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Natale, arriva e si sente… sempre meno. Eppure c’è sempre…

22 Dicembre 2014 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini

Natale, arriva e si sente… sempre meno. Eppure c’è sempre…

Ecco, eccezionalmente di pomeriggio, un altro scritto in tema col nostro hastag #unasettimanamagica, inviato da Quirino Riccitelli

E’ già nuovo Natale, ritratto sbiadito di magiche cose là fuori. Eh già, nuovo Natale, ritratto le magiche cose, sbiadite qua dentro. Scarsa una settimana e sarà dunque Natale. Pochi giorni sì, poi anno nuovo. Vita vecchia, ma se a sceglierlo sarò io. Qui da me si mettono su almeno un paio di chili, in quelle due settimane, piene, a seguire. Si mangia a Natale, eccome. E come si mangia a Natale! In provincia di Caserta, poi, non ci riferiamo solo al 25 dicembre, ma a tutto il periodo in cui si consumano: struffoli, “torcinelli”, pandori, panettoni regalati, frutta secca, bisunte fritture di pesce impregnanti, e quant’altro questa rossa festività obblighi a digerire agli esausti succhi gastrici. Senza alcuna tregua si degusta, s’accompagna con Bacco, poi si bivacca a slacciarsi cinture e, stranamente, s’aggiungono, ad esse, punti! La sera della Vigilia inizia presto. Da me non si pranza, si “spizzulea” semplicemente, ovvero si stuzzica giusto qualcosina. Si è, difatti, ben consci del già previsto sforzo serale: perché ci vorrà, sul serio, tanto fegato. Saranno vere e proprie cene matrimoniali, sberle in faccia alla crisi insomma. Non esiste che si risparmi, manco sul perdonare qualche “zampone” ai porci e, senza l’ausilio dell’omonimo piede, si svaligeranno ad libitum frigoriferi stracolmi di prelibatezze. Tra le due parti del suino, a Capodanno, la parte superiore, s’abbina sovente alle lenticchie e… più ne mangi, più avrai fortuna. Macché, saranno decenni che m’ingozzo nel crederci per nulla! Sgamai “Babbo a Natale”; ficcava i regali sotto l’albero a casa vecchia. Lo insultai infervorato quella mattina, perché m’infranse un sogno innocente. Era il grasso 1991. Beccai Mamma, l’anno successivo, a contare le caramelle e i pezzi di carbone sul letto. Capii che non esisteva manco la Befana e piansi, perché quelle lacrime bagnassero la terra dove iniziavo a crescere, forte delle prime delusioni. Col tempo poi, sgamato e scaltro, iniziai ad aiutarli i miei, recapitandogli direttamente il civico dei regali da suggerire per andare “a colpo sicuro”. La storica pubblicità, da filastrocca, ancor enuncia che, teoricamente, “a Natale puoi fare quello che non puoi fare mai…”. Davvero? Mah… onestamente, per me, “onesta mente” quella bimba. Negli anni s’è persa quella magia di anni ben trascorsi, quel senso di speciale. Scaduto e andato in malora. Ricordo nitida l’eccitazione nel letto d’infanzia, a combattermi l’ansia per i doni da scartare l’indomani. Bastavano i colori incerti del primo mattino, a svegliare di strano quel sonno vergine, mentre fuori e dentro c’era sul serio magia. Non occorreva neve per arricchirla d’altro quell’infanzia lontana. Bella, punto! Non c’è superfluo al perfetto, intatto ai decenni intercorsi nell’integre memorie. Quei desideri ingenui e mai disattesi, perché ci si accontentava di poco; li riportavi sui fogli, con gli errori da cancellare nelle letterine al fantomatico scandinavo. Usavi il condizionale e mettevi pure le alternative. Si, Mamma ci chiedeva di aiutare Babbo Natale, perché, in fondo, aveva da accontentare i bimbi di tutto il Mondo. Era duro il lavoro del vecchio e canuto barbuto, però ne aveva uno anche mia madre; perciò aumentavo le opzioni nella lista e le facilitavo l’acquisto. Senza renne, sia chiaro, la santa donna parcheggiava umilmente i pochi cavalli della “Panda 750” nel retro del vecchio negozio; oggi abbandonato e in disuso. Già chiuso da anni, sottomessosi e prostrato come tant’altri simili, pure se di diverso genere, alla crisi incombente. Non guarda in faccia a nessuno, io archivio la parentesi sui ricordi, o perdo il filo… Ho una concezione del Natale abbastanza critica, eppure non mi dispiace affatto nel complesso. Se da una parte ne condanno l’aspetto consumistico, dall’altra mi viene invece d’ apprezzarne quella densa magia respirata in giro, sfumata sì col passare del tempo, ma dura a morire. Ho sempre un proposito buono, che m’impongo proprio in concomitanza del santo Natale, ma poi, puntualmente, lo fallisco. Esile l'intento mio, d'urlare a voce fioca che “mi manterrò a tavola”. Qui a Piedimonte, tale espressione, indica l’intenzione di contenersi, nel previsto cibarsi con indiscriminata fluenza (a cui prima accennavo). In parte sarò costretto a farlo seriamente, in cerca forse d'un appiglio, utile a risollevare il formicolio ai piedi e il supplemento di carico che le gambe dovranno sopportare. Ingrasserò a breve, mi rassegno ma, per ora, la bilancia non è nemica. Eppure a breve si schiererà contro di me, già lo so!

Breve excursus sulla cronologia del corrente periodo:

