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Poesia 24

11 Aprile 2024 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #poesia, #riviste letterarie

 

 

 

 

Poesia 24
Rivista Internazionale di Cultura Poetica
Marzo/Aprile 2024

Ogni numero di Poesia è una scoperta, una finestra sul mondo della lirica internazionale che apre nuovi orizzonti e al tempo stesso fa viaggiare nel tempo per portare a conoscere opere ignote e far riemergere poeti del passato. Nel numero 24 (Euro 14 per 130 pagine) rileggiamo Vittorio Sereni (1913 - 1983) nel quarantennale della scomparsa con un grande libro Mondadori e con un pezzo di Daniele Piccini che rivede Leopardi e Petrarca in un pugno di versi del poeta di Luino. Si tratta di poesia intrisa di musica atonale, dice il commentatore, che va verso la prosa. Subito dopo scopriamo un crepuscolare minore come Carlo Chiaves (1882 - 1919), presentato da Silvio Ramat, un autore che attinge a piene mani dalla lettura di Pascoli e D’Annunzio, fa poesia autobiografica e muore giovane per colpa di un attacco cardiaco. I problemi di salute fanno in modo che Chiaves non partecipi al primo conflitto mondiale ma sono anche la causa di una prematura comparsa. Il poeta è uno strano essere che vive fantasticando, tra sogno e ironia, come dice il titolo della sua unica opera, anche se con Chiaves siamo dalle parti della cultura storica più che del valore letterario. Daniele Ventre e la sua Odissea commentata - presentato da Maria Clelia Cardona -  ci porta nel mondo classico, un volume di 1.310 pagine edito da Ponte alle Grazie, davvero uno sforzo culturale immenso per una traduzione critica dei famosi versi che approfondisce la questione omerica e tutto quel che ruota attorno. Gabriele Morelli, invece, traduce un grande poeta spagnolo contemporaneo come Martin López Vega (che non conoscevo, quindi ringrazio) e la sua opera base El uso del radar en mar abierto, una riflessione sul senso del destino e dell’esistenza. Tra viaggi, incontri e senso della vita, scopriamo che l’amore è l’ancora di salvezza, niente di nuovo sotto il sole, ma molto spesso non è quel che si dice a fare la differenza ma - come in questo caso - il modo in cui si dice. López Vega traduce Pasolini e Sgalambro in spagnolo, per questo benemerito, merita di essere letto anche solo per il verso “ma è chi resta che davvero costruisce la verità”, perché la soluzione di fuggire è solo la più facile, non la più giusta. Poesia presenta in questo numero anche un Opificio delle voci nuove, a cura di Giulia Martini, che introduce al mondo lirico di tre poeti classe 2001 (sarebbero giovani anche come calciatori, figurarsi come poeti!) che già hanno lasciato il segno come redattori e autori di opere in versi tradotte in molte lingue. Sto parlando di Rebecca Garbin, Mattia Tarantino e Imperatrice Bruno, che meritano un’attenta lettura. David Riondino abbassa il livello del numero 24, purtroppo, ché ricordo l’autore ottimo regista di Biciclette ai tropici e buon umorista con la chitarra in mano, mentre sul valore poetico delle sue terzine ospedaliere esprimo le più ampie riserve. Adam Ansky (1838 - 1897) ci riporta in alto come poeta di un’era impoetica, un post romantico polacco presentato da Valeria Rossella, con i suoi sonetti filosofici tratti dal ciclo Sugli abissi che parlano di solidarietà e auspicano un ponte tra generazioni. Torniamo al mondo classico con le Georgiche di Virgilio e la splendida (quanto libera) traduzione di Giancarlo Pontiggia dei versi 125 - 146 del quarto libro, dedicati a Il vecchio di Corico. Siamo in presenza di una sorta di lectio magistralis di grande spessore e complessa interpretazione (pure per me che provengo da studi classici) che contrasta non poco con la pubblicazione dei versi di Riondino nelle pagine precedenti. Bravissima Anna Maria Carpi (Milano, 1938) che con un florilegio di liriche ci fa riflettere sul senso della vita, al solito conta come si scrivono certi argomenti universali; la poetessa lo fa molto bene, con semplicità lirica e concetti alla portata di tutte le teste (per me un valore aggiunto). Stefano Carrai commenta la poesia moderna e contemporanea in poche paginette, prima di lasciare il lettore alla scoperta di Claudio Damiani con la sua ricerca spirituale di un motore universale che fa ruotare il mondo. Poesia sociale che condanna guerra e violenza, quella di Damiani, senza dimenticare ingiustizie di ogni tipo, disuguaglianze e fame nel mondo. Chiudono una buona rivista, che come sempre consigliamo, un estratto di quarant’anni di lettere inedite (1935 - 1975) di Eugenio Montale a Carlo Bo, presentate da Stefano Verdino, edite da Raffaelli Editore (Rimini 2023).

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Domenico Minardi, "Qunand' ca sémia burdèl"

10 Aprile 2024 , Scritto da Raffaele Piazza Con tag #raffaele piazza, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

Domenico Minardi

 

QUAND ’CA SÉMIA BURDÈL

 (Quando eravamo ragazzi)

 

In Quando eravamo ragazzi Domenico Minardi diviene un cantore della vita e ottimisticamente in versi descrive efficacemente la gioia dell’essere sotto specie umana per dirla con Mario Luzi.

