quei pochi istanti di relax col vento tenue della sera che mi passava tra i capelli una mano evanescente. Un venticello crepuscolare, e amico.

Mi sentivo vagamente erede di una certa tradizione poetica italiana, e riuscivo anche a convivere con la sottile inquietudine che ci si incolla addosso quando temiamo che un qualche funesto evento possa improvvisamente fare a pezzi certe magiche atmosfere dentro le quali amiamo proteggerci.

Tendevo l’orecchio del cuore alla natura e all’anima del mondo.

D’improvviso, però, l’altro orecchio, quello della testa, mi gracchia un tale assortito e prosaico campionario di lamenti… urletti… e gemitini che manco nei pornazzi mal doppiati degli anni ’80….

All’inizio ho dato la colpa ai gatti condominiali che a me pare ci diano dentro spesso e volentieri (ma quanto dura il “calore” dei gatti?), ma poi l’ansimare di base e soprattutto quello “di picco” (armonia e melodia) mi hanno fatto capire che non si trattava di accoppiamento felino. Per rendermi conto però da dove venissero i lamenti di goduria ho dovuto girare lungo il terrazzo per ben due volte e attivare i miei sensi di donna bionica, fino a quando non ho visto la luce…
la luce della finestra aperta nella mansarda del palazzo di fronte.

Da analisi effettuata tramite il mio udito ipersensibile, direi che stavano ancora ai preliminari, diciamo alla fase dei mordicchiamenti sparsi per il corpo perché i miagolii di lei avevano, per così dire, un ritmo incostante e sussultorio mentre lui non si sentiva affatto. A vedere invece non si vedeva niente, sia per la luce soffusa (ognuno si fa le atmosfere sue…), sia perché l’alcova era collocata ad un’altezza maggiore rispetto al mio piano, ma in quanto al sentire non si poteva in alcun modo equivocare… (non sarò stata certo l’unica nei dintorni ad accorgermene).

L’episodio mi ha riportato alla mente un ricordo di qualche anno fa (più di qualche anno fa…) quando ancora, da giovane studentella squattrinata e fuori sede, dividevo la casa e le spese con altre persone.

Nella camera accanto alla mia viveva un ragazzo che invece lavorava e che quindi vedevo raramente, la sera. Lui non aveva la ragazza, o meglio non l’avevo mai visto portarne a casa, io frequentavo un ragazzo dell’università che qualche volta invitavo a dormire da me,(naturalmente non certo per dormire).

Durante una di queste notti in cui il mio lui, di allora, rimase per “non dormire” nel mio letto, dopo un po’ che ci davamo da fare accompagnandoci col canto e il controcanto, ci accorgemmo che il coinquilino variava il volume del suo televisore in concomitanza con le nostre intemperanze sonore …

Inizialmente andammo avanti come se niente fosse (peraltro il tipo con cui stavo era giovane e forte e non aveva certo problemi di durata), ma dopo un po’ non ce la feci più a far finta di niente e mi confinai in una sorta di (per me inedito) “sesso muto”.

In realtà non ho mai capito se il coinquilino fosse rimasto più infastidito o più intrigato dalla situazione … Probabilmente il volume del televisore non era stato l’unica cosa ad “alzarsi” in camera sua …visto che il giorno dopo mi faceva pure gli occhi dolci …

Tuttavia, per qualche tempo la consapevolezza di essere stata ascoltata (e certamente immaginata) da un estraneo mi lasciò dentro una vaga sensazione di disagio o forse di qualcosa d’altro che non volli indagare … poi, di lì a poco, io mi trasferii e non ci pensai più.

Ora, essendomi, a distanza di tempo, trovata per così dire dall’altra parte, devo dire di aver riassaporato quella sensazione avvertendo molto meno disagio e più qualcosa d’altro …(sarà la scorza dell’età).

Ciò nonostante è innegabile che spesso, quando capitano di queste situazioni, molte persone possono sentirsi infastidite, non reagiscono bene se sono costrette ad ascoltare il sonoro degli altrui amplessi?

Da cosa nasce questo disagio? E perché nasce?

È una cosa tipo la volpe e l’uva? Ossia ci rode di non avere sottomano qualcuno con cui organizzare seduta stante una cosetta nostra?

In fondo abbiamo sempre … Federica la mano amica … (un’apprezzata professionista che, dopo anni di onorata attività “etero”, ha fatto outing sulla sua disinvolta bisessualità).

O forse il fatto che in qualche modo ci viene imposta l’altrui intimità ci fa sentire violati nella nostra intimità?

C’entra qualcosa il senso del sacro (un fossile, ormai) correlato alla sfera sessuale?

Per qualcuno è forse una questione di triste narcisismo? Per cui, se si tratta di “farsi sentire” va tutto bene, mentre se sono “costretti” ad ascoltare altri allora il loro ego si sente prevaricato, o comunque ridimensionato, da quello, prorompente dei rumorosi scopatori?

Fa differenza se ascoltiamo (e di conseguenza immaginiamo) persone che conosciamo invece di gente che non conosciamo? Comunque le risposte a tutte queste domande io non ce l’ho.

Conosco (di vista) la coppia che si intratteneva piacevolmente a letto di fronte casa mia e non ne faccio mica una tragedia solo perché li ho sentiti darci dentro a più non posso, anzi, ne rimango contenta!

E ne è rimasto contento anche il mio lui di adesso, dopo che l’ho raggiunto in camera da letto, spegnendo la luce e aprendo la finestra …

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Amleto de Silva, "La nobile arte di misurarsi la palla"

7 Luglio 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Amleto de Silva, "La nobile arte di misurarsi la palla"

La nobile Arte di misurarsi la palla

Amleto de Silva

round midnight edizioni

Premetto che di solito scrivo recensioni al plurale maiestatis, non perché io sia di stirpe aristocratica ma perché così mi hanno insegnato all’università nei favolosi ottanta. Tuttavia, per commentare “La nobile arte di misurarsi la palla” di Amleto de Silva (non lo chiamerò Amlo, ché non siamo in confidenza) userò la prima persona, dato che l’argomento mi tocca e mi smuove qualcosa dentro. Premetto anche, a titolo d’informazione, che non sono una “professoressa facente funzioni di vicepreside”, che il Pd l’ho votato ma solo occasionalmentee che qualche volta mi succede persino di “recarmi” dal panettiere anziché andarci e basta e che mio marito ha esattamente ciò che si merita, cioè me.