Natale t’avvisa a suon di tv. I primi segnali di vita, li dà la rotazione periodica delle pubblicità nel digitale; queste cambiano e iniziano gli stagionali consigli per gli acquisti, riciclati come si farà con certi regali. Stancano quelle canzoncine, galoppano di staffa nell’orecchio. Immutate da decenni, ripetono odiosamente la filastrocca che pretende una chiusura corale. Un ottimista, forse, gliela darebbe la soddisfazione; di certo non io, irritato e disilluso. Il rosso che agghinda il paese, inizia nelle vetrine (da metà novembre in poi). Seguono le luminarie natalizie (inizio dicembre): stelle comete per i vichi e indecifrabili sagome; una in particolare, nel centro del mio paese, riconduce a morfologie pressoché falliche. Ambigui, avanzano i significati oscuri del periodo in atto. Giunge poi il giorno dell’Immacolata Concezione. E' in questa data che si da il via al Natale nelle case! I fedeli spesso lo ignorano, ma la suddetta ricorrenza è da dedicare alla Vergine, non a Gesù. Pure a casa mia, in verità, apriamo l’albero finto, lo riempiamo di palle e luci all’apparenza sfarzose, ma pagate pochi euro dai cinesi. Mia sorella ciascun “otto” dicembre, orizzontale d’una mia infinita memoria, riapre i vecchi scatoloni, stipati nel sottoscala. Dentro ci conserviamo la polverulenta oggettistica, consona a metter su un dignitoso presepe. Lei soffia sopra quel cartone e poi, col solito gesto, scarta alla ricerca di quelle noci incollate, che rappresentano la grotta nel presepe. Dentro non mancherà nessuno, tranne il festeggiato… poi a mezzanotte del Venticinque, porteremo il “Bambinello” tra gli animali, perché solo innanzi al recinto è veramente “praesaepe”. Capodanno starà nel mezzo, e, tra tutti, è il giorno che preferisco. Intenti dignitosi, auspici e il buon proposito di prima. Guai a dimenticarlo! Inizierò a dirmi “da domani”, ma poi, all’indomani comincerò a posticiparmi il tutto per un nuovo anno, visto che chi lo fa a Capodanno, poi, lo fa tutto l’anno. Avrò sensi di colpa assurdi intorno al dieci di gennaio, lo so, allorquando la timidezza tremolerà sul piede, schivo nel salire sul piatto della bilancia, ad appurarmi i chili accumulati. Capirò che, a perderne pochi, c'investo tanta abnegazione, ma ad abnegarne tanti, è fin troppo facile. Non come nella vita, dove a perdere qualcuno è un attimo, ritrovarsi poi, assurdamente difficile, tanto più arduo, quanto più è sciocca la sua stessa causa scatenante. Sarà, in fine, l’Epifania a portarsi via tutte le feste, tranne i chili di troppo che, grazie alla sua calzetta, proprio nelle calzette (e non solo lì), inizieranno a stringere. Il mio Natale è già cominciato a fine novembre, con la solita dieta preventiva: voglio arrivarci in piena forma, al momento d’ingozzarmi senza remore. Avrò appuntamenti a tavola, poi in giro, dove qualcuno, per davvero, lo prenderò in giro. Dovrò stringere mani di circostanza; in piazza ci sarà da scambiarsi parole tanto per, auguri, poi consone indiscrezioni attuali. M’astengo docilmente a certi teatrini, dove s’architettano complesse trame d’assurdità inconcepibili. Figlie orfane del tale "sentito dire da fonte attendibile". Avvenute tutte nei pressi di lingue allenate. Si è tutti più buoni in questi giorni, ma io cerco d’esserlo tutto l’anno. Non ci riesco, miseramente ci provo… almeno saprò d’aver fallito. Cibo in abbondanza non digerisce uno spicchio di contentezza, un regalo non riempie una mancanza e un augurio da scambiarsi non basta a trasferirsi un vero sorriso. Nella cassapanca d'ogni casa, si rispolvererà anche la fedelissima tombola; vecchia e con la “smorfia” di dolore, sul viso della “Pulcinella suonata”; sta ferma sulla scatola, e quel suo sbiadirsi anno dopo anno, ne attesta l’invecchiamento graduale. L’ho intravista sul tavolo stasera, disegnata sopra il cartoncino, con tanto di maschera e mandolino in mano, già pronta a sopportarsi (a stretto giro) la meritata apertura, più la puntuale battuta di papà. Quella sull’ambo già dichiarato, ma con un solo numero estratto in quel giro. Parecchi credenti riempiranno le chiese, perché l’apparenza si sbottona quando ci si alza da tavola con la pancia strapiena; il prete, nella predica, farà riferimento ai poveri nel “Terzo Mondo” e lo stuolo di fedeli conterrà il rutto, così non stonerà d’eccesso quel coro, durante le “pause di riflessione” verso cui spinge il predicatore. Certi dovranno astenersi, altri trattenersi l’attacco di diarrea; altri ancora seguiranno il discorso senza problemi, perché lo cherry scolato in abbondanza gli avrà sgrassato cordialmente le viscere. S’assonneranno cert’altri e, taluni, dormiranno proprio di gusto. In chiesa e in preghiera, c’andranno un po’ di persone. Pure la “superficialotta”, sperando che l’uomo che la soddisfa e vizia, non le offenda il desiderio di possedere un certo profumo costoso in dono. Per nulla simbolico, lei lo pretende. E' indispensabile, ma non serve a coprirle la puzza d’opportunismo. Puzzano certi di coppia apparente, coi botti a breve, poi scoppieranno. Che tristezza ogni fine anno! E in quanti che puntualmente tentano di perdere qualcosa. Molti di questi sono convinti che il botto più forte corrisponda al giudizio sulla loro virilità. Soldi in fumo, nel vero senso della parola. Pregherà in chiesa un po’ chiunque, ma pochi lo faranno con l’intimità del cuore. La riflessione che, molto prima dei doni, porta e poche volte riscuote questo Natale. L’attimo intenso a cui invita il Signore. Pochi sussurreranno una confidenza alla fede. Preghiamo sempre per ottenere qualcosa, mai per confidare i veri sentimenti, le paure, un riparo. L’approccio non è dei migliori. Pregheranno con forza i volitivi; molti di loro, chiederanno lenizione al dolore e assistenza allo sconforto. Vittime vere di vita bastarda, ammalati e carcerati... per tutti è Natale. Questa l’essenza della magia che trasporta. I negozianti in centro, han già fatto la consona gara a chi allestisce la vetrina più bella. Nel frattempo il municipio ha storpiato le vie, come fa quella che si stucca il viso di troppo, quando maschera i difetti e diventa, di questi, una maschera. Scene imbarazzanti nelle chiese dicevo. Nei negozi poi, se presti attenzione, in questi giorni noti le lacrime facili del bimbo deluso da qualcosa. E’ colpa forse del giocattolo non comprato, ma è merito del genitore che non vuole viziarlo troppo. Gli insegna a sopportare un rifiuto e ad accontentarsi nella vita. Sotto l’albero già c’è la sua ricompensa, che annienterà le lacrime odierne. Giravo in auto ieri sera. Notavo certe case. Talune sono pacchiane, al punto di volgarizzarlo di spreco quel Natale. Eppure questo sarebbe povero… almeno così dovrebbe essere! Basta guardarlo senza occhi, sentendolo seriamente il significato della Natività, ma col cuore… non coi portafogli. Stando alla statistica, s’amplificano i litigi nelle case nel corrente festivo, perché dentro ci si incrociano, e scontrano, familiari non abituati a starci più d’una manciata di minuti nei feriali; sarà tutto festivo! Porteremo auguri ai parenti, baceremo amici di vecchia data, vecchi, giovani, quelli persi di vista, i persi della vita e tutti quelli soggetti a “difetti di svista”. Natale imporrà comunque d’indossare sorrisi, che celino qualsivoglia dissapore. E’ una Festa che pretende riscoperta, nuova nascita e un bel sole, a bagnarci l’anima di calore, colorando pure quegli anfratti eclissati dietro le incertezze più intense. Non desidero chissà cosa. Bramo una possibilità, nient’altro… e anch’io pregherò, ma a modo mio. Senza andare in chiesa. Avvertirò forse un brivido di speranza nel countdown che anticipa il nuovo anno. Aspetterò domani, pregherò per il mio domani, lotterò per viverne uno migliore. Vincerò contando sulle mie forze, perché se resto a contarmi le sconfitte non ottengo un bel nulla. Lo guardo con una serenità passeggera quel futuro, già schierato dietro l’angolo, con uno strano ottimismo. Strano si, perché latitante da tempo nei giorni miei. Ne scorgo giusto un esile lineamento per ora. Non appena sarà nitido, fisserò il mio destino, senza mai perderne la rotta. Inizierò costruirlo scegliendo me, e poi l’otterrò, perché io lotterò. Forse non ripagherà le mie aspettative, ma è questo quel mio buon proposito a cui prima accennavo… e ci sta che io possa pure fallire. Per una volta avrei, quantomeno, scelto io il modo giusto di fallire e, soprattutto, per una volta avrò scelto me…>>>.

<<<Sarebbe davvero un vero Natale…

Se solo s’ammettesse di più, e, se solo uno mettesse meno del suo nei fatti altrui;

Se solo s’ungessero coscienze, e, se solo non si pensasse ad ingozzarsi e basta;

Se solo s'odiasse di meno, e, se solo s'amasse al netto delle mere convenienze;

Se solo si distraesse quella frustrazione preda, e, se solo la si frustasse con una decisione già presa;

Se solo s’errasse a sol fin di bene, e, se solo, in fin dei conti, tutti fossero in pari con lo specchio…

Se solo si liberalizzassero sogni a migliorare d'essenza le vite, e senza portarceli dietro, nella “miglior vita”…

Se solo s’annientassero i dubbi, e, se solo l’incertezza fosse nuda, spoglia della verità d’una decisione chiara…

Se solo s’imbarazzassero i veri inadeguati, e, se solo la prevaricazione fosse pena da scontare;

Se solo s’abbuonasse l’errare umano, e, se solo l’orgoglio iniziasse ad allearsi con le riconciliazioni;

Se solo s’arasse col cuore, e, se solo un gesto dal sapore d’eterno, bagnasse, come pioggia, i semi delle coscienze;

Se solo s’avesse memoria, e se questa fosse la medicina che contrasta guerre. Annientate da eterno di pace;

Se solo s’attingesse dall’ esperienza, e, se solo l’inesperienza fosse una dannata prima opportunità;

Se solo s’abbracciassero speranze, e, se solo la verità bocciasse “i ritardi d’ incomprensione”;

Se solo s’adorasse il “prossimo”, e, se solo l’unico identificato, non fosse quello da chiedere alla pensilina;

Se solo s’eludesse quel senso di vacuo e, se solo le giornate avessero un senso autentico. Che l'avessero per ciascuno;

Se solo si divenisse ogn’essere, e, se solo s’aspirasse. Che respirassero tutti di passioni per cui vivere;

Se solo s’abbandonasse il buio di ieri, e, se solo la luce di futuro nascesse da ciò che “era”;

Se solo s’accingesse l’uomo all’essenziale, e, se solo il sentimento dettasse legge, diritti e meriti;

Se solo s’albeggiasse lo spirito, e, se solo quel suo crepuscolo avesse un seguito dannatamente luminoso;

Se solo s’appropriasse alla generosità la stima, e, se solo la stima d’ognuno e reciproca, da essa derivasse;

Se solo s’attribuissero lodi a veri eroi e, se solo si premiassero i prodigi dei “sacrificati costretti”;

Se solo esistesse un Mondo del genere, se solo stesse dove io, or non vedo... dietro l’angolo. Magari è lì, fermo a sbirciarmi il futuro…..

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Dicembre: apparecchiamo le nostre pance

22 Dicembre 2014 , Scritto da Raffaella Saba Con tag #raffaella saba, #unasettimanamagica

Dicembre: apparecchiamo le nostre pance

Finalmente è arrivato. L’ultimo mese dell’anno con le giornate più corte, le piogge improvvise, l’odore delle caldarroste agli angoli delle strade, i passi frettolosi di chi torna a casa, con i buoni propositi per il nuovo anno, con i bilanci di quello appena trascorso. Ah, Dicembre… fa tanto “casa dolce casa”: con le prime nevi sui monti, le vetrine addobbate, le vacanze imminenti. Dicembre è anche il mese dove si mangia di più, dove si continua a ripetere “da domani a dieta!” (ma si tratta, ovviamente, di un imprecisato giorno di un ipotetico anno solare) ma si mangia tanto e quanto il giorno prima, dove anche quando non ce la si può fare… l’arancina della nonna la si deve mangiare! E ricordiamoci: il mangiare è fimmina, preparato da fimmine, che siano esse casalinghe o monache.

Dopo di che, ti sentirai sbutriato ma sarai enormemente, incommensurabilmente, F-E-L-I-C-E.