Questa felicità, come per Leopardi e Pavese, si riferisce in particolare alla giovinezza e alla sua riattualizzazione nell’età matura.

Il poeta ha scritto queste poesie da adulto e in esse serpeggia lo scarto e lo scatto memoriale come in Alla ricerca del tempo perduto di Proust.

Lo scavare nella memoria del poeta è struggente ma senza autocompiacimenti e senza gemersi addosso: al contrario il poeta, che anche da adulto sa apprezzare la gioia della vita come dono, rievoca la giovinezza con la sua verginità morale di un’anima in formazione.

Minardi è romagnolo e molto legato alle radici del suo paese natio, alla campagna alla terra e alla natura oltre che agli affetti familiari e ama il suo microcosmo il paesino dove vive che sembra proteggerlo dal mare magnum del mondo che è fuori. In questo il poeta è paragonabile a Giovanni Pascoli nel fare del cronotopo dove è nato e vive un luogo di elezione e contrariamente allo stesso Leopardi non ama il naufragare cosmico dell’individuo negli spazi infiniti dell’universo.

I componimenti in italiano presentano la traduzione nel dialetto della sua terra e l’uso del dialetto del suo paese conferma l’amore per il luogo natale unico per caratteristiche antropologiche rispetto a ogni altro posto come ogni paese del mondo.

Le generazioni si susseguono e il poeta è conscio che questo è il normale iter della vita e qui viene affrontato il tema del senso del profitto domestico comune alla specie che si coniuga a sentimenti nobili che nel terzo millennio liquido, consumistico e alienato sembrano essersi persi definitivamente.

L’adulto Minardi era conscio perfettamente dell’importanza per il raggiungimento della felicità del dovere sentirsi giovani nell’anima e nel corpo anche nella maturità e nella vecchiaia e lo scrivere poesie, che sono generate dai ricordi della giovinezza e direi anche dall’adolescenza, lo aiuta a sentirsi giovane.

Del resto un noto pedagogista ha scritto un saggio intitolato Elogio dell’immaturità nel quale mette in luce il fatto che è salutare avere un approccio adolescenziale con la vita a tutte l’età e lo stesso San Giuseppe Moscati nei suoi scritti ha affermato che i ricordi dell’adolescenza, della giovinezza e dell’infanzia rielaborati nella mente in età matura fanno bene al corpo e all’anima dell’uomo.

Il lettore s’identica nell’io-poetante quando scrive nella poesia eponima: - “Stavamo in una capanna sopra un fosso / fatta di canne di lamiera e qualche bastone / ricoperta di stracci turchini, gialli o rossi / e una fionda posata in un angolo”; qui il tema del gioco diviene, nel minuzioso rivelarsi dei particolari, stato soave per dirla con il recanatese, gioco che è preludio di quello della vita adulta fatta di responsabilità, ma non per questo vissuta a 360 gradi con spensieratezza, come antidoto ai malesseri della società dai quali l’individuo non riesce a sottrarsi.

Raffaele Piazza

 

 

 

Domenico Minardi, Quand ’ca sémia burdèl (Quando eravamo ragazzi), prefazione di Enzo Concardi, postfazione di Pier Guido Raggini, Guido Miano Editore, Milano 2023, pp. 84, isbn 979-12-81351-11-0, mianoposta@gmail.com.

 

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Federica Cabras, "Dannata"

9 Aprile 2024 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #federica cabras, #recensioni

 

 

 

 

Dannata

Federica Cabras

O.D.E. Edizioni, 2023

pp 250

 

 

Come ormai sappiamo, i generi preferiti della scrittrice ogliastrina Federica Cabras sono il chicklit brioso e conversazionale e l’horror cupo e tormentato. Dannata, la sua più recente fatica per la O.D.E. Edizioni, appartiene a quest’ultimo canone.

Maddalena Sirigu è bella, dinamica e con un buon lavoro. Si è da poco separata da un marito infantile, sposato solo perché incinta, il quale, però, l’ha tradita. Ha una figlia di due anni che è la luce dei suoi occhi, amata follemente fin dal concepimento. Durante la festa del compleanno della piccola, la bambina, momentaneamente affidata alla nonna paterna, ingurgita una tartina al würstel e si strozza. Muore in un istante, senza che nessuno possa far nulla per salvarla. Prima c’era ora e non c’è più, prima sorrideva, faceva il broncio, correva sulle gambette paffute e ora giace in una bara a decomporsi.

Devastata da un dolore sovrumano e innaturale, Maddalena non ha più motivo di continuare a respirare e a farsi battere il cuore, a meno che… a meno che non riesca a riavere ciò che ha perso, a riportare in vita la bambina deceduta. Per farlo, per non sentire più la lancinante sofferenza e il mostruoso vuoto, è disposta a tutto, anche a seguire la via più oscura e orrida, a scendere a patti col Male assoluto.

Quanta cattiveria c’è in ognuno di noi, anche nella persona più semplice e perbene? Quanto è facile per Satana far breccia nelle nostre difese, nei nostri rimorsi, nei nostri sensi di colpa, nei nostri desideri, e indurci a compiere atti impensabili?

