poesia
Renato Fucini
Renato Fucini – Opere
A cura di Davide Puccini
Edizioni Le Lettere.
Per conoscere Renato Fucini dobbiamo rivolgerci a Davide Puccini, saggista, fine studioso, ma soprattutto appassionato di letteratura italiana. La sua operazione deriva dalla necessità di riproporre un autore ormai dimenticato, di cui non si trovano più le opere.
L’unico libro ancora in circolazione contiene circa 5000 errori su 1000 pagine. I testi di Fucini sono stati mal compresi, rovinati dai parenti, dagli stampatori, di edizione in edizione. Puccini ha dovuto risalire ai manoscritti, contenuti nelle biblioteche fiorentine, e compiere un’opera certosina di ricostruzione dell’originale.
Il volume è ponderoso, consta di circa 700 pagine e raccoglie tutte le opere pubblicate in vita da Renato Fucini, non le postume, ritenute inferiori. Comprende cento sonetti in vernacolo pisano più altri in lingua, tutte le novelle raccolte ne Le veglie di Neri (1882), All’aria aperta (1897) e Nella campagna toscana (1908) e il saggio Napoli ad occhio nudo (1878).
Davide Puccini ha dedicato cinque anni di lavoro all’opera di Fucini e, come abbiamo detto, ha affrontato la materia soprattutto dal punto di vista filologico. Spesso gli stampatori non comprendevano i vocaboli del vernacolo pisano. Sceglievano la lectio facilior, correggevano bimbino con bambino, sterzatori (chi puliva un albero su tre) con sterratori, rovinando un testo che aveva valore proprio per la precisione etnografica: Fucini, infatti, non sceglieva mai i suoi termini a caso, ma li usava perché erano tipici del luogo di cui stava narrando o poetando.
Nel volume sono contenute molte pagine di bibliografia, Davide Puccini ha rintracciato tutte le edizioni – al punto che è stato in grado, al termine dell’esposizione, di valutare al primo sguardo un libriccino di nostro possesso e datarlo agli inizi del novecento come edizione contenente almeno una trentina di errori.
Ma Puccini ha compiuto anche un’opera di rivalutazione contro quella critica che, dopo la morte di Renato Fucini, ne decretò la lenta decadenza e il ridimensionamento a esponente “minore della letteratura.”
In vita, Fucini ebbe grande successo. A Firenze, allora capitale d’Italia, al caffè Michelangelo, meta di artisti come Edmondo de Amicis (che ha scritto la prefazione proprio all’edizione in nostro possesso) la lettura dei sonetti in vernacolo, che scriveva per divertirsi, ebbe il successo che oggi hanno gli interventi di Benigni. Poi li pubblicò a sue spese e fu un best seller.
Fucini era consapevole dei propri limiti, sapeva di non avere il respiro lungo del romanziere, bensì il fiato corto del novellatore e, tuttavia, una volta pubblicate, le sue opere ebbero risonanza anche fuori della Toscana, furono adottate nella scuola fino agli anni trenta e Croce ne scrisse in modo lusinghiero. Ma dopo, lentamente, su Fucini calò l’oblio e non solo, fu oggetto delle critiche di molti personaggi famosi come Cassola, che lo stroncò nella prefazione ad un edizione BUR. Nel sessantotto fu considerato reazionario, poco attento alla questione sociale, laddove, invece, egli fu mazziniano e garibaldino, impregnato degli ideali risorgimentali che vedeva traditi. Nei sonetti, ma soprattutto in novelle come “Vanno in Maremma”, si sente tutta la sua dolente partecipazione alla miseria degli umili, la comprensione del fenomeno dall’interno, evitando il difetto della letteratura popolaresca (come quella, ad esempio, di Lorenzo il Magnifico).
Fu accusato anche di aver scelto una lingua troppo facile, il toscano, non si capisce cosa avrebbe dovuto fare, visto che le sue novelle sono ambientate principalmente in maremma.