La nobile arte etc. è un romanzo di Amleto de Silva (questo l’ho già detto), collaboratore di Repubblica, autore satirico per Smemoranda e per Enrico Montesano, recensore de ilmiolibro.it. Dopo essersi autoprodotto a sufficienza, si affida alle cure della ‘round midnight edizioni per raccontare la storia di Enea Pellegrini, del suo talento frustrato, delle sue ambizioni come scrittore professionista e del suo incontro con il male assoluto, cioè le scuole di scrittura.

De Silva dichiara di non aver mai frequentato una scuola di scrittura. Nemmeno io. Non l’ho fatto per timore che la poca autostima che possiedo ne fosse irrimediabilmente intaccata e, stando a quanto accade al povero Enea, pare abbia agito bene. Enea lascia la provincia e va a Roma; già al limite del suicidio per problemi personali e familiari, investe tutto quello che ha nell’iscrizione alla Scuola, la più prestigiosa, quella che gli aprirà tutte le porte, che lo farà diventare un Autore Affermato. La Scuola, invece, è un nido di vipere che si mordono e si parassitano l’un l’altra. Gli alunni sono schiavi degli insegnanti, a loro volta scrittori di media fama che si credono Dio in terra, temono la concorrenza come la peste e cercano di abbattere ogni altrui velleità artistica. Alla Scuola si fa di tutto tranne che insegnare. Principalmente si “scoraggiano” gli aspiranti scrittori, convincendoli che le loro ambizioni sono comuni e volgari, che non possiedono capacità né talento, che avere un romanzo nel cassetto è una vergogna, che in Italia si scrive troppo e si legge poco.

Eh ma in Italia tutti hanno un romanzo nel cassetto. A parte che onestamente non ho mai capito cosa ci sia di male nell’avere un romanzo nel cassetto, capirei un’arma carica e senza sicura quando ho tre bambini per casa, ma un romanzo, e nel cassetto, poi.” (pag 34)

In realtà, i primi a non sapere nulla di libri sono loro, gli insegnanti, che passano il tempo a spettegolare, rimorchiare studentesse, fare i giurati di premi letterari e i recensori a pagamento di romanzi che non leggono.

Il fatto era che per fare quel mestiere c’era bisogno di un sacco di tempo per lavorare di fioretto sulle pubbliche relazioni, e leggere era solo una sgradevole perdita di tempo. Certo ognuno di loro sapeva benissimo cosa facevano, avevano fatto o erano in procinto di fare i loro colleghi, ma non si leggevano l’un l’altro. Al massimo si controllavano.” (pag 378)

La Scuola è un luogo indefinito, ricorda “La ditta” de “Il Padrone” di Parise, non a caso a sua volta ispirata dalla casa editrice dove lavorò lo scrittore di Vicenza. Costituisce una specie di sfondo teatrale, vagamente riconducibile ad un habitat fintamente parigino, davanti al quale si muovono personaggi che sono macchiette, caricature, parodie, ma la deformazione surreale non è nemmeno troppa, vista la natura di tale ecosistema fatto di arrivismo, rivalità e cattiveria.

Questo, secondo me, avviene anche nell’universo letterario della rete: guerre intestine fra blogger, invidie e gelosie fra aspiranti scrittori di nessuna fama, accaparramenti di fan da una pagina all’altra a colpi di mi piace, spionaggio virtuale. Sebbene questa sia un’altra storia, de Silva, che ci esorta a usare Facebook e Twitter, a scrivere sui blog, a sfruttare il self publishing, etc, sembra aver, forse inconsapevolmente, assorbito anche parte dell'ambiente.

Egli (come non gli piacerà questo pronome desueto) egli non è tenero con gli scrittori, con i librai e con gli editori, ma la categoria che più aborrisce - non a torto - è quella degli editor, i famigerati che ti costringono a riscrivere tutto ciò che hai già scritto, a modificarlo, a massificarlo. Chi vi parla ne ha fatto le spese, costretta a rovinare un proprio romanzo, infarcendolo a pagamento di errori grammaticali, pena l’esclusione dalla possibilità di essere presentata a un editore. Tale editore risultò poi essere un banalissimo stampatore che tentò senza riuscirci di spillarle diecimila euro. Dopodiché la malcapitata dovette, prima di auto pubblicare il testo, cioè di rientrare a pieno titolo nella categoria degli “sfigati falliti”, passare ore a rimettere tutto com’era prima. Ma torniamo ad Enea. Enea finisce sotto le grinfie di Enzo Di Donna, personaggio di fantasia ma condensato di varie personalità ruotanti intorno al mondo editoriale. Enzo è stupido, profittatore, meschino, infido, pieno di sé e incapace di “misurarsi la palla”, cioè di essere consapevole dei propri limiti. Enzo ruba le idee di Enea, gli distrugge il romanzo che faticosamente e onestamente ha scritto e se ne appropria per i suoi fini. Insomma, grazie al rapporto fra Enzo ed Enea - forse non è un caso se entrambi hanno la medesima iniziale nel nome, essendo l’uno l’alter ego sporco dell’altro - de Silva lancia il suo grido liberatorio: ognuno deve scrivere quello che vuole e come vuole, non c’è una linea da seguire, non ci sono istruzioni, l’arte non s’imbriglia e non s’insegna, l’ultimo giudizio spetta ai lettori e non agli editor. Soprattutto non ci sono regole: se Salgari avesse “scritto solo di ciò che conosceva”, dico io, avrebbe ambientato i suoi romanzi in Veneto, se Tolkien avesse “preparato la scaletta” non avrebbe mai scoperto a cosa serviva l’Anello. Ultima ma non ultima, la rivalutazione della trama che ormai sembra scomparsa dal panorama letterario. Se hai una storia da raccontare, se ti sei scervellato per inventarla e incastrare tutti gli elementi dell’intreccio, scuotono la testa, ti dicono che non hai saputo agganciare le “tendenze attuali”.