C’è un riscatto da tutto questo? Forse sì, ancora una volta nell’amore. Quello della protagonista per Satana nel romanzo è un po’ “di maniera” e, infatti, non regge il confronto con l’amore materno, con quel sentimento atavico e primigenio che è l’essere madre, quello che ti fa rinunciare anche alla tua stessa vita in favore del sangue del tuo sangue.

Senza svelare il finale, posso dire che Maddalena e il suo rapporto col diavolo incarnano anche il contrasto fra amore materno e amore sessuale, quanto spesso la donna preferisca la maternità al rapporto di coppia, quanto possa sentirsi sottilmente in colpa e lacerata in entrambi i casi.

La Cabras riesce, come suo solito, a farti provare tutta la desolante disperazione del lutto, cosa nella quale è bravissima, ma anche lo spaventoso procedere verso l’orrore e il male. Talmente inquietante, realistica e coinvolgente a sua penna che, nel rileggere il testo per recensirlo, ho dovuto fermarmi, fare delle pause per non soccombere all’angoscia. 

In questo horror ci sono tutti i topoi del genere: la bambina in stile bambola assassina, il patto di sangue, l’accoppiamento con l’essere sovrannaturale. Ma ci sono anche, ben rappresentati, i risvolti psicologici di una situazione terribile come la perdita di un figlio. Si passa attraverso ogni stadio del lutto, dall’incredulità, alla rimozione del senso di colpa tramite attribuzione della stessa ad altri, alla ricerca di una via d’uscita, d’un rimedio che non ci può e non ci deve essere.

Insomma, ci insegna l’autrice, i morti è meglio lasciali lì dove stanno.

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Giuseppe Benassi, "Una favolosa eredità"

8 Aprile 2024 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

 

 

 

Una favolosa eredità

Giuseppe Benassi

Extempora Edizioni, 2024

pp 324

16,00

 

Una cavalcata nel disgusto, sempre più esplicito, sempre meno mitigato dal sublime dell’arte o dal lirismo del paesaggio, quest’ultima fatica di Giuseppe Benassi. In Una favolosa eredità ritroviamo l’immancabile avvocato labronico Borrani alle prese con un caso pieno di cavilli legali oltre che penali, un’ingente eredità contesa fra quattro persone, con altrettanti testamenti a favore ora dell’uno ora dell’altro. Ci scappa il morto, come viene preconizzato dalla prima vittima nell’incipit del romanzo, anzi, i morti ammazzati sono due, e non è facile districarsi fra i vari personaggi, che hanno tutti più o meno un motivo per delinquere. L’ambiente in cui ci si muove non è più Livorno bensì Fauglia, dolce e perversa campagna toscana, fatta di arte, di vecchie ville polverose, di odi e risentimenti inconfessabili. Le eredità sono contese, la gente muore in circostanze misteriose, gli avvocati si scannano, c’è di mezzo persino un autentico Michelangelo, l’arte alla fine vince su tutto e beato chi può goderne a pieno, riscattando persino il male commesso in una sorta di Parnaso.

La vicenda gialla è, come negli altri romanzi di Benassi, un pretesto per indagare nell’animo umano, con sempre maggiore schifo e insofferenza. Ma, si sa, dove c’è disprezzo c’è invidia. O forse c’è un malcelato mettersi a nudo, oggettivarsi, alienarsi per poter sguazzare nella melma tenendo a bada il senso di colpa.

Borrani insiste sulla vita sessuale e privata dei personaggi che incontra, addentrandosi in particolari scabrosi che evidentemente lo affascinano e insieme repellono, mostrandone sempre maggiore conoscenza e dimestichezza. Inalterato è anche il disdegno per gli altri avvocati, legulei untuosi e avidi come avvoltoi, che si avventano sui testamenti dei defunti. Come al solito non si fa sconto a nessuno.

Rispetto alle altre opere di Benassi c’è molto meno esoterismo, meno intellettualismo culturale e molto più resoconto dell’ambiente legale, fatto di tribunali, perizie, giudici e portaborse. Un ecosistema che l’autore conosce bene, essendo avvocato.

Qualcuno ha paragonato Benassi a Federigo Tozzi. Non so se il paragone sia calzante ma l’oggettivazione dello squallore c’è tutta, e insistita, spesso neppure finalizzata alla trama. Ed è presente anche l’alternanza fra realismo e lirismo.

La morte è vista dall’autore come un contrappasso alla depravazione, di tutti i protagonisti indistintamente, persino dei più insospettabili. Nessuno è esente da peccati, da vizi nascosti, da pervertimenti. Alla fine la colpa per eccellenza rimane sempre “l’omosessualità”, vagheggiata e insieme disprezzata, sublimata e insieme esperita nel peggiore dei modi.

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La madre di Sara

7 Aprile 2024 , Scritto da Giuseppe Scilipoti Con tag #giuseppe scilipoti, #racconto

 

Immagine generata con PicFinder AI

 

 

 

Sara appoggiò dei fiori sopra una sedia e si sedette sul bordo del letto accanto ad Ada, la madre, accarezzandole la testa. Poi si rivolse a Sergei, l'infermiere ucraino, un uomo gentile, ma riservato.

«A colazione ha mangiato?» gli chiese. 

