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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

Il figlio che verrà

10 Aprile 2018 , Scritto da Lorenzo Barbieri Con tag #lorenzo barbieri, #racconto

                                           

 

 

 

 

Ciao piccolo mio

 

siamo tornati adesso dall’ospedale dove ci hanno detto che il sesso del nascituro è maschile. Tu non puoi saperlo che padre avrai e neanche che madre, mentre noi già sappiamo molto di te come figlio.

Sappiamo come si chiamerà, che al momento gode ottima salute e che, da come si muove, sembra voler uscire al più presto dal suo rifugio.  Io non sarei tanto ansioso di venir fuori in questo mondo, anche se la nostra attesa è spasmodica, non mi sembra un buon momento per tentare l’avventura della vita con quello che ci circonda. Nei miei sogni, quando pensavo a te, immaginavo di farti trovare un ambiente sano, ben curato, con la natura rispettata, mi vedevo già con te al mio fianco a correre nei prati, andare in bicicletta nei viali di parchi e sentieri di montagna. Non so se sarà ancora possibile realizzare questo sogno. Insieme alla mamma cercheremo di costruire il tuo futuro, seguendo i tuoi passi da lontano senza farci vedere, ma pronti a intervenire nei momenti di bisogno.

Voglio fare di te una persona libera, senza preconcetti, senza false ideologie o indottrinamenti, ma mi rendo conto che la libertà, quella vera, non esiste, è solo una parola, un sogno che ogni essere umano si porta dietro illudendosi di poter dire io sono un uomo libero!

È ancora la vecchia utopia che non muore mai, resiste agli attacchi del tempo ed è sempre lì a impossessarsi di tutti quelli che ancora ci credono, come ci credeva mio padre, giovane che ha vissuto il sessantotto con la ferma convinzione di essere capace insieme ad altri giovani speranzosi, di poter urlare al mondo: noi ce la faremo! Illusioni, caro figlio mio! Non voglio scoraggiarti, ma è bene che la verità ti sia detta subito, senza aspettare falsi profeti, altri movimenti che scaricano parole come fosse sale per sciogliere la neve per le strade. Nessun uomo può definirsi veramente libero, chi afferma il contrario, sa di mentire, anche se fa di tutto per indurti a credere l'opposto. Come si può essere liberi se ancor prima di nascere ti ritrovi debiti, obblighi, un percorso di vita già tracciato da leggi, convenzioni, una serie infinita di legami e di subdoli messaggi che influenzeranno le tue scelte. La libertà che si vuole spacciare come elemento essenziale di vita democratica è solo una facciata per nascondere interessi di parte, sete di potere e il puro, semplice egoismo dell’essere umano. La mia generazione è stata fortunata. Ha vissuto anni senza particolari difficoltà, senza guerre. Credo che la tua invece sarà quella, invece, che assisterà al declino di questa civiltà dei consumi che tanti danni ha portato all’uomo. Io non ci sarò, quando accadrà, spero solo che tu possa assistere al cambiamento, con la coscienza giusta, cercando di percorrere la tua strada senza condizionamenti.

Per prepararti a quel giorno, cercherò di aiutarti a essere un uomo libero di decidere della sua vita, non ti dirò nulla, lascerò che tu percorra la strada con le tue gambe e ti aiuterò solo a sollevarti per farti proseguire il cammino, verso la meta che avrai scelto. L’unica concessione che farò sarà quella di insegnarti il rispetto, prima di te stesso e poi di tutti, non si può convivere in una società multi etnica come la nostra se non c’è il rispetto reciproco.

Non dovrai preoccuparti di me, di quello che il mondo dirà sul mio conto, che non ti ho dato insegnamenti da seguire, che non ho fatto le scelte che tutti si aspettavano, diranno che sono un fallito e forse anche un vigliacco per non aver affrontato i problemi che affliggono l’umanità, non ho dato il mio contributo per evitare il cambiamento.                                 

Non sta a me dire se è giusto o sbagliato, posso solo dire che già aver fatto in modo che tu nascessi è un atto di grande coraggio. La parola "figlio" comporta una grande responsabilità ed io cercherò di essere all’altezza. Tutti si affannano a insegnare ai figli le tradizioni, i costumi, il credo religioso al quale non si deve mai venire meno. È stato sempre così, ed è ancora così, è una buona cosa, ma era una scelta valida quando ancora il mondo era composto da piccoli villaggi lontani e senza comunicazione fra loro, bisognava preservare i valori della famiglia e della patria. Oggi il mondo è un unico grande villaggio, ma le spore di quelle antiche usanze fanno ancora danni notevoli.

