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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

laboratorio di narrativa

Adriana Pedicini, "Sazia di Luce"

22 Novembre 2013 , Scritto da Ida Verrei e Patrizia Poli Con tag #poesia, #recensioni, #poli patrizia, #ida verrei, #adriana pedicini, #Laboratorio di Narrativa, #gordiano lupi

Adriana Pedicini, "Sazia di Luce"

Sazia di Luce

Adriana Pedicini

Edizioni Il Foglio

pp 79

10,00

“Ogni volta non so se io viva o se sia un’altra che ricorda il passato

Adriana Pedicini è una poetessa di talento che ha portato avanti per molti anni la sua attività di docente di lettere classiche, e ora, dopo il pensionamento, nella piena maturità, presenta in pubblico la sua attività di scrittrice e il suo amore per la poesia.

Il libro, edito da Il Foglio, elegante, arricchito dai disegni di Anna Perrone, è una silloge di cinquantasette liriche che, come chiarisce la stessa autrice, si muovono circolarmente tra quei due poli antitetici che corrispondono al dolore che annienta e alla rinascita nella Fede.

Una raccolta di liriche che ripercorre sentieri dolorosi, esperienze che tracciano solchi profondi e si fanno poesia: versi che trovano, nell’espressività delle immagini e nella suggestione evocativa, la forza per ricreare atmosfere e stati d’animo.

Sazia di Luce, recita il titolo, e la sovrabbondanza di luce nasce dall’anima della poetessa, …e mi adagerò petalo impalpabile/ all’ombra del cipresso ad attendere/dietro la falcata nuvola nera/ l’indice di luce ad indicarmi la via…”, pur nella disperazione, nell’angoscia del rapido fluire delle cose, nello sconforto della malattia come metafora di uno stato di disfacimento dell’intera vita: “… Oggi è la storia/ cruenta di sempre”

In tutta la raccolta ricorre il registro elegiaco del ricordo, ma anche del senso amaro e duro della realtà, del mondo penoso dell’infermità fisica: … Ancora per poco vive/ libera la mia ansia e/ su muro bianco/di sole settembrino/si stempera/mentre sulle orme della sera/già plana l’angoscia. È lo sguardo attonito di fronte al mistero della morte, è il timore dell’inconoscibile, è il rimpianto per i chiarori di albe profumate di tiglio, per il profumo di mosto/e aria ebbra di vino. E allora nascono le interrogazioni, le domande perenni che dilaniano l’animo: che sarà di questo brandello di vita? Ricucirò i lembi di vecchia placenta?

Ma a questa dimensione crepuscolare si oppone la volontà di vivere e di agire, l’amore per la vita espresso nella quotidianità, negli affetti, nelle piccole e grandi cose di tutti i giorni.

“Il faut tenter de vivre”, recita Paul Valery, e Adriana, anche attraverso la fede, ritrova il senso della rinascita; la sofferenza si muta in luce che “sazia”, una gemma di vita e di speranza… profumo del Natale.

E allora, dopo la rivelazione del senso amaro della realtà, del mondo angoscioso della malattia, i versi rivisitano un mondo rassicurante, ritrovano la magia dei sentimenti, dei valori più autentici, la natura, le stagioni, la luce e i paesaggi, i suoni, gli odori, i colori: “Pigolio/il bisbiglio d’amore/ dei miei piccoli/ mi ha resa rondine/ che torna al suo nido/ con rinnovata scorta/ d’amore

… È tempo di cantare/ più dolci melodie

Il mutamento del paesaggio e delle atmosfere trova uno spiraglio di evasione e di sogno, pause contemplative, luoghi evocati e rivissuti attraverso l’emozione, ma anche con l’esercizio delicato dei sensi: “… a sera nel tremolio/ delle membra sotto turchina luce./ Ascolto solo/ la mia piccola città/ che pettegola, mormora…” È una provincia quasi appartata, ancora silenziosa, dove ha ancora un senso scorgere negli occhi un timido sorriso, legata alla dimensione della levità, come conquista di una serenità recuperata: è “Vita”.

La silloge si chiude con la domanda estrema/ che fu anche la prima./ Chi siamo? Adriana Pedicini trova la sua risposta nella Poesia e nella Fede. La vita non offre mai niente senza controparte, ma talvolta restituisce ciò che toglie.

Adriana Pedicini è imbevuta di studi classici. Lo stile di questa silloge lo dimostra, al punto da farne la sua peculiarità. I suoi sono versi dal sapore antico, con parole scelte e desuete. Ma non è il classicismo la sua vena migliore. Queste poesie sono state scritte in un momento difficilissimo della sua vita, ed ella, in lotta quotidiana con la malattia che devasta e toglie, le ha usate come sfogo ad un dolore che inchioda, come argine alla paura che mozza il respiro e “tinge di nero la prossima alba”. E i momenti più alti, più sublimi, non sono quelli in cui dà ordine al sentimento costringendolo nella forma classica, bensì quelli dove lo stile composto, trattenuto, lascia trapelare squarci di verità nuda, di parole scabre, quasi caproniane.

“Vita

Non conosco

la folla dei mercati

dei bar e delle piazze

delle strade lunghe

che nascono in periferia

silenziose e si svegliano

alle porte dei cantieri.

Non so

le brevi strade

colorate al mattino

di voci giovanili,

bisbiglianti amore

nei tardi crepuscoli,

silenti di parole

a sera nel tremolio

delle membra sotto turchina luce.

Ascolto solo

la mia piccola città

che pettegola, mormora,

trepida, soffre,

amo la vita della mia città antica

dove ha ancora un senso

scorgere negli occhi un timido sorriso.

Miracolo vivente

Mi hai appellata così,

vedendo la mia testa rasa,

sì, miracolo è vedermi

“senza” e non “con”,

vedere,

mentre a pezzi cade il corpo,

un’anima bambina

slanciarsi come sempre

ad afferrare lo spicchio di sole

che sbianca la parete

spalancare avidi gli occhi

sull’alba che fuga

i fantasmi della notte.

Il cuore piange e ride, giammai tedioso,

riposa sulla coltre grigia

della insensata calma.

Ogni giorno un guadagno,

ogni giorno un sassolino

bianco di luce segna i passi

dell’amore da fare insieme

finché…

finché l’ultima ora

scioglierà la promessa

di pur breve cammino.

Allora sarò ovunque

Ma sempre a voi vicina

Piccolo lume di fiamma viva a scaldarvi il cuore.

Qui non c’è artificio, non c’è manierismo, c’è solo un grumo di dolore che esplode, che dilania, un lago fondo di paura, il terrore della nera signora in agguato, pronta a strapparci ai figli, al sole, all’amore del compagno di una vita - uomo taciturno, forse austero, che ora frana nel dolore di lei. La malattia assale, la cura è ancor peggiore del male, si teme che non ci sia più tempo per gli affetti, e il panico tracima: “sarò cuore di cerbiatta spaurito, allo strepito dei rami di mirto”, diventando anche rabbia. “Non vorrei che la mano del destino/assetata arpia/mi trascinasse via/mentre spuma di rabbia/m’illividisce il volto. L’autrice si abbarbica all’amore dei figli che mai vorrebbe lasciare: “Saranno miei rami le braccia dei figli”, si ribella a un destino che nessuno di noi accetta.

Il rifugio nella fede è, sì, consolazione ma raramente abbandono, la ferita è troppo aspra, la lacerazione troppo insopportabile. Qualunque cosa è meglio che morire, qualunque cosa è vita, anche i ricordi della guerra, di un tempo amaro in cui, almeno, si aveva la possibilità di lottare e la speranza di sopravvivere.

Ma le radici sono forti, lo spirito è come roccia tenace che sa sempre risorgere, aggrapparsi, se non proprio alla speranza, almeno agli sprazzi di vita, alla natura, al profumo del Natale, (sia pur in “uggioso avvento”), della primavera, della natura. Così si ritagliano “lampi di serene giornate” mentre la fiducia rinasce, così si ha anche un pensiero cristiano per i poveri, gli abbandonati, i derelitti.

L’autrice si mostra in tutta la sua fragilità, con i suoi timidi rossori, il suo cuore di cerbiatta spaurita di fronte al fucile puntato, i suoi pudori che nascondono passioni sotterranee. L’impatto emotivo è immediato - nonostante il filtro della tecnica - dirompente, commovente. Le poesie migliori sono quelle dove non si cercano belle immagini ma ci si mette a nudo, crocifissi dal dolore, e le parola vita, vivente, sono ripetute ad esorcizzare il buio, a gridare il proprio incrollabile desiderio di rimanere ancora su questa terra.

Ida Verrei e Patrizia Poli

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Il meglio di Laboratorio di Narrativa: Marco Claudio Valerio

17 Novembre 2013 , Scritto da Laboratorio di Narrativa Con tag #Laboratorio di Narrativa, #racconto, #poli patrizia, #ida verrei

Un racconto originale, “You Wan Chou” di Marco Claudio Valerio, cui dà un senso il sorprendente, vivificatore, finale, lasciato presagire da innumerevoli indizi e, tuttavia, inaspettato.

Quando la bufera investe e travolge mondi ed esistenze, quando “l’estrema violenza ruba, schiaccia e sbriciola moltitudine di vite”, non resta che “abbandonare lo sguardo al cielo” e aggrapparsi alle certezze di una quotidianità che rassicura. È quanto fa il monaco You Wan Chou un mattino d’estate: con apparente serenità s’immerge nel suo mondo di sempre e si rifugia nella luce del sorriso della sacra Statua. “Poco conta dove il monaco fosse”. E invece conta, eccome, e lo scopriremo alla fine.

L’atmosfera che si respira è frutto di particolari che si accumulano, disegnati minuziosamente, dipinti su una lacca giapponese, intarsiati nel legno, lavorati nell’oro, nella ceralacca, odorosi d’incenso e di fiori. Con voluta lentezza, l’autore ci parla di un tempo che rotola piano; di preghiere che portano con sé “desideri di un fiorire nuovo nel cuore”, memorie che si sovrappongono al presente; in quel Tempio, dove la ricerca del divino trasforma la percezione dello spazio. Da “orizzontale”, esso diviene “verticale”: perenne aspirazione dell’umana tensione al cielo. Ma, mentre il riflettere lento sulla preghiera come esortazione e speranza, sull’infinità del pensiero senza confini, sembra condurci, attraverso il fluire del tempo, ad un’estatica contemplazione del divino, una data, 9 agosto millenovecentoquarantacinque… un nome… Nagasaki… “l’ombra scura del bonzo impressa nelle pietre di uno spezzone di muro”, ci pongono di fronte al senso della umana finitezza: caduta e scomposizione in miliardi di atomi, pur se “luce nella luceenergia nell’energia…” Atroce ricordo dell’umana follia!

“Un monaco quando prega affonda nella sostanza della materia”. Ed è ciò che accade quando quei “venti di guerra”, “quel cielo gravido di ogni sorta di maleficio”, si rivelano per ciò che sono. Raggiungerà il suo scopo, il monaco, si scomporrà nella luce, che corre veloce come il pensiero, energia nell’energia.

Un periodare lungo e complesso, che quasi dimentica virgole, punti e relative, per seguire il ritmo del pensiero e della musica interiore.

Patrizia Poli e Ida Verrei

You Wan Chou

Marco Claudio Valerio

I venti di guerra, nel loro spirare attraverso le nostre esistenze, ci portano il desiderio ed anche la volontà di porre l’incertezza, nel tempo che rimane da vivere, nelle mani e volontà di entità a noi superiori, raccogliersi nell’intimo del proprio cuore rivolgendo gli occhi al cielo e affondando in esso con la speranza generata dalla preghiera che il “ tutto ” sappia conservarci in quel turbinio che ci aiuta a sentire la realtà, nonostante l’essere immersi in abnormi condizioni che sovente scavalcano oltrepassando a piè pari la cognizione dell’assurdo, scivolando lentamente ed inesorabilmente verso il compatibile incongruo rappresentato dall’estrema violenza che ruba, schiaccia, sbriciola e vilipende non una ma in quantificabile moltitudine di vite.

Il vento poi diviene bufera, colmando ogni interstizio della vita e bruciando al suo passare ogni seppur minimo simulacro di normalità. La ferocia, l’arroganza e la stupidità, con il passare dei mesi, vengono metabolizzate, digerite come un pasto pesante, dapprima con dolori all’addome e poi con un senso di nausea così da far proprie le ignobili condizioni dell’essere e ci si abitua all’enormità del bere l’amaro fiele di una supposta normalità da cercare e vivere, potendo giustificare la propria esistenza. In questa folle incongruenza si abbandona lo sguardo al cielo e si è sempre più spesso propensi a volgerlo a terra, così da assicurarsi di non calpestare anche quell’ultimo barlume di saggezza che viene inesorabilmente relegato nella mera sopravvivenza.

Così in quel mattino d’estate, alle prime luci dell’alba il monaco You Wan Chou lasciava il suo giaciglio e a passi lenti e pesanti si dirigeva alla fontana nel centro del minuscolo giardino. Il calore del giorno precedente si era dissipato nella bruma della notte, l’erba del piccolo prato era ancora madida di sudore, l’acqua dalla fontana scendeva fresca, gorgogliando a festeggiare quel lucente albeggiare parzialmente celato da nuvole sottili che lasciavano trasparire il blu di un cielo gravido di ogni sorta di maleficio e di quotidiana follia del vivere accettando che l’ombra oscura della morte cammini impavida al nostro fianco.

Un lento movimento delle mani a raccogliere i manicotti della colorata veste, ripiegandoli su se stessi, così da esporre avambracci nudi e scarni che affondavano nella frescura dell’acqua, sollevandone mani a conca ricolme di quella fonte di vita, il capo chino a lasciarsi aspergere creando la sensazione che dissolve in ogni più piccola goccia le nebbie della notte spalancando al giorno a venire la volontà ed il desiderio di fare di quella giornata il momento felice di una preghiera intensa e profonda. Quando il tamburo della guerra batte il suo ritmo siamo tutti stranieri in terra straniera, siamo tutti infelici di ciò che ci circonda eppure tutti continuiamo a porre un piede innanzi all’altro camminando a passi lenti e grevi come simulacro di normalità verso il nostro futuro, così, poco conta dove il monaco fosse, così poco conta da dove venisse.

Dal chiostro alla porta interna del tempio, dalla luce del sole alla penombra delle lacrime e dei desideri, del Budda…, chinando e reclinando il capo sino a giungere sommesso al centro del vuoto spazio il monaco si distese a terra sull’unico quadro di nuda pietra del pavimento posando la fronte ancora imperlata d’acqua; salutava così per il giorno, l’immagine sacra, rialzatosi e indietreggiato a lato del muro guardò la realtà degli eventi nella loro quotidianità, la ramazza il secchio la paletta per la cenere, nuovi incensi a sostituire quelli consumati dalla notte, togliere laddove possibile i sedimenti della polvere dai cuscini, muovere i grandi ventagli per far circolare nuova aria.

Uscire verso l’attiguo monastero, cambiare la veste, radersi il capo, cospargere di fiori il piccolissimo stagno, strofinarsi le mani nei petali del loto, immergersi nel profumo dell’incenso del piccolo tempio e con un sorriso solo apparentemente innaturale, a passi lenti e cadenzati ritornare al tempio e di qui alla porta principale per aprirla. Da molto tempo oramai era poca la gente in attesa, da molto tempo erano così poche le preghiere che si innalzavano al Lucente, eppure la speranza non demordeva, eppure la consapevolezza che in un modo o nell’altro “ quel tempo ” sarebbe finito faceva copiare nel volto del monaco il sorriso della grande statua solo parzialmente dorata.