L'operatore sanitario fece un cenno negativo col capo ed uscì dalla stanza per continuare a svolgere le mansioni.

Sara sospirò, tenendo la mano dell'anziana genitrice, come per paura di perderla anche fisicamente da un momento all'altro. Ada rimase immobile, con un'espressione vitrea che contribuiva a rafforzare quella sorta di baratro invalicabile.

La mattinata passò, l'orario di visita finì, tra silenzi, qualche frase e poche righe scritte su della carta beige da una figlia sopraffatta dal cupo dolore.

«Mammina, tornerò domani» le promise Sara, dandole un bacio sulla fronte. Nel lasciare la camera dimenticò la penna stilografica e il diario aperto sul comodino da RSA dalle quattro ruote piroettanti. 

Ecco cosa aveva scritto quel giorno, in data 29 settembre 2018: 

«Caro diario, oggi è l'onomastico della mamma, le ho portato un mazzo di girasoli. Li ha sempre adorati, tanto da desiderare di riceverli in regalo ad ogni occasione.

Lei, l'angelo più dolce, è stata rapita da un mostro terribile ed io non riesco a liberarla. E mai ci riuscirò.

Quanto mi manca la sua...»

Le parole si interrompevano bruscamente. Tuttavia alcune macchie circolari, che rappresentavano impronte di lacrime, in un certo senso proseguivano quel fiume in piena di emozioni d'inchiostro.

 

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La casa colonica

6 Aprile 2024 , Scritto da Giuseppe Scilipoti Con tag #giuseppe scilipoti, #racconto

 

Immagine generata con PicFinder AI

 

 

 

Una casa distrutta, lasciata in balia del trascorrere del tempo. Una casa fantasma senza fantasmi. Una casa che una volta aveva un focolare domestico. Evocazione e suggestione, ecco cosa provo. 

Io, soldato, mi ritrovo col tipico camuffamento militare per un addestramento ai Colli San Rizzo, imboscato in mezzo al marciume con un fucile caricato a salve in attesa dei “nemici.

Non sono da solo. Gioele, il mio commilitone, fa caciara con il cellulare, non prendendo seriamente il compito assegnato. Gli chiedo di fare silenzio e di mostrare osservanza per questa dimora rurale. 

«In caso verremo "ammazzati", ci pagheranno lo stesso» mi dice con leggerezza. 

Quattro spari. Siamo stati “colpiti”, peccando ahimè di distrazione. Ci accasciamo per rendere realistica la simulazione, per poi rialzarci e raggiungere il plotone. Quel che è certo è che un pezzettino del mio cuore è rimasto lì, a terra, vicino a un decrepito caminetto.

 

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Il meteorite gigante

5 Aprile 2024 , Scritto da Giuseppe scilipoti Con tag #giuseppe scilipoti, #racconto, #fantascienza

 

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Un meteorite gigante, tra una quarantina di minuti, si schianterà sulla Terra, si prevede una catena di eruzioni dalle quali seguirà l'esplosione che spazzerà via tutto quanto.

Negli ultimi anni gli scienziati hanno vagliato le possibilità di evitare l'imminente catastrofe, senza però giungere a una soluzione. Addirittura un generale dell'Aeronautica Spaziale ha proposto di distruggere l'enorme aerolite tramite i missili atomici, praticamente seguendo l'esempio di un antichissimo lungometraggio intitolato Meteor con Sean Connery e Natalie Wood, per poi sentirsi dire dai vertici dell'Esagono che tale idea era da ritenersi mera fantascienza.

Ho deciso di restare a casa. Le ciotole di popcorn, di patatine e di salatini che si trovano sul tavolino del salotto, aspettano di essere svuotate. Nel frattempo in TV stanno trasmettendo la diretta. 

Cercherò di non commuovermi durante le sequenze dell'impatto che sancirà la fine del pianeta Terra, tra l'altro disabitata visto che venne abbandonata dai nostri antenati circa trecento anni fa.

Meno male che ho pagato l'abbonamento mensile a Mars Channel, sennò mi perdevo l'evento.

 

 

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Marisa Marchesi Carli, "Il portolano"

4 Aprile 2024 , Scritto da Marcella Mellea Con tag #marcella mellea, #recensioni, #poesia

 

 

 

Il portolano

Marisa Marchesi Carli

 Guido Miano Editore, Milano 2024.

 

Intima e carica di sentimento si presenta la silloge Il portolano di Marisa Marchesi Carli, che dedica i suoi versi ai figli e ai suoi alunni: affetti che travalicano ogni spazio e ogni tempo. Le prime tre liriche: Alessia, Samuele, Micol, registrano, infatti, il momento della nascita dei figli dell’autrice, momenti di magica e delicata bellezza; la lirica Li ricordo tutti ripercorre con dolcezza il ruolo d’insegnante che l’autrice ha ricoperto per diversi anni: il ricordo indelebile dei piccoli alunni, dei loro semplici e genuini gesti, ha riempito e riempie ancora di gioia il cuore dell’autrice.