E fin qui tutto bene, fin qui sono d’accordo con de Silva: le avventure esilaranti e amare di Enea mi sembrano una boccata d’aria fresca e di verità in un mondo che, più conosco, più mi nausea. Tuttavia, affiora il dubbio che l’autore s’identifichi non solo con Enea, ma anche con il personaggio negativo. Certe espressioni di disprezzo (come quelle verso le suddette “professoresse” o verso le “mezze calzette da premio letterario” e il continuo dare dell’imbecille a tutti), finiscono per coincidere proprio con l’atteggiamento di Enzo Di Donna. Come se de Silva difendesse gli scrittori e i lettori ma, allo stesso tempo, li denigrasse, come se la sua critica del sistema si trasformasse in autocritica dall’interno.

Una delle cose che più spesso afferma è che bisogna scrivere dialoghi mimetici del linguaggio comune e quotidiano. Perfetto, giusto, ma non sempre e non solo. Esiste anche uno stile più elegante, magari più retro, più “da professoressa”, ovviamente nel contesto giusto, nel romanzo appropriato. Esiste anche una ricerca formale. Il linguaggio scurrile può andar bene, far presa, essere realistico e divertente, ma non è necessariamente l’unico immaginabile, altrimenti tutta la narrativa, specialmente quella del “maschio standard”, come lo chiamo io, si trasformerebbe in una sfilza di parolacce fra disperati che raccontano le loro sventure sessuali al bar. Categoria, questa dello scrittore maschio standard, se mi permettete, altrettanto antipatica di quella cui appartengono le povere “professoresse facenti funzione” etc. Ma, nonostante l’insistenza sulle parole volgari, nonostante la tendenza a divagare e dilungarsi, nonostante non tema le ripetizioni, in barba, appunto, alle Regole Sacre della Scuola, lo stile di de Silva non è banale né sciatto ed è senz’altro molto divertente. Spassosa la parodia dei luoghi comuni del mondo editoriale, dal “necessita di un robusto lavoro di editing”, alla “lucida intellettuale post femminista”, “al doloroso percorso interiore”, e ci aggiungo pure il terribile “romanzo di formazione”.

Ma l’opera non è solo una ricostruzione d’ambiente in tono satirico, man mano che procede diventa sempre più romanzo tradizionale, con dialoghi perfetti, al limite della sceneggiatura, e una trama avvincente, che produce suspense ed empatia verso il protagonista.

“Mentre lui la metteva sul misuriamoci i conti in banca, per esempio, io mi sentivo fallito perché non avevo nessuno che mi volesse bene veramente. Mentre a me interessava aderire a quello che sentivo, che sapevo di essere, e mi sentivo più fallito che mai mentre violentavo il mio povero romanzo, a lui interessava vincere, cioè non far sapere alla gente che era quello che era: un ladro, un adultero, un pettegolo, un ignorante, un intrallazziere.” (pag 403)

Una trama che, alla fine, tocca le sfumature del giallo, con tutti i pezzi che vanno a incastrarsi, con la molla che fa click e mostra ciò che è avvenuto nelle pagine precedenti sotto una luce completamente nuova, costringendoti a un ripensamento attivo, a una “sospensione della distrazione”. Un po’ come accade nei libri della Rowling, e pazienza se de Silva s’infurierà per l’accostamento.

Il libro è più complesso di ciò che sembra, poiché, nella sua costruzione, usa proprio i meccanismi che mette alla berlina, in primis l’Amore, alla base di quasi tutto ciò che viene scritto e pubblicato, poi il famoso e vituperato "Arco", vedi evoluzione del personaggio. Il finale stesso può essere letto a due livelli. Il primo è una presa di coscienza da parte di Enea, un rimanere integro e pulito, un mantenere intatto il senso del proprio valore nonostante tutto. Il secondo è una parodia del genere, e in questa chiave smette di apparire forzato e sdolcinato.

Comunque, sullo scrittore-maschio- scurrile-standard, de Silva ha una marcia in più: la marcia si chiama sarcasmo, irrisione, satira. Anche se il povero Enea non diverrà, probabilmente, l’antieroe capace d’incarnare lo spirito della nostra epoca, è facile che Zeno Cosini si fumerebbe volentieri un’ultima a sigaretta con lui.

Mi piace concludere con una frase tratta dal blog di de Silva, amlo.it:

Perché grazie ai miei lettori ho capito una cosa, che sembra facile ma non lo è. Alla fine non conta se vai nei salotti letterari o ai premi, ma quello che fanno libro e lettore sul divano, con calma a casa loro. O sul tram mentre si va al lavoro. Cioè, il libro. Se ti piace o non ti piace. Se è scritto bene o di merda. Se c’è una storia e se c’è, se ti interessa sapere come va a finire. Il resto sono chiacchiere.”

Il problema però, aggiungo io, è arrivarci a questi lettori.

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Visitando Lisbona

6 Luglio 2014 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #luoghi da conoscere

Visitando Lisbona

Una città grande e piccola a un tempo, si stende su erte colline e improvvise discese presentando al visitatore attento un paesaggio romantico e malinconico, alternando scorci panoramici da mozzare il fiato a quartieri nuovissimi e moderni. Una città vecchia e contemporaneamente viva che ti fa sentire subito a casa, che ti lascia un ricordo intenso e un forte desiderio di tornarci. Quando te ne vai sorvolando l'estuario del Tago ti sembra ancora di sentire le note del fado, il canto più dolce e struggente che hai mai ascoltato. Una musica che si sposa con la storia di un piccolo paese divorato dall’immensità dell’oceano e che, come scrisse il poeta portoghese Fernando Pessoa, esprime: “La stanchezza dell’anima forte, l’occhiata di disprezzo del Portogallo a quel Dio cui ha creduto e che poi l’ha abbandonato.”

