angela caccia
Angela Caccia, "Piccoli forse"
Piccoli forse
Angela Caccia
LietoColle, 2017
La poesia sembra appartenere a un mondo che c’è già, ecco il senso di quella lettera minuscola all’inizio di ogni lirica nella silloge Piccoli forse di Angela Caccia. Il poeta opera un’azione di maieutica e tira giù le parole da dove esse vivono di vita propria, da un altrove che è già iniziato prima che leggessimo.
Piccoli forse, dunque, piccole possibilità che si traducono in poesie dedicate al padre, alla madre, all’arte, al poetare stesso, inteso come bisogno incontenibile ma anche rifugio. Il vizio di scrivere parole/è solo un mio punto di riparo. E ancora, affidarsi a un foglio/come a un ventre. La poesia protegge e genera allo stesso tempo.
Cerchi concentrici dove la stazione di partenza è quella di arrivo, fatti di cose qualsiasi, di giardini, di aiuole, di pioggia, di sole, di rose, di terra, di porti e di navi, descritti con piccola grammatica per gente semplice. Anche l’amore, inteso come un tutto noi, ma anche come amore materno, schianto di tenerezza. Eppure, accanto a queste cose ordinarie - non nel senso di banali ma nel senso di comuni - ci sono anche le grandi tragedie, come l’attentato di Nizza, ormai, ahimè, divenute anch’esse quotidianità.
I forse sono le possibilità ma anche le incertezze del destino, gli scarti da ciò che pensavamo dovesse essere e invece, probabilmente, non sarà. La morte è una continua sottrazione, un’assenza cui ci si deve assuefare. Perché bisogna prepararci all’assenza perenne che preannuncia anche la nostra, perché i gesti sono piccoli ma il significato è grande, perché la vecchiaia non dà scampo, prima o poi tutto ci mancherà e i ricordi non basteranno a disperdere quel velo di malinconia da indossare con disinvoltura ogni giorno. La nostra bocca non si slargherà mai più in un pieno riso giovanile, ormai ne siamo certi, neppure di fronte al miracolo di una vita che nasce, di un seno che allatta.
Rispetto a Il tocco abarico del dubbio, si è persa un po’ di scorrevolezza che non guastava, si è aggiunto un po’ di ermetismo in più. Alcune parole cadono nella cacofonia o nella banalità, come ad esempio minuzzoli, ruzzolante, seno turgido. Altri momenti, però, raggiungono apici lirici non indifferenti come più di me fu l’albero oppure un santo senza chiesa o nella bella poesia dedicata alla madre invecchiata che riportiamo per intero
e sarò io domani a doverti
partorire in qualche modo,
su ogni post-it alle tre la pillola,
la conta delle gocce, un tuo necrologio
maglia a maglia disferò
l’ansia di quegli appuntamenti,
ognuno una trafittura nel petto,
da parte a parte
cancellarti da ogni giorno
inesorabilmente
inizierò così ad allattare
il tuo ricordo in un rumore
di ciabatte che
mi cammina dentro
Angela Angiuli, "Storie di un tempo minore"
Storie di un tempo minore
Angela Angiuli
Fara Editore, 2016
È come se lanciassimo qualcosa di noi - scardinato dalla nostra struttura che ci identifica, lontano da un linguaggio comune convenzionale - oltre noi: sarà questo un buon verso. Non cade, non scivola, ma siamo noi a lanciarlo in un immaginario oltre, perché viva di vita propria; una parte che ci appartiene ma che è giusto se ne differenzi per quel suo dire e raccontare aldilà dell’io che l’ha generato.
È il gusto di un momento di grazia: in una lingua impopolare, come inesplorata, un fiato d’anima - o chi per lei - nell’attimo in cui è stritolata da un peso o avvolta da braccia possenti.
Una considerazione che mi ha suggerito la lettura di questa BELLA silloge di Angela Angiuli, Storie di un tempo minore, edito dalla Fara di Alessandro Ramberti. Il titolo, a primo acchito, spiazza un po’, ma tutto si gioca su quell’aggettivo, minore, che - forse … probabilmente… - non indica qualcosa di inferiore ma di subordinato, non di marginale ma di giovane, sorgivo.