La poetessa apre il ventaglio delle sue ispirazioni a tematiche varie; scrive versi per esprimere gratitudine a poeti e artisti, che hanno avuto un’influenza importante per la sua crescita umana e culturale, come Dante, Leopardi, Pablo Neruda; celebra la bellezza di luoghi, come l’Arno, Capri, Logonovo, l’Abruzzo, Hanga (villaggio della Tanzania), il porto di Ravenna, monumenti come Palazzo Vecchio, le antiche mura di Ferrara, luoghi cari all’autrice, in cui il finito e l’infinito si incontrano e diventano luoghi dell’anima. La chiesetta dei malati è per l’autrice il luogo in cui comprende che il dolore non è qualcosa di individuale ma fa parte della vita ed è comune a tutto il genere umano, e la vita è un dono prezioso per il quale essere sempre “debitori grati”.

L’autrice, pur nella sofferenza e nel dolore per gli eventi della vita, cerca sempre la bellezza e l’armonia e li trova in tutto quello che la circonda o si presenta davanti ai suoi occhi: il mare, il cielo, il fiume, il sole, i monti; il mondo esperienziale e il mondo ideale si fondono e regalano momenti d’illuminazione, creando poesia. L’autrice compone, a volte, versi su persone che rappresentano un prototipo umano, che non hanno un nome proprio, ma rappresentano una categoria, come i pescatori o il contadino, e ne celebra la dignità nel lavoro e nella fatica.

In altre liriche l’autrice ci parla, in modo nostalgico, di affetti che rimangono per sempre nel luogo simbolo dei ricordi: il cuore. Le liriche dedicate alla mamma e alla nonna, fotografano momenti di amore, dedizione e dolcezza, e si caricano di intensa intimità.

Di particolare pregio è la poesia Spesso la sofferenza ho incontrato, che riecheggia la famosa poesia di Montale Spesso il male di vivere ho incontrato: qui Montale, che sfrutta appieno l’espediente del “correlativo oggettivo” (oggetti-situazioni usati per rappresentare altro), rappresenta il male di vivere con il «rivo strozzato che gorgoglia», «l’incartocciarsi della foglia riarsa», il «cavallo stramazzato», tutte immagini cariche di dolore che per associazione provocano una intensa emozione. Marisa Marchesi Carli nella sua poesia Spesso la sofferenza ho incontrato ci parla della sofferenza, descrivendola con tinte forti: «Spesso la sofferenza / ho incontrato, / letta in un volto, / colta in un gesto. / A volte tesa / allo sfuggirne / o accolto giaciglio / di speranze spente. / In ogni dove / luce ardente di dolore, / brace di lotta rovente / o smorzata cenere di rassegnazione»; l’immagine della sofferenza come brace rovente è una immagine potente che rende straziante l’idea del dolore umano, e fa scaturire immediatamente un’intensa emozione.

La silloge si conclude con la lirica Il portolano, da cui prende nome tutta l’opera. La parola “portolano” deriva dal latino portus (porto), e rappresenta un manuale per la navigazione costiera e portuale o aeronautica, un vero e proprio manuale di riferimento relativo ai porti, con la descrizione fisica della zona, completa di segnalazioni su eventuali rischi per la navigazione (presenza di un relitto o di una secca, ad esempio) e di ogni indicazione su come procedere nel modo più sicuro alle manovre di entrata e agli ancoraggi. Dal titolo riusciamo a comprendere l’intenzione dell’autrice, che vuole essere quella di consegnare al lettore un insieme di pensieri, di osservazioni, di riflessioni, che lei ha acquisito “a bordo” del metaforico viaggio della vita, dalle esperienze vissute giorno dopo giorno, dalle situazioni che hanno intrecciato e percorso tutta la sua vita: «Il portolano, / pensieri a bordo / della vita, / intreccio d’eventi» (Il portolano). La metafora della vita che scorre inesorabilmente, la troviamo anche in un’altra delicata poesia presente nella silloge: «Scorre il fiume / giorni in sequenza / accompagnando. / Lungo il suo corso / arena e trattiene / o a dispersione reca.  / Vanno i passi segnando / le ovattate orme. / Lontani echi affiorano, / s’arresta memoria / a ritroso, / nelle gioie vissute» (Scorre il fiume).

Nella lirica Al poeta ci esplicita chiaramente il suo concetto di poesia e la funzione del poeta: «Quale il senso della parola, / messaggio di pensiero, / domandi alla ragione / che al segno induce; / non per parlare con te stesso. / La tua voce è segno dell’essere / che ad altro si porta e si ritrova e avvolge, / ed eco si diffonde / più potente, forte e battagliera / ed arma contro ingiustizia, / iniquità e dolore, / e vaga e si propaga, / si rafforza, si spande / si estende ed avvicina / pur mentre si allontana». Qui l’autrice è consapevole che non si scrive per se stessi: la poesia è messaggio, e in quanto tale, deve raggiungere l’altro, spandersi e permanere, sopravvivere lontano nello spazio e nel tempo, come lo è stato l’opera di grandi poeti.

Una poetica traboccante di belle immagini, quella di Marisa Marchesi Carli che dal mondo naturale sa raccogliere i sospiri, i suoni, i colori, le armonie e le vibrazioni, e sa mantenere alta, sin dalle prime pagine, con armonioso equilibrio e un linguaggio fluido e musicale, l’attenzione del lettore su tematiche varie come: la vita, il dolore, la bellezza, i ricordi, la nostalgia. Uno stile personale, quindi, dove non manca l’influenza di poeti romantici e contemporanei, che sa creare versi misurati, semplici, armoniosi che suscitano pensieri e rievocano emozioni.