Sbutriato: questa parola siciliana mi ha affascinato fin dalle prime volte che ebbi modo di sentirla da un cugino di mio marito che, dopo luculliani pranzi festivi, intercalava ogni momento con un Raffaè, tutto a posto? a un Raffaè, oggi la finiremo sbutriati. Ho chiesto agli amici dello StrEat Palermo Tour una consulenza culinaria-lessicale e così ho avuto modo di verificare il possibile significato della parola. Affermano che, considerate le origini anche spagnole del siciliano, ci potrebbe essere un’assonanza con la parola buitre che in italiano si traduce con avvoltoio, mangiare come un avvoltoio. Dunque comer como un buitre = que comes mucho y en poco tiempo. Puede ser que también porque no aprecies la comida ni el sabor. Solo quiere comer. E nel caso siciliano si mangia per apprezzare pranzi, cene, merende e pure prediligendo il gusto. Perché per i siciliani, scrive il Basile, la cucina è cultura e soprattutto piacere. Ed è il nostro professore a risolvere ogni dubbio. Ha gentilmente risposto alla domanda rivoltagli e così sappiamo che all’infinito (tempo verbale) il termine fa “sbutrari, cioè mangiare avidamente. Secondo il professore Giarrizzo viene da un termine greco che indica la pancia gonfia.”Ma secondo il Basile c’è una connessione anche con il termine buturu, che in siciliano è l’avvoltoio. Ovvero lo spagnolo buitre.

Non so a voi, ma a me è venuta fame solo a pensare.

Quali sono gli appuntamenti dove onoriamo, con una ricca tavola imbandita, i Santi della tradizione?

La Sicilia è così variegata che un aspetto del suo essere può brillare di luce diversa anche se ci si sposta di mezzo chilometro. Uno di questi aspetti è il cibo. Ecco quali sono le date che dovete segnalare alla vostra pancia, se volete venire a Palermo a dicembre:

8 dicembre – Immacolata Concezione

13 dicembre – Santa Lucia

25 dicembre – Natale

31 dicembre – Capodanno

La festa dell’Immacolata Concezione, la Festa della Madonna, a Palermo si festeggia con la solenne processione che dalla Chiesa di San Francesco D’Assisi porta alla piazza antistante la Chiesa di San Domenico passando da via Roma. Nella piazza c’è una colonna di marmo eretta grazie alle spese sostenute da Carlo VI d’Austria. La statua fu modellata da Giovan Battista Ragusa.

La sera prima, il 7 dicembre, si usa mangiare lo sfincione.

Lo sfincione è il tipico cibo da strada. Lo si trova ovunque, in panificio come pure sotto casa mia, dove passa la domenica mattina il tipo con carretto ambulante. La parola deriva dal latino e significa spugna. È una sorta di focaccia molto alta e morbida, spugnosa appunto, e molto simile alla pizza. Si condisce con cipolle, aggiughe, pomodoro, origano, pangrattato e caciocavallo. Alcuni hanno l’ingrediente segreto: il provolazzo, la polvere della strada, condimento per alcuni imprescindibile e ricco di gustosità variegate. Potrete assaggiare questo gustoso elemento tipico dello street food prenotando il tour con Marco.

Nella mia famiglia lo prepara quel grande uomo di mio suocero.

Per me resta e resterà il migliore. Ha il sapore della lentezza, delle cose fatte in casa con tempi e modi regolati da questa grande persona. Grande uomo. E grande fame. Perciò vi lascio e vado a mangiare che è beddu cavuru!

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Natale alle vele

21 Dicembre 2014 , Scritto da Ida Verrei Con tag #ida verrei, #racconto, #unasettimanamagica

Natale alle vele

Luisella apre gli occhi, se li stropiccia.

Cos’è quella lucina intermittente che rompe il buio attraverso i vetri?

I gemelli dormono ancora, il respiro è pesante. Prende uno straccio dal comodino e asciuga dal mento di Pinuccio il rivolo di bava che ha inumidito il cuscino. Poi allunga una mano attraverso il suo corpo e afferra la vecchia sveglia: le sei, è ora di alzarsi. Scavalca a fatica il corpo di Giannino e con un sospiro cerca di mettere le gambe gonfie di vene bluastre giù dal letto. “Comme so’ cresciute ‘sti criature”, bisbiglia, “n’ato poco e nun ce trasimmo cchiù int’ a ‘sto lietto tutte e ttre”.

Un gesto automatico, preme l’interruttore, ma la luce non si accende: “Ah…” Sospira. Guarda le bollette sul tavolo di formica, scadute. Sospira ancora, non sa quando potrà pagarle.

Accende la candela. Strusciando le ciabatte, si accosta ai vetri; le lucine continuano a creare piccoli bagliori alternati: un filo di minuscole lampadine colorate dondola appeso ai pilastri del pianerottolo. Qualcuno si è ricordato che domani è Natale e ha voluto mettere un segnale anche in quell’inferno.

È presto, ma la giornata si presenta già cupa, gonfia di pioggia che batte e ricade sui ballatoi interni, schizzando ovunque e lasciando pantani d’acqua nerastra.

Pensa al suo vicolo, Luisella, agli odori acuti che si spargevano nell’aria nei giorni di festa, alla voce del venditore di pesce, con il bancone pieno zeppo di capitoni, lupini, vongole e cozze profumate di mare. E agli effluvi di aceto delle papaccelle che traboccavano dagli scaffali del baccalaiuolo.

Ha vissuto a lungo in quel vicolo, Luisella, con occhi inariditi e incendiati da lacrime, ma anche brillanti di una gaiezza maliziosa e misteriosa; uno di quei vicoli dove i “bassi” neri e miseri possiedono angoli illuminati da brandelli di sole; dove nelle notti d’estate un coro di fiati striscia lieve lungo i muri scrostati e anneriti dei vecchi palazzi e avvolge i corpi sudati abbandonati nel sonno.

Lì, in quel budello scuro e umido, la gioia e il dolore, la salute e la malattia, la pietà e la ferocia, sono voci così confuse tra loro, che non riesci più a distinguere bene e male, fortuna e sventura. La strada è casa, e la gente, onda del mare, quel mare che da lontano regala il salmastro a bruciare la pelle.

È stata felice in quel tempo, senza saperlo, abbandonata ai sogni di una giovinezza aspra che lievemente scivolava nella maturità.

Bastava poco, qualche metro di strada e si trovava in Via Toledo: colori, traffico delle automobili, negozi con le vetrine che invogliavano agli acquisti, l’afflusso dei suonatori ambulanti, il susseguirsi dei manifesti pubblicitari sui muri degli storici palazzi d’epoca e la folla vociante che sembrava sempre in festa.

Ora vive un altro mondo.

La candela si è spenta, prende un altro fiammifero e la riaccende, versa un po’ di cera in un piattino sbrecciato e vi poggia il moccolo quasi consumato. Si prepara il caffè nella moka annerita; lo fa lungo, il barattolo è quasi vuoto. Poi si siede accanto alla finestra, le ombre della notte si stanno diradando, qualche striscia bianca attraversa il cielo livido; ne intravede qualche spicchio tra i pilastri del ballatoio. È lo stesso cielo che la luna illuminava nel vicolo, quando, dalla finestrella della sua casa a pianterreno guardava in alto nelle sere d’inverno. Ora non guarda più in alto. Sorseggia piano la bevanda marroncina e amara. Zucchero ce n’è poco, serve per il latte dei gemelli.

Prima di uscire, dà uno sguardo a quelle due sagome immobili: dormono, sa che non si sveglieranno ancora per molte ore, rimbocca le coperte e stira con le mani la piega del ruvido lenzuolo di canapa, macchiato di ruggine.

Percorre il ballatoio, discende le ripide scale a cielo aperto, gli ascensori guasti sono ormai depositi di rifiuti; schizzi di pioggia passano attraverso i buchi del vecchio ombrello con le stecche che spuntano fuori; attraversa scheletri di giardini, passa in fretta davanti ad androni bui e scuri, schivando le “stanze del buco” e pilastri come mostri di cemento. Cento anni sulle spalle, ricordi sbrindellati negli occhi spenti, il peso di un corpo sfatto dai parti e dalla fatica.

Ha sposato il suo Salvatore, una vita fa: “Andiamo a vivere in un quartiere nuovo”, le aveva detto lui, “avremo una casa tutta nostra, con balconi e giardini per i bambini, niente più bassi, niente più vicoli stretti e scuri”. Ed era partita, ancora vestita da sposa, coi barattoli di latta che rotolavano dietro alla macchina che correva verso un infinito sconosciuto.

Ha avuto cinque figli. Tre sono morti nei primi anni di vita, sono sopravvissuti solo i gemelli, due esserini col corpo molle e la testa ciondolante. E a Salvatore è scoppiato il cuore, l’ha lasciata sola in quello strano quartiere nuovo, Le Vele, un nome che ricorda il mare, ma che del mare non ha neanche gli abissi più profondi.

Cammina per Viale della Resistenza, la strada è ancora mezza vuota, sta attenta a non calpestare cocci di vetro e siringhe sparse tra i residui d’erba inaridita.