Nel piccolo cortile d’entrata tra le mura maestre e la recinzione, il sole filtrava a fiotti di luce tra il fogliame verde dei pruni e quello grigio dei gelsi, i guardiani di pietra, immoti, guardavano ad est, il lastricato riluceva ancora della rugiada del mattino rifrangendo i raggi in mille scintille, una anziana donna nel suo scuro kimono attendeva seduta alla panca di pietra teneva le mani in grembo abbandonate e prive di nerbo, frasche odorose nella destra e nella sinistra la grande spirale d’incenso, attendeva senza fiatare, serena il suo momento di pace a contatto con l’infinito. You Wan Chou incontrò i suoi occhi, pozzi profondi di dolore e speranza, chinato il capo in segno di saluto e allargate le braccia ad accogliere girò su se stesso e con fare solenne aprì completamente i battenti di legno colorati ed incisi di mille storie di vita e di credo.

Le ore passavano lente come il battito del timpano che accompagna il ricordo di una danza del tempo passato, qualche vecchio si apprestava ad entrare, lasciare il suo obolo e il suo profumo d’incenso alla speranza che tutto potesse passare in quell’’immutato tempo di dolore e sofferenza, qualche giovane donna con il ricordo lontano di tempi belli di fioritura e d’amore cercava tra le solide mura il conforto o la speranza di udire una voce lontana che la richiamava, brevi passaggi densi di dolore e tristezza eppur così ricchi di un pensiero capace di superare le nubi e cogliere il colore della vita a venire, qualunque questa possa essere ovunque questa possa realizzarsi al di fuori di quell’incubo inumano che è la guerra.

Quando il sole fu forte nel mezzo del cielo e iniziò a penetrare in sghembi raggi dagli alti lucernai del tempio ferendo il denso fumo delle spirali d’incenso, dipingendo di ceralacca le travi e le colonne, quando oramai la certezza che alcuno si sarebbe più inoltrato tra le porte massicce in quella rossa penombra di credo; il bonzo, passando vicino alla sorda campana la percosse sei volte per poi prendere da un lato il suo cuscino e lasciarlo cadere di fronte alla statua, raccolse dal lato opposto il suo piccolo Mani, tornato al cuscino vi ci sedette e chiuse gli occhi il piccolo mulinello della preghiera ruotava nella mano destra accarezzato dalla sinistra, un sospiro profondo ad accompagnare gli ultimi riverberi del bronzo della campana parevano ovattare ancor di più se mai possibile quell’ambiente rendendolo fuori dal tempo e dal mondo, il sant’uomo sprofondò allora in un fiume di pensieri ed immagini.

Il tempio lo aveva accolto nel suo ventre opalescente molti anni addietro, quando la sua vita era un forte virgulto di bambù, le antiche mura gli avevano parlato per anni negli anni di pellegrini, credenti che cercavano il loro mantra, disperati d’ogni sorta che chiedevano un attimo di ristoro e cuori felici che donavano come a voler ripagare il bene ricevuto, poi qualche profondo pensiero lasciato tra luce e ombra di giorni d’estate pennellati nell’intarsio delle travi, molti “desideri” posti come preghiera come petali di fiori di pruno ad invadere le lunghe e tante primavere trascorse, altrettanti i dolori trasmessi come messaggio del difficile passare del tempo che come spifferi feroci dell’inverno freddo e violento arrivavano a coprire la porta di leggera e spumosa neve candida sciogliendosi ai primi soli tiepidi così i graffi delle effige del tempo nel legno, lunghe le attese di un ritorno o di una dipartita come foglie ingiallite che cadono una ad una nell’abbreviarsi delle giornate d’autunno.

Dubbi sulla propria esistenza ed il suo valore, certezze sul rotolare del tempo verso la direzione che gli eventi portano con loro, desideri di un fiorire nuovo nel cuore e volontà perché quel tempo avesse da finire e con lui la memoria del male, promesse fatte a se stessi e agli altri così poco spesso mantenute, ricerche di un io a volte nascosto nelle pieghe di un’esistenza che non corrisponde alla desiderata, semplici gesti del cuore e forti moti di rabbia si erano stampati in quel legno del soffitto come l’acre odore d’incenso, inglobati nella seta degli stendardi che si muovevano a ricordo delle nuvole in cielo. Il tutto gli passava attraverso il corpo e l’anima, assorbendo le sensazioni e le emozioni, le conteneva assommandole ai suoi pensieri per poi essere pronto a raccogliere una piccola lamina d’oro per ricoprire un nuovo lembo del bronzo levigato e nudo.

Posato il piccolo mulinello della preghiera sulla destra del cuscino, aprì gli occhi e fissando il vuoto oltre le mura, oltre i monti e oltre la terrena esistenza lasciò che le immagini si componessero agli occhi della mente come a quelli del presente sovrapponendole.

L’aria nel tempio era densa di fumo e profumo, gravida di quella tensione che sottende il viaggio nel profondo dell’umano a cercare il divino che esso contiene, colori apparentemente smorti per la fioca luce si rincorrevano veloci nei molteplici vortici delle spirali d’incenso e del fumo che lento saliva verso il soffitto, la lignea struttura con incastri, travi e colonne modificava la percezione dello spazio trasformando come per incanto l’asse del percepire da orizzontale a verticale; dovuto tributo al tendere al cielo, un cielo, quello interno al tempio seminascosto dai rossi drappi di seta e offuscato dal fumo denso delle spirali e delle lampade ad olio. La luce del giorno non entrava mai direttamente, rifranta da tendaggi e complessi sistemi di portelloni si diffondeva come nuvole barocche che conquistano il cielo azzurro in refoli di vento che si rincorrono. Centro gravitazionale di quel minuscolo universo caotico la statua del Luminoso, immota come a voler dire che il tempo scorre oltre il suo essere lasciando intatte le sembianze e le parole scritte nella pietra del mondo.

Ai due opposti lati della statua la fila dei Mani delle preghiere, grandi cilindri di legno laccato che contengono lo spirito che si eleva a cercare ed accogliere, teso ad incontrare, parole antiche scritte e riscritte dal tempo e dall’umano sentire, metamorfosi costante di un capo chino rivolto alla sua sentita origine, parole pesanti di legge e dottrina, frasi leggere come canti di fiori che si schiudono al sole, pensieri enormi nella loro semplicità che tendono all’anima globale del mondo, sentimenti di grandezza a volte percepita come superiore a quella dell’essere umano. Sulla destra come soglia d’entrata alle preghiere la rozza campana di bronzo appesa a travi variopinte di legno intarsiato, effige di volti, intagli di occhi, colore di gote accese all’ardore, e il bronzo fuso nel tempo antico colmo di bugne ad assorbirne la vibrazione e smorzare i toni acuti che troppo veloci nella loro vibrazione non arrivano al cielo.

Di fronte alla statua bracieri colmi di cenere e un numero incredibile di sottili dita frementi e tese verso il serafico sorriso emanando il profumo al cielo verso l’orizzonte lì dove terra incontra, a lato di questi, piccoli brandelli di stoffa arpionati all’uncino che saldi li tiene innanzi all’occhio ridente e mesto di chi ha lasciato le grandi parole. Ogni uno di questi una preghiera, un’esortazione una speranza, multicolore forma degli esseri umani innanzi al grande, You Wan Chou ne sentiva nei polpastrelli la diversa consistenza, così come aveva incontrato le diverse anime delle genti che a lui venivano pregando e chiedendo, liscia seta raffinata, forte corda stirata, consunto lino e calda lana tessuta stretta.

Nulla può contenere il pensiero, nulla può limitarne i confini, ed ecco alle pareti interne fodere di legno lavorate e ricamate dalla mano dell’uomo con l’ausilio della natura, millanta anni passati a crescere nell’equilibrio, solo questo può contenere l’idea, non scatola chiusa ma acuminato tempo che come punta di lancia fende la realtà portandosi appresso il profumo e l’odore della mano che l’ha scoccata, della corda che l’ha sospinta dell’altro legno che ha caricato la corda. Profondo mistero dell’equilibrio celeste che nasce dal tempo e in questo si rinnova, infiniti gli intagli molteplici i colori rinnovati e cambiati ancora una volta terra su legno semi su fibre sogno su dura realtà.

Opalescenti lastre di pietra che lasciano entrare la luce poca alla volta, senza mai esagerare senza mai permettere al moto del tempo di essere in alcun modo violento, antica pietra levigata da mani antiche, nulla nasce dal nulla e nulla muore nel nulla, tutto si trasforma, tutto diviene parte del totale per poi tornare ad essere particolare, il seme dal frutto, le mani dall’amore, il legno dal seme, il volto dalla propria genia, il pensiero poi dalla forza e dall’equilibrio del mondo che ci circonda e che come le rosse vele del soffitto, lasciano trasparire soffusa e confusa, la realtà, che nelle mani non sappiamo e non possiamo contenere.

Appese e aggrappate alle pareti panche di legno grezzo, scure dal tempo e lisce dall’uso, infisse in un pavimento di lunghe tavole che delle vene del legno fanno onde lievi al sentire della pianta del piede delicatamente vestita dal feltro dei calzari, lisa e consunta la polpa del legno a distanziare e unire la lisa e più scura vena disegnata dagli anni, multicolori cuscini di seta a comporne un dipinto fatto di macchie di vividi rossi, gialli solari e profondi blu del cobalto. Involucro sacro, scrigno di pensieri e di volontà, nave pesante e sicura che và nel tempo che si srotola, a volte lento a volte burrascoso come i giorni che ora passavano sopra il chino capo dei molti.

Così guardava il bonzo attorno a se stesso, così con lo sguardo sfocato oltre i confini della misera vista, lasciando che il palpitare del tempio lo aiutasse a vibrare con il sospiro lento e regolare dell’universo intero, quelle immagini quel sentire lo aiutavano nel ricercare, nel comprendere e per poi sprofondare meditando a larghe spirali di falco nel cielo che osserva il terreno; calandosi dentro la consapevolezza della luce emanata dal sorriso dell’effige che innanzi a lui si ergeva, solido bronzo forgiato con amore, levigato con pazienza e solo parzialmente coperto di piccole lamine d’oro.

Il mattino si assottigliava sempre più arrendendosi verso lo zenit del giorno, un monaco quando prega affonda nella sostanza della materia e di questa diviene parte e sostanza, …il vuoto è forma, la forma è vuoto ... così recita la sutra del cuore, così in quegli istanti la mente di You Wan Chou
Pronto a ricevere il tutto, pronto a dare il tutto perché solo così si può sperare che il male possa corrispondere al bene come qualità e quantità perché solo così si arriva a confondere il significato ed il valore dell’equilibrio creandone una nuova dimensione che possa toccare la …


….la luce che corre veloce quasi come il pensiero, lento e grezzo invece il suono segue le malefiche spire dell’aria che lo frena, che lo costringe a muovere tutto…

… nel fragile lembo di pensiero che ci separa dal precipizio del divino che conteniamo in noi e nella nostra profondità, succede a volte di precipitare e cadere oltre la linea, You Wan Chou il monaco al culmine della sua preghiera sentì d’essere caduto oltre, luce nella luce, materia nella materia e …

… si scompose in miliardi di atomi diseguali nell’essenza e nel tempo… energia nell’energia ….

Era il nove Agosto dell’anno millenocentoquarantacinque dell’era dei Cristiani, alle undici e due minuti del mattino il sole splendeva, una… due… tre … quattro ….. millanta volte nel cielo e sulla terra tra le case e le strade di Nagasaki.


… ora, oggi, l’ombra scura del bonzo impressa per sempre nelle poche nude e ricotte pietre di quello spezzone di muro che ancora è rimasto a fronteggiare gli eventi, quella sagoma scura ci parla della sua preghiera, del sorriso e del pianto, della forza e della violenza, del sereno immutato dell’universo, parla a chi ha il coraggio di saperla e volerla ascoltare, nell’infinitesimamente piccoli di cui siamo composti ma …,
… luce nella luce…, materia nella materia …, energia nell’energia….

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Il meglio di Laboratorio di Narrativa: Margareta Nemo

22 Agosto 2013 , Scritto da Laboratorio di Narrativa Con tag #Laboratorio di Narrativa, #poli patrizia, #ida verrei, #racconto, #margareta nemo

La “Deriva” del racconto di Margareta Nemo appartiene a una vita che ha perso la rotta dopo un trauma. C’è stato un incidente, la protagonista ne è vittima e carnefice insieme, rovina la propria e l’altrui esistenza, diventa bersaglio d’un odio che non sa né accettare né combattere, non più padrona di sé ma fantoccio accompagnato, incoraggiato, aiutato da sempre meno persone. Ciò causa una depressione che “tira fuori gli scheletri dall’armadio e li fa ballare” ma è pure emblema di un’esistenza caratterizzata dal vuoto, dal senso d’inutilità, dall’incapacità di affrontare i conflitti, da inezie che esasperano e orrori che diventano quotidiani.

Nuotare all’infinito, senza pensare a nulla, lasciare che l’acqua scompigli i capelli, aggrapparsi ad una boa che scivola tra le braccia senza darti sostegno, e superarla, e sorpassare anche la seconda e poi la terza… Sempre più avanti, fino a diventare un minuscolo puntino per chi guarda indifferente dalla riva, sempre più lontano, fino a scomparire, alla deriva. La deriva del nuoto, il mare sempre più vuoto e cupo rappresentazione di una solitudine sconfinata, prima subita poi ricercata, in ultimo diventata parte di sé, irrinunciabile, dove i parenti danno “fastidio” e gli amici sono sempre più radi e “inutili”, dove si galleggia senza mai ovviare al senso di colpa per quando si è compiuto il male con fiacchezza, con distrazione, ma anche per l’incapacità di riprendere in mano la propria vita che sta passando senza coraggio, senza nerbo, senza la forza di rimettersi in gioco. È ciò che fa la protagonista di questo racconto, e il suo veleggiare senza meta è, appunto, metafora di una vita che non trova appigli. Rotola tra le onde, tra ricordi, incubi e fantasmi. Memorie di fastidi scambiati per sofferenze, noie confuse col dolore. E poi “quello”… L’orrore “accettato come quotidianità”. La vita è una folla di solitudini e di silenzi, le mani che si tendono scivolano via, bisogna arrendersi alla fragilità della propria esistenza.

Il racconto ha un ritmo incalzante, ti avvolge come l’acqua di quel mare che assume man mano il “colore metallico della sera”: una scrittura che riesce trasmettere tutta l’angoscia che sembra averla ispirata. Il periodare è robusto, “virile”. Certi particolari come le “impronte unte delle dita sulle stanghe degli occhiali” dilatano il senso di angoscia, di soffocamento, di peso che grava sul petto, di bracciata faticosa volta a prendereil largo dagli altri ma anche da se stessi.