Adagiata sulla riva destra dell’immenso fiume Tago, Lisbona da secoli incanta chi approda alle sue rive. La sua dolce e pacata tristezza sono il suo fascino, la sua intensa vita notturna, il suo carattere popolare, ma fiero e indomito, la rendono una delle città più suggestive e al tempo stesso più difficili da capire. Non basta chiudersi in un museo o aspettarsi semplicemente di girarla: Lisbona bisogna viverla, camminare tra i vicoli dell'Alfama per scoprire di sentirsi come a casa, in uno dei tanti quartieri storici delle nostre città. Le salite e le discese con le scalette, le stradine in cui a stento passa una macchina, il castello coi merli in cima alla montagna, mi hanno ricordato Campobasso in cui ho vissuto tanti anni. L’Alfama, è il quartiere più antico della capitale portoghese, ha resistito anche al terribile terremoto del 1755 che distrusse gran parte della città. Un meraviglioso colorato e rumoroso intrico di strade strette, vicoletti acciottolati (becos), salite e discese ripide, vecchi negozi e localini caratteristici. La collina dell’Alfama si estende tra il Castello di Sao Jorge e il fiume Tago che sfocia poi nell’Oceano Atlantico. E' la zona più panoramica di Lisbona, ricca di “miradouros“, i nostri belvedere, ovvero di splendide terrazze vista mare che si affacciano sui tetti di palazzi antichi. Palazzi e piazzette coloratissimi decorati da azulejos le tipiche maioliche portoghesi con l’azzurro, il giallo e il verde acqua marina, come toni dominanti. Spianate dalle quali si può gustare estasiati una splendida vista della città assolutamente imperdibile. Sono bellissimi e meritano senz’altro una visita la Cattedrale di Lisbona, la chiesa di Sant’Antonio da Sé, il monastero di Sao Vincente da Fora e il suddetto Castello di Sao Jorge che offre tra i suoi merli una delle viste più belle di Lisbona e un cortile ombreggiato da pini, con prati verdi dove riposare e godere il sole, mentre pavoni liberi fanno la ruota e passeggiano tra i turisti. Dietro la chiesa di San Vincenzo si svolge ogni sabato la “Feira da ladra” un grande, variopinto mercato delle pulci tutto particolare dove scovando tra inutili cianfrusaglie si possono trovare anche interessanti libri antichi, vinili, scarpe fatte a mano, fotografie, orecchini, stracci, orologi, specchi e quanto di più strano si possa immaginare di vedere tra una enorme distesa di bancarelle gestite da un altrettanta variopinta umanità che va dalle studentesse che vendono abiti dismessi per racimolare qualche soldo, ai ladruncoli che cercano di smaltire la refurtiva. Per completare la visita a questo quartiere popolare dall’aria dimessa ma ricco di sorprese, non poteva mancare una serata ad ascoltare il fado in un locale caratteristico in compagnia di un buon bicchiere di porto. Il fado (dal latino “fatum”, destino) rappresenta la canzone popolare portoghese ispiratrice di un profondo e intimo sentimento di struggimento e malinconia: “la saudade.” Una sensazione di cocente nostalgia dovuta alle partenze, ai viaggi lontani, a un amore perduto o a un triste destino al quale non si può sfuggire. Un sentimento che pervade la cultura portoghese ed è palpabile visitando la capitale in cui il fado risuona ovunque nelle vecchie stradine. E' facile infatti sentirne le note provenire dall'androne di un palazzo antico e scoprire che nel cortile interno una ragazza canta sola con la sua chitarra ricordando la grande Amalia Rodriguez, famosa interprete di queste canzoni. Impossibile non cedere alla tentazione di fare un giro col caratteristico tram 28, tutto giallo e dagli interni in legno, anche se i residenti lo sconsigliano perchè pieno di borsaioli a caccia di portafogli dei turisti. Dal finestrino si vedono scorrere i quartieri più antichi e suggestivi della città, affrontando salite che risulterebbero difficili anche a piedi e si scoprono a ogni angolo gli empori, le lanterne in ferro battuto e le case con i panni stesi e tutto sembra così vicino da poterlo toccare. Mentre il tram serpeggia lungo le stradine secondarie di Graça, si possono scorgere le graziose guglie gemelle della chiesa de Sao Vicente de Fora e mentre si scende guardando dal lato sinistro appaiono le vedute fugaci del mosaico dei tetti rossi di Alfama, anche se stupiti e sorpresi dal continuo mutare dei panorami non può sfuggire la presenza improvvisa di ragazzi che si aggrappano pericolosamente alle porte del tram per evitare di salire e pagare il biglietto. Dalle strette vie del centro storico, all'aperta e spaziosa visuale che Praça do Comércio offre sull'estuario del Tago, i monumenti, le tombe, il suggestivo e moderno ponte del 25 aprile, il lungomare di Belem, con la sua fortezza protesa a difesa della città, Lisbona è tutta da vedere, ma il tempo scorre e i giorni della vacanza sono finiti troppo in fretta, lascio qui un pezzo del mio cuore, ma parto contenta immaginando mia figlia che si aggirerà fra questi quartieri e come una cantilena parlerà il portoghese con gli ospitali abitanti godendo del sole e del clima atlantico...a presto.

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Il posto dei vergognosi e il talento

5 Luglio 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #psicologia

Il posto dei vergognosi e il talento

Claire mi dice sempre: “Ma, secondo te, quello è fobico? Possibile che abbia così tante ragazze? Possibile che esca tutte le sere? Naaa.”
La fobia sociale è una sola, ma ognuno è fobico a modo suo, ognuno è se stesso, secondo il suo vissuto, l’ambiente, le abitudini e in una stessa famiglia un figlio nasce fobico e l’altro no. Sappiamo che è un problema di corteccia frontale.