I sonetti sono classici come struttura ma originali come contenuto, perché dialogati, mossi, con battute e vari personaggi fra i quali Neri Tanfucio, lo pseudonimo adottato da Fucini per pubblicare, che ritroviamo ogni volta come personaggio differente. Le poesie sono d’ambiente pisano e fiorentino, popolate di caratteri umili, beceri, degradati; sono spassose, ferocemente allegre ma sempre con una nota amara e triste. (Vedi La mamma, il bimbo e l’amia)
La lingua è un vernacolo che, spesso, ha più del livornese che del pisano. Puccini cita i fenomeni del labdacismo (la elle che diventa erre) e dell’ipercorrettismo (dove si sbaglia per paura di sbagliare).
Renato Fucini nacque nel 1843 a Monterotondo, nella Maremma grossetana, dove il padre David, medico, si era stabilito per la cura delle febbri malariche, ma era livornese di famiglia e si sentiva molto legato alla città labronica, dove frequentò le scuole elementari dei Barnabiti. Visse a Livorno dal 1849 al 1853 - nella città appena riconquistata dagli austriaci dopo i moti del 48 - e, proprio leggendo un poemetto manoscritto in vernacolo livornese, ebbe l’idea di compiere la stessa operazione con quello pisano. Fucini frequentava i macchiaioli a Castiglioncello, dove possedeva una casa, e, in particolar modo, fu amico di Giovanni Fattori, al quale fornì ispirazione per il quadro “Lo staffato”. Ma le sue frequentazioni sono più ampie e non riguardano solo l’ambito toscano. Oltre al già citato Edmondo de Amicis, fu amico anche di Verga, di cui assorbì il naturalismo.
Un discorso a parte merita Napoli ad occhio nudo, reportage commissionatogli da P.Villari, il primo in Italia a far conoscere l’esistenza di una “questione meridionale”. Senza dilungarci, diremo che Fucini seppe cogliere al primo sguardo l’essenza della città, con la quale entrò subito in empatia, comprendendo il fenomeno della camorra in modo non superficiale e raccontando gli aspetti più crudi, dai “talponi” (confronta il livornese tarpone), cioè le pantegane che affollavano fogne e vicoli, al cimitero con 365 fosse, una per ogni giorno dell’anno, in cui i morti erano gettati dall’alto con una carrucola, senza tante cerimonie.
In conclusione, se il saggio sull’umorismo di Pirandello è ancora di là da venire, possiamo affermare, tuttavia, che quella di Fucini fu senz’altro una comicità che “fa pensare”.
Fucini morì a Empoli, nel 1921 per un cancro alla gola.
Giorgio Caproni
“Livorno, quando lei passava,
d’aria e di barche odorava”
Giorgio Caproni (1912 – 1990) è nato a Livorno e ivi ha ambientato le sue poesie più belle, quelle dedicate alla madre, Anna Picchi, Annina, denominate Versi Livornesi, nella raccolta Il seme del piangere del 1959.
Dal 22 si trasferisce a Genova, e poi a Roma. Fa il commesso, l’impiegato e il maestro elementare. Le sue prime prove sono rifiutate dagli editori, gli viene detto di “aver pazienza”, gli si fa capire che la poesia non è cosa per lui. Ma insiste, oltre alle poesie scrive critica letteraria, recensioni e traduce dal francese Il Tempo ritrovato di Proust, I fiori del male di Baudelaire, Bel-ami di Maupassant e, ancora, Celine e Apollinaire.
Anche quando la fortuna letteraria gli arriderà e vincerà numerosi premi importanti, si terrà sempre appartato e lontano dai salotti, chiuso nel suo dolore esistenziale frutto di numerosi traumi, come la morte per setticemia della prima fidanzata e le sciagure della guerra.
Scrive anche saggi e opere narrative ma la sua produzione più alta si concentra nella poesia. Le sue raccolte più famose sono Cronistoria (43), Le stanze della funicolare, (52), Il passaggio di Enea, (56), Il seme del piangere (59)
Ci sono tre tempi nella poesia di Caproni, il primo è macchiaiolo, carducciano, contiene una traccia dei primitivi toscani e di certi modi cavalcantiani e stilnovistici, privi, però, d’idealizzazione spirituale. Ne è un esempio la poesia che segue:
LA GENTE SE L’ADDITAVA
Non c’era in tutta Livorno
un’altra di lei più brava
in bianco, o in orlo a giorno.