Sul retro della copertina, sette righe dell’autrice spiegano il motivo e l’ispirazione di questi versi succosi: un prosimetro
“Questo libro è stato scritto per il dolore di molti e per la vita che in tutti continua a circolare e a sporgerci in avanti, nonostante tutto. È stato scritto in dialogo d’intimo silenzio con Mino, fratello minore, che a 37 anni ha lasciato questa vita per l’Altra. Continuerà ad essere scritto in tutti coloro che leggendolo troveranno voce per tutto quello che in noi non ha suono”.
Ma, da qui, a desumere che si tratti di pagine addolorate dolenti, di quelle che ti portano, insieme all’autore, in un baratro, si sbaglia. Mai, come in questo caso, così valide le parole del filosofo ginevrino Henri Frédéric Amiel
“La poesia è liberazione, perché è una forma di libertà. Lungi dall’essere un’emozione, essa è lo specchio di un’emozione; è al di fuori e al di sopra, tranquilla e serena. Per cantare una sofferenza, bisogna esser già, se non guariti di questa sofferenza, almeno convalescenti. Il canto è sintomo di equilibrio; è una vittoria sul turbamento, è la ripresa delle forze.
E il canto dell’Angiuli ha un che di vittorioso: il dolore trova nel verso una casa, tra le tante, che fanno villaggio e forse l’anima:
A Mino (pag. 31)
Mio fratello è un tramonto di rose
a cui ha mangiato le spine
uno stormo di uccelli di cui ha preso la direzione
e vola vola e guida l’avanzata
delle stelle sul mare
che tanto ha amato fino a traboccare.
Voleva cavalcare le onde - lui - come un puledro,
ci è saltato sopra con un salto gentile
troppo alto per capire, è arrivato fino alle sirene,
ha avuto un bell’ardire.
Veleggia ancora lui dalla spiaggia,
ha mangiato la sua morte, ne ha trovato l’ormeggio
e il coraggio di dire - si -
ad un mondo nuovo che albeggia.
E ancora da pag. 24
I suicidi sono animali interessanti
hanno il becco di un picchio
con cui rompere la scorza della vita
mangiano ossa spellate dalla consunzione
quotidiana
le bucce trovano gustose e pare che gettino il frutto.
Ma io so che hanno la vista lunga
più lunga del desiderio, loro lo sanno attraversare
tarlare il creato fino in fondo
perché il loro frutto non è più qui
ha allungato i rami nel giardino del Vicino,
e loro - lì - se lo vanno a prendere.
La delicatezza di questi versi su un tema che raggela, il tutto “maneggiato” con dita di vento, sottile profumato: parole che non condannano non assolvono - e come potrebbero?... – si limitano a intravedere il giardino del Vicino che sa come prendersi ancora - e per sempre - cura di quei rami che hanno oltrepassato la staccionata.
Affascina in questi versi, in ogni pagina, una fede grande sincera spensierata perché, già da tempo, meditata e sofferta e, quindi, consolidata. E come ogni poesia di fede che si rispetti, di fatto, non parla - né può parlare - di morte, ma solo di resurrezioni.
La poesia è e sarà sempre intraducibile, resterà “regionale” anche se di tanto in tanto tenderà verso altre fonti d’ispirazione – così scrive Harry Martinson, poeta e scrittore svedese, Nobel per la letteratura nel 1974.
Forse - oso - la poesia vera è anche incommentabile: ogni lirica un viaggio, compiuto seguendo un tracciato preciso che ha escluso altre strade; occhi che hanno conservato e raccontato quei paesaggi e non altri; a chiosare un buon verso si rischia di togliere o aggiungere una foglia ad un albero, di suo, già perfetto. Da pag. 41
Scrivo fragile
sono un popolo senza storia
- tracce di mosca - tarli di carta.
Scrivo a matita per il bambino che in me aspetta il semplice
linee storte o oblique per tracciare la Speranza
che fugge ogni misura
Scrive fragile la Nostra, per non disturbare - forse - le voci che la popolano, che in lei convogliano, si intrecciano. Siamo la somma di ciò che leggiamo e più amiamo, una mirabile sintesi. Ma il superamento di quella sintesi - e Angela Angiuli lo sa bene - quando e se arriva, è voce cristallina e vergine di poeta: CHAPEAU !