Patrizia Poli e Ida Verrei

DERIVA

Mi sono alzata a sedere e ho le vertigini, devo aver dormito almeno un’ora. Adesso il sole è a picco sopra la mia testa e a parte il suono della risacca e delle cicale nella pineta qua dietro, il silenzio è perfetto. Mi guardo intorno, ma non sono rimaste molte persone in spiaggia. Come se non bastasse il torpore insistente del sonno, sento una fastidiosa sensazione allo stomaco, non una nausea vera e propria, ma una specie di formicolio, a segnalarmi che ho già preso troppo sole. Oggi è uno di quei giorni di calura opprimente che ti intontiscono fino a farti fischiare le orecchie e impastarti la lingua e se cercassi di parlare con qualcuno probabilmente non riuscirei a pronunciare bene le parole. La vista del mare è più che accattivante.
Di solito mi danno fastidio i cambi di temperatura repentini, ma ho la pelle abbastanza scottata da non sentire il freddo dell’acqua e le onde che si infrangono contro il mio corpo mi provocano appena una vaga sensazione di sollievo. Forse perché fra un attimo potrò immergermi completamente e sottrarre anche la testa alla morsa del sole. Non c’è quasi nessuno a fare il bagno e ho voglia di nuotare più al largo di tutti, per vedere solo il mare davanti a me.
Ho imparato a nuotare in questa località, a cinque o sei anni ed è stata una delle scoperte migliori della mia infanzia. Facevo a gara con me stessa per nuotare sempre più lontano e sognavo di superare una tappa alla volta tutte le boe, fino a raggiungere il limite della zona bagnanti. Di solito raggiungevo al massimo la prima e da lì osservavo soddisfatta la spiaggia e le persone, divenute improvvisamente minuscoli esseri sotto minuscoli ombrelloni, come modellini di se stesse. La boa da vicino però non era quell’insignificante pallino rosso che si vede dalla spiaggia, ma un globo piriforme di plastica dura, largo circa una volta e mezzo il mio torace, con un gancio in cima. Di conseguenza riposarsi aggrappandosi alla boa non era affatto semplice, ci si poteva solo afferrare al gancio o abbracciarla, ma in entrambi i casi il mio peso la faceva rovesciare e finivo sott’acqua. Quindi anche una volta raggiunta la boa non potevo smettere di nuotare. Ma potevo giocare ad annegare e anche quello era divertente. Poi verso i quindici anni ho cominciato ad avere paura dell’acqua fonda e ho smesso.
In ogni caso non sarà difficile superare gli altri, la maggior parte della gente qui sguazza nell’acqua bassa, come se immergendosi fino alla vita avessero paura d’essere trascinati nell’oceano. Forse mi stanno guardando con apprensione. Se annego e le onde riportano a riva il mio cadavere potrei rovinargli la giornata.
Nuotare è diventato più faticoso di quel che pensavo e questa mezza insolazione non aiuta. Ma non dovrei avere problemi a raggiungere almeno la prima boa e così concludere degnamente la settimana. È stata un’ottima idea prendermi questa vacanza, vorrei non dover tornare mai più. Al solo pensiero di tutta la valanga di preoccupazioni che mi aspettano al ritorno, mi si mozza il fiato, è come se innalzassero una montagna subito dietro a questa spiaggia e alle colline che la delimitano, lì pronte a rovesciarmisi addosso sogghignanti con la loro marea di occhi beffardi che mi fissano soddisfatti. Pensavi di poter scappare, eh? E dove vorresti andare? Attraversare a nuoto l’oceano? Per fuggire dove?
D’un tratto mi riassale il pensiero di tutto quello che è successo negli ultimi due anni. I corridoi freddi dell’ospedale, le lettere all’assicuratore, il proprietario della casa, l’appuntamento dal medico, l’avvocato e il suo studio tappezzato di foto di macchine da corsa e diplomi, i suoi occhiali con la montatura sottile e le lenti spesse, quasi a specchio, che non permettono mai di vederne chiaramente lo sguardo e le impronte unte delle sue dita vicino all’attaccatura delle stanghe. La posta nella cassetta, gli sguardi dei vicini, le telefonate fastidiose dei parenti e le telefonate inutili agli amici. Sento il cuore che accelera e la nausea salirmi ad ondate dallo stomaco alla testa.

Sono sott’acqua. Non voglio pensare a nulla, se non alla sensazione dell’acqua che mi scompiglia i capelli. Riemergo e improvvisamente non sento più la stanchezza. Il paesaggio è diventato tutto rosso, tanto sono abbagliati i miei occhi per la luce, ma ho voglia di nuotare ancora.
Non so se è colpa dei cambi climatici, dei condizionatori o del fatto che da adulti si diventa indifferenti a queste cose, ma se cerco di ricordare una giornata calda come questa devo tornare indietro di più di dieci anni. Credo che fosse durante la prima o la seconda superiore, frequentavo un corso di teatro. Le lezioni si svolgevano verso le due del pomeriggio, in un vecchio edificio con un giardino incolto, poco lontano dalla mia scuola. Io e gli altri ragazzi del corso, dopo scuola, invece di tornare a casa, andavamo a sederci sul marciapiedi davanti al pesante cancello di ferro del teatro e passavamo quei trenta o quaranta minuti chiacchierando e fumando. Le ultime lezioni caddero ad estate inoltrata, il caldo a quell’ora era quasi insopportabile e ci stringevamo tutti nella stretta striscia di marciapiede in cui all’ombra sottile del muro si sovrapponevano quelle degli alberi del giardino. La luce sui muri degli edifici circostanti era accecante, l’aria era secca, odorava di polvere, e c’era un silenzio accaldato, accompagnato sempre da un sottile e quasi impercettibile ronzio, che dovendolo descrivere per me rappresentava il suono dell’estate.
Era un bel periodo, ma non ero contenta. Avevo la sensazione che mi mancasse qualcosa e che quei giorni fossero incompleti e scorressero inutilmente. In realtà, anche se in forme diverse, quella sensazione mi ha accompagnato sempre. In barba a tutto il mio sfrenato desiderio d’originalità ho sempre fatto l’errore banalissimo di confondere il fastidio con la sofferenza e la noia con l’infelicità. È un ottimo modo per passare anni facendosi portare all’esasperazione da inezie per poi magari imbattersi nell’orrore e accettarlo come quotidianità.

Mi ricordo l’incidente con una lucidità agghiacciante, la macchina che sbanda, la mia mano che cerca qualcosa a cui aggrapparsi, l’urlo che in quei momenti lenti come l’eternità decido consapevolmente di emettere, per restare in qualche modo padrona di me stessa e mantenere un contatto col mondo, il silenzio sospeso e poi lo scontro. Tutto quello che c’è stato dopo lo ricordo a sprazzi. Due anni in cui la mia vita è sprofondata progressivamente nel caos e ad ogni colpo ne sono seguiti altri, precisi e infallibili. Come se le lamiere della Golf mi si fossero ficcate nel cervello e da lì avessero preso a trasformare tutta la mia esistenza in un unico grande groviglio di rottami. I problemi non vengono mai da soli e tutto ciò che credi ti dia sicurezza serve solo per essere, nei momenti decisivi, un colpo in più inferto al tuo equilibrio. E poi, quando ogni cosa è sottosopra, gli scheletri che hai cautamente rinchiuso nell’armadio per anni ed anni saltano fuori allegramente per ballare e cantare tutti insieme sulle macerie.

Non posso biasimare nessuno per aver deciso di girarmi alla larga, vorrei girarmi alla larga anch’io. Ma non posso mollare tutta la mia vita per andare alla deriva nell’oceano.

Nel frattempo ho continuato a nuotare e ho superato di gran lunga la prima boa. Stranamente non mi sento stanca e non ho voglia di uscire dall’acqua. Cercherò di raggiungere anche la seconda, sono sempre in tempo per tornare indietro. Il sole che poco fa era ancora a picco adesso è già sceso ed è possibile vederlo anche senza alzare la testa. Sott’acqua, all’altezza dei miei piedi, più o meno, ci sono alcune piccole meduse arancioni. Non fosse per il colore sarebbe difficile distinguerle perché in questo tratto di mare l’acqua man mano che diventa profonda si fa sempre più torbida. So per esperienza che sono innocue. Vorrei catturarne una, ma sono incredibilmente rapide a scappare ogni volta che cerco di afferrarle. In un attimo si girano e schizzano verso il fondo.

C’è anche chi riesce a prenderle. Da piccola quando vedevo dei ragazzi che le catturavano per poi buttarle ad essiccare sulla spiaggia, mi facevano una gran pena. Una volta feci amicizia con una bambina un po’ più grande di me, con i capelli corti e l’aria da maschiaccio, e mentre giocavamo per i fatti nostri ci accorgemmo che poco più in là un gruppo di adolescenti aveva preso delle meduse e le esibiva sulla spiaggia. Intorno si era creato un crocchio di curiosi, perlopiù ragazzi anche loro e io e la mia amica decidemmo di andare a intimargli di ributtarle in mare. Una volta lì in mezzo, però, non osammo dirgli nulla. Non ho mai avuto il coraggio di affrontare i conflitti. E nella mia immensa perspicacia ho persino pensato che fosse possibile evitarli.

Ma non è possibile evitarli, quando sono loro a pioverti addosso come una cascata di escrementi, non puoi scansarli all’infinito. Non puoi convincere un’assicurazione a pagare il risarcimento se hai fatto un errore nel richiederlo. Non puoi impedire di odiarti a persone che hanno deciso di odiarti. Non puoi pensare che con un sorriso e una spiegazione si risolva tutto. Le spiegazioni non servono a niente. Così come non servono a niente i risparmi, i medici, i parenti, gli amici, e tutta quell’immensa quantità di cose che credi siano lì pronte per salvarti quando ne avrai bisogno e invece non aspettano che un’occasione per affondarti.

Non per tutto c’è una soluzione. Avere fatto spiaccicare qualcuno nella sua macchina non è una cosa che si può risolvere. I casini non vengono mai da soli, ma non è questo il problema. Il problema è che ad ogni nuovo attacco il numero di persone disposte ad affrontarlo assieme a te sarà sempre più esiguo. Venire a trovarti in ospedale: ok. Ascoltare le tue lamentele e i tuoi pianti: ok. Prestarti dei soldi: ok. Ospitarti in casa: ok. Aiutarti a trovare un nuovo lavoro, rispondere alle telefonate nel cuore della notte, ripeterti che va bene, che sei una persona meravigliosa, che tutto si risolve, accompagnarti a fare le analisi, parlare con la tua famiglia al posto tuo, parlare con il tuo ex al posto tuo, accompagnarti al supermercato, tenerti compagnia la sera, accompagnarti all’ospedale, trovarti un nuovo lavoro, accompagnarti in tribunale, accompagnarti dallo psicologo, accompagnarti a comprare i farmaci, accompagnarti ad ubriacarti, accompagnarti a cercare nuovi amici, farsi tirare una bottiglia in testa. La nave si sta svuotando. Chi è rimasto guarda con apprensione le ultime scialuppe.

Sono quasi arrivata alla terza boa. È incredibile quanta forza ho nelle braccia, potrei nuotare all’infinito. Il sole è vicino alle colline e l’acqua comincia a farsi più scura. Mi giro verso la spiaggia e gli ombrelloni sono piccolissimi, posso nasconderli dietro un’unghia. Sembra che in acqua non ci sia più nessuno tranne me. Mi stupisce che laggiù non siano preoccupati. Forse non mi hanno neanche visto. O forse non gliene importa nulla.

Una delle ultime volte che sono stata qua in spiaggia ero con degli amici, dovevo avere venti o ventun’anni, e un nostro vicino d’ombrellone entrò in acqua e prese a nuotare sempre più al largo. Non c’era il bagnino (non c’è mai stato nelle spiagge libere di questa zona) e la mia ragazza era preoccupata per lui. Poi smise di guardarlo e cominciò a leggere un libro. Il tipo nuotò fino alla seconda e terza boa, e poi proseguì. Diventava sempre più piccolo, finché non ne rimase altro che un piccolo puntino nero che si avvicinava all’orizzonte; la sua testa. A un certo punto lei alzò gli occhi dal libro e scrutò il mare per trovarlo. Nessuno era rimasto a fissarlo per tutto il tempo, ma il puntino era scomparso. Non mi sono mai sentita in colpa per questa cosa.

Adesso il puntino sono io. Ho superato la terza boa senza toccarla. L’acqua deve essere profonda almeno un centinaio di metri qua e davanti a me c’è solo un’infinita distesa di mare. Non sono stanca e mi sento come se potessi continuare a nuotare all’infinito, fino a non vedere più nessuna spiaggia. Il sole è sceso ancora e sta tramontando dietro le colline. Dev’essere passato un sacco di tempo. La superficie del mare è percorsa da onde basse e lunghe che mi vengono incontro lentamente e l’acqua sta assumendo il colore metallico tipico della sera e dei giorni nuvolosi, non è più trasparente. A oriente si vedono già delle stelle. Il silenzio è perfetto.

La spiaggia, o forse dovrei dire le spiagge a questo punto, non sono ancora scomparse alla mia vista, ma non si distinguono più le persone e gli ombrelloni. In compenso si vedono le montagne in lontananza e le luci delle città lungo la costa. Non sono stanca, ma mi lascio scivolare sulla schiena per vedere il cielo. Osservo l’azzurro della sera lasciare lentamente il posto alla notte e alle sue prime stelle. Vado alla deriva.

Margareta Nemo

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Il meglio di Laboratorio di Narrativa: Maria Vittoria Masserotti

5 Agosto 2013 , Scritto da Laboratorio di Narrativa Con tag #Laboratorio di Narrativa, #poli patrizia, #ida verrei, #racconto, #maria vittoria masserotti

“L’imbuto” di Maria Vittoria Masserotti è un racconto sorprendente, tutto incentrato su di un’unica metafora: l’imbuto.

Dapprima simbolo di una vita che appare agli sgoccioli, senza slanci né passioni, logoro strumento di un lavoro che non offre più nessun piacere, stretto da mani annoiate, privo di splendore come il matrimonio fallito del protagonista, esso viene poi, all’improvviso, ribaltato in un sol colpo, diventa l’opposto, concede inattese visioni di uscita dal tunnel.

Claudio è un “vinto”, un triste fantoccio ricoperto da una patina di rassegnazione, piccolo uomo che vive la routine del lavoro e della solitudine subita, con le spalle curve, soffocando e celando rimpianti, quasi vergognandosi di possedere ancora mille emozioni.

La sua è la generazione delle speranze deluse, delle rivoluzioni solo sognate, degli ideali di rinascita e mutamento. Ma il mondo in cui vive non è, appunto, quello sognato, le nuove generazioni di studenti sono diverse, lontane da come le ricordava, e lui si sente vecchio, con addosso l’odore “stantio e umido” della pensione, come se fosse “di fronte ad un imbuto dalla parte del cono”.

Ma l’uomo-ombra, lo sconfitto, l’uomo senza futuro né prospettive, riserverà una sorpresa: un riscatto dal fallimento, una rivalsa verso le apparenze e la inconsapevole dissimulazione: colpo di scena condotto con abilità narrativa. Ed ecco il finale, dove il grigiore si svela solo apparente, quasi maschera, o inganno perpetrato ai danni propri e altrui.

Molto bella la prima parte, che racconta di lezioni svogliate, di pensieri inconfessabili, di ricordi di un tempo - prima che, ancora una volta, l’imbuto si capovolga e le prospettive mutino – durante il quale lui era “dall’altra parte”, quella della classe.

“Così come l’idea che i professori vivessero solo in quella classe, in quell’ora, tutto il resto aveva solo contorni sfumati.”

È una racconto piacevole, che avvince, con improvvise interruzioni e inserimenti di stralci di pensieri, frammenti di visioni interiori che si confondono e si accavallano alle immagini percepite, il tutto realizzato con maestria e scritto con stile preciso, svelto, mai noioso.

Patrizia Poli e Ida Verrei

L’Imbuto

Claudio alza gli occhi al cielo per un attimo, dimenticandosi dell’imbuto.

I suoi alunni sono tutti chini nel tentativo di riprodurlo, sanno che hanno un’ora di tempo poi lui lo girerà, così dovranno copiarlo di nuovo per un’ora.

Un’ora non passa mai, a volte. Anche se a volte corre come un treno, dipende appunto dalla prospettiva dell’osservatore, come per l’imbuto.

Per lui un’ora trascorsa nel Liceo Artistico di Lucca è un tempo infinito, non prova più nessun piacere nell’insegnare e si sente maledettamente in colpa per questo. Quand’era agli inizi, pieno di furore docente, si sentiva quasi un dio di fronte a quella platea di discenti, secondo lui, pieni di desiderio di imparare. La realtà gli aveva mostrato un altro mondo giovanile, dove c’era una profonda coscienza dei propri diritti e nessuna dei propri doveri, come se tutto fosse dovuto e non il risultato di un impegno, di una volontà di percorrere il sentiero della conoscenza.