Un tempo aveva un lavoro, Luisella, per anni si è spezzata la schiena sui pavimenti delle case dei signori al Vomero e sulle scale di uffici e cliniche. I gemelli glieli guardava l’anziana madre; poi la vecchia è morta, e lei ha dovuto abbandonare quelle attività faticose ma che le davano da vivere. Ora si arrangia col sussidio del patronato e con i pochi spiccioli che guadagna facendo la sirengaia. Ogni mattina gira per il quartiere a fare iniezioni, cinque euro ognuna, ma l’aiutano ad andare avanti e a far da mangiare a quei poveri disgraziati dei figli suoi.

Persa nei pensieri, non si accorge di essere arrivata alla prima Vela di via Labriola, la sorpassa, poi torna indietro. Arranca per le scale, ogni tanto si ferma per prendere fiato, tossisce.

All’ultimo piano, sul ballatoio uguale al suo, si somigliano tutti quelli dei mostri di cemento a Scampia, suona il campanello della prima porta. Apre Concetta, un donnone di un metro e ottanta, non ha ancora quarant’anni ma se li porta male, come tutti quelli che non hanno mai avuto tempo né voglia per la spensieratezza: i capelli striati di grigio, il corpo già sfatto, il doppio mento e un reticolo di rughe attorno agli occhi e alle labbra:

Uè, Luisè, hai fatto tardi. Lo sai che la signora mia s’incazza se non arrivo puntuale”.

Fa lo stesso lavoro che un tempo faceva lei, va a servizio, e guadagna bene perché i suoi padroni sono ricchi e generosi. Luisella entra in cucina, sulla credenza, un piccolo albero di Natale. È da un tempo infinito che lei non lo fa più, da quando Salvatore se n’è andato, in quella torrida notte d’estate:“Tanto i gemelli neanche se ne accorgono”, pensa.

Apre lo scatolo dei medicinali già pronto sul tavolo, prende una fiala, la sbatte un po’, poi la spezza e riempie la siringa, controlla che non ci sia aria e con un batuffolo di ovatta imbevuto di alcool in una mano, si gira verso Concetta. La donna è già pronta, la natica bianca e molliccia scoperta. Un attimo, qualche secondo e tutto è finito.

Sì sempe brava, Luisè, tieni ‘na mano ch’è ‘na piuma. Manco me ne accorgo quanno butti l’ago int’a coscia.” Luisella sorride, piccole soddisfazioni.

Concetta apre il borsellino, prende cinque euro e glieli mette in mano, poi ne prende altri cinque e dice: “Questi sono per Natale, accatta qualcosa per le creature”. Le “creature” hanno quasi vent’anni, ma nessuno se ne ricorda, e neanche lei.

“E questo è per te”, aggiunge, prendendo un panettone dalla credenza. Luisella arrossisce, ringrazia, ed esce a testa bassa.

Nello stesso edificio, tre piani più sotto, c’è ‘o scugnato, sessant’ anni, magro, basso, senza neanche un dente, il viso scavato e la bocca che sembra una ferita. Ha la bronchite da un mese e non può portare il pane casa per casa come fa di solito. Ex carcerato, è uscito dal “giro”, si arrangia, fa il garzone per il fornaio e, quando serve, aiuta l’unico pizzaiolo del rione. Vive con una sorella zitella che fa la bidella nella scuola elementare. È tifoso della Juventus, e per questo ha anche abbuscato più di una volta dagli ultras del Napoli.

Anche da lui Luisella si sbriga in fretta: fa l’iniezione e scappa via; le dispiace un po’ prendere i cinque euro da ‘o scugnato, ma poi pensa che la sorella guadagna bene e che lei non può proprio permettersi di rinunciare a quei pochi spiccioli.

Fa ancora un giro nell’edificio accanto, compra le verdure per i gemelli e poi ritorna verso casa. Le gambe le fanno male, se le trascina a fatica. Ha smesso di piovere ma si è alzato un forte vento che solleva foglie secche e cartacce sporche.

Sul ballatoio di casa viene avvolta da un forte odore di fritto: “Ninuccia sta preparando il pranzo della vigilia”, pensa e sospira. Per lei sono solo lontani ricordi.

I gemelli dormono ancora. Si accosta al letto e li sveglia con una carezza, poi li scopre, hanno il pannolone fradicio di urina; il fetore invade la stanza. Li lava, li cambia e poi, uno alla volta, se li carica sulle spalle e li sistema sul seggiolone. Apre la finestra per far passare un po’ d’aria ma un colpo di vento la fa sbattere e un vetro si rompe. “E addò ‘o trovo mò, a Natale, uno che me lo acconcia?” Cerca un pezzo di cartone e prova a rattoppare il buco. Raccoglie i frantumi sul pavimento, i gemelli brontolano, hanno fame, emettono suoni rauchi e si sbavano schioccando la lingua.

Riscalda il latte, vi scioglie dei biscotti e uno alla volta, li imbocca, mentre loro sbattono le mani a pugno sul ripiano del seggiolone. Li sistema davanti al vecchio televisore, poi si ricorda che non funziona perché non c’è la luce e allora dà loro dei pezzi di carta da tagliuzzare, è il loro passatempo preferito; lei, alla luce della mezza finestra, si siede a rammendare.

Fa buio presto d’inverno, e le ore passano veloci.

E’ già sera, prepara il passato di verdure per i gemelli e poi li mette a letto.

Lei non può guardare neanche un po’ di tv, ma pensa che intanto i programmi natalizi le mettono tristezza. Sbocconcella una fetta di panettone, è la sua cena. Fa freddo, dalla porta e dalla finestra rattoppata di cartone entrano spifferi d’aria gelida. La fiammella della candela oscilla. Non funziona neanche la stufetta. E allora pensa di accendere tutti i fuochi del gas e anche il forno, che lascia aperto: faranno un po’ di luce e un po’ di calore.

Si spoglia, infila la camicia di flanella, mette le calze di lana e si sdraia in mezzo ai gemelli. Li tira accanto a sé, così stretti sentiranno meno freddo.

Chiude gli occhi, le sembra che le pareti si stringano; intravede un azzurro lontano, ma è solo un ricordo atroce vicino ai bagliori rossastri delle fiammelle che ardono nella stanza; i muri si accostano sempre di più, formano un pozzo viscido e nero, vede, al di sopra del soffitto, la notte e lo strazio che imperversa fuori. È talmente stanca che vorrebbe che il corpo sprofondasse. I ricordi si affollano brucianti, ma non scaldano. Un colpo di vento più forte, il cartone si stacca dal vetro, i fuochi si spengono. Non se ne accorge, la mente sta viaggiando; passa dal nero cupo al giallo di un sole lontano, dall’angoscia mortale ad una gioia folle, troppo grande da contenere. Come pesano gli occhi! Cerca di aprirli, intravede le pareti che schiacciano, ma ora si sente leggera, vola, oltre i muri, oltre i ballatoi puzzolenti, con i suoi gemelli per mano. Forse domani sarà tutto come ieri, forse i fuochi che vanno in cenere diventeranno sole.

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Il nostro nuovo forum, più un piccolo inedito.

20 Dicembre 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #redazione, #unasettimanamagica, #poli patrizia, #racconto

Il nostro nuovo forum, più un piccolo inedito.

Salve a tutti dalla Redazione e da me che sono l'amministratrice del blog

Vi segnaliamo l'apertura di un nuovo forum, collegato a questo sito.

Potete iscrivervi, partecipare alle discussioni o crearne di nuove. Gli argomenti trattati saranno attinenti ai post del blog ma non solo.

In questo periodo non potevano mancare alcune riflessioni sul #Natale.

Come sarà il vostro? Deprimente, economico, da disoccupati, allegro, solitario, religioso, ateo? Siete allergici alle feste o vi fate contagiare dalla corsa ai regali e dalla magia del vecchietto con le renne? Avete già pensato al menù e a chi invitare? Preferite il presepe o l'albero? Il panettone o il pandoro?

Raccontatecelo, aspettiamo i vostri contributi. I più interessanti saranno pubblicati sul blog.

A noi di signoradifiltri piace immaginare un Natale semplice ma ricco di valori e di atmosfera, senza centri commerciali e file alle casse ma con il buon odore del muschio e delle pigne, con il calore di un ciocco che scoppietta in un camino a illuminare le facce di bambini felici per cose piccole piccole.

Avendo deciso di dedicare la settimana ad argomenti che, appunto, richiamano il Natale - con il nostro mitico hastag #unasettimanamagica - ho pensato anch'io di proporvi un piccolo brano tratto da un inedito che sto scrivendo. Eccolo:

"Ha chiesto di voltare il letto, Loris, non gli interessa più l’albero che sua madre ha finito di addobbare meglio che ha potuto. Lei ha fatto l’albero di Natale come fa tutte le cose, senza passione e per dovere. E lui non lo vuole vedere, preferisce il cielo lattiginoso di queste giornate corte, le cime degli alberi che si muovono nel vento. Gli piacerebbe che fosse già estate, poter scendere al mare, immergerci le caviglie. Ora sa che non sarà più possibile, l’ha capito dal dolore che gli mozza il respiro e si fa sempre più insopportabile soprattutto la notte. E l’ha capito da tante piccole cose, dagli occhi di mamma, dal pomo di Adamo di babbo che va su e giù, dalla mano di Zia Rosi che lo accarezza in silenzio. Il suo corpo rifiuta il cibo, lo stomaco rigurgita, di tornare a scuola non se ne parla più.