Miriam Bruni, "Credere nell'attesa"
Da Le lettere di Berlicche di Clive Staples Lewis
Caro Malacoda - è il diavolo Berlicche che scrive al nipote imbranato per addestrarlo al male-, se tenti gli uomini al piacere non fai nulla di utile per noi, in quanto soddisfi anche il nostro Nemico, poiché il piacere fa parte della sua creazione; tenta invece l’uomo all’aridità, all’apatia, portalo adagio adagio nel deserto, e quando è nel deserto impediscigli di pregare: allora avrai vinto anche l’ultima battaglia.
E inizio da qui a parlare di questo libro/scrigno, Credere nell’attesa di Miriam Bruni, Terra d’Ulivi Edizioni. Un qui molto lontano e ancestrale, com’è solo la preghiera, e il brano di Lewis la dice lunga, seppur implicitamente, sull’origine e motivazioni del pregare. Il deserto è sempre dietro la porta di casa, né l’abitudine a sgranare rosari immunizza da quell’aridità: ci vuole un cuore pulsante e un digiuno che graffia perché consapevole di potersi placare solo in quel dire e ribadire a Lui la nostra fiducia – da pag. 5
Solo Tu, solo Tu mi vedi intera e sai
lenire l'incomprensione amara, che ci
rode e a tratti ci sbrana. Non credessi
all'invisibile, Signore, una fossa avrei
scavata, quante volte, a seppellirmi
viva. Ma sei tu l'Oltre che vado cercando.
Che sento, che vedo, è a Te che io chiedo
protezione profonda, l'incursione del Bene
nelle mie piazze, e la pace tua dolce
sulle mie pene. E un poco di luce, quel
tanto che basta per avanzare senza
troppa paura e a sera renderti ogni mia
cosa, sia essa gaia e fiduciosa, oppure
triste e polverosa. Che vita vien fuori,
sarai Tu a dirlo, alla mia fronte
imperlata di Cielo, e alle mie mani
tese a raccogliere del tuo splendore
l'eterna manna, mio Redentore.
Si dice che la poesia non preghi ma faccia pregare, eppure in questo libro, tra queste pagina, sembra di cogliere l’hic et nunc in cui s’aggruma una sofferenza tra le più acute che l’autrice spande sul foglio affinché, alchemicamente, attraverso i segni che ribolliranno sul bianco, si trasformi nella meta più ambita: la speranza. È un filo sottilissimo a separare questa dall’illusione: il rischio è di adagiarsi troppo nell’attesa di tempi migliori e crogiolarsi non attivandosi, o di scattare troppo in avanti sostenuti da una visione che non appartiene al presente.
È necessario quindi rimanere ben radicati alla realtà, per quanto dolorosa e inaccettabile, perché la speranza sia sempre più credibile e si concretizzi in un ventaglio di possibilità. Una strada tutta in salita: è sperare la cosa più difficile, a voce bassa e vergognosamente. La cosa facile è disperare ed è la grande tentazione (Charles Peguy)
Ecco che “vedo” Miriam chiamare per nome il suo dolore e, pensosa ma ritta, affrontarlo … - da pag. 59
E' agosto e ho iniziato la chemio.
Nello sforzo costante alla pazienza
le mie labbra sono chiuse.
Devi guardarmi
come una muta nube, madre.
Agli uccelli di cui odo il suono
cerco di dare un nome,
come col verso delle bestie
di fattoria o di cortile. Ma qual è
il verbo dei cortei celesti?
E' da sola che lo imparo,
nella pace che mi coglie
se li guardo, come quando
sul finire del fuoco puntualmente
mi ristoro di brace
e ancora – da pag. 12
Spoliazione
Dei due massimi emblemi
del femminile: capelli e seno;
caduti entrambi in una
manciata di settimane.
Ma resto donna e a tratti
mi assale una pena
che mi schiude e poi richiude
come il sogno che non si fa
reale. Fossi di pietra, ora,
non sentirei dolore
per le miriadi di cellule
programmate a morire.
Non sentirei pesantezze,
fastidi, nausee, timori.
Ma nemmeno questa musica
o le vostre preghiere.