Anche di questo si fa una colpa, lui e la sua generazione di rivoluzionari che volevano cambiare il mondo. Il mondo è cambiato ma non è sicuro che il risultato gli piaccia.

Si alza dalla cattedra e va a girare l’imbuto, è passata un’ora.

Ora in primo piano c’è la parte più stretta, una speranza di uscita dal tunnel, al di là dello stretto cilindro si intravede l’apertura di un cono, un senso meraviglioso d’ampiezza.

Si risiede e guarda il cielo.

Un suono violento gli deflagra nella testa: la campanella.

Se i ragazzi sapessero che lui desidera quel suono quanto loro! Se non di più.

Questo desiderio gli è rimasto impresso da quando lui era un alunno. Così come l’idea che i professori vivessero solo in quella classe, in quell’ora, tutto il resto aveva solo contorni sfumati. Non avevano una casa, una famiglia, né emozioni se non quelle di interrogare, dare voti e, a volte, spiegare.

Lui invece ora sa. Sa di avere una casa, una famiglia e milioni di emozioni e di alcune si vergogna profondamente.

I ragazzi sciamano festosamente e lui raccoglie l’imbuto, protagonista di centinaia di lezioni, per conservarlo in sala professori, nel suo cassetto, suo ormai da più di trent’anni.

Perfino l’imbuto mostra segni di logoramento! Il metallo nella giuntura ha qualche accenno di ruggine e quello splendore, quella lucentezza, che ha fatto ammattire tanti studenti nel tentativo di riprodurlo con il chiaroscuro, non è più così brillante, come la sua vita. In fondo gli oggetti che ci appartengono finiscono per somigliarci, come si dice dei cani, che prendono le sembianze del padrone, o viceversa.

Ci vorrà presto un imbuto nuovo.

Ci vorrà una vita nuova.

Sospira.

Arrivato in sala professori, apprezza come sempre il silenzio dopo il ronzio di cinque ore di lezione.

Il martedì è il giorno peggiore. Cinque ore di lezione e tre classi di volti annoiati, di creste tinte di viola o di verde, di pantaloni al limite del sedere, di ombelichi in bella mostra, di orecchini e “piercing” sparsi per ogni dove. Ci sono volte che tutto questo lo fa sentire vecchio.

Oggi è proprio di umore tetro.

Chiude il cassetto e saluta i colleghi, vede sui loro volti perplessità, perfino noia, non sono meglio di lui. Ben magra consolazione.

Forse se loro fossero diversi lo sarebbero anche gli alunni?

Esce, salutato dai bidelli e sono ormai le due.

Ha fame ma nessuno con cui mangiare.

Si incammina per via Finlungo, deciso a prendersi un pezzo di pizza e di mangiarselo sulle mura.

È la fine di febbraio, è vero, ma c’è un solicchio invitante e, soprattutto, non ha nessuna voglia di tornare a casa.

La casa è vuota. Milena l’ha lasciato, anche se, a dire il vero, è lui l’artefice di quella rottura, improvvisa quanto prevedibile.

L’aria frizzante e cristallina è un dono per Lucca, spesso soggetta a brume acquose che ti entrano nelle ossa e nell’anima, in quelle ossa che lanciano segnali che sembrano il ticchettio dell’orologio e tengono conto del tempo che passa. I sessanta si avvicinano, sente odore di pensione e non è un odore pulito, sa un po’ di stantio, di quel particolare umido che si sente solo al cimitero.

Presa la pizza, si siede su una panchina dei bastioni. Da lì si scorgono i tetti rossi, i campanili.

C’è pace. È strano, ma qui, pur essendo in città, si sente libero come quando va in campagna, lontano dal brulichio degli studenti, dalla prosopopea dei colleghi, dalle mura di qualsivoglia edificio che lo fanno sentire come se fosse di fronte ad un imbuto dalla parte del cono, con la prospettiva di un lungo cilindro buio del quale non vede la fine.

Mangia lentamente, anche se la pizza si sta freddando, beve la birra dalla lattina e comincia a sentirsi meglio. Riesce a fare un lungo respiro a pieni polmoni, non si è reso conto di aver fatto tutto il giorno piccoli respiri, rasentando l’apnea.

Tornerà a casa, alla fine, deve valutare gli elaborati dei suoi studenti della terza B, che domani si aspettano i risultati. Con passo lento va a recuperare la macchina, parcheggiata come sempre fuori le mura. Si rende conto che gli fa piacere tornare a casa, il pasto all’aria aperta l’ha rinfrancato. Sa di amare la sua casa, è riuscito a farla a sua immagine e somiglianza, anche se lui, romano, non ha ancora, dopo tutti questi anni, accettato di essere cittadino di una città così chiusa come Lucca.

Sotto casa c’è sempre il problema del parcheggio, ma oggi ha fortuna e trova un posto proprio davanti al portone. Mentre cerca le chiavi di casa vede Luigi, fermo di spalle davanti al suo portone che si guarda nervosamente in giro.

- Ah, Claudio… Ti stavo cercando! Ma che fine hai fatto? Non hai lezione fino alle tredici e trenta? Sono le quattro!

Quando Luigi è agitato parla a raffica, sbocconcellando le parole e infilando nel discorso punti interrogativi ed esclamativi in quantità industriali. Claudio fa fatica a capire ed una volta messi a posto i punti, si sente irritato dal modo di fare dell’amico, sente un che di inquisitorio.

- Ho mangiato fuori, perché? - Si mette sulla difensiva, come sempre, quando per qualche motivo si sente preso in castagna e diventa duro e pungente.

Luigi fa un gesto, come per asciugarsi un ipotetico sudore.

- Come perché? Oggi è martedì, te lo sei dimenticato? Non so che cosa tu abbia in questi ultimi tempi, se fossi ancora giovane ti direi che ti sei innamorato!

- Perché, che succede il martedì?

- Non “il” martedì, ma “questo” martedì!!

Nella testa di Claudio si accende una lucina, troppo sfocata perché lui possa riconoscerla.

- E va bene, mi sono dimenticato! – dice, mentre un’inspiegabile rabbia lo travolge – Che mi vuoi picchiare?

Luigi a quel punto avrebbe veramente voglia di picchiarlo. Inghiotte e respira.

- Alle cinque abbiamo appuntamento con Consoli e sai che lui è sempre puntuale!

- Giusto, Consoli!

Claudio si rende conto che ha rimosso totalmente la faccenda e questo, direbbe Freud, è un fatto significativo. L’inconscio rimuove quello che ci disturba, una rimozione grave e gravida di significato, soprattutto se Consoli è l’avvocato di sua moglie e l’argomento è la loro separazione!

- Dai Luigi, andiamo su un attimo, faccio presto!

A questo punto Claudio si rende conto di avere, non sa come, ancora in mano l’imbuto.

“Oh mamma mia” pensa “non posso credere che ho girato tutto questo tempo con l’imbuto in mano! Ho mangiato, sono andato in macchina con l’imbuto! Ma perché non l’ho posato nel mio cassetto in sala professori?”

Gli viene il sospetto che il suo umore, l’imbuto, la pizza sulle mura non siano altro che una forma di difesa da quello che doveva accadere nel pomeriggio.

Un po’ stralunato sale le scale ed apre la porta, facendo strada a Luigi. La sala in cui entrano, un soggiorno con angolo cottura, è un caos pieno abbozzi di quadri su cavalletti, tavolozze imbrattate di colori, tubetti di colore ad olio aperti e ormai rinsecchiti, pennelli appiccicosi e barattoli aperti pieni di trementina. Qua e là spuntano cartoni vuoti di pizza, contenitori vuoti di alluminio e fogli di carta stagnola che riflettono tutto quel colore. L’odore stagnante è fortissimo.

Luigi si guarda intorno desolato ma ha la delicatezza di tacere.

Claudio, per niente turbato dallo stato in cui versa il suo appartamento, va in camera da letto, si toglie il cappotto ed il maglione, prende a caso una cravatta, la infila e tira fuori dall’armadio una giacca che non vede la lavanderia da tempo.

- Sono pronto! – dice. Riafferra il cappotto, cerca le chiavi e spinge Luigi, sempre basito davanti a quel caos, fuori dalla porta.

- Claudio, potresti almeno aprire le finestre, ogni tanto! - Non ce l’ha fatta a tacere fino in fondo il suo amico Luigi, avvocato, doppio petto fumo di Londra, camicia azzurra e cravatta bordeaux.

Arrivano allo studio di Consoli puntuali come una cambiale, diceva suo padre, le cinque e zero minuti. Milena è seduta davanti alla scrivania di Consoli, dove ci sono altre due sedie per lui e Luigi. Dopo i saluti di rito, cominciano le danze. Milena ha gli occhi bassi, è imbarazzata e triste. Porta un cappotto viola che non le dona, ha il viso senza trucco, sembra che non presti nessuna attenzione a se stessa ma neanche al mondo che la circonda. Claudio si rende conto di guardarla come un personaggio di un serial televisivo, il volto è familiare ma non si ricorda la trama, non sa quale sia la parte che sta interpretando. La loro vita insieme era cominciata con i fuochi d’artificio dell’avventura, della scoperta di quel mondo sconosciuto che è l’amore ed era affogata in un lago di silenzio.

Lui odia le questioni burocratiche, di questo ormai si tratta, si guarda intorno annoiato in quello studio mastodontico, forse per rappresentare il peso della legge, una sorta di “dura lex sed lex”, oppure per impressionare il cliente. Non sente quello che si dicono gli avvocati, è come se avesse le orecchie ovattate, come se si trovasse sotto una campana di vetro.

Lui e Milena tacciono, evitando di guardarsi. Gli ritorna in mente la pazienza, l’amore di lei che si era sgretolato a poco a poco per colpa sua, della sua incapacità di dipingere, di creare quel quadro perfetto che è da sempre nella sua testa ma che non è mai stato nelle sue mani. Ne aveva dipinti decine, rincorrendolo senza riuscire mai ad afferrarlo, senza cogliere quella luce, quella vibrazione di vita che sentiva in ogni sua cellula.

Si scuote, gli mettono delle carte davanti. E lui firma, firma, firma…

E’ finita, almeno in attesa del secondo round.

Per fortuna per strada il freddo è uno schiaffo violento, deve essere tragico separarsi d’estate. Luigi gli propone di andare a cena da lui per non lasciarlo solo proprio quella sera.

- Tranqui, come dicono i miei alunni, sono sempre solo e questa sera non è diversa dalle altre.

Rimonta in macchina, infila la chiave nel cruscotto e fissa il lampione lì davanti per un lungo infinito attimo. Sa di aver mentito all’amico, sa di non essere nulla di quello che sembra, sa che neanche lui sapeva di essere quello che è.

Non è solo, non più.

E mentre accende il motore pensa al suo amore che tra poco vedrà, bello, biondo e giovane.

Maria Vittoria Masserotti

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Il meglio di Laboratorio di Narrativa: Franca Poli

2 Agosto 2013 , Scritto da Laboratorio di Narrativa Con tag #Laboratorio di Narrativa, #poli patrizia, #ida verrei, #racconto

La protagonista di “Uno sporco lavoro” di Franca Poli è una poliziotta come se ne vedono tante nei telefilm americani: è tosta, è scabra, è maschia nei modi di fare. Però è italiana e si ritrova alle prese con la triste, purtroppo ben nota, realtà degli sbarchi clandestini a Lampedusa. Si chiama Rachele e questo la dice lunga sull’ambiente in cui, probabilmente, è cresciuta, sulla sua ideologia di fondo. Compie il proprio dovere considerandolo dall’ottica del pre-giudizio, inteso come giudizio antecedente, a priori. Il lavoro che è costretta a fare non le va, subisce l’immigrazione, vive a disagio il contatto con il diverso, con l’altro da sé, sente insofferenza per la divisa che la infagotta, non sopporta i continui e improvvisi cambiamenti di programma, i colleghi maschi che ironizzano sulla parità pretesa dalle donne. E sfoga il proprio malumore con un “linguaggio da caserma”: “È un lavoro del cazzo…”, quasi si rammarica di aver vinto il concorso.

La spediscono a Lampedusa, ad accogliere la massa di disperati che lei non accetta. È imbevuta di pregiudizi, Rachele, di rabbia e intolleranza verso i “diversi” che arrivano a gonfiare le fila della malavita organizzata e che considera dei “rompicoglioni”. Ma quando si trova a dover soccorrere un gruppo di clandestini, “stremati, le guance incavate, gli occhi fuori dalle orbite", per la prima volta non brontola nel fare il proprio lavoro, e quando, poi, il caso la conduce ad affrontare l’emergenza di assistere una partoriente di colore, Rachele sente vacillare le proprie certezze, sente crollare difese e pregiudizi, e riscopre, attraverso le lacrime, la propria umanità negata. Sarà proprio a causa della prossimità con ciò che non conosce e non le piace, che capirà quanto il fenomeno immigrazione sia impossibile da contenere in un solo sguardo e in un solo parere. Il mondo con cui viene a contatto forzato è fatto, sì, di uomini dalla mentalità maschilista, arretrata - non molto diversa, tuttavia, da quella dei suoi stessi colleghi - ma comprende anche donne dall’aspetto elegante, dagli occhi tristi, dal coraggio animalesco, istintivo.

La donna nera partorisce una creatura indifesa, piccola, che ci sfida con l’audace caparbietà del suo stesso venire al mondo in mezzo a chi la rifiuta, addirittura dalle mani di chi la rifiuta. La mamma le imporrà il nome Rachele, legandola a chi l’hai aiutata a nascere, compiendo a ritroso un percorso inconsapevole che lega la nuova bimba a vecchi echi, fatti di guerre d’Africa, di regine nere, di veneri abissine. La madre stessa, da oggetto di derisione, assurgerà al ruolo di prima Madre, di Madonna col Bambino.

È un racconto ben strutturato e dal contenuto attuale che rende perfettamente le diffuse resistenze all’accettazione di realtà che ancora provocano rifiuto e diffidenza. Ci sono la rabbia, l’ansia, la paura, il sospetto che spesso dilagano di fronte al “diverso” sconosciuto, ma c’è anche la pietas, l’insopprimibile impulso al “dono di sé”, che va oltre il pregiudizio, oltre ogni irrazionale chiusura di mente e cuore. La storia è compiuta nel suo insieme, procede da un punto all’altro, da un inizio a una conclusione, lasciando intendere che esiste un prima e ci sarà un dopo, uno sviluppo, una trasformazione. Lo stile è funzionale alla narrazione, con qualche immagine forte che colpisce, come la vagina che sembra “inghiottire il bambino” invece di espellerlo.

Patrizia Poli e Ida Verrei

Uno sporco lavoro

“È uno sporco lavoro. Porcaccia Eva io non ci vado laggiù. Senza nemmeno interpellarmi poi… Non ci vado. No!”

Rachele si stava annodando la cravatta, era la cosa che più odiava della sua divisa. Si era già infilata i pantaloni e, come sempre, li aveva trovati larghi, deformi. La camicia era un po’stropicciata e con la giacca addosso, poi, si sentiva un sacco di patate.

“È un lavoro del cazzo!” imprecava mentre stava uscendo dallo spogliatoio femminile del reparto di Polizia dove era stata distaccata. Da quando si era arruolata, aveva acquisito anche il comportamento e il linguaggio tipico “da caserma”, glielo rimproverava sempre sua madre.