Loris prova a immaginare come sarà da morto ma non ci riesce. Pensa che ritroverà il nonno ma non ne è poi tanto sicuro. Vorrebbe chiedere aiuto a mamma e babbo, vorrebbe che non fosse proibito parlare di morte. Sarebbe un conforto, si sentirebbe meno solo, meno spaventato. È come affrontare un esame e non poterlo dire a nessuno, non poter dire ad un amico o alla famiglia, ehi, sai, domani ho l’esame di storia e me la faccio sotto perché non sono preparato. Lui non è preparato a morire. Ha paura che il dolore sia fortissimo, ha paura di soffocare, ha paura di rimanere solo e sperduto chissà dove. E non vuole rinunciare alla vita, nemmeno a questa vita. Anche da lì, anche dal riquadro della finestra vede grandi gazze bianche e nere saltare sull’orlo sbreccato del muro, vede la grandine rimbalzare in chicchi bianchi sul davanzale, vede le cime dei pini, delle tamerici e dei quercioli che si piegano nel vento, e, soprattutto, sente il rumore del mare. Non può vederlo ma sa che c’è, basta aprire la finestra ed arriva un salmastro salato ad intridere le coperte, i capelli, a sporcare i vetri. Non lo vede ma sa immaginarne tutte le sfumature, il celeste chiaro dei giorni belli, il fango della tempesta, il blu cobalto delle sere invernali al tramonto con qualche nuvolone nero in controluce. E le onde, piccole, grandi, fragorose, con le creste bianche e spumeggianti, a seconda se tira vento di libeccio o di scirocco o se, invece, c’è la tramontana che spiana l’acqua e la trasforma in un cristallo di rocca. Loris vuole rimanere vivo solo perché c’è il mare, lì a due passi, e un mondo dove c’è una cosa così bella non si può lasciare. E poi c’è Bingo, arrotolato accanto a lui, col suo pelo arancione, gli occhi gialli che capiscono, le orecchie dritte che ascoltano. Non vuole lasciarlo, non vuole che si senta abbandonato, che stia male come lui adesso sta male per il nonno.

Muove le mani abbastanza bene ancora ed è sempre stato bravo a costruire. Sta ritagliando un pezzo di cartoncino per farci la capanna. In casa non si è mai fatto il presepe, babbo e mamma non credono in Dio. Ma lui vuole la capannuccia, vuole il bue, l’asinello, Gesù. Li ha disegnati su un foglio bianco, li ha colorati e vuole incollarli dritti. Prende in mano la figurina del bambinello dentro la mangiatoia. È contento di come ha saputo disegnarla. La maestra lo ha sempre elogiato per i suoi schizzi. La tiene in mano fra pollice ed indice, tiene in mano Dio fra pollice ed indice. Un Dio fatto di carta da disegno.

“Fammi guarire, Gesù. Gesù, tu puoi, ti prego, ti prego, ti prego.”

“Cosa stai facendo, Loris?”

“Il presepe, qui non c’è mai stato.”

“Potevi chiedere.”

“Avete sempre detto che Dio non esiste. Ma a me ora serve.”

Suo padre si siede accanto al letto. “Loris io lo so che… che hai paura.”

Loris alza la testa, il cartone gli scivola dalle mani, la tempera macchia di verde il lenzuolo. È la prima volta che suo padre ammette una cosa del genere. E ora che sono al bivio, Loris non sa cosa dire. “Questo è il muro di dietro della capanna e quello è il tetto.” Poi le lacrime traboccano.

Francesco si china sui di lui, lo abbraccia come dovrebbe abbracciarlo la mamma, lo stringe forte. “Ti voglio bene, Loris, porca miseria, te ne voglio tanto e scusami se non te lo dico sempre, ad ogni minuto.”

Loris adesso singhiozza. “Babbo, non voglio morire, aiutami!”

“No, no… non pianger amore mio, ti aiuto io, ti accompagno, sono con te, ne parliamo se vuoi.”

Loris tira su col naso. “Sì, babbo, voglio che ne parliamo. Non lo diciamo alla mamma, però, è il nostro segreto.”

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IL PADRONE E IL SERVITORE di LEV TOLSTOJ (1928 – 1910)

19 Dicembre 2014 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #racconto, #unasettimanamagica

IL PADRONE E IL SERVITORE di LEV TOLSTOJ (1928 – 1910)

Vasilij è un facoltoso proprietario, pieno di forza e volontà. C’è in gioco per lui un affare importante; potrebbe, infatti, acquistare a poco prezzo un bosco. Non può aspettare a concludere la trattativa perché ci potrebbero essere altri concorrenti; decide di partire in slitta per raggiungere il venditore e non farsi sfuggire l’affare. Nevica molto; il buon senso consiglierebbe di rimandare. Ma Vasilij è incontenibile; parte insieme al suo servo più capace, Nikita. Il padrone si ritiene molto abile nel guadagnare, ma pretende anche di essere un piccolo benefattore per i propri dipendenti. In realtà, Nikita, pur bravo, viene pagato male e in ritardo. Il servitore ha anche problemi a casa con la moglie e talvolta si è dato al bere. Ma poi ha fatto voto di rimanere sobrio e in fondo sopporta con pazienza ogni cosa. La sua bonomia gli fa scivolare addosso anche le bizze dell’esigente padrone. Il viaggio in slitta ora dopo ora si fa complicato; i due si perdono e trovano ospitalità nella casa di un villaggio, in una famiglia messa in crisi dall’avidità di uno dei figli. Potrebbero aspettare l’indomani e riposarsi, ma l’urgenza di compiere l’acquisto assilla Vasilij e quindi si riparte. Il resto del viaggio è altrettanto sfortunato. La tormenta di neve costringe a fermarsi e dopo una sosta il padrone tenta all’improvviso di ripartire da solo, salendo sul cavallo e abbandonando il servo. Alla fine l’uomo, dopo essersi di nuovo perso, in preda alla paura ritorna per caso alla slitta dove nel frattempo era salito l’infreddolito Nikita, ormai sul punto di congelare. Il proprietario è ora cambiato; non pensa più ai soldi, tenta di salvare l’altro, si preoccupa per lui e lo conforta. L’indomani i contadini della zona disseppelliranno dalla neve i due uomini. Solo il servo, per quanto malconcio, sopravvivrà.

È un racconto pubblicato nel 1895 e fu uno dei maggiori successi editoriali dell’autore russo. È chiaramente incentrato sull’avidità e i disastri che ne vengono; lo stimolo del guadagno a tutti i costi segna la vita di Vasilij abituato a considerare gli altri come mezzi a sua disposizione, legittimamente sacrificabili. La sua arroganza smodata porterà a una tragedia. Quando però il padrone, dopo aver tentato di ripartire da solo si perde, allora davvero la sua vita cambia. Il tempo trascorso nell’angoscia e nella solitudine lo ha scosso anche interiormente. Al ritorno presso la slitta dove c’è il malconcio Nikita, è un altro uomo; ha capito di essere vissuto in base a valori falsi, mettendo in pericolo il fedele servo. Muore pentito per la sua disumanità, ma contento di essere cambiato. Il lavorante, calmo e paziente, merita di salvarsi. Tolstoj non condanna la ricerca del profitto, ma quella sorta di tracotanza, di ὕβϱις che emerge in vari momenti; il padrone nel gelo riflette su quanto potrà guadagnare e su come incrementerà il suo già cospicuo patrimonio. Ha senso mettere in pericolo se stesso e gli altri per accumulare altri possessi? Giunto all’epilogo della propria vita, Vasilij capisce di aver sbagliato e questo è il suo momento più felice. Lui che portava due pellicce e che aveva preteso di ripararsi da solo sulla slitta, finalmente si cura del servo che calzava due logori stivali, di cui uno bucato. Ecco come si vede ora, dopo la sua “conversione”: “E si ricorda dei soldi, della bottega, della casa, degli acquisti, delle vendite e dei milioni dei Mironov, fa fatica a capire perché quest’uomo che chiamavano Vasilij Brechunòv si occupasse di tutte le cose di cui si occupava”. Il povero lavorante invece non ha bisogno di conversioni; non teme la morte perché in fondo la sua vita è stata un incessante e faticoso servire gli altri, ma non dimentica nemmeno i suoi peccati per i quali chiede perdono a Dio nel momento peggiore del viaggio. Il lato moraleggiante del racconto è diluito in una narrazione non priva di suspense; la strada sempre meno visibile, il cavallo costretto a superare mucchi di neve, l’attenzione per la fisicità dei due uomini e dell’animale che soffre sono aspetti declinati in pagine curatissime. Il percorso seguito ha qualcosa di kafkiano; si corre, si briga, si crede di aver trovato la strada giusta, ma alla fine ci si accorge di aver girato in tondo, di essere di nuovo al punto di partenza, ormai senza forze. Il viaggio di Vasilij è metafora dell’inutilità e dell’inconcludenza di una vita spesa a cercare fanaticamente il profitto; il padrone si infila nella tormenta e nella notte per cercare lontano quello che crede dia valore alla sua vita. Durante la sosta nel villaggio, ha l’ultima possibilità per mutare atteggiamento. È un’occasione che forse un Dio generoso offre a chi sa guardarsi dentro. Infatti, nella famiglia che li ospita c’è apprensione perché uno dei figli sta per provocarne la distruzione pretendendo la sua parte di patrimonio. L’avidità distrugge, sembra dire Tolstoj. Ma l’uomo è cocciuto e non impara dagli errori degli altri, si può dedurre. Le cose devono capitare sulla propria pelle. Il padrone capisce tardi che quanto poteva meglio indirizzare la sua vita non era lontano; stava seduto accanto a lui, sulla slitta.