La gente se l’additava
vedendola, e se si voltava
anche lei a salutare,
il petto le si gonfiava
timido, e le si riabbassava,
quieto nel suo tumultuare
come il sospiro del mare.
Era una personcina schietta
e un poco fiera (un poco
magra), ma dolce e viva
nei suoi slanci; e priva
com’era di vanagloria
ma non di puntiglio, andava
per la maggiore a Livorno
come vorrei che intorno
andassi tu, canzonetta:
che sembri scritta per gioco
e lo sei piangendo: e con fuoco.
C’è poi una fiammata lirica e neoclassica in Cronistoria e ne Il passaggio di Enea ed infine una progressiva scarnificazione e perdita di lirismo, come se, col passare degli anni, la parola fosse ormai un peso.
“Il rumore della parola, ad un certo punto, ha cominciato a darmi terribilmente fastidio”
La ricerca è tesa alla semplificazione, il verso s’impasta di aulico e prosastico insieme, oscilla fra cantato e parlato (e in questo richiama la linea ligure, in particolare Sbarbaro.) Si rifà comunque a un filone preermetico, alla musicalità descrittiva di Saba e alla metrica di Pascoli. Consapevolmente antinovecentesco, Caproni rifiuta i giochi puramente sintattici e concettuali. Vuole una poesia fatta di bicchieri, di stringhe, di cose della vita quotidiana, il suo è un impressionismo che evita l’idillio e il compiacimento elegiaco, anche la sintassi si riduce all’essenziale mentre sono gli oggetti a prendere corpo.
L’architettura e il controllo della metrica entrano in contrasto con l’urgenza vitalistica, espressa spesso dagli esclamativi iniziali, il periodo non si esaurisce nel verso ma deborda nell’enjambement, il versificare si fa spezzato, rispecchiando l’anima del poeta che tenta di afferrare una realtà sfuggente. Caproni ricorda in questo Virginia Woolf, il suo senso di crescente insoddisfazione, la sfiducia nella possibilità che la parola riesca a rappresentare davvero le cose.
“Nessuno è mai riuscito a dire
Cos’è, nella sua essenza, una rosa.”
Detesta la logorrea, i versi lunghi. “L’ideale”, afferma, “sarebbe arrivare a scrivere una parola sola, o meglio, andare oltre la parola”. La parola ha per lui valenza negativa, perché limita, è simulazione della realtà. La parola è oggetto essa stessa e, ammesso che la realtà esista, non si può conoscere un oggetto con un altro oggetto.
Caproni usa la rima, l’allitterazione, l’assonanza, l’anafora (ripetizione di parole o espressioni), la prosopopea (quando si fanno parlare animali, oggetti, defunti) e la punteggiatura con valore ritmico. La sua resta un’operazione letteraria e l’assoluta identità fra vita e poesia rimane un’aspirazione, anche se egli tende più narrare che a poetare, rifuggendo dalla sublimazione lirica.
PER LEI
Per lei voglio rime chiare,
usuali: in -are.
Rime magari vietate,
ma aperte: ventilate.
Rime coi suoni fini
(di mare) dei suoi orecchini.
O che abbiano, coralline,
le tinte della sue collanine.
Rime che a distanza
(Annina era così schietta)
conservino l’eleganza
povera, ma altrettanto netta.
Rime che non siano labili,
anche se orecchiabili.
Rime non crepuscolari,
ma verdi, elementari.
I temi ricorrenti sono la guerra; il dolore; l’esistenza come viaggio - anche in senso chiuso e circolare, un viaggio che riporta indietro, al punto di partenza, al nulla, al non essere, e che è simbolico del passaggio fra un’epoca e l’altra e fra la vita e la morte - la ricerca dell’identità che sfocerà nell’immedesimazione con personaggi mitologici come Enea e che è intesa come modo per trovare gli altri attraverso se stessi; il rapporto con i genitori; la vita popolare di Genova e Livorno. La sua è un’epopea casalinga, una fuga dalla storia che caratterizza molti poeti dell’epoca come Penna, Luzi, Sereni, spaventati dal passare del tempo, dalla distruzione della civiltà contadina.