Marcella Mellea

 

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L’AUTRICE

 

Marisa Marchesi Carli è nata a Ferrara dove vive; già Docente di materie letterarie, prima in scuole medie e superiori in Germania (Ingolstadt an Donau - Monaco di Baviera), successivamente in Italia nella scuola primaria, si è occupata di mostre e conferenze a carattere prevalentemente antropologico, psicopedagogico e artistico. Ha pubblicato le raccolte di poesie: In attesa di me (2002), Dune, mare di dune (2003), Il privilegio di amare (2006), Terso d’infinito (2007).

 

 

Marisa Marchesi Carli, Il portolano, prefazione di Marcella Mellea, Guido Miano Editore, Milano 2024, pp. 80, isbn 979-12-81351-22-6, mianoposta@gmail.com.

 

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Alfredo Alessio Conti, "Liriche scelte"

3 Aprile 2024 , Scritto da Gabriella Veschi,Floriano Romboli, Enzo Concardi Con tag #gabriella veschi, #floriano romboli, #enzo concardi, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

 

Liriche scelte

 Alfredo Alessio Conti

 Guido Miano Editore, Milano 2024.

 

Nel groviglio esistenziale vissuto dal poeta si alternano, intrecciano e sovrappongono concetti filosofici, psicologici, spirituali che, tuttavia, non rimangono tali, cioè astratti, ma s’incarnano nella sua esistenza segnando stimmate e proiettando speranze. La terminologia che può definire la condizione umana qui tratteggiata si sintetizza, individualmente e universalmente, in nuclei problematici aperti e profondi: solitudine e isolamento; nulla e vuoto; male di vivere e inanità; bipolarismi e contraddizioni come morte e rinascita, sogno e realtà, dolore e desiderio, attesa e fine. Si tratta di tematiche, stati d’animo, pensieri che albergano in larga parte della letteratura europea del Novecento e di questo primo scorcio del Duemila, segno della crisi dell’essere che angustia le giornate dell’uomo occidentale.

Si possono rintracciare richiami di tali assunti in alcune liriche di Conti, che sono talora originati culturalmente – per esemplificare – da ispirazioni bibliche, socratiche, ungarettiane. Nel primo caso troviamo nella poesia Perché si è i versi finali che recitano: «…perché si è polvere / e in polvere / si tornerà», con chiaro riferimento al passaggio dell’Antico Testamento (Genesi 3, 19) nel quale Dio condanna l’uomo al suo destino, dopo il peccato originale.

Di indubbia ispirazione al pensiero socratico è la lirica Il tuo domani, che si apre proprio con il famoso motto greco ‘gnōthi seautón’: «Conosci te stesso / e abbi cura di te / raggiungerai l’anima / nella sua profondità / e saprai chi sei / chi dovrai raggiungere / il domani / che verrà». Così risulta agevole riconoscere nell’epigrafica Esistenza, una condivisione con l’immagine simbolica della foglia ungarettiana: «Nel respiro del vento / vivo / come foglia d’autunno». […].

Enzo Concardi

 

***

 

Il sentimento amoroso è un tema affrontato dai letterati di tutti i tempi nelle sue molteplici sfumature e riveste una fondamentale importanza anche nella poesia di Alfredo Alessio Conti; nei testi che seguono audaci metafore, unite ad innovative scelte lessicali e ad un complesso apparato retorico permeano i componimenti di una struggente malinconia, suscitata dalla lontananza dell’amata: «Nella tua assenza / mi perdo / dolce amore mio / ti vedo in ogni dove / nella dura pietra / nelle gocce di pioggia / nel volo di farfalle / nel canto degli usignoli / nel prato fiorito / nella stella cadente / e piango» (Piango). I versi scaturiscono da intense emozioni di fronte al reale pericolo di una insopportabile perdita, avvertita come doloroso emblema della precarietà umana: «L’ho sepolto lì / in quel piccolo cimitero di montagna / il desiderio d’incontrarti / su quelle vette impervie / ad osservare il cielo / e il mondo da lassù…» (Non sono più).

La donna è l’interlocutrice privilegiata del discorso poetico, organizzato intorno a stati d’animo antitetici, nel vibrante ondeggiare del ritmo: la solitudine e la nostalgia per una dolorosa separazione si alternano all’appagante gioia dei momenti trascorsi insieme, a sottolineare la precaria dimensione del soggetto lirico, sospeso tra presenza e assenza, tra l’eco memoriale di stagioni felici e il vuoto dell’abbandono: «Ho pettinato il prato / come se fossero i tuoi capelli / morbidi al tatto / del mio ricordo / sfumato dal dolore / dalla tua mancanza / siamo stati sdraiati qui / ad osservare le stelle / a lasciarci baciare dal sole / con le nostre mani unite / dal sorriso dell’amore / ed ora che son solo / m’aggrappo alla terra» (Ho pettinato il prato). […].