Ma faremmo un torto a questo bel libro, alla sua autrice, se non mostrassimo anche il “lato rosato” delle sue parole. Rosata com’è la quiete, una modalità altra di essere felici. In essa non si soffre più la resistenza, l’assenza di fatica nella vita normale è inedia, ma nella quiete diventa l’attimo più vicino all’infinito – da pag. 62
Le foglie d'ottobre
cominciano a cadere, sì,
a scricchiolare
sotto le suole, mentre noi
di felicità
fatichiamo anche solo
a parlare. Invece
del cielo
gli stormi d'uccelli
fan piste di ghiaccio
su cui eseguire
-beati e veloci -coreografie
da lasciare estasiati.
Ancora la calura
non raggiunge
i piani alti.
Si irradia mansueta
la sera e San Luca
è una torta illuminata.
Sono tornate
le rondini
a graffiare la luna,
a suonare
i tasti del cielo
-spensierate.
E ancora – da pag. 35
Per chi può volare alto
il pervinca
è un aperto nascondiglio,
non li puoi vedere in cielo,
ti accontenti
dei rubini tra le spighe verde-luce,
delle api a crogiolarsi,
strofinarsi
dentro i fiori. Per chi è povero
di sogni realizzati è ricchissima
miniera la natura; le colline
a inizio giugno
ricoperte da criniere
e le nubi a incoronare
l'orizzonte così belle che vi affondi
con la mano della mente,
mentre foglie, fili d'erba
e petali leggeri, tutto ti ricorda
che da un vento
di carezze tu nascevi.
Ciò che barra il cammino è sempre la paura - s’incarna, stravolge, sa come sradicare i piedi dal reale - così la strada si biforca: da una parte la disperazione, quello stare nel deserto che è fissità e attesa dell’ineluttabile di cui parla il vecchio diavolo Berlicche; l’altra… l’altra esige un colpo di reni per approdare al coraggio della vita e della sua difesa estrema: e la preghiera, qui, non è l’auspicio di una maggiore energia che ci faccia approdare al coraggio di cui sopra, ma è già quel colpo di reni.
E termino con una breve poesia che, a mio avviso, appartiene a tutti noi, a me che mi diletto di poesia sino a scriverne più o meno indegnamente – da pag. 9
Sono loro ad ordinare
“Fammi fiume, fammi pane”.
Sono loro, le parole
a farsi vive, necessarie.
E quanto siano necessarie e salvifiche a Miriam, a tutti noi che continuiamo a proteggere la parte migliore, l’essenza, quella, forse, più vicina all’anima, lo spiega ancora e mirabilmente Shakespeare
Dà al tuo dolore le parole che esige. Il dolore che non parla, sussurra
bensì a un cuore troppo affranto l'ordine di schiantarsi.
Vincenzo d'Alessio, "Immagine convessa"
Conosco l’autore e ho aperto questo libro, Immagine convessa – Fara Editore 2017, conscia di trovare all’interno, oltre alla poesia, il sapore del grande romanzo: quel tutto organico che restituisce una precisa atmosfera da cui, tu lettore, non ti divincoli tanto è solida e ben costruita. Un buon libro di poesie - e questo è un libro di poesie - è come entrare in una casa che ha una sua precisa identità: ne percepisci i profumi, le ombre tenaci e quelle più docili alla luce variabile del giorno, gli angoli già carichi di storia, quelli con pareti pastello pronti a darti il benvenuto e altre dove fanno da protagoniste tende immobili statuarie e, dietro, una finestra che da tempo non si apre più. Un buon libro di poesie ha in sé l’invito ad entrare nello spazio esistenziale di chi l’ha scritto, di chi ha saputo raccogliere nell’unico linguaggio che gli è più consono, i suoi silenzi.
Titolo e copertina - che rappresenta la foto del figlio dell’autore, Antonio, morto giovane e bello -, sono un tutt’uno: l’uno spiega l’altra e viceversa. Non penso esista un genitore che vorrebbe sopravvivere alla morte di un figlio: con lui - il figlio - si spegne il mondo di chi, come un genitore appunto, lo ha amato visceralmente ed ha intrecciato nel bene e nel male la propria vita alla sua; di chi, ora, non sa più che farsene della propria vita così sprogrammata e, per sempre, disarticolata da tanto dolore. A meno che - a meno che … - non si raggiunga un compromesso e, quindi, una sorta di possibile convivenza con una sofferenza accesa sempre, ma che ora si lascia centellinare. Vela ancora gli occhi e ancora deforma l’immagine: ogni immagine, che torna convessa verso l’alto come un calice colmo di tanta appassionata umanità: chiavi di un regno, mappa di tanti orizzonti.