Nel 1949 torna nella sua città alla ricerca della tomba dei nonni e la riscopre, ma, ormai, anche Livorno è popolata di fantasmi.
ULTIMA PREGHIERA
Anima mia, fa’ in fretta.
Ti presto la bicicletta,
ma corri. E con la gente
(ti prego, sii prudente)
non ti fermare a parlare
smettendo di pedalare.
Arriverai a Livorno,
vedrai, prima di giorno.
Non ci sarà nessuno
ancora, ma uno
per uno guarda chi esce
da ogni portone, e aspetta
(mentre odora di pesce
e di notte il selciato)
la figurina netta,
nel buio, volta al mercato.
Io so che non potrà tardare
oltre quel primo albeggiare.
Pedala, vola. E bada
(un nulla potrebbe bastare)
di non lasciarti sviare
da un’altra, sulla stessa strada.
Livorno, come aggiorna,
col vento una torma
popola di ragazze
aperte come le sue piazze.
Ragazze grandi e vive
ma, attenta!, così sensitive
di reni (ragazze che hanno,
si dice, una dolcezza
tale nel petto, e tale
energia nella stretta)
che, se dovessi arrivare
col bianco vento che fanno,
so bene che andrebbe a finire
che ti lasceresti rapire.
Mia anima, non aspettare,
no, il loro apparire.
Faresti così fallire
con dolore il mio piano,
e io un’altra volta Annina,
di tutte la più mattutina,
vedrei anche a te sfuggita,
ahimè, come già alla vita.
Ricordati perché ti mando;
altro non ti raccomando.
Ricordati che ti dovrà apparire
prima di giorno, e spia
(giacché, non so più come,
ho scordato il portone)
da un capo all’altro la via,
da Cors’Amedeo al Cisternone.
Porterà uno scialletto
nero, e una gonna verde.
Terrà stretto sul petto
il borsellino, e d’erbe
già sapendo e di mare
rinfrescato il mattino,
non ti potrai sbagliare
vedendola attraversare.
Seguila prudentemente,
allora, e con la mente
all’erta. E, circospetta,
buttata la sigaretta,
accostati a lei soltanto,
anima, quando il mio pianto
sentirai che di piombo
è diventato in fondo
al mio cuore lontano.
Anche se io, così vecchio,
non potrò darti mano,
tu mòrmorale all’orecchio
(più lieve del mio sospiro,
messole un braccio in giro
alla vita) in un soffio
ciò ch’io e il mio rimorso,
pur parlassimo piano,
non le potremmo mai dire
senza vederla arrossire.
Dille chi ti ha mandato:
suo figlio, il suo fidanzato.
D’altro non ti richiedo.
Poi, va’ pure in congedo.
Annina, fine e popolare come i versi del figlio, non c’è più, non ci sono il suo odore di cipria, la catenina, il tumulto del cuore, la camicetta. Ella, ormai, non si può destare.
IL CARRO DI VETRO
Il sole della mattina,
in me, che acuta spina.
Al carro tutto di vetro
perché anch’io andavo dietro?
Portavano via Annina
(nel sole) quella mattina.
Erano quattro i cavalli
(neri) senza sonagli.
Annina con me a Palermo
di notte era morta, e d’inverno.
Fuori c’era il temporale.
Poi cominciò ad albeggiare.
Dalla caserma vicina
allora, anche quella mattina,
perché si mise a suonare
la sveglia militare?
Era la prima mattina
del suo non potersi destare.