"Analizzando gli elettroencefalogramma (EEG) dei bambini che presentavano IC era emerso in essi una maggiore attivazione della Corteccia Frontale Destra. La Corteccia Frontale è una parte del cervello che gioca un ruolo importante nella regolazione e nell’espressione della paura e delle altre emozioni: in particolare la parte destra della corteccia dimostra una maggiore attività durante le emozioni negative provate dal soggetto (rabbia, paura), mentre quella sinistra risulta essere più attiva durante l’elaborazione di emozioni positive (interesse, gioia). Per comprendere il motivo per cui questo dato risultava interessante dobbiamo precisare che la attività della Corteccia Frontale è strettamente collegata al ruolo dell’amigdala: questa parte del cervello, che deve il suo nome alla parola greca “mandorla” data la sua forma, controlla le emozioni come la paura, monitorando gli stimoli percepiti nel mondo esterno, rilevando eventuali pericoli e attivando, in caso di necessità, le risposte comportamentali e i cambiamenti fisiologici dell’organismo adatti per rispondervi. L’amigdala filtra gli stimoli provenienti dall’esterno, attivando l’organismo esclusivamente per stimoli ritenuti pericolosi. Ciò che permette il corretto funzionamento di questo “filtro” è un neuromodulatore, cioè una sostanza che regola le trasmissioni tra i neuroni, chiamato GABA: se questo non è presente in quantità sufficienti o non funziona come dovrebbe, alcuni stimoli risulteranno al soggetto pericolosi pur non essendolo. L’amigdala è inoltre influenzata dalla concentrazione di serotonina, un’altra sostanza legata al funzionamento dei neuroni, e a sua volta condiziona la presenza nel flusso ematico di cortisolo, un ormone rilasciato dalla ghiandola surrenale. Basse concentrazioni di serotonina nell’amigdala diminuiscono la presenza di GABA, aumentando la possibilità di manifestazioni ansiose; di conseguenza l’attivazione dell’amigdala induce la produzione di cortisolo, che ha lo scopo di mobilitare le risorse dell’organismo nel breve periodo di necessità per rispondere allo stress. Le persone che già nell’infanzia presentano IC sono caratterizzate di fatto da un maggiore livello di cortisolo salivare al mattino, da un ritmo cardiaco elevato, e crescendo, anche da una maggiore dilatazione pupillare nei momenti di esame o di prova, rispetto ai loro coetanei che non si dimostrano timidi o ritirati. E’ possibile ipotizzare dunque che coloro che svilupperanno ansia sociale abbiano vere e proprie differenze neurobiologiche rispetto a chi non è predisposto a sviluppare questa patologia. Possono presentare ad esempio problemi nei meccanismi di selezione degli stimoli ritenuti pericolosi, avendo una soglia molto bassa (difficoltà nella fase di input), o avere un’attività disfunzionale dell’amigdala (problemi nei processi legati alla paura) o attivare risposte comportamentali non proporzionali allo stimolo (ad esempio un aumento esagerato del rilascio del cortisolo, un forte aumento del battito cardiaco davanti a stimoli nuovi, una salivazione esagerata).

Questo brano è tratto da un interessante articolo sull'argomento che trovate qui

Perché non ci facciamo lobotomizzare dunque?