Caro figlio, io mi limiterò a comportarmi come quando hai un ospite a pranzo, farò trovare la tavola imbandita con tutte le migliori pietanze e lasciare che lui prenda quello che gli piace, non posso certo suggerirgli o obbligarlo a scegliere quello che piace a me. Io sarò la tua tavola apparecchiata, sarò colui che metterà esposto il cibo, tu sceglierai il tuo menù. Nel momento in cui i nostri sguardi s’incontreranno per la prima volta, sarà quello il momento del mio giuramento nei tuoi confronti, sarò dietro di te a ogni tuo passo, lungo la strada vedrai una sola ombra, la tua e la mia fuse insieme. Sarò il pane per la tua fame, sarò l’acqua per la tua sete, sarò il rifugio, dove trovare ristoro e conforto e, se ti servirà, il tuo amico immaginario con cui confidarti.

Ora riposa, piccolo mio, dormi tranquillo nel tuo caldo nido, mi troverai qua, quando urlerai al mondo la tua venuta. Troverai questa lettera  conservata per te, per quando avrai l’età giusta e, forse, io non sarò più con te per aiutarti.

 

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Tutta la notte

8 Aprile 2018 , Scritto da Lorenzo Barbieri Con tag #lorenzo barbieri, #racconto, #erotismo

 

                                                              

 

 

 

 

 

Tutta la notte arse il fuoco, nella penombra della stanza, eravamo soli io e te in quel rifugio circondato dalla neve. Fuori l’inverno tesseva alle finestre dialoghi di vento e neve, mentre dormivi al riparo della mia ombra. Ci trovavamo in quel posto isolato perché tu avevi chiesto che la prima volta doveva accadere nel silenzio e nella solitudine, niente, e nessuno, doveva spezzare l’incantesimo di quel momento così importante per te. Volevi un'intimità diversa dai nostri soliti incontri, qualcosa da ricordare nel tempo, mi hai negato il tuo corpo così a lungo che quasi disperavo di riuscire a far breccia nel tuo cuore, nonostante le tue continue dimostrazioni d’amore. Ad ogni mio tentativo, rinnovavi in me un desiderio che non poteva essere soddisfatto, mi guardavi con uno sguardo provocatorio e sorridevi, l’unica concessione erano le tue labbra che mi offrivi in punta di piedi, morbide e piene di fuoco, bruciavano. Ardeva il fuoco nel camino e tu eri nuda sotto la coperta di seta in cui ti eri avvolta. I bagliori delle fiamme t’illuminavano il viso disteso nel torpore che si era impossessato di te. Le mie mani impazienti di marinaio si avventurarono nello sconfinato mare dei capelli, percorsero i boschi delle tue ciglia e accarezzarono le palpebre chiuse, per scendere poi al viso levigato, delicato come il velluto di una pesca matura, le labbra socchiuse, il tuo respiro sapeva di viole. Precipitò la mano lungo la linea sottile del collo che confluiva verso lo spazio del petto e già le dolci colline d’avorio erano lì, piccole, turgide, due coppe da champagne con due ciliegine rosa, un cocktail da sorseggiare lentamente. Indugiai un attimo e sentii sotto le dita il fremito che ti percorse, quando sfiorai le vette per oltrepassare le alture e scender verso la valle. Andai avanti ad esplorare il tuo corpo perdendomi nella sua immensità, quando giunsi alla tua isola mi sentivo come un naufrago, solo, disperso e assetato d’amore. Arse il fuoco, tutta la notte, tutto il tempo dei nostri baci, delle nostre dita intrecciate come una fitta rete di pescatori per catturare ogni attimo di quella felicità a lungo desiderata, per imprigionare dentro di noi il fuoco che bruciava i nostri corpi, il tempo e la luna che faceva da testimone in quel momento. In quella stanza al riparo dall’inverno, dal vento che fischiava alle finestre portandoci suoni di campane.