In mattinata aveva ricevuto l’ordine e sarebbe partita per Lampedusa. Sbarchi continui di immigrati imponevano rinforzi e, a turno, tutti i colleghi erano andati in missione per una quindicina di giorni. Ora toccava a lei.

Renato, il suo compagno di pattuglia, la vide uscire come una furia e subito capì quanto fosse arrabbiata: “Avete voluto la parità? Eccovi accontentate!”

Rachele non rispose, alzò semplicemente il dito medio e lo sentì allontanarsi mentre nel corridoio risuonava la sua risatina ironica.

“Stronzo! È colpa di quelli come te se ogni giorno di più mi pento di aver vinto il concorso” pensò.

Lei non si sentiva adatta a quell’incarico. Amava le indagini, era arguta e attenta a ogni particolare quando seguiva un caso, ma andare al centro di accoglienza per occuparsi di quelli che considerava dei “rompicoglioni” che dovevano restarsene a casa loro, lo riteneva insopportabile.

Arrivata suo malgrado a destinazione l’umore non migliorò. Al contrario vedersi attorniata da nordafricani che le lanciavano occhiate lascive, la infastidiva. La mandavano in bestia i sorrisini e le battute in arabo a cui non poteva replicare.

“State qui a gozzovigliare alle nostre spalle, col cellulare satellitare in mano, tute nuove, scarpe da tennis, magliette, cibo in abbondanza: ovviamente dieta rigorosamente musulmana, e pure la diaria giornaliera!” mentre si incaricava della distribuzione rimuginava e si rendeva conto senza vergognarsene che non era affatto umanitaria nello svolgimento del suo compito e non voleva assolutamente esserlo. Era sempre stata piuttosto convinta che non si potesse accogliere chiunque. La delinquenza in Italia era aumentata. I clandestini non erano prigionieri al centro, spesso alcuni se ne andavano e molti di loro finivano a rafforzare le fila della malavita organizzata. E, se era vero che non tutti i mussulmani erano terroristi, era pur vero che tutti i terroristi erano musulmani!

“È un cazzo di sporco lavoro! Ma datemene l’occasione e vi faccio pentire di essere venuti fin qua.” Pensava mentre uno di loro le faceva l’occhiolino.

Durante la notte segnalarono la presenza di un barcone in difficoltà al largo delle acque territoriali italiane e si doveva intervenire a portare soccorso.

“Perché, dico io? Lasciateli affogare o che rientrino in Africa a nuoto…” Arrabbiata più che mai a causa di questa emergenza durante il suo turno di lavoro, salì sulla nave per obbedire agli ordini e, quando fu il momento, instancabile come sempre, aiutò chi ne aveva bisogno. Avevano soccorso un barcone con 80 clandestini per lo più somali fra cui anche alcune donne. Li avevano aiutati a salire a bordo, passavano loro coperte e acqua. Alcuni erano stremati, le guance incavate, avevano gli occhi fuori dalle orbite e, per la prima volta, Rachele non brontolò nel fare il proprio lavoro.

Fu chiamata con urgenza dal medico di bordo. Una donna incinta stava partorendo e gli serviva l’aiuto di una donna.

“Lo sapevo io… Solo questa ci mancava. Proprio ora hai deciso di mollare il tuo bastardo?” E imprecò, come sempre, contro i superiori e contro la scarsa volontà politica di risolvere questo annoso problema.

Quando si trovò di fronte la donna con le doglie vide che era piuttosto bella. Alta, nera, ma con i lineamenti fini e delicati. Occhi grandi e scuri come la notte, sgranati per la paura e per il dolore , la fronte imperlata di sudore. Aveva gambe d’alabastro, lunghe e sinuose che si intravedevano da un caffetano di colore azzurro sgargiante aperto sul davanti, soffriva molto.

Il medico si doveva occupare di alcuni feriti e le chiese di stare vicino alla donna, di controllare la distanza fra una doglia e l’altra e di chiamarlo se l’avesse vista spingere.

“Calma Naomi!” le disse Rachele prendendola in giro per la sua leggera somiglianza con la bella indossatrice, “Non ti mettere a spingere proprio ora, capito?” le inumidiva le labbra con una pezzuola bagnata e quando la donna in preda a una doglia forte e persistente le strinse la mano, lei provò quasi un senso di ripulsa e voleva divincolarsi, ma la stretta era forte e allora strinse anche lei, mentre la donna emetteva un rantolo roco e continuo.

A un certo punto la partoriente inarcò la schiena e cominciò a spingere. Era quasi seduta con le gambe allargate e si teneva alle sue spalle con tutta la forza.

“Aiuto dottoreee! Presto venga, questa non aspetta più!!” chiamò Rachele cercando di attirare l’attenzione del medico.

La donna urlava e spingeva e Rachele, guardando fra le cosce allargate, vide spuntare la testa del bambino. Compariva e scompariva a ogni respiro. Un ciuffetto di capelli neri, che spingeva e allargava quel sesso deforme, arrossato, quasi a sembrare una bocca affamata che lo stava ingoiando e non espellendo.

“Dottore!! Presto...” la voce le morì in gola. Non c’era più tempo. Il bambino stava uscendo e allora Rachele prese la testina fra le mani e provò a tirare piano piano per agevolare lo sforzo della donna. Niente da fare, urlava la poveretta e parlava nella sua lingua chiedendo aiuto o chissà cosa altro. Allora si fece coraggio, infilò una mano dentro la donna, afferrò il bambino per le spalle e tirò con forza. Fu un attimo e tutto il corpo del piccolo, rosso e viscido di sangue scivolò fuori e la donna, stremata, si lasciò cadere all’indietro con un ultimo profondo sospiro.

Rachele si ritrovò con quell’esserino fra le mani e lo guardò: era una bambina. Nera come la pece e con gli occhi sgranati e grandi come quelli della madre. La prese e gliela poggiò delicatamente sul petto.

“Dottore!! Cazzo quando si decide a venire qua?” aveva ritrovato la voce e urlò con tutta la forza.

Il medico arrivò, si occupò della madre e della figlia, mentre Rachele, rapita, continuava a fissare gli occhi di quelle due creature. Così grandi e vuoti, così imploranti e tristi. Per la prima volta non era arrabbiata con loro, con i diversi, era solidale. Una donna come loro sola e arrabbiata e si sentì percorrere da un brivido di tenerezza e commozione.

“È un maledetto sporco lavoro” disse questa volta senza convinzione.

Stavano caricando la donna su una barella, erano al porto e un’ambulanza col lampeggiante la stava aspettando per condurla all’ospedale. Rachele si sentì prendere per una mano. Era la giovane mamma che la guardava e le faceva cenno, indicandola con l’indice puntato e con una muta domanda negli occhi.

“Non capisco… Cosa vuoi ancora?” le chiese infastidita e poi d’improvviso, un lampo d’intesa fra loro e capì.

“Rachele… Mi chiamo Rachele “ rispose.

Allora la donna che, fino ad allora, aveva solo urlato e pianto, sorrise illuminando la notte con i suoi denti bianchissimi. Sollevò la sua piccola bambina, puntandola verso di lei e stentando ripeté: “Rachele.”

Fu allora che le lacrime sgorgarono finalmente anche sul suo viso, Rachele piangeva a dirotto e cercando invano di asciugarsi il viso bofonchiò:

“È un cazzo di sporco lavoro.”

Franca Poli

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Il meglio di Laboratorio di Narrativa: Gianfranco Grenar

1 Agosto 2013 , Scritto da Laboratorio di Narrativa Con tag #Laboratorio di Narrativa, #poli patrizia, #ida verrei, #racconto, #fantascienza

Un titolo intrigante, che ricorda l’attacco de “Il senso di Smilla per la neve” dà l’avvio a “Quattromila sfumature” di Gianfranco Grenar, racconto di buona, sana (finalmente!) fantascienza, ambientato in un pianeta che ricorda l’avatariano Pandora ed è una sinfonia di blu, blu proprio come la Terra se la guardi dal cielo, la Terra lontana per cui il protagonista prova tanta nostalgia, la Terra che noi uomini, nella nostra follia, abbiamo distrutto. Fantasiosa storia di un esilio estremo: Madre Terra sta morendo, gli “stupidi, avidi umani” ne hanno determinato il Crollo Finale e l’unica salvezza è la migrazione definitiva verso un mondo che sembra offrire il futuro. Tra lembi di struggente nostalgia, il racconto si snoda in descrizioni immaginose di un pianeta dove il sole è bianco e i prati blu, come blu sono le quattromila sfumature di un luogo che, alfine, realizza “il sogno della vecchia America”.

Su questo pianeta vive una stirpe frutto di mutazioni genetiche, che è riuscita ad amalgamarsi, a divenire “melting pot di mutanti”, a fare della mostruosità adattamento e sopravvivenza. Uomini Ragno, Anfibi, Tre Occhi si sono mescolati, hanno conquistato lo status di cittadini del nuovo mondo e ora, a sentirsi incolore, “nero”, è proprio l’unico vero umano che, mentre sogna la conquista di diritti ormai perduti, lontano anni luce da casa, si accorge, con sgomento, della sua “diversità”, in quel mondo dove gli abitanti sembrano non vederlo. Un racconto fantastico che è anche un piccolo studio sulla discriminazione e sulla relatività dell’essere differente.

Le descrizioni sono gustose, ricche di suggestioni. Il racconto è ben strutturato, con uno stile piacevole e scelte linguistiche appropriate.

Patrizia Poli e Ida Verrei

QUATTROMILA SFUMATURE

Prova uno, due. Ok, registra. Ciao, mamma. State tutti bene? Io… io mi sto abituando. Il lavoro è duro, ma se penso a voi la fatica non mi uccide. E poi l’operazione è andata benone, ora respiro l’atmosfera del pianeta senza mascherine.

Papà è guarito? Maura come sta? Lo so che non dovrei pensare a lei dopo quello che mi ha fatto… ma vorrei tanto sapere che fa, come vive.

Sai, è un mondo prodigioso, questo. Il popolo che l’ha creato ne è orgoglioso e ne ha tutti i motivi: ha spinto una roccia polverosa persa nello spazio vicino a un sole più grande e forte del nostro; l’ha riempita di vita, piante, foreste, ha generato l’oceano e i suoi pesci, e tutte le creature mai esistite…

Vorrei farti vedere, mamma, quanta luce hanno i prati blu, appena dopo un acquazzone, baciati dal sole bianco che riempie metà del cielo. A volte nelle pause del lavoro giochiamo a pallone nell’erba umida. Così la nostalgia brucia di meno.

Io penso. A tutto. Al contratto di dieci anni che ho dovuto firmare. Al viaggio, alla Terra che si allontanava nello spazio. All’inizio Maura aveva accettato di stare lontana da me per così tanto. Nessuno ci aveva avvisati della fregatura: l’atmosfera del pianeta accelera il processo di invecchiamento nei terrestri non-mutati. Al mio ritorno avrei trovato un fiore di donna di trent’anni appena, ma io ne avrei dimostrati sessanta e più. L’infermiera a un vecchio, avrebbe fatto; non la moglie.

Per questo l’ho perdonata.

Non abito più nel rifugio. Sto da un nanotecnologo che affitta camere. In verità la mia camera è scavata nella stalla dove tiene i calibani e i fosforofagi, ma c’è la porta blindata. Il mio padrone di casa è un discendente dei coloni della terza ondata. Ha un cognome italiano, ma non capisce una parola di ciò che dico e non sa niente di Madre Terra, del disastro provocato da noi, stupidi avidi umani. Crede che la storia cominci con lui. Io parlo bene la lingua standard. Leggo molto, voglio imparare tutto quello che sanno loro. Un giorno ci riconosceranno il diritto allo studio, e allora frequenterò un corso serale e diventerò un medico o un esploratore.

Sai, mamma, avevi ragione: il sole bianco ha smesso di emettere radiazioni mutagene. Però non so se è un bene. I primi coloni morivano come mosche; i loro figli mostruosi erano destinati a morire; ma qualcuno sopravvisse. Quei pochi nati con le mutazioni adatte, gli uomini-vulcano, gli anfibi, i ragni umani, le donne-alveare e i Terzo Occhio, si sono mescolati, uniti e moltiplicati. E mentre sulla Terra cominciava il Crollo Finale, e sparivano una dopo l’altra le cose piccole e grandi che facevano di noi una civiltà, loro ricostruivano, inventavano, si liberavano della nostra eredità maledetta. Ora sono una razza unica. E questo è il loro paradiso: nuova Madre Terra! Il sogno della vecchia America alla fine si è realizzato qui. Melting pot di mutanti.

Sì, lo vedo, qui, un futuro. Ancora non so se è il mio. I miei occhi… i miei occhi sono deboli, qui. I loro occhi, tre grandi specchi del colore che aveva una volta il mare, umani non sono più: si sono adattati a un pianeta dove il blu è il colore dominante. Ciò che vedono rosso, lo chiamano rosso; ma la loro lingua ha quattromila parole per il blu. Il loro cervello percepisce tutte quelle sfumature! Io vedo una sola cosa, là dove ce ne sono quattromila.

Il mio sangue è uguale al loro: è rosso. Ma non esiste una parola per me. Ai loro occhi, che non riescono a vedere il rosa pallido della mia pelle, io non ho colore. Io sono l’assenza di colore. E gli abitanti di questo mondo perfetto sono gentili e tolleranti, ma non mi vedono davvero, e sento che di me hanno paura. Anni luce lontano da casa, mamma, mi sono accorto di essere nero.

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Il meglio di Laboratorio di Narrativa: Otello Chelli

28 Luglio 2013 , Scritto da Laboratorio di Narrativa Con tag #poli patrizia, #ida verrei, #Laboratorio di Narrativa, #racconto

Non è difficile immaginare “Il Rosso e Selica”, di Otello Chelli - di cui qui riportiamo solo l’inizio per motivi di spazio - accompagnato dalle note di Cavalleria Rusticana di Mascagni. La città in cui si svolge la storia è la stessa dove è nato il compositore, la trama ricorda l’intreccio della novella verghiana. È un racconto che scava nell’anima di una città, che s’insinua nei suoi quartieri antichi, tra le pietre il mare, il porto, le leggende. Narra una storia dalle tinte forti e delicate insieme, una novella con modulazioni da feuilleton nell’intreccio, ma costruita in prevalenza sulle atmosfere.

Da una coralità di figure scrutate quasi attraverso il velo di una malinconica nostalgia, si stagliano con forza i protagonisti: il Rosso, duro, sanguigno, insolito miscuglio di raffinatezza da intellettuale e primitività da “risi’atore”, uomo delle ciurme del porto di Livorno; e Selica, disperatamente travolta dalla passione, vissuta con l’innocenza del giovane animale fuggito dalla cattività. E attorno a loro, un’atmosfera rarefatta di cupa inquietudine, già il presagio triste dell’epilogo drammatico: sensazioni sottili, narrate a volte con un sincretismo di cronaca, altre col lirismo dei sentimenti.

Lei, lui, l’altro, l’eterno triangolo foriero di gelosie mortifere fin dai tempi di Paolo e Francesca. Eros e thanatos – fin troppo eros diciamo noi – e thanatos come indissolubile conseguenza della trasgressione, ma anche come riconquistata libertà, come fusione delle anime in una passione destinata a rimanere immortale, come unione nella morte e oltre di essa. Singolare finale consolatorio: passione e peccato, la “caduta”, trovano riscatto nella pietas di una religiosità primitiva che accoglie e non rifiuta, che è capace di sposarsi e non collidere col dna marxista del territorio.