Le cose che fanno paura non sono le stesse per tutti. Alcuni temono il contatto con l’altro sesso, altri i colloqui di lavoro, gli esami dell’università, le occasioni sociali, mostrare le proprie doti artistiche o sportive, fare qualcosa in pubblico. C’è chi sta in ansia e avvampa alla cassa del supermercato, chi non può mangiare al ristorante. (Io ci mangio, ma preferisco quello che Manzoni chiamava “il posto dei vergognosi”, cioè di spalle), chi detesta il telefono (!!!!!)
Ricordate la famigerata ora di ginnastica alle scuole medie, quando nessuno ti aveva firmato l’esonero, e dovevi saltare il cavallo terrorizzata, sicura che ti saresti sfracellata al suolo sotto gli occhi delle compagne sghignazzanti?
Scherzi a parte, c’è chi prende di petto la sua disgrazia e chi si ritrae, chi ama mettersi in mostra e chi si nasconde, chi è ambizioso e chi vorrebbe solo vivere in pace. Io vi dico seguite la vostra natura, v’indicherà la strada, se qualcosa è fondamentale per voi, troverete il modo di farla, di petto se ne siete capaci, o aggirando l’ostacolo, delegando. Se avete sete, convincetevi, l’importante è bere, anche se, è chiaro, versarvi da soli l’acqua darebbe più soddisfazione. Mirate allo scopo e gettatevi alle spalle i sensi di colpa per non averlo raggiunto nel modo classico, come fanno gli altri. Voi avete i vostri metodi, i vostri tempi, voi siete voi.
Buttarsi e fare tutto quello che ci spaventa – come Violetta nel club dei timidi – può essere un buon allenamento, ma non deve diventare l’obbligo che trasforma in incubo ogni vostra giornata. Già è tanto faticoso vivere, già ogni gesto per gli altri naturale diventa per noi un fardello, una barriera, non sprechiamo tutta l’energia per fare ciò che non sappiamo fare, utilizziamola per sviluppare i nostri talenti, per enuclearli, per coltivarli, convogliamola su attività piacevoli, che possano farci progredire nella vita senza mortificarci, spossarci, sfinirci.
C’è, però, credo, una cosa che ci accomuna tutti: la paura di dar fastidio. Non è mai il momento per telefonare e si rimanda, mentre gli altri, chissà perché, ci chiamano sempre mentre nel giallo stanno per dirti chi è l’assassino, se c’è in tv l’ultima puntata della soap che segui da dieci anni, o quando metti in bocca la prima forchettata delle lasagne di mamma. Non è mai il momento di chiedere un favore o una raccomandazione, non è il caso di spedire il vostro manoscritto a quell’editor che vi hanno segnalato.
Se vi portano la pizza ai peperoni invece che la capricciosa che avevate ordinato, voi ve la mangiate zitti, anche quando siete allergici ai peperoni - perché quello in cucina, poverino, è un ragazzo che lavora, perché capite che magari è stressato pure lui come voi, mentre gli altri commensali - i vostri amici spavaldi, sfrontati - pretendono risarcimenti, scuse e un’altra pizza a tempo di record. Allora vi chiedo: qual è la persona migliore? L’arrogante che dice: “Pago dunque esigo”, oppure voi che sapete comprendere, mettervi nei panni dell’altro, entrare in empatia col cameriere il quale si è confuso, è andato nel pallone e non l’ha fatto apposta a sbagliare? Siete lo stupido che subisce e non sa farsi avanti o non, piuttosto, la persona comprensiva, intelligente, gentile, compassionevole? Imparate a guardare sempre anche l’altro lato della medaglia, il risvolto positivo di tutto ciò che siete e che fate, di ogni vostro comportamento. Non per mettere la testa sotto la sabbia e immaginarvi diversi, ma per esaminare le cose da ogni prospettiva possibile e rivalutare ciò che è da rivalutare. Chiedetevi: se non fossi io, come giudicherei questa azione?
Lo so, ci sono certi giorni che… che ti sembra tutto inutile, quello che fai nella vita pratica, il lavoro, quello che scrivi, che studi. I romanzi, i racconti, i saggi, le recensioni. Ore di studi matti, disperatissimi e inutilissimi. Perché tanto, di là, ci sono sempre i mulini a vento, i muri di gomma silenziosa, quelli che ridono di te, del tuo lavoro certosino e gratuito, quelli che dicono che sei buonista, che devi lasciare il campo ai professionisti, quelli ai quali “fai tenerezza”. Ci vuole costanza a tenere un blog senza che nessuno lo commenti mai, lasciando cadere le parole nel vuoto, come messaggi nella bottiglia. Costanza e ostinazione da mulo cretino, insensibile al dolore. Casomai ti sentisse un editore. Casomai ti seguisse un editor, un giornalista, un cazzo di qualcuno che conta. Invece ti sentono solo quelli che ridono del tuo impegno. Quelli che cercano sempre di convincere gli altri che non valgono per innalzare se stessi. Quelli del critico ergo sum. Quelli che, se ti arrabbi, ci godono e, se ti lamenti, sei una piagnona. O magari gli amici i quali, giustamente, ti dicono: “Lo fai perché ti piace, altrimenti nessuno potrebbe costringerti, lo fai perché lo sai fare.” E con questo ti pagano.
Ed è vero, lo fai perché senti che quella è la parte più vera di te stessa, quello che eri chiamata a fare ma non hai fatto per via della solita, maledetta, fobia sociale. Lo fai perché, mentre leggi, mentre studi, mentre scrivi, mentre ti documenti, stai bene e non ti manca nulla, sei nel tuo. Lo fai perché quelle sono le cose che fanno di te ciò che sei.
Specialmente se siete giovani, so che vi sentite in una palude di fango: la vita scorre e voi non riuscite a saltarci dentro. Gli amici si fidanzano, si sposano, fanno figli, trovano lavoro, avanzano nella carriera, cambiano città e voi sempre lì, al palo, ad aspettare che la soluzione arrivi dal cielo. Se vi va di piangere, fatelo, ma poi respirate e cominciate a guardarvi dentro, chiedetevi quali sono le cose che vi rappresentano, senza le quali la vita non sarebbe più la vostra ma quella di un altro, e muovetevi in quel senso. Seguite l’istinto, il talento, andate nella direzione di ciò che vi attrae, senza strappi, senza violenze, concentrandovi su ciò che state facendo, un passo dopo l’altro, come se esistesse solo quello. Non pensate a niente, non pensate al resto, a tutto quello che non saprete e non riuscirete mai a fare, pensate solo “adesso devo scrivere questa pagina, ora devo fare questa telefonata per me fondamentale, solo questa e nient’altro, ora devo mandare questa mail, poi si vedrà, accada quel che accada, ci penserò.” Da cosa nasce cosa, sempre. E, come diceva Rossella, domani è un altro giorno.

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Alberto Calligaris, "Ogni cosa che tocco è un'astronave"

4 Luglio 2014 , Scritto da Maria Vittoria Masserotti Con tag #maria vittoria masserotti, #recensioni

Alberto Calligaris, "Ogni cosa che tocco è un'astronave"

Ogni cosa che tocco è un’astronave

Alberto Calligaris

Non è possibile definire il genere di questo romanzo, sembrerebbe un thriller ma è molto di più. È un libro “forte”, tagliente e feroce. È, però, infarcito di cultura, non quella dozzinale che vendono al supermercato, cultura raffinata. Piccole spigolature dello scibile che le sai solo se hai cercato e cercato.

Sara, la protagonista, lavora in una libreria mentre fa finta di fare la studentessa, ed è da questa libreria che nasce tutto. “Dovevo smettere con questo bisogno continuo di stordire la realtà come se la vita fosse succo d’arancia a cui devi aggiungere sempre vodka per riuscire a berlo”.

Nasce un’avventura a tinte forti e suspense a fiumi.

Sara è una donna che ha una particolare visione maschile dell’uomo. “La seduzione è questa cosa orrenda che fanno gli uomini per cui riescono a convincerti che non ti faranno mai male. Poi scopri che godono solo sventrandoti e anche tu cominci a godere per il fatto di essere sventrata ogni volta, e questo è l’amore.

Scrivere al femminile per un maschio non è facile, come d’altra parte il contrario. Esistono emozioni che nascono dentro la pelle e, se non è di donna, è difficile che si riconoscano gli umori che secerne un corpo femminile, si possano descrivere, ma l’Autore rende la protagonista credibile, reale.