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Regali di Natale

18 Dicembre 2014 , Scritto da Marco Fiorletta Con tag #marco fiorletta, #unasettimanamagica, #racconto

Regali di Natale


I resti di vernice testimoniano un passato ormai lontano di beltà, forse, ma anche no. Sono lì solo a dire sono stata nuova anche io. Poggia su quattro blocchi di cemento irregolari come se fosse stata divelta da un luogo e portata in un altro, come è in realtà accaduto. E' lì su quel ciglio di strada a sostituire la sua collega che vi stazionava precedentemente. Sotto di lei crescono sparuti fili d'erba sofferenti, ai lati ciò che resta di una delimitazione di aiuola ora deposito di cicche di sigaretta, pacchetti di sigarette più o meno appallottolati che stanno per essere scalzati dalla classifica dei rifiuti dalle confezioni di tabacco, gomme masticate, carta da panini, bottiglie d'acqua, birra, vino e altre bevande, giornali di tutti i tipi, quotidiani, settimanali, inserti pubblicitari, volantini di supermarket che magnificano sconti ed occasioni irripetibili. Solo una cosa stona nel panorama, che comprende automobili che sfrecciano sulla vicinissima arteria stradale a scorrimento veloce, insomma, una strada statale per chiamare le cose con il loro vero nome, che porta verso il centro di una grande città.

Se non fosse tristemente vero sarebbe potuta essere scambiata per una installazione artistica del degrado urbano, della solitudine, dell'inciviltà e altro ancora. Una installazione che con la pretesa di dire tante cose alla fine lascia del tutto indifferente chi la guarda lasciando solo ai dotti critici l'esegesi del pensiero dell'autore.

Su quella solitaria panchina è seduta una donna. I lunghi capelli striati di grigio raccolti in una crocchia, gli occhiali leggermente calati sulla punta del naso. Indossa un cappotto, pantaloni e stivaletti alla caviglia tutto di colore nero, un abbigliamento che, se pur dignitoso, lascia capire che ha visto tempi migliori. Ha la gamba sinistra accavallata sulla sua gemella e in mano tiene un settimanale. Non è uno di quelli che vengono chiamati femminili, no è un inserto settimanale di un quotidiano, è aperto sulle pagine centrali che danno consigli su cosa regalare, d'altronde siamo prossimi al Natale e il regalo è l'argomento principe delle discussioni.

No, quest'anno di regali non se ne faranno tanti o sì, i regali si faranno ma saranno pochi e al risparmio. Le chiacchiere sull'economia ci ammorbano, ci annoiano, ci deprimono, ci danno qualche speranza, a molti non interessano più qualsiasi cosa dicano. La donna solitaria gira le pagine con lentezza, dopo attenta lettura dei preziosi suggerimenti su vestiti, profumi, articoli per la casa, apparecchi elettronici di vario tipo e anche libri e musica. Dagli occhi non sembra che ciò che ha letto e continua a leggere suscitino in lei un grande interesse.

Ogni tanto alza e gira la testa verso sinistra, come se attendesse qualcuno o qualcosa. Li riabbassa sulle pagine patinate con un velo di delusione. Ora chiude il giornale, lo poggia sulla panchina, si alza e si avvia alla fermata del bus che si avvicina veloce.

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Anteprima nazionale

17 Dicembre 2014 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi

Anteprima nazionale

Giovanni Agnoloni – La casa degli anonimi

(Galaad Edizioni, 2014)

Domani, giovedì 18 dicembre, anteprima nazionale de La casa degli anonimi, nuovo romanzo di Giovanni Agnoloni, edito da Galaad Edizioni e sequel dell'opera d'esordio dell'autore, Sentieri di notte (pubblicata anche in lingua spagnola). Preceduto dallo spin-off Partita di anime (marzo 2014), La casa degli anonimi è il terzo atto della serie “della fine di internet”, che ipotizza, in un futuro ormai prossimo, il crollo della Rete e l'impossibilità di un ritorno al prima.

Temi forti di questo nuovo libro di Agnoloni, l'alterazione degli stati emotivi provocata dalla dipendenza dai social network; la tecnologia wireless come veicolo di una possibile nuova dittatura del pensiero; le incredibili variazioni climatiche del pianeta; il sogno e il viaggio come strumenti di esplorazione di verità emotive e spirituali; il mistero dell'unico passo evangelico in cui Gesù scrive.

La casa degli anonimi sarà presentato giovedì 18 dicembre alle ore 18,00 a Firenze, presso la Libreria-caffè letterario “La Cité” (in Borgo San Frediano 20 rosso), con l'intervento dello scrittore Vieri Tommasi Candidi, che condurrà l'incontro, e la partecipazione dello storico dell'arte Corrado Marsan.

Sinossi de La casa degli anonimi

2027. Sono passati quasi due anni dal crollo di Internet in Europa. I sabotaggi degli Anonimi – un gruppo di oppositori del Sistema, nato dopo il settembre 2025 – hanno provocato il collasso della Rete anche in Nord America e Nord Africa. Sullo sfondo di questo scenario globale si stagliano, come percorsi luminosi in una visione satellitare, le vicende di personaggi apparentemente estranei l’uno all’altro. Sorvolando in aereo i cieli olandesi, Kasper Van der Maart cerca invano di raggiungere l’Italia; in un surreale inseguimento notturno per le vie di Firenze, Emanuela e Aurelio incrociano i loro destini; dall’altra parte del mondo, attraverso le strade del Nord America, Tarek dovrà recuperare i ricordi di un passato sommerso; mentre, in Marocco, Ahmed lotta con i propri fantasmi per varcare il confine che lo separa dalla verità. Una visione parallela interseca misteriosamente le traiettorie di tutti loro: una casa, abitata da tre figure enigmatiche in cerca di risposte. La casa degli anonimi aggiunge così un altro capitolo al ciclo della “fine di Internet” inaugurato da Sentieri di notte.

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Giovanni Agnoloni (Firenze, 1976) ha pubblicato i romanzi Partita di anime (2014) e Sentieri di notte (2012; tradotto in spagnolo nel 2014), e i saggi Tolkien e Bach. Dalla Terra di Mezzo all’energia dei fiori (2011), Nuova letteratura fantasy (2010) e Letteratura del fantastico. I giardini di Lorien (2004). Curatore e co-autore di Tolkien. La Luce e l’Ombra (2011) e co-traduttore (con Marino Magliani) di Bolaño selvaggio (2012), ha tradotto opere di Jorge Mario Bergoglio, Amir Valle, Peter Straub, Tania Carver e Noble Smith. Scrive sui blog lapoesiaelospirito.wordpress.com e postpopuli.it. Il suo blog personale è giovanniag.wordpress.com

Giovanni Agnoloni, La casa degli anonimi

(Galaad Edizioni, 2014, pagine 276, euro 13; ISBN: 9788898722204)

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17 Dicembre 2014 , Scritto da Marco Fiorletta Con tag #marco fiorletta, #racconto

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Perché gli archivi sono sempre in posti bui, freddi e umidi? Sempre nei piani bassi e se possibile anche di più, nei sotterranei? Tutte le mattine Fausto si poneva le stesse domande, ormai da anni, e non riusciva a trovare una risposta soddisfacente. Gli archivi vanno tenuti alla luce, all'aria perché quel che c'è dentro va reso noto altrimenti sono solo carte senza valore. Perso nei suoi pensieri si aggirava per l'enorme stanzone ad accendere le luci perché lì il sole del buon Dio non dava i suoi raggi. Anche essi si rifiutavano di passare attraverso le finestrelle a piano stradale coperte di polvere e schizzi di fango. Anche il sole ha una sua dignità.