Qui l’amore non è inteso come trepido sospiro del cuore ma come fuoco violento, inestinguibile, “una passione irrefrenabile, peccaminosa, quasi sacrilega, eppure tanto bella e candida.". Perché, un amore come quello fra i protagonisti non ha niente di consueto, va oltre il bene e il male, la vita e la morte, è un amore ossessione, come quello fra Cathy e Heathcliff. E se l’ambientazione non è nelle brughiere dello Yorkshire ma nel quartiere portuale della Venezia labronica, se l’atto d’amore non è solo vagheggiato ma concretamente e palesemente attuato, la potenza dei personaggi, il loro spirito titanico, sono gli stessi, come la stessa è l’atmosfera “infestata”, l’immagine degli amanti fantasmi che continuano a rimanere legati ai luoghi che hanno visto fiorire la loro passione e compiersi il loro tragico destino.

Quello che colpisce, e che affascina, è, infatti, la stupenda rievocazione di una Livorno che non c’è più, fra fossi, navicellai e risi’atori, con figure storiche come padre Saglietto. Un canto d’amore infinito per il quartiere della Venezia, tante volte ricreato nella narrativa di Chelli, un mondo popolare, fatto di gente rude e generosa, di forti passioni, di onore lavato col sangue, di solidarietà fra simili. La parte migliore è quella in cui si descrive la vita del rione, ricostruendo perfettamente il quadro del passato.

Il pezzo meno riuscito è quello centrale, nel quale viene messa in scena esplicitamente la passione brutale dei protagonisti. Il testo perde efficacia nell’eccessivo dilungarsi in amplessi fin troppo particolareggiati, descritti con immagini appesantite da troppi cliché, come “gli occhi di ghiaccio”. Nell’insieme, comunque, una lettura molto piacevole, una linearità classica del linguaggio, sostenuta da qualche arcaismo toscano che aggiunge gradevolezza al racconto.

Patrizia Poli e Ida Verrei

Il Rosso e Selica

Era bastato uno sguardo tra il "Rosso" e Selica, durante una delle tradizionali e numerose cene collettive che nelle sere d'estate si consumavano sui larghi marciapiedi del viale Caprera, mettendo assieme tutto il pescato di una giornata, altri alimenti e gli indispensabili fiaschi di vino rosso del Chianti, contenuti nelle madie delle famiglie, più numerosi dei fili di pane. Si trascorreva una serata in allegria, mangiando, bevendo, cantando sfottenti stornelli, romanze d’amore e famose canzoni sovversive, il rione lo era da sempre, la gente aveva nell’anima sentimenti carbonari prima dell’Unità e nikilsocialisti subito dopo, soprattutto quando Vittorio Emanuele II aveva cancellato lo status di “porto franco” alla città più garibaldina d’Italia insieme a Brescia e Bergamo, gettando a spasso centinaia di facchini del porto, navicellai e barrocciai. In quegli anni era ancora attiva la “Mano Nera”, nata fra i veneziani per vendicare con il coltello i torti subiti dalla loro gente. Se la sera era umida si accendeva un bel fuoco e ci si sedeva tutti attorno consumando la cena, “buttando a pagliolo” i fiaschi , mentre il Topo, già alticcio, un bicchiere pieno a metà posato ai suoi piedi, dava il via alla festa in qualità di mago della chitarra, nonostante non conoscesse una nota musicale. Con le sue arie faceva cantare la notte e rendeva più brillanti le stelle, aiutato dalla voce di Renata, popolana tipica, tonalità d'angelo che, se educata e lanciata sui palcoscenici, sarebbe diventata più celebre delle più acclamate e corteggiate stelle del melodramma.

Il "Rosso” era una figura bizzarra, fuori fase in un quartiere tipico e popolare come quello della Venezia Nuova, anche se era nato in una delle antiche case della Tura, la zona che dalla chiesa di Crocetta si proiettava fino al Ponte di Santa Trinita, accucciato sotto la mole corrusca della Fortezza Vecchia. Tornato a casa dopo anni e anni di avventurose peregrinazioni, durante le quali aveva fatto fortuna, nel suo rione ritrovava ogni giorno i ricordi di una fanciullezza dura, ma allegra, indimenticabile. Giornalista e scrittore di larga fama, ad ogni uscita di un suo libro veniva osannato dalla critica. Eppure era uno di loro, nato fra questa gente povera e ostinata, generosa e impulsiva, discendente di una delle famiglie "storiche" di questo rione autentico angiporto, abitato da gente che all’orgoglio delle proprie idee, univa grande fierezza ed era facile alla zuffa, al coltello e al revolver, usati spesso per difendere il proprio onore o gli irriducibili ideali scaturiti dalla rivoluzione francese e dalle idee di Mazzini, Garibaldi e Carlo Marx. In gioventù il “Rosso” era stato un "risi'atore" tra i migliori, uno dei componenti la famosa carovana di Silenzio e faceva parte di quella ciurma leggendaria che a bordo di un gozzo mastodontico, prendeva il mare con qualsiasi tempo e a forza di remi si recava incontro ai legni diretti verso l'ansa sicura del porto di Livorno. Spesso questa barca possente oltrepassava anche la Meloria per contendere e strappare alle altre ciurme il diritto allo scarico e al carico delle merci, arrembando quasi le navi in arrivo, come facevano i saraceni. In questo modo conquistavano il diritto di pilotarle nel sicuro accosto della Darsena Vecchia e compiervi le indispensabili operazioni di manipolazione delle merci, fornitura d’acqua e viveri, soprattutto verdure, indispensabili ai marinai per combattere lo scorbuto.

Un modo periglioso e incredibile di guadagnare il pane quotidiano per la famiglia, ma in quei tempi il mestiere del “risi'atore" , seppure molto pericoloso, non dava solo il pane, ma anche un certo benessere, dignità, ammirazione e autorevolezza tra la gente, ben oltre i confini del quartiere.

Il "Rosso" non aveva parenti. Morti i genitori, dopo qualche anno i suoi due fratelli erano scomparsi in mare, una sorella, la sua prediletta, si era innamorata di un uomo sposato e gli aveva ceduto senza sapere della condizione di lui. Abbandonata e incinta, si era buttata giù dal ponte del Porticciolo e le fredde acque invernali dei fossi l'avevano deposta, dura come il marmo, ma sempre bella, là, ai piedi della Fortezza Vecchia, sulla sabbia del cantierino disteso sulla parte finale della Tura, laddove i calafati costruivano e riparavano i navicelli, quei barconi enormi, neri e silenti al passaggio tra le case, sui quali si caricavano le mercanzie per portarle dalle navi ai fondaci e viceversa, attraverso la fitta rete dei fossi fatti costruire appositamente dai Medici, una autentica ragnatela che s'intreccia nel famoso "Pentagono" del Buontalenti.

Il giovane, chiuso in se stesso, il volto scolpito come uno scoglio dalle onde, aveva seppellito la sorella nel sepolcreto della chiesa, Padre Saglietto, leggendaria figura di monaco trinitario, sempre schierato accanto ai suoi parrocchiani, anche ai “senzadio”, si era opposto alla volontà dei pii frequentatori della sua parrocchia di seppellire la bellissima Benedetta nello spoglio “campo dei suicidi” e aveva concesso questo privilegio alla sventurata fanciulla buona credente e caritatevole in modo evangelico. Rimasto solo al mondo, il giovane si era imbarcato su un legno di Marsiglia ed era scomparso. Sei mesi dopo il corpo di Amedeo, il facoltoso commerciante che, ingannandola, si era preso sua sorella per poi abbandonarla vilmente, venne trovato sotto la Voltina con un lungo coltello piantato in mezzo al cuore. Era un coltellaccio della Provenza, con una punta capace di forare la pelle d'un orso e un filo da autentico rasoio. "Un’arma micidiale" - aveva dichiarato il Delegato di polizia.

Si seppe qualche tempo dopo, ma la nave non si era registrata e nessuno poté provare niente, anche se furono in molti a sussurrarlo, che il brigantino di Marsiglia avesse fatto sosta per un'intera nottata a Bocca d'Arno, l'equipaggio aveva cenato dal Ghingheri, nella trattoria di legno costruita su palafitte piantate in riva al grande fiume, proprio sulla foce, rifugio di pescatori e contrabbandieri, ma l'oste smentì recisamente il fatto e del resto, nessuno in Venezia e in città, aveva visto il "Rosso". Quindi "si trattava di un evidente abbaglio" - concluse lo stesso Delegato che dalle autorità francesi aveva saputo come la nave, nella stessa notte dell’omicidio, si trovasse all’ancora nel porto di Bastia, da dove era salpata per Barcellona.

Viaggi in tutti i porti del mondo, esperienze incredibili e fantastiche, il giovane, intelligenza pronta, agile e forte, aveva trovato il tempo di imparare a leggere e a scrivere, apprendere una miriade di lingue e di dialetti e si era fermato per tre anni nelle terre algerine, viaggiando sulle roventi sabbie del Sahara fra predoni berberi e mercanti beduini, raggiungendo con le loro carovane e nelle loro scorrerie, i monti dell'Atlante e tutte le oasi fino al verde Niger. Si era arricchito e quando ritornò in Italia sbarcando a Genova, invece di recarsi a Livorno proseguì per Milano. Ad Algeri aveva conosciuto il proprietario del più importante giornale italiano e durante il viaggio verso il porto ligure era nata tra i due una duratura amicizia. Il "Rosso", aveva parlato delle sue peregrinazioni al potente uomo d'affari e questi, ascoltando le incredibili avventure narrate con sciolta parlantina e una vasta conoscenza, era rimasto affascinato e aveva proposto a quell’uomo ancora giovane, il volto bello, di cuoio per il sole assorbito sul mare e nel deserto, di scrivere alcuni lunghi reportage, iniziando a fare l'inviato all'estero per il suo giornale. Così il "risi'atore" veneziano si trovò a viaggiare per paesi lontani, frequentare uomini di stato, politici, industriali, inventori, capi di tribù mongole, indiane, cinesi e africane, ma sopratutto, entrò in contatto con molteplici culture e tradizioni, arricchendo ulteriormente un bagaglio di conoscenze già vasto.

A Milano si era invaghito, corrisposto, di una nobildonna di famiglia risorgimentale, si erano sposati, lei gli aveva dato due figli, ma le peregrinazioni del marito, le lunghe assenze, l'avevano infine decisa a chiedere la separazione. La sua ricchezza era tale, da non farle richiedere al "Rosso" nemmeno una lira per il mantenimento dei suoi figli che tenne lontani dal padre, per loro sempre più uno sconosciuto.

Alla fine di un lungo viaggio in Cina e in Mongolia, il famoso scrittore era ormai giunto al suo trentanovesimo anno di vita, stanco di viaggiare per tutti i continenti, aveva persino seguito la folle e stupenda corsa automobilistica “Parigi – Pechino”, si mise a scrivere, quasi per scherzo un libro di avventure e il successo fu strepitoso, di conseguenza egli ne scrisse altri e, in breve, divenne immensamente ricco, di quattrini e di fama. La ex moglie, il suo tentativo di riconciliarsi con lei era fallito, dopo alcuni mesi si era trasferita negli Stati Uniti, dopo aver sposato un ricco industriale dell’automobile ed i suoi figli erano ormai perduti nella società dorata degli “States”

A quel punto, evitando le allettanti offerte della ricca Milano, irrequieto e stanco di vivere la vita degli opulenti salotti intellettuali di grandi città europee, decise di ritornare a Livorno, nella sua Venezia, il che avvenne quando di anni ne aveva quarantatré. Eppure al "Rosso" non se ne davano più di una trentina e quel suo volto bruciato dal sole di cento paesi diversi, sembrava il volto di un fanciullo, soprattutto per la luce che illuminava i suoi occhi di ghiaccio.

Acquistò una bella casa al primo piano di un palazzo signorile sugli Scali delle Ancore e dalle sue grandi finestre dominava l'intero "fosso reale" dell'antico quartiere e poteva ammirare lo spaccato bellissimo delle vetuste case e dei palazzi seicenteschi. Alla finestra del suo studio, come un dipinto di grande artista, si mostrava ai suoi occhi il fosso dominato dalla Chiesa di Santa Caterina dei Domenicani, il palazzo granducale, detto de il Refugio, la cui facciata dava sul viale Caprera e la bellezza di Palazzo Rosciano. Se cambiava direzione al suo sguardo, il dipinto si trasformava e ad apparire era la mole familiare della Fortezza Vecchia, sovrastante l'intero rione con l’Erta degli Arrisi’atori, autentica terrazza lanciata sul porto e sul quartiere, mentre davanti a lui si ergeva l’edificio detto de il Paradisino e poteva vedere anche uno scorcio della chiesa di "Crocetta", quella cara al suo cuore dove spesso si recava per i suoi muti colloqui con l’amata “sorellina”. Dalle finestre della casa sentiva con piacere il brusio della vita operosa dei veneziani, il chiacchiericcio e le battute dei facchini del porto e dei navicellai che, seduti sulla spalletta del ponte sottostante che, dolorosamente, gli ricordava il suicidio della sorella, aspettavano una chiamata da qualche banco per recarsi a "fare la giornata". Ascoltava con sottile piacere l'argentino suono delle campane, soprattutto quelle di San Ferdinando, la sua “Crocetta”, la chiesa della sua fede fanciulla, cresciuta all'ombra della torre campanaria sotto la quale era venuto alla luce e spesso ascoltava il suono argentino di una canzone cantata da una delle donne affacciate alle finestre a chiacchierare o stendere lunghe file di panni ad asciugare. Nelle ore di quiete, mentre sedeva alla sua scrivania scrivendo qualche storia, sentiva il fruscio dolce del passaggio di qualche navicello e non sapeva resistere, affacciandosi ad ammirare il lento avanzare del grande barcone nero sulle calme acque del fosso reale, sospinto dalla pertica usata da un solo uomo che camminava in su e giù sul passatoio, spingendo quella flessibile, lunga pertica rotonda, capace di dimostrare la giustezza della frase di Archimede: “Datemi una leva e vi solleverò il mondo.”

Nel rione nessuno aveva dimenticato il figlio di Alceste e Filomena, il fratello della sventurata Benedetta e di quei due ragazzoni, uno morto alle Bocche di Bonifacio, l’altro a Capo Horn. Il "Rosso" venne quindi accolto con affetto, rispettato per ciò che era diventato, ma soprattutto, perché sul corpo della sorella aveva pianto silenziosamente, senza mostrare lacrime, mentre il dolore aveva invaso l'anima sua insieme alla glaciale calma con la quale aveva preparato la sua vendetta. Impassibile, nessuno lo aveva sentito profferire minaccia alcuna, chiara od oscura. Era un veneziano verace lui e aveva agito con l'intelligenza e la freddezza di un uomo vero e questo nessuno, nell'antico quartiere lo aveva dimenticato.

Quella sera, come dicevamo all'inizio di questa storia, bastò uno sguardo tra il "Rosso" e Selica, una splendida donna snella e flessuosa come un giunco e dal volto che con quegli occhi profondi come la notte, i capelli d’ebano e la pelle leggermente mora, la faceva discendere dal miscuglio di razze arrivate in questo quartiere nei secoli seguiti alla promulgazione delle leggi granducali, dette Livornine. Un amalgama dal quale era uscito il tipico livornese verace, nelle cui vene scorreva un misto di sangue arabo e nordico, orientale e anglosassone.

Fu come una scintilla che incendia una foresta e i due seppero immediatamente come le loro vite si fossero intrecciate senza scampo. Era sicuramente amore. Non il trepido e puro sentimento tante volte cantato nei libri e in moltissime leggende, no, il loro non era uno di quei sentimenti fatto di candore e nascosti tremori, quasi sempre platonici, vissuti su timidi sguardi e trepidi sospiri. I due, lo seppero subito, nei loro occhi non c’era niente di poetico, ma l'incontrarsi di due fuochi violenti e inestinguibili, lo scontro di due destini, quasi sempre distruttivo.