C’è un “gusto” per la violenza, nell’attardarsi nei particolari, che ha come contraltare una visone profonda dei sentimenti ed, insieme, un realismo pregnante nel descrivere la realtà vista dall’occhio attento della protagonista. “Quello che sto cercando di dire è che il gioco della letteratura funziona solo da digiuni, solo quando hai fame. Solo allora lo spirito si modifica, solo allora il cuore cambia il battito, la carne impara dal sangue, il sangue dall’aria nei polmoni.”

La mancanza di punteggiatura, in una larga parte del libro, tiene viva l’attenzione, dà un incredibile ritmo che, all’inizio, si fa fatica a prendere ma, una volta raggiunto, non ti accorgi neanche che la virgola è praticamente scomparsa, quasi sostituita dal punto. Frasi mozze che tagliano, che stridono come lametta sul vetro.

La dicotomia tra la profondità di alcune frasi, che si infilano come frecce nel lettore, e la violenza descritta con così cruda minuziosità, fanno nascere un enigma: quale sia la personalità dell’Autore. Enigma che per essere sciolto dovrà aspettare il suo prossimo libro, forse…

Maria Vittoria Masserotti

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In giro per l'Italia: Genova

3 Luglio 2014 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #luoghi da conoscere

In giro per l'Italia: Genova

Mi scrive Mattia e ci invita a trascorrere una tre giorni nella sua bella e poco conosciuta città: Genova. La Superba” ha una storia gloriosa alle spalle, grande repubblica marinara è una città intrigante, tutta da scoprire. Con la sua guida sicura ci inoltreremo nel centro centro storico, sul lungomare e seduti in qualche ristorantino scopriremo anche un'ottima cucina ascoltando le note di canzoni che hanno preso vita fra i vicoli del porto ad opera dei numerosi cantautori a cui Genova ha dato i natali.

ZENA... LA MIA CITTA'

Vi aspetto all'arrivo in stazione - Piazza Principe- da qui facilmente vi accompagnerò per raggiungere a piedi il famoso Acquario. L'attesa che potrebbe occorrere prima di entrare sarà ampiamente ricompensata dalla visita del più grande acquario d'Italia, il secondo in Europa (superato solo da quello di Valencia per importanza). In 10000 metri quadri di esposizione, 70 vasche, potrete ammirare acrobatici delfini, placide tartarughe, timide stelle marine, feroci squali, simpatici pinguini, foche giocherellone e coloratissimi pesci pagliaccio. Riemergendo dall'acquario vi ritroverete al centro del Porto Antico, una delle zone più turistiche della città. Sarete colpiti dalla presenza in porto del Neptune un vecchio galeone che da qualche anno è attraccato alla banchina, si tratta di un vero veliero in stile piratesco usato per il film “Pirati” di Polanski. Prima di lasciare il Porto Antico, saliremo sul Bigo, l'ascensore progettato dall'architetto Renzo Piano, ispirandosi a una gru per il carico e scarico merci del porto. Arriveremo a un'altezza di 40 metri e potremo ammirare, con una rotazione di 360 gradi, il suggestivo panorama di Genova coi suoi tetti di ardesia, le grandi chiese, le piazze, le colture a terrazze e spostando lo sguardo giù, il mare profondo e di un blu intenso. Se non ho sbagliato i tempi, potrebbe essere ora di fare uno “spuntino”, ci dirigeremo allora alla vicina piazza Fossatello presso il Forno Genovese dove assaggeremo le specialità della casa: focaccia condita con formaggio crescenza, pesto, olive, pomodorini e origano, una delle nostre delizie per il palato. Da qui passeremo velocemente attraverso i “carruggi” i tradizionali, stretti e ombrosi vicoli del cuore di Genova e non mancherò di portarvi a Via del Campo, cantata e resa famosa dal grande Fabrizio De Andrè. Prima di sera faremo in tempo a visitare la meravigliosa cattedrale di San Lorenzo, il più importante luogo di culto della città e vedremo anche il museo del tesoro, situato negli ambienti sotterranei della cattedrale. A questo punto si sarà fatta l'ora per la vostra prima cena genovese, e voglio offrirvi un'atmosfera intima, caratteristica a pochi passi dalla cattedrale, dove troveremo locande e trattorie che conciliano modernità e tradizione. Dopo cena, raggiungendo Piazza delle Erbe e gli innumerevoli vicoli che da lì si diramano, potremo assistere all'inizio della “movida” locale che ruota attorno al folto numero di enoteche, chupiterie, irish pub dove, durante il fine settimana, sono di rito convivialità e “sballo”. La seconda giornata a Genova sarà all'insegna dello shopping, vi condurrò attraverso la pedonale via San Vincenzo, al Caffè degli Orefici dove gusteremo un caffè prelibato e fantasioso al pistacchio o all'amaretto. Poi seguendo il corso arriveremo in Piazza XX settembre, principale arteria della città, centro dello shopping griffato, tutta negozi, uffici e palazzi imponenti, fino al Ponte Monumentale, altro luogo simbolo da non mancare. Da qui in un soffio potremo ammirare il Teatro Stabile, uno dei più importanti d'Italia, Piazza della Vittoria e il signorile palazzo Ducale. Giunti alla fine di via XX come la chiamano i genovesi, ci troveremo nei pressi di Porta Soprana, di fronte alla casa natia di Cristoforo Colombo. Per un veloce spuntino ci fermeremo presso il Mercato Orientale, un'esplosione di colori e profumi, fra commercianti che cantano in genovese e altri che strillano per decantare i loro prodotti. Quindi, tempo permettendo, vorrei farvi visitare il meraviglioso Parco di Genova-Nervi, ricco di alte palme e abitato da innumerevoli scoiattoli. La sera per finire in bellezza sosta a Boccadasse, un borgo di pescatori circondato da casette in tinta pastello, qui ci potremo accomodare in uno dei tanti ristorantini tipici che offrono meravigliose fragranti cene a base di pesce fresco. Il terzo giorno, lo trascorreremo tra palazzi e paesaggi, partendo da Via Balbi dove ammireremo grandi palazzi signorili. Qui si ergono i famosi “Rolli genovesi”, dimore appartenute a nobili famiglie che fanno oramai parte del patrimonio dell'Unesco e oggi sono sede di alcune facoltà dell'Università. Proseguendo a piedi sfoceremo in Via Cairoli e in Via Garibaldi dove si affacciano palazzi imponenti che raccontano le epopee familiari dei Doria, dei Pallavicini o degli Spinola. A seguire la visita ai Musei di palazzo Bianco, Palazzo Rosso e palazzo Reale e da non perdere assolutamente il museo di palazzo Tursi che conserva il violino di Nicolò Paganini,un altro genovese conosciuto in tutto il mondo. Faremo una sosta breve per rifocillarci presso il Caffè degli Specchi, caratteristico locale “zeniese” in stile Liberty definito dal poeta Dino Campana, “una grotta di porcellana”. Nel pomeriggio arriveremo a piazza Portello, dove con l'ascensore di Castelletto saliremo fino alla famosa “Spianata” da dove potremo godere nell'ideale ora del crepuscolo, di un panorama mozzafiato: Genova sarà ai vostri piedi, coi suoi campanili e i palazzi e il reticolo infinito di vicoli fino a perdere lo sguardo laggiù dove si staglia “La Lanterna” la torre simbolo della potenza marinara di Genova. L'ultima sera di fronte a un piatto di trofie al pesto, vi racconterò dei figli illustri della mia città: non solo Colombo e Paganini, ma anche Garibaldi e Mazzini, Andrea Doria, Renzo Piano per arrivare ai cantautori come Bindi, De Andrè, Lauzi, Tenco, Paoli e Fossati famosi nel mondo. Brindando con un bicchiere di Bianchetta del golfo del Tigullio, un vino DOC genovese, vi racconterò di Nietzsche che confessò a un amico” ogni volta che si va a Genova si riesce a evadere da sè”. Cosa aspettate a raggiungermi?