La vita di Fausto trascorreva normale, tutti i giorni uguale a se stessa. Catalogava i documenti che gli arrivavano, qualcuno lo mostrava agli interni e ciò lo teneva occupato tutta la giornata, sempre con il sottofondo musicale. Una vita tranquilla, dalle nove alle tredici, dalle quattordici alle diciotto con il sabato libero, sarebbe rimasto tutto così se un giorno non fosse stato chiamato in direzione. Senza giri di parole gli comunicarono che l'archivio occupava troppo spazio, che così era dispendioso e che si sarebbe passati ad una ristrutturazione per informatizzare l'ufficio. Il povero Fausto non poté dire nulla se non va bene. Non poté replicare nemmeno all'ordine di mettersi a disposizione del giovanotto in completo e cravatta che gli era seduto vicino e che non lo aveva degnato che di uno sguardo al momento delle presentazioni, per il resto non aveva fatto altro che assentire alle parole del capo.
E così una mattina trovò due altre scrivanie, uno scanner, scoprì poi cos'era, e tanti scatoloni, montati e da montare. E, ultimo affronto, dalla fila di raccoglitori più lontani a sinistra venne fuori un giovane con una pila di fascicoli che impilava su uno dei due tavoli. Fausto lo avrebbe voluto fermare, gli avrebbe voluto gridare "Tu non sai cosa hai per le mani", ma non poteva, non aveva più alcun potere, dopo tanti anni, sul suo luogo di lavoro, sul suo regno. Non aveva nemmeno bisogno di leggere le schede per trovare ciò che gli serviva, tutto era su pc ma lui aveva tutto nella testa.
Il giovane azzimato prendeva le cartellette o le buste, tirava fuori il contenuto e lo distribuiva, secondo segreti, almeno per Fausto, a lui solo noti in tre altri mucchi contraddistinti dalle lettere F, B, S. Notò che tutto quello che veniva messo nel mucchio F, l'operaio lo spostava poi nei cartoni senza troppo riguardo e su cui, al momento della chiusura, scriveva Fuoco. E il fuoco ardeva nel cuore e nella testa di Fausto che non sapeva che cosa avrebbero bruciato, una fattura del 1946? Una nota del 1924? Una lettera di un mese prima? Si rodeva ma non poteva fare nulla se non guardare, soddisfare qualche richiesta e aprire e chiudere l'archivio. Almeno questo potere non glielo avevano tolto. Dopo la selezione, quasi a fine giornata, Azzimato prendeva il materiale del mucchio B e lo imbustava dopo aver scritto qualcosa, mai che gli chiedesse un parere, un consiglio, nemmeno per finta cortesia. Al settimo giorno arrivò una signorina, bassa, cicciottella, con una cresta di gallina in testa, e con dei vestitini che le strizzavano tutte le cicce. Si posizionò allo scanner e iniziò il suo lavoro canticchiando sotto voce. Poche parole e nessuna al povero Fausto, al massimo buongiorno e buonasera.

Subiva, non poteva far altro. Mano a mano gli cambiavano le cose attorno senza nemmeno essere avvertito, finché non arrivò il giorno che venne di nuovo convocato dal capo che, senza tanti giri di parole gli comunicò che dal mese successivo sarebbe andato in pensione. Non pensate che per Fausto fosse un dispiacere, anzi, sentiva quella decisione come una liberazione. Quello non era più il suo lavoro, la sua seconda casa, era qualcosa che non riconosceva. Pulito, anche le finestrelle a piano stradale che lui riusciva a far pulire solo due volte l'anno, luminoso, grazie a potenti lampade ma a risparmio energetico, pochi scaffali e molti armadi che racchiudevano anni di storia che non sarebbe stata più completa e con un impiegato in camice bianco. Gli ultimi giorni era stato, di fatto, degradato a portantino dopo essere stato primario. E così lasciò il palazzo con una fredda festa d'addio condita da pizzette e rustici freddi e di scarsa qualità, da dolcetti ormai rinsecchiti e spumante di seconda categoria salutato da "colleghi" deportati in sala riunioni per ordini superiori. Anche il capo parlò, ne lodò la dedizione, l'accuratezza, la sapienza e tutte le altre corbellerie che si dicono in simili occasioni. Poi venne l'immancabile regalo d'addio. L'orologio che avrebbe dovuto battere il tempo dell'addio alla vita. Si grattò, quasi platealmente davanti a tutti, lui così misurato, educato, rispettoso da sembrare quasi succube. Tutti risero e tornarono ai loro posti di lavoro, ai loro cubicoli ricavati da quelle che una volta erano decine di stanze. Solo una persona rimase nella grande sala vuota, il vecchio portiere tenuto ancora lì non si sa per quale motivo. Peppe mise una mano in tasca e tirò fuori il suo regalo personale, una macchina fotografica digitale. Allungò la mano verso Fausto accompagnandola con "Fuori c'è la vita". Si alzò lo abbracciò e si diresse verso la porta, Fausto notò che si portava la mano destra al viso come per raccogliere una furtiva lacrima. Attese qualche minuto e andò via anche lui, dall'ingresso secondario in modo da non dover salutare nessuno.
Era vero. Fuori c'era la vita. C'erano la luce, i colori, la gente, le cose e le idee.
Dalla sua casetta ai margini della città, circondata ancora dagli alberi e dall'erba, partiva ogni mattina alla scoperta del mondo armato della macchina di Peppe. Scattava foto in continuazione, un gatto, un fiore, una chiesa, i turisti, le formiche, le nutrie sulla sponda del fiume, le oche del laghetto della villa comunale, le donne, gli uomini, tutto ciò che si muoveva e che era immobile. Una scoperta continua. Il suo pc ormai conteneva migliaia di foto che si godeva da solo. E si sentiva egoista. Doveva, lo sentiva come un imperativo categorico, dividere le sue scoperte con qualcuno non avendo nessuno vicino. La sua casetta, ereditata e mai abbandonata, non aveva mai visto entrare uno sconosciuto. Se qualche breve fugace storia c'era stata era stata consumata altrove, il posto più comodo che ci sia. Altrove dove tutto accade senza che nulla accada.
Con riluttanza decise di condividere il suo bene più grande, la scoperta del mondo, sul social network più alla moda, dove tutti avevano centinaia, migliaia di amici anche senza conoscere nessuno.
Si fece il suo account e la sua paginetta, entrambi si chiamavano "Mi piace", ed iniziò a pubblicare le sue foto. Chissà perché e percome iniziarono ad arrivare richieste di amicizia e ogni foto faceva il pieno di mi piace. E lui si sentiva realizzato come non mai. La scoperta del mondo, il suo, alla portata di tutti. E pubblicava, pubblicava, centinaia di foto di tutti i generi e tutte riscuotevano il plauso di sconosciuti che sembrava scoprissero, grazie alle sue foto, un mondo che vivevano senza conoscere.

Il citofono della caserma suonò nel gabbiotto del piantone.
Buongiorno, vorrei fare una segnalazione
Di che genere
una probabile scomparsa
Il click del cancello le diede via libera.
Mentre spiegava al giovane carabiniere ciò che temeva, la signora vide il Tenente entrare, un po' per galanteria e un po' per dovere, questi si fermò e chiese cosa accadeva. Dopo una sommaria spiegazione disse alla donna di accomodarsi nel suo ufficio. Mi dica tutto di nuovo dall'inizio.
Sul mio profilo Fb sono amica di qualcuno che non conosco che pubblica foto, frasi tratte da libri, pensieri propri e con cui in tanti manteniamo contatti. Una persona più che corretta. Ieri ha pubblicato una foto, se ha un profilo Fb lo apra e cerchi la pagina "Mi piace", mentre la donna parlava il pur giovane tenente digitava in fretta. Dopo aver pubblicato la foto che vede, che non è della solita qualità, sembra fatta in fretta e senza passione, non ha più dato segni di vita, non ha nemmeno commentato o risposto ai commenti, ed è una cosa mai accaduta.
Il tenente alzò gli occhi e li piantò nel viso della donna come per sincerarsi della veridicità delle sua parole. Alzò la cornetta del telefono e chiamò un numero: Buongiorno sono il tenente Cardillo, ho bisogno che mi diciate in tempi brevi se il pc da cui viene gestita la pagina .... e continuava a spiegare con un tono che scivolava verso la concitazione e senza togliere gli occhi di dosso alla signora seduta davanti la scrivania. Mise giù la cornetta e rimasero in silenzio, per pochi minuti. Lo squillo li fece quasi sobbalzare:
Tenente Cardillo
Il computer risulta acceso ma senza nessuna attività nelle ultime ore. Dovrebbe appartenere a Fausto Campanello, abitante in via Baciona 58.
Grazie e tolse bruscamente la comunicazione. Fece il numero della centrale operativa:
Sono il Tenente Cardillo, ho bisogno di un intervento discreto ma urgentissimo in via Baciona 58, una pattuglia, un'ambulanza e i Vigili del Fuoco. Potrebbe esserci una persona in difficoltà.
La discrezione non è di questo mondo, ci dobbiamo rassegnare. Arrivarono a sirene spiegate, sgommando e frenando alzando un nugolo di polvere. I due militi corsero uno alla porta e una alla finestra.

Fausto aveva pubblicato la sua ultima foto, è vero non gli era venuta bene ma decise che comunque poteva andare, per una volta lo standard di qualità poteva scendere. Si accese una sigaretta seduto sulla sua poltroncina girevole da ufficio e guardava il video dove già si materializzavano i Mi piace e i primi commenti. Il micio dalla cucina si fece sentire per ricordare che anche lui aveva dei bisogni primari come mangiare. Spense la sigaretta, lasciò la camera piena di libri, riviste giornali ordinati in un disordine organizzato e si recò nella cucina linda e pinta che divideva con la bestiola come il resto della casa. Cambiò l'acqua al micio, gli mise i croccantini e una bustina di umido, gli fece due coccole e tornò al computer. Si accese una nuova sigaretta, odiava riaccendere quelle spente, e guardò lo schermo dove si cumulavano gli apprezzamenti, neanche fosse un esperimento di pavloviana memoria. Io metto una foto e voi, topi di laboratorio, cliccate mi piace. Era soddisfatto del risultato anche se qualcuno segnalava la scarsa qualità dell'opera. Gli avrebbe risposto con calma.