Da pag. 79 (meravigliosa!)
Posso dirti che non mi piace
vederti seduto ad aspettarmi
tra lapidi bianche al cimitero
meglio è sentirti con me
immergere gli occhi nel cielo
limpido delle terre verdi
dove siamo nati, Antonio
concerto di mare verso le sabbie
dorate di Camerota i frulli
salmastri del rosmarino nel vento
ci insegue mordendo i capelli
vieni, i fratelli vicini, mia moglie
ti guarda, quasi spia, la tua dolcezza
che piace a Dio.
Da pag 75
Ti hanno vestito con l’abito
buono, sorridevi baciato
dal tuo amore per la vita
le lunga dita ancora in fiore
come le corde del contrabbasso
Sei bello per sempre di fronte
all’eterno cuore leggero
del tuo sogno: si muore
dormendo dopo una lunga
notte d’amore.
In quanto esposto prima, la chiave di lettura del libro. Mi accosto ora ad altri argomenti, cari al nostro D’Alessio, precisando che ogni tema non è presentato - e affrontato - da nostalgico, ma da testimone, uno di quelli che teme l’adattamento a ciò che non va, la resa ad una memoria/automatismo senza la vividezza del ricordo; quel testimone, insomma, che non ha fatto il callo a ciò che non va e lo denuncia ancora una volta. Ecco che il verso è una sorta di memento lasciato al vento perché almeno una folata raggiunga e allerti sempre il futuro.
Da pag. 76
Padre Bosco che sei
più in alto siano santificati
i tuoi faggi vengano
le tue sorgenti a rinnovare
le valli sia fatta la tua volontà
uccelli nel cielo fiori sulla terra
dacci sempre il tuo fresco quotidiano
perdona i nostri errori
non ci privare dei tuoi doni
ma rinnovali nell’eterno
delle tue stagioni: Amen!
Da pag. 77
Dove vanno i giovani del Sud
i loro cognomi sparsi
ai quattro venti, gli occhi
spiritati di colore, le mani
calde di lavoro? Sciamano
rondini anonime dal deserto
delle nostre terre
pugni stretti ai fianchi solchi
sulla fronte portano la dignità
dei sogni avuti al sole.
Il Nord del mondo è
tempesta d’odio e di serpenti.
Giovani del sud onore
mai smarrito.
C’è una dimensione che pregna l’intero libro ed è quella della preghiera. Non è tanto l’esplicita devozione a Dio, comunque molto presente nel Nostro, ma una sorta di condivisione e partecipazione alla Vita di sempre e di tutti, con le proprie umane e precarie capacità, da figlio e fratello - veri e propri legami di sangue da quell’umanità che stilla un dolorepersempre.
Pregare è pensare al senso della vita, citazione di Wittgenstein alla quale fa quasi da rifinitura quella di Martin Heidegger, pensare è ringraziare, come a dire che quando si iniziano a toccare certe profondità si incontrano tanti e tali cieli che il porgersi di un poeta ha sempre un sottofondo di gratitudine e pelle accapponata
Da Pag. 33
La notte è un groviglio di rovi
per gli occhi in preghiera
per mani mansuete al giaciglio
il sole arancio sulle terre
nel sacro velo del cielo
beata te rondine che torni
non sappiamo se figlia
madre sposa della passata
stagione il tuo volo non muore
il nostro cade nel rantolo
antico delle ore.
Da pag. 97
Signore, posso chiederti dove
comincia il cielo dei poveri?
L’acqua del loro pianto è
polvere nel fuoco delle armi
il sangue dei figli è rosa
del deserto, puoi sentire
per amore della tua carne
queste grida?
E termino la mia riflessione che, come altre precedenti, non nasconde un pensiero affettuoso e di stima verso questo Poeta - in privato gli ho scritto che avrei voluto essere io l’autore del suo libro - col finale di una poesia di Paul Celan che ben si adatta a condensare il sapore lasciato dalla lettura
fanno restare senza fiato, oggi,
le mani giunte.