  

 

 

 

 

 

 

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Marcial Gala, "Verde limone"

7 Aprile 2018 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #luoghi da conoscere

 

 

 

 

 

Marcial Gala
Verde Limone

Nuova Editrice Berti, 2018

- Pag. 170 – Euro 17
www.nuovaeditriceberti.it

 

La Nuova Casa Editrice Berti, dopo Gli amanti del secondo piano, torna a occuparsi di Cuba con un testo interessante di uno scrittore come Marcial Gala, membro UNEAC e vincitore di premi in patria, noto per la Trilogia di Cienfuegos. Inedito in Italia, sino a oggi, esce sul territorio nazionale, tradotto (tutto sommato bene) da Pier Luigi “Pedro” Mori, con il suo testo più semplice: Verde Limone (Sentada en su Verde Limón, 2004). Niente di sconvolgente, badate bene, la letteratura cubana contemporanea pare voler affogare in un’orgia di sesso, droga e rum tutti i problemi derivanti dalla caduta delle ideologie, dalla fine del comunismo e dal periodo speciale. Marcial Gala si pone sulla falsariga di Pedro Juan Gutiérrez, solo che ambienta le sue storie a Cienfuegos, in una città di provincia, la Perla del Sur, come la chiamano i cubani. Protagonisti di Verde Limone sono Harris Sanzo, saxofonista geniale e ubriacone, la giovanissima Kirena e il pittore Ricardo. Tema di fondo una storia d’amore e morte, come spesso capita, un rapporto per noi quasi impossibile ma che a Cuba può accadere, tra un musicista di 55 anni e una diciottenne, che si consuma per le strade di una terra povera e disperata. Marcial Gala vive tra L’Avana e Buenos Aires, ma siccome a Cuba di tanto in tanto vuol tornare, si guarda bene dal dare giudizi politici, anche perché non è compito di un letterato; in ogni caso non compone un quadro tranquillizzante, in sintonia con quel che vorrebbe il regime, ma sottolinea cose che non sarebbe opportuno dire a voce alta, come l’abuso di droga e alcol per dimenticare i problemi quotidiani. La vita di Harris procede sempre uguale tra musica e sesso, avventure con turiste e fughe, tradimenti e droga, senza badare al solo amore della sua vita che poco a poco lascia morire, trascinando nella sua vita decadente tutte le ingenue speranze di una ragazzina. Verde Limone è un romanzo che non lascia speranze al lettore, non vuol essere una storia consolatoria, pervasa com’è da fantasmi e ricordi, da sogni e illusioni che cadono in fretta. Scritto con stile piano e diretto, senza tanti fronzoli letterari, di tanto in tanto affiora l’animo poetico di Marcial Gala che si abbandona a dialoghi evocativi con i fantasmi della sua mente. L’autore alterna la prima persona alla terza, coinvolge e affascina, cattura il lettore in vicende sensuali e in panorami degradati, lo obbliga a leggere in rapida successione le pagine che lo separano dalla parola fine. Attendiamo l’autore al varco delle prossime opere, nella speranza che questa nostra Italia di non lettori trovi il tempo per accorgersi che è uscito un nuovo narratore cubano. Da traduttore fallito - un tempo pieno di speranze - di Guillermo Cabrera Infante (La ninfa incostante per Sur - Minimum Fax) resto scettico, ma non è mai detta l’ultima parola …

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C'era una volta

6 Aprile 2018 , Scritto da Lorenzo Barbieri Con tag #lorenzo barbieri, #saggi, #fantasy

                                                  

 

 

 

 

Ogni volta che si vuole raccontare una storia, una favola, una di quelle fiabe per bambini, s’inizia spesso con questa locuzione. Cosa nascondono queste parole, a quali mondi fantastici si riferiscono? Molti di questi racconti non sono nati come li conosciamo noi,  ma con ben altri scopi e diverse motivazioni. Erano piuttosto truci, capaci di procurare sgomento e paure, certamente non adatte per il pubblico infantile.

I fratelli Grimm, i maggiori autori del genere, erano davvero bravi, le loro storie, nella prima stesura originale, avevano abbondanza di scene violente, di sangue, terrore ed episodi di crudeltà; la semplice lettura faceva accapponare la pelle. Per fortuna il tempo e il mutamento dei costumi hanno fatto in modo che queste storie fossero trasformate per destinarle  alla lettura dei bambini.

Cappuccetto rosso che viene mangiata intera dal lupo, e con lei la nonna per essere  poi estratte ancora vive squarciando la pancia dell’animale, una sequenza di una crudeltà e ripugnanza  terribile, gli animalisti di oggi, e non solo loro, avrebbero condannato la storia con manifestazioni di piazza. Hansel e Gretel, due bambini abbandonati che rischiano di essere divorati da una strega cannibale. Tre porcellini, con una vita semplice e serena, costretti a vivere in uno stato di  perenne ansia, inseguiti da un lupo famelico, uno stress indicibile.