Il milite suonò il campanello di Fausto dando il via a una dolce melodia, il viso del carabiniere si contrasse in una smorfia come una specie di sorriso. Contemporaneamente l'urlo del suo collega, buttate giù la porta, diede il via libera ai Vigili del Fuoco. Pochi attimi e dentro la casa c'erano il dottore e gli infermieri. Fausto era seduto sulla sedia, il braccio sinistro abbandonato lungo il corpo, a terra la sigaretta che si era consumata sui mattoni, come aveva notato il capo dei vigili, non c'erano segni di violenza, come aveva notato il maresciallo, probabilmente era stato un infarto, come aveva notato il medico. La mano destra stringeva il bracciolo come in un ultimo tentativo di restare in equilibrio.
Nella caserma attendevano notizie guardandosi negli occhi, anche con preoccupazione. Lo squillo li riscosse. Anche se non era corretto il tenente mise il viva voce:
Tenente Cardillo?
Sono io
L'intervento si è concluso, gli infermieri lo hanno raccolto che ancora respirava.

La signora, Antonella Cucciolina, si lasciò andare ad un sommesso pianto.

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IL NASTRINO di Sergej Butkov

16 Dicembre 2014 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #racconto

IL NASTRINO di Sergej Butkov

Questo è un racconto che fa parte della raccolta Le cime di Pietroburgo di Sergej Butkov (1821-1858), amico del giovane Dostoevskij e scrittore sommerso dai giganti letterari della sua epoca. L’autore di Delitto e Castigo commentò con tristezza la sua precoce morte in una lettera dalla Siberia al fratello Michail.

Il protagonista è Ivan, un impiegato di basso rango, senza ambizioni e privo di particolari attitudini a parte la precisione nel lavoro. Sa copiare con cura i documenti, ma va in ambasce se gli si conferisce un incarico più complesso. Vive in un piccolo appartamento ai piani bassi di un palazzo perché non sopporta le grandi altezze; in realtà non le sopporta nemmeno nella vita. Strimpella un vecchio piano. Quindi, un uomo senza qualità che non beve, non urla e conduce un’esistenza senza squilli di tromba: “Da dieci anni manteneva lo stesso impiego, con lo stesso stipendio, sulla stessa sedia, allo stesso tavolo e svolgendo lo stesso incarico”. Esce poco perché si sente goffo oltre che povero.

Nel suo grigiore arriva finalmente una nota di azzurro. La figlia dei suoi vicini tedeschi suona come lui il piano e Ivan se ne innamora. In quel periodo il suo superiore gli concede il nastrino, una decorazione per un lavoro importante ben svolto. In realtà Ivan non ha fatto molto per meritarsela; è stato principalmente un colpo di fortuna. Ma ora è il momento dell’ottimismo. Non vede l’ora di sfoggiare il nastrino all’occhiello davanti alla ragazza che ogni tanto va a trovare. Ma le sue aspirazioni vengono rintuzzate e poi distrutte. La giovane gli dice duramene: “E allora? Oggi chi non ha un nastrino?”. Subito dopo lei gli confida di avere anche lei qualcosa di simile regalatole … dal suo fidanzato. Ivan, appresa la notizia, è devastato; non gli resta che andarsene barcollando e tornare nel suo piccolo e mesto alloggio. In fondo la ragazza in prima battuta ha ragione. Quello è solo un pezzo di stoffa. Onorificenze, medaglie, premi sono in gran parte vanità e segni di distinzione; il sistema le concede dall’altro per fidelizzare e far aderire a sé i sottoposti. Il cappotto del noto racconto di Gogol’ prima di essere un cappotto è un simbolo sociale. Napoleone Bonaparte, abile dispensatore di premi e decorazioni (maresciallo di Francia, cavaliere dell’Impero, titoli nobiliari) ai suoi seguaci, si sentì obiettare che quelli erano giocattoli. L’imperatore rispose significativamente che gli uomini sono governati dai giocattoli. C’è probabilmente un livello sano in cui questi “giocattoli” sono mezzi positivi e rappresentano uno stimolo a crescere, oltre che essere un mezzo per tenere saldi i corpi della società. Oltre quel livello, c’è solo la vanità.

Tornando al racconto, non è un tronfio e borioso carrierista a venire ridimensionato. A subire il colpo, per aver sfoggiato il nastrino, è un piccolo e sobrio impiegato, tranquillo e senza artigli, costretto dopo lo smacco a dover ricominciare a volare basso. A chi sta ai piani inferiori, basta poco per esaltarsi e ancor meno per precipitare. Ivan, timoroso, come già detto, delle grandi altezze, ne ha avuto una dura conferma. Per questo, alla fine, il racconto di Butkov, è proprio triste, oltre che realistico.

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Claudio Fiorentini, "Captaloona"

15 Dicembre 2014 , Scritto da Claudio Fiorentini Con tag #claudio fiorentini, #recensioni

Claudio Fiorentini, &quot;Captaloona&quot;

Recensione di Patrizia Stefanelli

Un passaggio per Captaloona?

Sì, grazie.

Di fronte a me un incontro, solo quello e comincia il viaggio. La risposta ad un andare verso l’ignoto. Un giorno uno scrittore mi chiese: cominceresti un viaggio senza conoscerne bene la meta? Dopo un attimo risposi: certo che sì.

Così, Galatea, che ha il nome della ninfa del mare, cara ad Omero, a Ovidio e a Raffaello, compie il viaggio della metamorfosi. Quasi da subito attraverso l’incipit il romanzo mi ha riportata a Joyce di “Gente di Dublino”, non per la storia ma per la tecnica narrativa che prediligo. Captaloona è una meta dalle molte sfaccettature in cui il fuori e il dentro si intersecano nella trama. Questa città, ha in sé il logorio della paralisi dei valori e la fuga degli stessi e dei suoi personaggi che però torneranno. Marc Mullet, torna, portando un futuro migliore, realizzando il sogno del Santo Asceta e la sua “Verità delle cose” : La via dello spirito che cerca un varco nella dittatura del sapere indotto.

La fabula e l’intreccio del racconto seguono la tecnica del flusso di coscienza. Il narratore non è onnisciente e attraverso il flashback procede semplice nella sintassi, usa intercalari come: “Mh!” , fa uso di epifanie (ad esempio l’ossessione degli specchi) e del punto di vista. Tutto si dipana attraverso i “movimenti” che l’autore indica all’inizio di un nuovo capitolo. Egli parla sempre al plurale, a pagina 21 dice : “ … che narreremo”. Sì, perché il suo ruolo è quello di presentare la realtà del romanzo, nel modo più oggettivo possibile lasciando al lettore la possibilità di comprenderla attraverso la sua percezione.

Dunque, qual è la verità delle cose? Dice Mullet: “La verità che ti sbatte in faccia ciò che sei anche quando non ti piace, e la maldicenza che ti obbliga a essere quello che non sei sulla bocca di tutti per questioni tue private, e che ti fa vittima dei loro pregiudizi” . “…dopo un po’ la verità e la maldicenza si confondono, diventando la stessa cosa”. E allora bisogna agire, giocandosi il tutto per tutto al fine di potersi guardare allo specchio senza paure.
In un giorno di pioggia, sembra farsi largo una realtà pirandelliana. In una stanza ci sono un architetto malato, una donna dalla bella voce, un fattorino col suo pacco da Captaloona e la sua ossessione per i call center e i codici in un mondo certificato da IOS… Ognuno pensa qualcosa di diverso rispetto alla realtà dei fatti ma il pacco che il fattorino reca è l’elemento narrativo che unirà la storia, l’introduzione dei presupposti e del suo fantasma.

Captaloona è il caos, nella sua descrizione tutta una serie di negazioni ci portano a ciò che non è più. Attraverso la figura della portinaia, scopriamo il peccato che non si perdona e una serie di loschi personaggi insieme alle riflessioni sulla condizione umana, legata al principio di libertà.

Le ossessioni si rivelano come un fiume in piena nel parlare della Dott.ssa Lematite. La cura stessa è la malattia; è la malattia che cura.

Nell’explicit del romanzo, la morte è l’ordine di tutte le cose in una polifonia dissonante di voci, nell’intreccio ingarbugliato della vita. Non racconterò la storia per lasciarvi il piacere di leggerla e, in conclusione, mi viene alla mente il discorso di Tacito, tratto da "Annales" VI ,22

“Ma io, quando sento dire queste cose e altre simili resto incerto se le vicende umane si svolgano per opera del fato e della necessità immutabile oppure per caso. Perciò troverai discordi i maggiori filosofi antichi e coloro che ne seguono la dottrina, e troverai che in molti è radicata l’opinione che gli dèi non si curino della nostra origine, della nostra fine e in definitiva degli uomini; e che perciò con tanta frequenza le disgrazie capitino ai buoni e le fortune ai malvagi. Altri al contrario ritengono che il fato trovi corrispondenza negli eventi, ma non per influsso dei moti astrali, bensì in base ai principi e alle concatenazioni delle cause naturali; e tuttavia ci lasciano liberi di scegliere la nostra vita, ma quando la si è scelta, la serie degli eventi che ci attendono è determinata. Né il male – ritengono – né il bene sono quelli che pensa il volgo: molti, che sembrano stretti dalle avversità, sono felici e molti altri invece, pur tra grandi ricchezze, più infelici che mai, se quelli sopportano con fermezza il peso della mala sorte, e questi fanno un uso sconsiderato della buona…”

Patrizia Stefanelli

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