Si avvinghiarono in un abbraccio frenetico, non appena la serata ebbe termine, due ore dopo la mezzanotte, nel portone della casa di lei, in un casamento situato nella strettissima via delle Acciughe, di fianco al nobile Palazzo Rosciano. Selica si era avviata, sola, verso casa; lo Svelto, Remigio Saettini, suo marito, era uno dei più conosciuti capovoga della città ed era sceso in mare di buon'ora per raggiungere una "norvegina", che Pistola (la Venezia è sempre stata un quartiere dove abbondano i soprannomi), il suo avvistatore più bravo, gli aveva segnalato.

Quando Selica dette la buonanotte all'ormai assonnata compagnia, era l'ultima del suo casamento ad andarsene. Quegli occhi da zingara, neri come un cielo notturno senza stelle, si erano fermati per un attimo solo in quelli del "Rosso" e nessuno vide il messaggio ch'ella gli inviava. Anche lui salutò e si diresse al ponte, ma, dopo un rapido sguardo in giro, scantonò furtivamente verso palazzo Rosciano inoltrandosi nel buio della stradina dov’era la casa di lei.

….. continua

Otello Chelli

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Il meglio di Laboratorio di Narrativa: Luisa Sordillo

25 Luglio 2013 , Scritto da Laboratorio di Narrativa Con tag #Laboratorio di Narrativa, #poli patrizia, #ida verrei, #racconto

Questo racconto di Luisa Sordillo ti graffia dentro, ti fa male a leggerlo.

La “mano caina” di chi non ha cuore, ma solo “un ignobile muscolo”, ha spezzato la vita di una creatura gentile. Chicca rimane bloccata, spaurita, trafitta da un destino inaspettato e crudele. Ci vuole coraggio ad affrontare questo dolore, narrandolo, nella speranza, purtroppo vana, che non accada mai più.

Storia di un grande amore, è la memoria struggente di un legame interrotto. Se si è avuta la sorte di incontrare un piccolo essere, un dolce animale dagli occhi “senza orizzonte”, le tracce del suo passaggio non ti abbandonano più, anche quando diventano solo frammenti di ricordo. Luisa Sordillo riesce a costruire immagini che scavano l’animo, sin dalla prima dolorosa descrizione dell’ultimo guaito della cagnolina “pancia all’aria, a ricercar la stella infausta”… E l’angoscia, per contrasto, riporta ai momenti di gioia, “con i rituali frenetici” del giornaliero ritrovarsi, con la “tiepida e svelta leccata sulla mano”, a quel tacito parlarsi, che è promessa d’amore eterno.

Tenero e delicato racconto, dove la pena per la perdita e per l’assenza si avverte non solo dalle dolenti parole, ma anche dal ritmo della narrazione, talvolta spezzato, quasi a trattenere il singhiozzo di un dolore mai spento.

Patrizia Poli e Ida Verrei

UNA FREDDA GIORNATA D'INVERNO

Giaceva immobile, come una giostra nel bel mezzo di un black out, braccata all’improvviso da un buio non annunciato e non prevedibile, senza messaggero tramonto. Pancia all'aria, a ricercar la stella infausta; le zampette indurite, come strette da una morsa di cemento, si presentavano senza direzione, sperduta la bussola, in ordine sparso. La coda, oscurato il sole, era come una foglia d’autunno, migrante e spaesata, senza consapevolezza alcuna.

Gli occhi aperti ma vuoti, lasciavano però filtrare la paura, il contorno infame dell’agguato in cui era caduta, l’incredulità, il tentativo vano di sottrarsi al destino.

L’avevo portata su di un palmo di mano una fredda giornata di inverno, premio ambito dei miei reconditi sogni di bambina, più volte domandato e più volte negato.

Anche io, in fondo, ero stata per lei un anelato premio: tutti conquistati dalla sua vivacità e dalla sua tenerezza di fiocco di vita, ma nessuno sufficientemente pronto a farne parte integrante delle proprie giornate e delicato bersaglio dei propri sentimenti.

Entrambe perciò ci facemmo l’occhiolino al primo sguardo, contraccambiando un affondo nel pelo incolto con una tiepida e svelta leccata sulla mano.

Era Chicca, questo il suo nome, un tenero incrocio tra un confusionario e allegro yorkshire ed un raffinato e scorbutico pechinese, di un colore talmente bello da sembrare una spiga di grano baciata dai raggi del sole, dipinta in un quadro d’autore, spennellato da dorate meches e lucenti e chiari colpi di sole, sogno di attrici e donne di classe. Il suo musetto vispo con il tartufo schiacciato, tipico del pechinese, la rendeva sufficientemente civettuola e femmina ed i suoi occhioni senza orizzonte, penetravano senza permesso dentro l’anima, facendo di quel castagno intenso un invincibile passepartout per strappare concessioni e sorrisi.

I primissimi giorni non si distingueva da un cricetino e trovava rifugio e diletto in una scarpa n. 45 che le era stata regalata come parco giochi a suo esclusivo dominio, dove esercitare ogni tipo di acrobazia e allenamento muscolare e dentario.

Ricordo ancora il primo cappottino di velluto rosso, cappa di marmo sulle sue fragili zampe e il collarino in tinta, con un campanellino che ne segnalava sempre la presenza, onde evitare misfatti indesiderati.

I momenti con lei sono indimenticabili. Rientrare a casa e vederla saltellare di gioia, irrefrenabile e con un tamburo battente al posto del cuore, assistere ai suoi rituali frenetici e alle sue inarrestabili corse per scaricare l’ansia e la paura del mio non ritorno, i suoi balletti da primadonna della Scala, leggiadra e piroettante come una trottola di seta.

In una parola, vita.

Quella che le venne miseramente portata via ancora in una fredda giornata d’inverno, cupa e piovosa, da quel destino scritto con inchiostro di uomo, brutale, impietoso, con un macigno nel petto, arido e grigio.

Un boccone avvelenato la prese per la gola, assatanandola, invadendola di fiele, logorandola fin dentro l’anima. Un addio cruento, vigliacco, insolente.

Una lacrima che ancora scorre, la mia , nel fragore di un gesto insensato, nella mano caina che restò in silenzio, nell’ignobile muscolo di qualcuno che al battito riconduce un cuore, nella cecità di una notte subdola, in un’assenza che scava e consuma, in un amore incondizionato inciso nel cuore, in un giorno d‘inverno che non porterà all‘estate, in quell‘ultimo gemito che non dimenticherò.

Luisa Sordillo

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Il meglio di Laboratorio di Narrativa: Giuseppe Guerrini

24 Luglio 2013 , Scritto da Laboratorio di Narrativa Con tag #Laboratorio di Narrativa, #poli patrizia, #ida verrei, #racconto

Si legge che è un piacere il delizioso “La nuvola di Matteo” di Giuseppe Guerrini, compiuto e gentile racconto, scritto con un’essenzialità stilizzata e visiva allo stesso tempo.

Parla della strana comunicazione che s’instaura fra un bambino e una nuvola, amica immaginaria, sorta di primo amore, metafora di amicizie uniche, labili e preziose, capaci di attenuare per un momento lo sconfinato senso di solitudine, simbiosi d’amore, in un mondo fatto di animismo e fantasie, emozioni di un’infanzia che sogna.

C’è un’infinita dolcezza in quel “guardare il cielo”. Matteo gioca con le nuvole, dialoga con loro, le chiama per nome, si solleva oltre il suo mondo e sceglie “l’amica”, quella nuvola, “la sua nuvola”. I due amici hanno una lingua segreta, fatta di “pedalate, rettilinei, ampi cerchi disegnati sui sentieri fra il grano” e “risposte arcane fatte di riccioli, turbini, lembi di vapore” in un codice segreto, decifrabile solo con gli occhi di un cuore bambino. Nascono così “giorni fatti della stessa sostanza dell’amicizia”, destinati a finire come tutte le cose belle. La morte della nuvola, presagita da “piccoli vortici tristi” è la fine del sogno, dei misteri del cuore di un bambino e il passaggio alla vita normale. Si diventa “normali” quando si cessa di volgere gli occhi al cielo, o quando, sollevando nostalgicamente lo sguardo, non si riesce più a scorgere la “propria nuvola”.

Senza artifici linguistici, né ricerche di effetti speciali, con un linguaggio classico, lieve, l’autore, in questo racconto bello e commovente, dipinge immagini piene di poesia e riesce a regalare una visione suggestiva del mondo infantile.

Patrizia Poli e Ida Verrei

La nuvola di Matteo

Matteo aveva otto anni e guardava le nuvole. Guardava sempre le nuvole. Gli piacevano proprio quelle cose lontane, informi e mutevoli sospese nel cielo. Era capace di passare interi pomeriggi steso sull’erba, perduto a guardarle nascere, trasformarsi, dissolversi o correre via portate dal vento. Se gli avessero chiesto cosa voleva fare da grande, avrebbe risposto “il meteorologo”. In verità Matteo non era tagliato per le scienze esatte, cose come “temperatura di rugiada” o “entalpia di condensazione” non erano per lui. Il suo interesse non era scientifico: per Matteo le nuvole erano amiche, compagne di strada a cui rivolgere un saluto, raccontare storie.

I suoi genitori erano preoccupati. Avevano cresciuto il loro bambino con amore, accompagnati dalle ansie consuete – i rischi di troppa televisione, i videogiochi violenti, i pericoli di Internet… Invece era loro toccato in sorte un bambino contemplativo, sognatore, che non impazziva per la Playstation, si stancava subito di televisione, non era attirato da Internet, e preferiva scorrazzare per la campagna con la sua bicicletta rosso vivo, sempre da solo, inseguendo chissà quali fantasie. Oppure guardava il cielo. Tanto bastava a farlo contento. Amava soprattutto certi pomeriggi estivi, quando, quasi dal nulla, si materializzano cumuli che crescono in altezza, netti e bianchissimi contro l’azzurro, poi lentamente scuriscono e si sfrangiano sulla cima allargandosi come un fungo minaccioso. Matteo sapeva che quelle torri di vapore ospitavano temporali, e poterle godere da lontano nella loro interezza gli dava un’ebbrezza strana, come se fosse capace di abbracciarle, come se gli appartenessero.

Matteo aveva inventato una classificazione tutta sua per le nuvole. C’erano le “cavalcatrici”, che correvano portate dal maestrale accavallandosi e mutando forma in continuazione, le “ritagliate”, che sembravano brandelli di bianco tenue spezzati dai venti d’alta quota, le “tremoline”, attraversate da strisce di piccole onde fitte, e naturalmente le “pecorelle”, e tante altre. C’erano anche le “sentinelle”. La famiglia di Matteo abitava in campagna, nella pianura che terminava ai piedi di una montagna appuntita. Attorno a quella cima si formavano a volte delle nubi sommitali, che anziché essere portate via dalle correnti sembravano indugiare sul versante sopravento come se ci abitassero. Erano quelle le “sentinelle”. Matteo pensava che quelle fossero nubi speciali, vive, perché parevano opporsi al vento che le avrebbe dovute allontanare. Non poteva sapere che era proprio il vento atlantico a generarle spingendo in alto lungo il pendio l’aria umida, e che sembravano ferme perché in realtà si rigeneravano in continuazione, evaporando da una parte e condensando dall’altra. Quando si formava una nuvola di quel tipo Matteo la osservava a lungo per vedere se si stancava di sostare nei paraggi della cima e magari le veniva voglia di muoversi verso di lui o curiosare lì attorno. Non era mai accaduto, ma questo non lo scoraggiava affatto.

Un giorno d’inizio estate era comparsa una di quelle nubi, e Matteo, al solito, l’aveva tenuta d’occhio per tutta la mattina, naso per aria mentre pedalava tra i campi di grano. La nuvola sembrava all’inizio starsene raccolta, appallottolata timidamente presso il monte. Più tardi però parve prendere coraggio, si allargò e sfilacciò un poco, infine protese un lembo verso la pianura, proprio nella direzione di Matteo. Quando si fece ora di pranzo Matteo si diresse verso casa. Giunto sulla soglia, gettò ancora un’occhiata verso la cima. Fu allora che si accorse che dalla nube usciva un piccolo ricciolo di vapore, che si dissolse rapidamente. Un saluto! La nuvola lo stava salutando! Matteo ne fu felice, ma non tanto sorpreso, gli parve anzi del tutto naturale rispondere al saluto. Agitò le braccia rivolto verso il monte ed entrò in casa contento. Mangiò in fretta e furia e tornò subito fuori, ignorando le raccomandazioni della mamma e rispondendo “C’è la nuvola!” alle sue obiezioni preoccupate. Lei lo lasciò andare, sospirando rassegnata e domandandosi ancora una volta cosa mai avessero da rimproverarsi lei e suo marito come genitori.

La nuvola era ancora là, appoggiata alla cima. Matteo iniziò a pedalare tra il grano nella sua direzione, e lei emise due propaggini che Matteo interpretò come un segno di benvenuto. Ne fu felice: ormai erano diventati amici. Rispose al saluto correndo su e giù per i sentieri. Trascorse così tutto il pomeriggio, parlando alla nuvola di cose che non avrebbe saputo spiegare, nel misterioso codice fatto di pedalate, rettilinei, ampi cerchi disegnati sui sentieri tra il grano con la sua bicicletta scarlatta, e decifrando risposte arcane fatte di riccioli, turbini, lembi di vapore. Al tramonto la nuvola si colorò di rosa sfumato in viola, e parve ritirarsi presso la cima. Matteo lo interpretò come un gentile segno di congedo, così la salutò e rientrò in casa, felice come non mai. Prima di andare a dormire volle darle un’ultima occhiata discreta. Sbirciò cautamente dalla finestra per non disturbarla. La nuvola ricopriva la cima con un manto uniforme che si distendeva placido sul pendio, risplendente di luce lunare. Sembrava pulsare piano, come per un lento respiro. “Sta dormendo”, pensò Matteo rassicurato, e si coricò sereno.

I giorni che seguirono furono per Matteo i più felici mai vissuti, giorni di gioia, meraviglia, scoperta. Giorni fatti della stessa sostanza dell’amicizia. Corse infinite sui pedali, disegni tracciati con le ruote nelle stoppie del grano appena mietuto, a dialogare con la sua amica nella loro lingua segreta, un dialogo fatto del piacere di conoscersi, dell’affetto, di cose piccole come il suo cuore bambino, troppo grandi per essere raccontate. La nuvola pareva capire, ora aprendosi, ora arrotolandosi; sorrideva in piccoli vortici di vapore, lo accarezzava da lontano allungando un lembo candido. Era il suo modo di rispondere a Matteo, o così lui credeva, chi può dirlo?