Si ha l’impressione che queste fiabe siano state scritte per esorcizzare la paura atavica della gente che viveva quel momento storico. Erano tempi bui, i tempi del medioevo, quando le paure e le incognite del futuro pesavano in maniera determinante, nemmeno la religione era in grado di sopperire alle esigenze della popolazione, anzi aumentava le paure nel popolo profetizzando di immani catastrofi celesti.

Leggendo fra le righe, anche le principesse, protagoniste assolute della maggior parte di queste favole, non avevano molta fortuna, erano i bersagli preferiti dei cattivi di turno. La loro sorte era legata quasi sempre alla disponibilità di un introvabile principe azzurro.        

Ogni fiaba che si rispetti segue un percorso  in cui si parla sempre di un regno con un re, più o meno buono, regine decisamente cattive e principesse come capro espiatorio. La dolce Biancaneve in fuga per sottrarsi al suo assassino, Cenerentola costretta ai lavori pesanti dal mobbing della matrigna, Aurora messa in coma da una strega vendicativa, Belle mandata a prostituirsi dalla Bestia per pure ragioni  di convenienza. Si può immaginare lo stress emotivo e violento cui erano sottoposte queste povere fanciulle in balia di persone poco raccomandabili, sole, nell’attesa di questo fantomatico principe che doveva salvarle. Avrà avuto il suo bel da fare questo principe, sempre pronto a salvare fanciulle, per un finale di storia utopistico.

Un'altra chiave di lettura delle favole potrebbe essere la necessità degli autori - non potendo scrivere apertamente contro il regime vigente, vista l’assoluta indisponibilità dei regnanti a sopportare critiche al loro operato - di rifugiarsi in storie fantastiche che celavano scomode verità.

C’era una volta in un regno lontano”… Questa  locuzione contiene due affermazioni che inducono a una riflessione e a porsi due domande,  le risposte  sono da ricercarsi nel luogo e nel tempo in cui si scrivevano queste storie.

Nello specifico, “una volta” serviva per ribadire che non c’era nessun legame con il presente, la storia raccontata accadeva un tempo passato, con personaggi di fantasia. Lo stesso criterio era applicato a “un regno lontano”. Doveva essere chiaro e ovvio, a chi leggeva, che non c’era nessun riferimento con i luoghi  in cui viveva l’autore delle storie raccontate. La metafora principale era centrata sulla principessa che, nelle intenzioni, rappresentava il popolo. La popolazione, anche se governata da un r, poteva vivere lo stesso una vita felice nella propria terra, ma c’era sempre una mano nell’ombra che tramava per renderla ancora più schiava di quanto non fosse già.

Le varie regine cattive, le streghe,  manco a dirlo, impersonavano  i  governanti che approfittavano del popolo per soddisfare le proprie ambizioni di potere assoluto.

Il principe azzurro era lo spirito di rivalsa, la voce della coscienza del popolo, che veniva invocato a gran voce per liberare la principessa-popolo dalla sottomissione al potente e cacciare i cattivi sovrani. Il principe non poteva che essere azzurro, come il cielo, sinonimo di spazio e di libertà.

“E vissero a lungo felici e contenti” non è altro che la forma scritta della speranza, l’augurio, l’utopia che ogni popolo coltiva nel proprio immaginario, ben sapendo che rimarrà sempre solo una speranza.

Oggi non ci sono più scrittori di favole contro il potere, la democrazia permette di dire e scrivere quello che si vuole, senza metafore o intendimenti celati.

Ogni persona, in ogni tempo e in ogni luogo, dovrebbe poter esprimere il proprio pensiero, purtroppo non è così, sono ancora molto pochi gli uomini che possono dire davvero di essere liberi. I lupi sono sempre in agguato e anche la loro crudeltà, come la parola, è libera di potersi esprimere con violenza inaudita.

La realtà dei tempi attuali costringe molti popoli a vivere alla stregua dei tre porcellini. Una vita in apparenza agiata e spensierata ma con una paura nell’animo che pian piano corrode ogni singola esistenza, distrugge tutti i punti di riferimento con i quali sono cresciute intere generazioni. Non sono tempi che possano essere ricordati in futuro con favole e racconti che iniziano con “C’era una volta".