Angela Caccia
Angela Caccia, "Il tocco abarico del dubbio"
Il tocco abarico del dubbio
Angela Caccia
FaraEditore
pp 93
10,00
Non aver paura delle emozioni, dei sentimenti e della bellezza è una buona cosa, troppo spesso considerata fuori moda.
“Il tocco abarico del dubbio” è una silloge di Angela Caccia che riesce ancora a commuoverci. Il titolo si rifà a quel punto - il punto abarico - a gravità zero, dove l’attrazione della terra e della luna si annullano. Lì risiede il dubbio, che ci permette l’indagine, la quale, a sua volta, istrada verso il sé, verso un esserci nel mondo, un Dasein di heideggeriana memoria.
Queste poesie, divise in sezioni e precedute da brevi introduzioni in prosa lirica, toccano argomenti universali che ci accomunano tutti.
La morte, in primis. “Gli occhi di una lapide mettono sempre malinconia: non guardano più nessuno”, “il sangue resta tiepido dei tanti sogni interrotti.” Da una parte essa ci limita, dall’altra, come in Heidegger, ci rende più liberi, permettendo di ripensare la nostra vita e sceglierne una più autentica.
Altro tema è il rapporto filiale, inteso come distacco dal genitore defunto, memoria dolce inasprita dall’assenza, ma anche continuazione di sé nei figli, progetto. Ma i figli, scopriamo, sono altro da noi, sono alterità e futuro, pur portandosi dietro i geni e il ricordo delle generazioni passate. Un ulteriore motivo è la nostalgia di tutto ciò che era e che non torna.
“Nei tuoi occhi
i resti di una assenza
che tu ignori e
io non perdono
-non l’ho pianta né sepolta
È lì in una leggenda
E annotta oltre le mie croci.”
Grande spazio è dato alla poesia stessa, all’atto del poetare vissuto come imprescindibile, come sfogo ma anche ricerca, genesi difficile di ogni parola: distillata, irrinunciabile, capace d’incarnare un singolo pensiero e solo quello.
“- Non serve lavorare in sottrazione –
incedono chiari i versi
si prendono per mano
le parole esatte”
“bisognerà che scavi
nelle consonanti
tra le vocali
associare al suono
odori canto immagini”
Ma la parola è comunque insufficiente (“parola che non sani”).
Le poesie nascono da riflessioni, osservazioni, quadri, accadimenti: una vita che si spezza, un funerale, una bambina che non ha conosciuto il nonno, un giorno in ospedale, lo sbarco dei migranti a Lampedusa, un cane morente, una rimpatriata con i compagni di scuola. Eventi spiccioli che diventano ispirazione poetica per un animo sensibile. La Caccia non si accontenta di viverli, ma vuole analizzare le emozioni che essi suscitano, esperirle, ricrearle con fine gnoseologico. Le poesie arginano l’emozione, la incanalano, fenomenologicamente avvalorano l’esistente perché sono scorciatoie intuitive.
“Uno solo
il vocabolo giusto che
aderisce all’attimo
e trova il bandolo
di un groviglio lanoso
in petto”
Una parte non minore ha la ricerca religiosa, il bisogno di superare la morte nella fede.
“C’è poi una storia antica che parla di vita oltre, di resurrezione, di eternità. Racconta che nessuno riposa nella morte, ma procede imperterrito nel suo slancio vitale, più vivo che mai. A volte questa è la risposta più adeguata.”
Concludiamo riportando una poesia, semplice e molto bella, dove l’autrice, più che trasfigurare gli eventi, è capace, attraverso la sua sensibilità, di coglierne l’aspetto poetico e la non scontata commozione.
Per i tuoi occhi
Resisti Nina
resisti da sola
così curva
in questa pozza di dolore
ci fosse un dio dei cani…
Non ho parole sacre
per i tuoi occhi
stelle senza capanna
sullo stesso meridiano dell’umano:
privilegio di chi vive
è la morte!
Laghi castani
appannati da un fondale
che la sabbia sconvolge
atolli
dove il mio amarti
ha perso le chiavi