In giro per l'Italia: Genova
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Il "suo" biancomangiare è ora anche un poco mio

2 Luglio 2014 , Scritto da Raffaella Saba Con tag #raffaella saba, #luoghi da conoscere

Il "suo" biancomangiare è ora anche un poco mio

Evelin è una ragazza timida e riservata, con una spiccata attitudine: l’empatia. Riuscirebbe a trovare il meglio anche nel peggiore dei nemici di ognuno di noi. Ci siamo conosciute per motivi di lavoro: lei e il suo compagno avevano un b&b in una strada parallela alla nostra. Abbiamo iniziato nello stesso periodo, mese più mese meno, trovando da subito un’idea comune: accogliere gli altri condividendo gli spazi della nostra casa era una forza e non una privazione.

Le circonvoluzioni della vita hanno portato lei e il compagno a intraprendere un’altra avventura lontano da Palermo. Ma è una lontananza fisica, non senti/mentale. Ora dipinge (ecco il suo blogartistico), pubblica libri di ricette (davvero squisite) e scrive nel suo blog dedicato a Palermo ricette, curiosità legate ai piatti che prepara, tradizioni e luoghi.

La seguo da tanti anni, sbavando dietro ogni singola foto di manicaretti deliziosi. Questa volta ho deciso di cimentarmi in una ricetta di un dolce siciliano. Ero alla ricerca di qualcosa di nuovo da proporre per la colazione ai miei ospiti. Qualcosa di semplice ma accattivante, magari qualcosa con una storia alle spalle da poter raccontare. Così mi sono imbattuta nel Biancomangiare.

Cos’è? Il piatto è di origine medievale, può essere dolce o salato. Il suo colore bianco richiama la purezza (per la storia del piatto cliccate qui). La versione dolce la preferisco alla salata. Lo sciroppo di pistacchio esalta il connubio di latte di mandorla e cannella e i miei ospiti hanno gradito anche la storia che si racconta attorno a questo dolce.

A Palermo il biancomangiare compare per la prima volta nello scritto di Giuseppe Pitrè in La vita in Palermo cento e più anni fa. Nel Settecento, dunque, il dolce era presente in città e caratterizzava il monastero di Santa Caterina (in piazza Bellini, esattamente di fronte alla Chiesa della Martorana). Si legge nel testo del Pitrè:

Tutti i pasticcieri della città gareggiavano nel comporre d’ogni maniera ghiottornie: ma chi poteva mai raggiungere la squisitezza delle feddi (fette) del Cancelliere, dei frutti di pasta dolce di mandorle della Martorana, del riso dolce del Salvatore? Tutti preparavano conserva di scursunera (scorzanera): ma nessuno attingeva alla perfezione di Montevergine, come nessuno a quella della cucuzzata (zucca condita) e del bianco mangiare (specie di gelatina di crema di pollo) di S.a Caterina. Molti menavan vanto del loro pane di Spagna ma in confronto a quello della Pietà, qualunque dolciere doveva andarsi a riporre, lasciando che questo si contrastasse il primato con lo Stimmate nella bellezza delle sfinci ammilati, che pure nel medesimo monastero assurgevano a squisitezza impareggiabile nella forma delle sfinci fradici, composte di uova e panna.”

Del dolce era ghiotto anche Don Fabrizio, il personaggio del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che durante il ballo, si siede ad un tavolo per parlare e gustare un prelibato dolce:

Mentre degustava la raffinata mescolanza di biancomangiare, pistacchio e cannella racchiusa nei dolci che aveva scelti, don Fabrizio conversava con Pallavicino e…”

Se ho scoperto il biancomangiare lo devo alle curiosità che ha scritto la mia cara amica nel suo blog, dove trovate la ricetta: ora non vi resta che provare.

Grazie Evelin!

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