    

   

 

 

 

 

 

 

 

 

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Il collezionista

5 Aprile 2018 , Scritto da Lorenzo Barbieri Con tag #lorenzo barbieri, #racconto

 

 

 

 

Pochi giorni fa sono stato invitato da alcuni amici ad un “vernissage”. La prima mostra di un amico comune, pittore esordiente e, anche se malvolentieri, sono andato. Ho trovato un clima da grande occasione, gente elegante oltre i miei gusti, molte signore dall’aria annoiata e saccente. Sono stato presentato a diverse persone e, come c’era da aspettarsi, la domanda è arrivata, precisa, da parte di una signora ingioiellata e truccata da vamp. “Di cosa si occupa lei, per vivere?” domanda di una banalità scoraggiante. Stavo per rispondere in modo istintivo, poi pensandoci mi sono detto - divertiamoci un po’ –

- Sono un collezionista!

Mai parola fu più stupefacente. Guardare le facce degli astanti fu un vero spettacolo, le donne, dandomi un'occhiata scrutatrice si resero conto subito che non potevo essere un magnate maniaco disposto a tutto pur di assicurarsi l’ultimo Rembrandt. Sorseggiando champagne dal loro flute, voltarono le spalle fluttuando verso altre prede, gli uomini espressero il loro quasi disgusto per una affermazione del genere, non ricopriva interesse per loro, abituati a discutere di affari e politica. La signora che mi aveva posto la domanda mi guardò con un misto d'incredulità e, dovendo pur rispondere avendo lei posta la domanda, non trovò niente di meglio che chiedere.

- Capisco, e cosa colleziona?

Stavo per risponderle “le sorpresine Kinder”, ma non mi sembrò in linea con l’ambiente in cui mi trovavo, non perché temessi di sfigurare, ma per evitare nuove i inutili manifestazioni di snobismo risposi:

- Mia cara signora, io raccolgo “avatar”

Questa volta lo stupore fu autentico, rimase con il bicchiere a mezz’aria non sapendo cosa dire, né cosa fare. Di tutto si aspettava meno che di una risposta di questo genere.

- Avatar? Mi scusi, ma gli avatar non sono quelle piccole icone che si usano nei computer per identificarsi nei blog?

- Certo, signora - continuai imperterrito - vedo che lei conosce bene il mondo della rete, ma come lei certamente saprà la parola è di origine indiana. In India vige una religione politeista, vale a dire, con più Dei. Quando uno di questi Dei decide di mostrarsi agli umani, deve scegliere un corpo per assumere un aspetto umano, bene! In quel caso quella rappresentazione visiva tridimensionale è chiamata avatar. Un po’ come le nostre statue dei santi, solo che, da noi, sono solo statue, da loro gli avatar sono persone vere e proprie.

La signora mi guardava stranita, potevo quasi sentire il lavorio del suo cervello, <questo deve essere tutto matto>

- Capisco - fece lei - ma non vedo come lei possa collezionare questi avatar

- Ha ragione, non posso collezionare quelli, come giustamente ha detto lei prima, anche le piccole icone sono state chiamate con lo stesso nome, posso confermare che esistono anche altri esempi, però modestamente, io colleziono altro.

- Volevo ben dire!

Sorrise lei certa di avermi colto in fallo, di rimando io continuai nella mia spiegazione.

- Ha presente i bambini, ebbene, nel loro immaginario collettivo, cara signora, i bambini hanno la tendenza a personalizzare la loro fantasia, identificano tutta una serie di personaggi immaginari, invisibili amici compagni di giochi, sotto forma di bambole, peluche e una miriade di pupazzi di ogni tipo. Complici i cartoni animati, la televisione, il cinema, le industrie che sommergono d'offerte il mondo delle illusioni infantili.

- Bene! Questi oggetti possono, a buon diritto, essere considerati degli avatar, rappresentano la realizzazione materiale dei sogni infantili, io sono un collezionista di questi avatar.

- Non vorrà dirmi, - esclamò la donna sbigottita, - che lei colleziona bambole e pupazzi?

- Non proprio, mi limito a quelli più piccoli, ha presente i pupazzetti tridimensionali che escono sotto forma di sorprese?

- Quelle degli ovetti?

La signora non capiva ancora se la stavo prendendo in giro o facevo sul serio, mi guardava con una certa ansia nella voce, quasi allarmata, lei la moglie del prefetto locale, stava perdendo tempo con un tizio fuori di testa che si occupava di pupazzetti dei bambini. Fui ben lieto di toglierla dall’impaccio annuendo vigorosamente alla sua domanda.

- Esatto, mia cara signora! Proprio loro, io colleziono sorpresine di ogni tipo, ma, se permette, ora dovrei proprio andare, ho perso già abbastanza tempo in questo posto, non c’è niente di interessante, l’artista è un amico, ma deve farsi ancora le ossa, mi piacerebbe discutere con lei di arte moderna, ma i miei “avatar” reclamano la mia presenza.