Gabriella Veschi

 

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Nelle liriche d’ispirazione religiosa di Alfredo Alessio Conti è ricorrente l’idea dell’esistenza individuale come itinerario, come cammino: «Il Poeta se ne va / ramingo / nell’anima nel cuore nelle membra…» (È un ritrovarsi). Nell’àmbito di tale raffigurazione metaforica se ne pone in risalto la frequente incertezza, si sottolinea il procedere esitante fra il passo spedito e l’imbarazzante, talora penoso zoppicamento: «Cammino zoppicando / o zoppicando cammino / peregrinando / nell’attesa della sentenza / che (…) giungerà zoppicando o camminando» (Zoppicando o camminando).

Incontrare Dio durante il “viaggio della vita” significa assicurare a quest’ultimo una direzione inequivoca e gratificante, conferirgli un preciso scopo etico-ideale («…Non serve a nulla / la nostra esistenza / se non si crede / alla vita interiore / alla nostra anima / umana», Cercatore), arricchirlo del valido sostegno di una Presenza amorosa, che corrobora e guida: «Quello che mi aspetta / va al di là dei miei pensieri / e come il canto d’usignolo / passerà / la primavera dei miei giorni. / Rosseggia l’alba / e Dio / mi ha già preso per mano» (Mi ha preso per mano). D’altronde l’autore riconosce quale tratto specifico dell’uomo una condizione d’attesa («…Laggiù, Lassù…/ci attende / una nuova / vita», Nuova vita, cors. mio, come dopo) destinata ad essere appagata soltanto dalla rivelazione di un Essere superiore, il quale, mentre prefigura un orizzonte salvifico («…Nell’attesa / dell’onda / salvatrice / credo / in un Dio / misericordioso», Credo), “incarna” l’antitesi illuminante e chiarificatrice rappresentata dalla fede a petto dell’oscurità avvilente e penosa dell’esperienza umana abbandonata a sé stessa, soffocata dai proprî insuperabili limiti: «…Nel tuo silenzioso silenzio / rimani retto nei tuoi pensieri / osservando il nulla del creato / nel cielo buio dell’esistenza. / Scruti le stelle / oltre il nero cielo e lassù / intravvedi il logos generato / risposta ad ogni domanda» (Logos).  […].

Floriano Romboli

 

 

Alfredo Alessio Conti, Liriche scelte, prefazioni di Enzo Concardi, Floriano Romboli, Gabriella Veschi; Guido Miano Editore, Milano 2024, pp.104, isbn 979-12-81351-25-7, mianoposta@gmail.com.

 

 

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Gabriella Frenna, "Regina Nefertiti"

2 Aprile 2024 , Scritto da Tito Cauchi Con tag #tito cauchi, #recensioni, #poesia, #storia, #personaggi da conoscere

 

 

 

 

 

Gabriella Frenna

 

REGINA NEFERTITI

Mosaici di Michele Frenna

 

Sono certo che ai lettori di varie testate culturali e di arte, non passi inosservato il nome di Gabriella Frenna, sia perché è scrittrice e poetessa (o poeta, come si vuole che si dica), sia perché il suo nome è lodevolmente legato a quello del padre, maestro mosaicista Michele Frenna che cito per la reputazione guadagnatasi (Agrigento 10 luglio 1928, Palermo 5 ottobre 2012). Stavolta la Nostra si ispira alle composizioni mosaicali richiamanti l’antico Egitto e precisamente la Regina Nefertiti, dalla quale l’opera poetica, che trattiamo, prende titolo e immagine di copertina.

Marco Zelioli, prefatore di Regina Nefertiti, fa un breve cenno anagrafico di Gabriella Frenna (messinese di nascita ma palermitana di elezione) e riferisce che i mosaici sono realizzati con minuti tasselli di vetro policromo che, per la perfezione compositiva, sembrano creare opere pittoriche e, soprattutto, sottolinea che ella “trae ispirazione” dal padre. Quanto alla forma afferma: “Colpisce subito il lettore come le poesie di Regina Nefertiti alternino con leggerezza i riferimenti al passato remoto (l’antica “mirifica” civiltà egizia), a quello prossimo (il padre che “incanta” le figlie col racconto delle meraviglie di quella civiltà”); mi sembra un modo alquanto succoso ed esaustivo.

Il critico inoltre, riferisce che Angela Ambrosini, a sua volta, afferma che la forma dialogica dei versi rende attrattiva la lettura e la descrizione delle opere musive, e le narrazioni storiche e leggendarie sono coinvolgenti. E con Enzo Concardi, conclude dicendo che la raccolta costituisce “un itinerario, oltre che letterario ed artistico, anche spirituale, culturale, storico, entrando in un’avventura non scevra da dimensioni oniriche (…), cioè con lo sguardo sempre meravigliato” dell’Autrice; meglio non poteva dirsi.

La raccolta comprende circa sessanta componimenti che confermano quanto sopraesposto in merito ai contenuti e alla scelta del prosimetro (ovvero di prosa e versi insieme). Come è detto in premessa Gabriella Frenna svolge un excursus storico e insieme leggendario sull’Egitto, al tempo dei faraoni, lo fa con leggerezza espositiva pregevole che merita essere ripercorsa. Descrive la posizione geografica dell’Egitto attraversato dal sacro fiume Nilo dall’altopiano del Sahara fino al Mediterraneo, fiume che ha fatto la grandezza dell’Impero Egizio già tremila anni avanti Cristo, grazie alle piene ricorrenti che fornivano acqua alle popolazioni e alle coltivazioni. Questo raccontava Michele Frenna affascinando e facendo fantasticare le giovani figlie.