Qualche giorno dopo, appena alzato, Matteo sentì in televisione le previsioni del tempo. Il clima stava per cambiare, il meteorologo alludeva a un “anticiclone” che avrebbe portato aria secca e vento di bora. Matteo non aveva idea di cosa fosse un anticiclone, ma sapeva che la bora dissolveva le nubi sentinelle. La sua nuvola era in pericolo! “Mamma, cos’è l’anticiclone?” chiese angosciato, come se conoscere la risposta gli conferisse il potere di cambiare le cose. “Non lo so, Matteo. È aria, credo. Chiedilo al babbo quando torna”. Matteo però non aveva tutto quel tempo: doveva avvertire la sua amica, salvarla! Corse fuori lasciandosi alle spalle i rimproveri sconsolati e inutili della mamma. Inforcò la bicicletta e iniziò a tracciare linee spezzate, angoli acuti a rappresentare la minaccia. La nuvola inizialmente gli sembrò sorpresa, confusa, attraversata com’era da sottili ombre grigie. Matteo continuò, inventando nuovi segni: “Scappa, nuvola, scappa o morirai!” scriveva nelle stoppie, “Fatti portare via dal vento, non restare qui!”. Ma la nuvola non si muoveva, non poteva allontanarsi. Allargava lembi sfilacciati di bianco tenue mentre si sgonfiava al centro, come a giustificarsi per non poter andare via. Matteo capì che alla sua amica non era concesso altro che rimanere lì, vicino alla cima, a dissolversi sotto i suoi occhi. Intanto l’aria stava già cambiando. Il vento aveva iniziato a girare, e l’azzurro del cielo diventava più carico, più cupo. Il profilo delle colline si faceva netto, i colori più marcati. La nuvola iniziava a sfumarsi nei contorni, e piccoli vortici tristi la attraversavano. “Non sparire, povera nuvola mia” tracciava Matteo sulla pianura, ma lei diventava ogni minuto più tenue. Allora Matteo lasciò un ultimo ampio cerchio, come un abbraccio, e si fermò a guardare, piangendo e singhiozzando. I lembi ormai pallidi della sua amica sembravano ancora volerlo accarezzare, consolarlo e cercare conforto, sempre più labili. Restò infine un piccolo ricciolo di vapore, come un ultimo saluto, che si arrese al vento disperdendosi. “Addio nuvola mia, addio!” gridò Matteo tra le lacrime. Rimase ancora a lungo a guardare la montagna completamente sgombra. Il cielo terso, di un blu profondo, e l’orizzonte lontanissimo e netto rivelavano l’immensità del mondo. Matteo sentì una solitudine sconfinata.

Passò la bora e arrivò il maestrale, accompagnato da nubi frettolose, candide e mutevoli. In altri tempi Matteo avrebbe passato ore ad ammirarle, ma adesso non gli dicevano molto: non erano come “quella” nuvola. Ogni tanto guardava ancora la cima, ma era sgombra.

Passò anche il maestrale, tornò il vento atlantico, caldo e umido. Si formò una nuova nube sentinella. Ma non era “quella” nube. Matteo si accorse di avere perso gran parte dell’interesse per le nuvole. Prese ad annoiarsi, e così cominciò a frequentare i suoi coetanei. Dovette condividere i loro interessi, e dopo un po’ iniziarono anche a piacergli. I suoi genitori erano contenti: finalmente avevano un figlio “normale”, dicevano. Ogni tanto però Matteo gettava ancora uno sguardo alla montagna. Spesso c’era una nube presso la cima, talvolta anche molto bella. Ma non meritava attenzione: non era “la sua nuvola”. Quella non sarebbe tornata mai più.

Giuseppe Guerrini

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Il meglio di Laboratorio di Narrativa: Pia Deidda

22 Luglio 2013 , Scritto da Laboratorio di Narrativa Con tag #Laboratorio di Narrativa, #poli patrizia, #ida verrei, #racconto

Abbiamo deciso di riproporre in questa sede i migliori racconti di tre anni di attività del Laboratorio di Narrativa

Cominciamo con Pia Deidda e il suo "Di queste notti insonni"

In “Di queste notti insonni” Pia Deidda ricostruisce in modo magistrale un ambiente arcano e rurale. Una piccola, minuscola, donna è la protagonista di questo racconto delicato, incentrato su un “femminile” d’altri tempi e altri luoghi, ma ancora vivo nella memoria di società patriarcali.

In una camera, in uno spazio notturno illuminato solo dalla luce fioca di un lume a olio e dal rosseggiare delle carbonelle di un braciere, si consuma un’esistenza grama, un’inconsapevole rassegnazione, simbolo di un’antica rinuncia al riscatto. Nastassia e Bartulu, una donna e un uomo: lui, solo una massa umidiccia e maleodorante sotto la trapunta, sui tre materassi del letto a baldacchino… un russare, un gorgoglio, uno sbuffo, un grosso naso rosso solcato da capillari… Lei, quasi evanescente, con i piccoli piedi freddi, raggomitolata tra la preziosa biancheria profumata di lavanda, unica consolazione in quel suo povero mondo fatto di coercizione e di dominio. Ed un pensiero… quasi un ambito sogno, in quel presente oscuro e senza prospettive: la morte come soluzione, come cambiamento. Ma è solo una fugace idea, un balenio nella mente… “Per tutto c’è tempo”.

Il lettore sente il freddo dello stanzone, delle lenzuola ghiacce, dei piedi illividiti, la ruvidezza della camicia da notte, l’umidità delle calzette di lana appese ad asciugare.

Al centro del racconto, troneggia la descrizione del letto a baldacchino, “alto e regale”, simbolo di un amore gelido e mancato, di “incolori e ghiacce notti”. La protagonista, tuttavia, lo riveste di “pizzo e frangette a pippiolini”, di ricami e racemi, seguendo il volo della sua fantasia, della sua arte, della sua vitalità tarpata.

Il braciere, che compare all’inizio del racconto, torna nella chiusa, a completare un cerchio che tiene in sé tutta la vita della protagonista, fino a un desiderio di morte che non è neanche un vero impulso a farla finita, ma è solo un’assenza di azione, di slancio, è un vuoto totale per il quale, ahimè, c’è sempre “tempo”.

Il linguaggio mescola parole semplici, ripetute a rafforzare la concretezza di oggetti comuni, come il legno, la tela, la brace, ad altre più desuete e scelte.

Patrizia Poli e Ida Verrei

DI QUESTE NOTTI INSONNI

Nastassìa si china e, sollevando la lunga camicia da notte di pesante tela, osserva i piccoli piedi scalzi poggiati sull'impiantito di legno. Sono violacei e freddi, tanto freddi. Punta il peso sui talloni e inarca le lunghe dita, qualche gelone già s'intravvede.

Davanti al camino della grande cucina sono stese, su un filo legato teso fra due sedie, ben quattro paia di calzette di lana ruvida. Ma sono ancora umide e Nastassìa ha i piedi nudi.

Non riesce ancora ad organizzarsi nel bucato; fa difficoltà a calcolare la quantità di panni da lavare ogni volta e i tempi fra lavaggio, asciugatura e stiratura.

Ė per questo che i suoi piedi quella sera sono freddi. Anzi gelidi. Bisogna considerare anche che il suo Bartùlu, dopo il tramonto del sole, non mette più ceppi di legna nel camino, che piano piano si spegne lasciando poche braci rossastre e polvere fine grigia ormai fredda.

Lei raccoglie, prima che si spenga tutto il fuoco, quei tizzoni di brace ardente e li mette nel braciere di rame collocandolo al centro della stanza da letto.

Nastassìa si strofina le braccia cercando un po' di calore e guarda in alto sul letto. Gli arriva il suono grasso, cadenzato da un sibilo intermittente più acuto, del russare del suo Bartùlu.

Si prospetta un'altra notte quasi insonne, pensa, mentre mette il piede sul primo gradino della scaletta. Guarda in alto e si tiene ben salda con le mani. Quell'operazione le mette sempre apprensione ogni notte. Anzi, due volte al giorno. Al mattino quando deve rigovernare il letto e alla sera quando si appresta a dormire.

Soffre di vertigini Nastassìa da quando è piccola. Ricorda ancora molto bene di quando con i bambini del paese, eludendo la sorveglianza del vecchio sacrestano Peppineddu, si saliva furtivi sulla torre campanaria. Lei arrivava solo alla prima rampa e, mentre una strana ansia la prendeva, non riusciva ad andare oltre il primo pianerottolo. Era sempre la prima ad essere presa da Peppineddu mentre gli altri più svelti già suonavano la campana con rintocchi stonati.

Il suo è un letto da veri signori; fatto costruire dal suo Bartùlu su modello di uno continentale visto in una vecchia stampa arrivata fino a Ittiri da chissà dove e appesa da chissà chi su un vecchio muro scrostato della taverna del cambio postale.

Ė un alto letto a baldacchino di legno che sfiora il basso soffitto di travi di legno. Bartùlu ha voluto che il ripiano che accoglie i tre alti materassi fosse sollevato da terra per proteggere la sua sposina dal freddo che proviene dal pavimento e dai topi che vi scorrazzano indisturbati durante la notte.

Non sa Bartùlu che Nastassìa sa, perché glielo ha detto la vecchia Mariedda, la paura che aveva provato da bambino quando era rimasto rinchiuso per sbaglio tutta la notte dentro il grande magazzino dietro il mulino. L'avevano trovato all'alba che ancora saltava da una gamba ad un'altra pallido come un cencio.

La scaletta l'ha voluta lei perché quel letto gli è sembrato, già dalla prima volta, invalicabile. Minuta, senza forza nelle magre braccia, non aveva avuto l'agilità per saltarci sopra la prima notte che da sposina entrò in quella grande camera. Bartùlu capì da subito che forse sarebbe stato il caso di far costruire una piccola scaletta per la sua piccola sposa.

Nastassìa sale lentamente gli stretti scalini e i piedi freddi e magri dolgono un po' ad ogni passo. Insomma è una impresa titanica arrampicarsi lassù ogni notte. Poi a lei duole la schiena la sera perché non è ancora abituata a fare i lavori di casa. Bartùlu le aveva promesso prima delle nozze l'aiuto di una serva, ma, ad un anno dal matrimonio, non ne aveva visto nemmeno l'ombra.

Ogni notte salendo la scaletta ammira i tessuti che ricoprono gli alti materassi e il baldacchino. E' il suo orgoglio di sposa quel tripudio di filati e ricami. Quando arrivano le comari o le amiche per farle visita lascia sempre la porta semi aperta affinché s'intravveda il suo capolavoro.

Ha lavorato alacremente per mesi per poter trasformare quello spoglio legno e quella scheletrica impalcatura in una alcova calda e accogliente. Se deve esistere che sia almeno bello, aveva detto timida sposina a capo chino e ad occhi semichiusi appena l'aveva intravisto mentre Bartùlu si stava spogliando dagli abiti nuziali.

Aveva subito pensato ai grandi teli che avrebbero coperto il baldacchino. Sarebbero stati cuciti insieme pezzi di leggero tulle rosato che lei nel frattempo aveva ricamato a punto pieno nei risvolti in vista e rifinito con un pizzo a frangette e pippiolini fatto all'uncinetto. Non aveva copiato un disegno preciso, a lei piaceva anche improvvisare. Erano motivi geometrici che seguivano un ordine sparso un po' casuale. Alla fine era risultata un'opera che aveva una sua caotica armonia.

Per coprire il ripiano di legno aveva invece usato una tela grossa di canapa anch'essa rosata tessuta con motivi in rialzo di asfodeli e pavoni affrontati di un rosa intenso. Il primo materasso l'aveva rivestito di un tessuto bianco di lino a motivi tono su tono a nodini che seguivano un disegno a rombi alternati convessi e concavi. Era stato un lavoro molto impegnativo riuscire a contare al telaio trama per trama, ordito per ordito, e non sbagliare nemmeno un passaggio.

Il secondo materasso l'aveva ricoperto con un tappeto di lana dai colori rosso, giallo e blu squillanti su fondo chiaro. Uomini e donne si tenevano per mano in un ballo tondo che non sarebbe finito mai. E qui sospirò Nastassìa pensando che il suo Bartùlu l'unico ballo che aveva fatto in vita sua era stato il giorno del loro matrimonio quando era stato preso con la forza dai compari di anello. Non avrebbe ballato mai più Bartùlu. Ma neanche Natassìa.

Il terzo e ultimo materasso era ancora coperto da una nera coltre pesante di orbace. La bella coperta all'uncinetto filè era ancora dentro la cassapanca e non era stata ancora completata. Nastassìa riusciva però a ricavarsi molte ore di lavoro per ultimare la sua opera rubandole al governo della casa e alla cucina. Bartùlu più volte se ne era lamentato, specialmente quando tornava dal mulino alla sera stanco e affamato e trovava il desco vuoto ma la giovane mogliettina al telaio.

A completare l'opera c'era la finissima biancheria del suo ricco corredo. Le lenzuola e le quattro federe le aveva riccamente ricamate con orli a giorno e punti pieni e a catenella. Fiori, fogliette e racemi giravano leggeri lungo i contorni per dirigersi verso il mezzo, mentre pizzi sottili e delicati realizzati al tombolo ne ornavano i bordi.

Bartùlu dorme alla grande. La bocca aperta ora emana un gorgoglio come l'acqua che passa nelle condutture che azionano la macina del mulino. No, non si è proprio abituata a quei suoni mutevoli che accompagnano il trascorrere delle sue notti. S'infila piano piano dentro le lenzuola fredde, anzi gelide. Si raggomitola per riscaldarsi con quel poco calore che emana il suo corpo. Bartùlu no, non lo tocca; il suo corpo è caldo ma lo trova umidiccio ed emana un odore che sa di farina e fuliggine; neanche la lavanda che mette dentro le federe lo riesce a mitigare.

E, mentre pensa questo, le arriva una zaffata del suo alito pesante. Lo osserva alla luce tremula della lampada ad olio. Riuscirà con il tempo ad accettare questo uomo che le è stato imposto come marito? Pensa che sarà difficile riconoscere quest'uomo di vent'anni più grande di lei come l'uomo della sua vita. Si gira dall'altra parte e si copre le orecchie con il cuscino e sprofonda il naso nelle federe profumate.

Oh, no! Ha lasciato la lampada ad olio accesa sul tavolino. Se Bartùlu si svegliasse in questo momento sarebbe un rimbrotto che durerebbe per giorni. Deve ridiscendere, rifare il percorso intrapreso. Si dà della stolta, si scopre e mette i piedini sugli stretti gradini della scaletta. Si avvicina al tavolino e guardando la fiamma soffia sullo stoppino. La lampada si spegne di colpo. E adesso? Ripercorre la strada a tentoni, urta la sedia che cade. Bartùlu manda uno sbuffo come la pentola quando bolle con la carne di pecora dentro. Sbatte più volte sui gradini; sa che al mattino si ritroverà con lividi violacei sulle gambe. Salita si risistema nelle ghiacce lenzuola, si accovaccia stretta stretta abbracciandosi le ginocchia. Quanto è stupida; povero Bartùlu ad avere una moglie così incapace. Poverino.

Adesso il russare di Bartùlu è diventato un miagolio. E no, non riuscirà mai ad abituarsi. Come sarebbe stato bello sposare Gavino, il giovane servo pastore della sua famiglia. Ma i suoi genitori appena subodorato l'idillio si erano premurati di combinare in tutta fretta quel matrimonio che avrebbe dato lustro e dignità alla loro adorata bambina. Ed eccola qui con il suo Bartùlu a fianco in questo alto e regale letto; concepito più per appassionati e amorevoli incontri d'amore piuttosto che queste incolori e ghiacce notti, pensa Nastassìa vergognandosi delle sue fantasie nel momento in cui il suo cuore le formula. E si scopre a guardare il suo Bartùlu: naso grosso e rosso solcato da una miriade di piccoli capillari, la barba irta e sempre incolta, i denti giallognoli e marci.

Ma come fa a vederlo? Oh no! Ha dimenticato il braciere ancora acceso in mezzo alla stanza! Ma che stolta che è! Che donna fatua! Ecco cosa succede a perdersi in simili peccaminose fantasie!

Scende veloce e prende il braciere. Mai lasciarlo nella stanza per tutta la notte. L'aria diventerebbe mefitica e pericolosa. Potrebbero anche morire.

Già morire. Ma è solo un breve pensiero. Fugace, leggero, passa così come è arrivato. Tarlo invisibile che ogni tanto s'insinua nei suoi pensieri. Lei o lui non importa, sarebbe comunque un cambiamento.

Si dirige in cucina e posa il braciere dentro il camino, lo svuoterà al mattino. C'è tempo. Per tutto, c'è tempo.

© Pia Deidda 2010

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