La lasciai lì, impalata, con il suo flute di champagne in mano; era rimasta basita! Quando mi capita, cerco sempre di far scendere dai loro piedistalli artificiali quel genere di persone che hanno la pretesa di aver diritto a emanare giudizi in lungo e in largo. Da dove derivi quest'arroganza non è dato sapere.

 

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Anosh Irani, "Il bambino con i petali in tasca"

1 Aprile 2018 , Scritto da Serena Pisaneschi Con tag #serena pisaneschi, #recensioni

 

 

 

 

 

 

Il bambino con i petali in tasca

Anosh Irani

 

Piemme, 2008

 

 

Di solito mi ricordo più o meno chiaramente la ragione che mi ha portato ad acquistare un libro, e anche il luogo in cui l'ho acquistato. Che sia stato per una recensione che ho letto, per un suggerimento o per curiosità, che sia stato in libreria, ad un mercatino dell'usato o su Amazon, ogni volume della mia libreria, comprato o regalato, possiede una sua storia. Per Il bambino coi petali in tasca di Anosh Irani, invece, non saprei raccontare niente.

L'estate scorsa, speranzosa di riuscire a leggere nonostante un bambino che chiede spesso la mia attenzione, ho messo in valigia due piccole raccolte di racconti di Grazia Deledda e questo romanzo, quasi preso a caso dalla libreria. La sua fortuna – anzi soprattutto la mia – è stata capitare nella fila davanti ed essere a portata di mano. Così prendo questo volume che ha in copertina un paio d'occhi neri e profondissimi ed un sorriso travolgente, entrambi incollati sul volto di un bambino poco più grande di mio figlio, e, interrogandomi sul motivo della sua presenza nei miei scaffali, mi faccio catturare dalla trama e lo porto con me.

Inspiegabilmente in vacanza ho il tempo di leggere. Grazia Deledda è la prima ad essere scelta finendo in pochi giorni, poi tocca al romanzo sconosciuto. Lo apro e vengo travolta quasi subito dall'India, ma non da quella bella, fatta di templi, colori e profumi. Arriva forte l'India dei poveri, degli orfanotrofi, dei bambini di strada, della fame, delle difficoltà. Arrivano forte alcuni ragazzini con i loro sogni e le loro battaglie. Emerge a gran voce l'indiscutibile voglia di rivalsa, di conquista di un futuro migliore, così come si fa sentire subito anche l'immediata certezza che la vita, per loro, non ha in riserbo che infelicità. Ma lottano i ragazzini, al pari di leoni. Lottano per un ideale, per un po' d'affetto, per un pezzo di pane, per la legge del più forte che impone la sopravvivenza.

Tutto questo ci viene raccontato da Chamdi, un orfano di dieci anni molto sensibile e beneducato, innamorato dei colori della bougaville del cortile dell'orfanotrofio in cui vive. Un giorno Chamdi decide di scappare per andare a cercare suo padre, così si ritrova nella enorme Bombay, in una zona flagellata da scontri tra musulmani e induisti e in un contesto dove la povertà e la violenza regnano sopra a tutto. Incontrerà presto Sumdi e sua sorella Guddi, che vivono per strada da sempre e lo aiuteranno ad affrontare un mondo che loro conoscono fin troppo bene. Così, con in tasca una manciata dei petali della pianta che tanto ama, Chamdi si ritrova sia a fronteggiare la tirannia di una città impietosa che a scoprire il valore dell'amicizia.

Se avete voglia di un libro che vi commuova alle lacrime, che vi coinvolga emotivamente e anche che vi faccia rabbia (perché in molto punti avrete voglia di entrare tra le pagine e farvi sentire) è il libro che fa per voi. Io l'ho letto in quattro o cinque giorni, divorandolo in ogni momento a disposizione. Probabilmente il fatto di essere madre influisce molto sulla mia opinione, però posso garantirvi che questa storia ha cuore e passione, che vi rimarrà addosso per un po' e vi farà riflettere su quello che, troppo spesso, viene ignorato. Il bambino coi petali in tasca, il cui titolo originale è diverso e vi invito ad andarlo a cercare, è una lettura che mi ha sorpreso e ammaliato fino in fondo. Non ho idea di come sia finito nella mia biblioteca, ma non posso fare a meno di ringraziare la fortunata circostanza che me lo fatto capitare tra le mani, qualunque essa sia.

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