Il greco Erodoto di Alicarnasso (V sec. a.C.), primo storico, descriveva già le sfingi che sembrano ancora oggi delle sentinelle regali; sono monumenti di grandi proporzioni con testa umana e corpo di leone. Nella cultura ellenica le sfingi venivano interrogate, per ricevere un responso; esse davano risposte enigmatiche che originavano drammi e tragedie come quella riguardante Edipo in terra tebana in Grecia (fra i massimi tragediografi si veda Sofocle, sempre nell’età classica).

Questa Regina Nefertiti offre a Gabriella Frenna una sorta di percorrenza memoriale al seguito del genitore per momenti vissuti e per luoghi visitati e fantasticati, come nel museo del Louvre e la piramide di vetro a Parigi. È la stessa Autrice che ammette: “Mi piace retrocedere/ in storia millenaria/ per carpire la vita/ del popolo egiziano.” (p.26), e scoprire il mistero affascinante, provare la grande ammirazione che suscitano le famose piramidi e le strutture architettoniche che ancora oggi stupiscono. Riconoscere il valore del Nilo, alle cui rive numerose colonne formavano una “foresta di pietra”; alle sue piene si legava l’anno suddiviso in tre stagioni. Veniva stimolata a scoprire l’aura misteriosa e sacrale, la simbologia arcana, la scrittura enigmatica di un’antica civiltà.

 

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Finalmente eccoci (al XIV sec. a.C.) alla “storia di Nefertiti/ regina e sposa amata/ dal faraone Akhenaton” (p.56), che ruota intorno al sole divinizzato con il nome di Aton; difatti il marito Amenofi IV ha assunto il nome di Akhenaton, volendo rivelare la natura divina del sovrano, essere figlio del dio Sole Aton e sole lui stesso. Il Faraone spostò la capitale dalla città di Tebe, nel nord dell’Egitto, fondandone una nuova sulla riva orientale del Nilo, denominandola Akhetaton, ossia “orizzonte di Aton”, l’attuale Amarna. Fu un faraone illuminato che favorì le arti; nella sua concezione “Il dio Aton creatore/ era padre e madre” (p.59), perciò pose la sua sposa al suo stesso rango. La regale coppia viene raffigurata e replicata per secoli, insieme alle “amate figlie” (p.64). Mi sorge spontaneo l’accostamento delle “amate figlie” della regale coppia, con le “amate figlie” Frenna (Rosanna e Gabriella), cosa che esalta ancora di più la sublimazione dell’amore filiale.

Gabriella Frenna ricorda che il padre narrava di antiche dinastie dei regnanti dell’Alto e Basso Egitto; usava vetrini di colore bruno per gli uomini e giallo per le donne, inoltre le proporzioni delle figure corrispondevano al loro “prestigio sociale”. Nella leggenda o nella tradizione antica, Nefertiti, ad opera degli dei Thot e Shou, incarna la dea che dona l’amore; perciò, tornando al maestro, Michele Frenna, egli diceva alle sue “amate figlie” riferendosi alla Regina: “La bella è arrivata” anche nel suo bel mosaico.

Questa raccolta monotematica costituisce una poesia poematica, una sorta di storia dell’Arte che diletta il lettore con le puntualizzazioni dell’Autrice su alcuni particolari da lei illuminati: così il sole Aton, rappresentato da un disco i cui raggi sono tante mani per simboleggiare ricchezza (a piene mani, appunto); le piramidi che sono orientate con gli astri, col sorgere e col tramontare del sole, grandi per significare il prestigio e la potenza dell’Egitto, nonché il vertice che si innalza al cielo; e così via. “Diodoro Siculo narrò/ che i blocchi di pietra/ dalla terra d’Arabia/ furono trasportati/ nel deserto egiziano” (p.40). (Diodoro nativo di Egira, nel I sec. a.C., in provincia dell’odierna Enna).

A costo di ripetermi (come in altre occasioni) sono convinto che le rievocazioni dell’amato padre producono piacevolezza e donano conforto, così finiscono per generare nella Nostra un desiderio di cui non vuole staccarsi, perciò si spiegano le ridondanze. Nondimeno la sua esposizione sa di freschezza che riesce a intrattenerci e a trasmettere tanta tenerezza che giova rinnovare. Mi piacere chiudere la Regina Nefertiti con questo pensiero di Gabriella Frenna: “Rimembro tue parole/ nello svelare pensieri, / aspetti e sensazioni, / (…) / nella tua arguta voce, / nel rievocare emozioni, / (…) / trasmessi con acume/ da tua mente estrosa.” (p.76). Spero di non essere stato agiografico; ho voluto sostare su un viaggio della memoria che esprime il valore degli affetti.

Tito Cauchi

 

 

 

Gabriella Frenna, Regina Nefertiti, Mosaici di Michele Frenna, Pref. Marco Zelioli, Guido Miano Editore, Milano 2023, pp. 84, isbn 979-12-81351-18-9, mianoposta@gmail.com.

 

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