Riferimenti
Romano Luperini, Il Novecento, Loescher editore
Walter Cremonti, “I versi livornesi di Giorgio Caproni” dal sito www.latramontanaperugia.it
ESSO, STA P’ARIVA’ ‘N ATRU NATALE
(Dialetto riburtino)
ESSO, STA P’ARIVA’ ‘N ATRU NATALE
(natale 2007 - signoradeifiltri 2015)
… èsso, sta pe’ ariva’ ‘n atru natale
e ‘nte ne rendi cuntu
che téne n anno ‘mpiù
gesù gesù gesù…
nn’è ppiù comme ‘na vota
a quistu mundu,
ci semo sparpagghiati…
... na vota
stemmio tutti areddunati
‘nfamigghia co lli patri e co lle matri
Mo ‘gnuno se ne va pe’ cuntu seu
non vale più lu dittu
natale co lli tei
e pasqua ando’ te pare.
Chi se ne va ‘mmontagna
e chi se ne va ar mare
Chi se ne va a scià
chi co ll’amichi se ne va a balla’.
Ma ch’è natale quissu?
Io propriu non llo saccio.
So intisu ‘nciafrugghia’ tra sé ‘nvecchijttu:
madonna, ché natale!
Io me cci sento male…
Semo aremasti soli bella mea
(alla vecchietta sea)
gesu gesu gesu gesu gesu
pe nnui ci si aremastu solu tu.
ECCO, STA PER ARRIVARE UN ALTRO NATALE
Ecco, sta per arrivare un altro natale,
e non ti rendi conto
che hai un anno di più
Gesù Gesù Gesù...
non è più come una volta
a questo mondo...
ci siamo sparpagliati...
... una volta
eravamo tutti radunati
in famiglia, coi padri e colle madri...
adesso ognuno se ne va per conto suo
non conta più il proverbio
Natale con i tuoi
e Pasqua dove ti pare...
chi se ne va in montagna
e chi va al mare...
chi va a sciare
chi con gli amici se ne va a ballare...
ma che Natale è questo!
Io proprio no lo so...
ho inteso bubbolare tra sé un vecchietto:
Madonna! Che Natale!
Io mi ci sento male...
Siamo rimasti soli, moglie mia...
Gesù Gesù Gesù Gesù Gesù,
per noi... ci sei rimasto solo tu!
marcello de santis
Guelfo Civinini

Guelfo Civinini (1873 – 1954) è nato a Livorno solo perché i genitori vi si rifugiavano per sfuggire alla malaria.
Ha vissuto principalmente a Roma, dove si è spento nel 54, ma la sua vita è stata particolare, piena attività che ne fanno un personaggio interessante, al di là della scrittura.
Corrispondente del Corriere della Sera, fu inviato di guerra in Libia e in Grecia, seguì l’impresa di Fiume di d’Annunzio e aderì al fascismo, diventando uno dei firmatari del “Manifesto degli intellettuali fascisti” ma, dopo le leggi razziali e il patto con la Germania, si distaccò dall’ideologia di Mussolini fino a diventare scrittore “non gradito” al governo.
Fra le due guerre viaggiò molto, soprattutto in Africa orientale, dove realizzò il documentario Aethiopia per conto dell’Istituto Luce. Organizzò persino una spedizione alla vana ricerca di un esploratore morto.
Comprò sull’Argentario la Torre di Santa Liberata, compiendovi degli scavi che portarono alla luce una villa romana.
Una figlia gli morì suicida nel 29.
La sua produzione parte dalle poesie crepuscolari di L’Urna e I sentieri e le nuvole - che lo fanno rientrare a pieno diritto nel Decadentismo, con una visione intimista, malinconica e sfiduciata - passa attraverso la produzione teatrale per sfociare nel verismo delle novelle, basate sui ricordi d’infanzia e sull’ambiente maremmano ma anche africano.
Rimane famoso soprattutto per aver scritto il libretto de La fanciulla del West musicata da Giacomo Puccini.
Guelfo Civinini (1873 - 1954) was born in Livorno only because his parents took refuge there to escape malaria.
He lived mainly in Rome, where he died in 54, but his life was particular, full of activities that make him an interesting character, beyond writing.
Correspondent of Corriere della Sera, he was sent to war in Libya and Greece, followed the business of Fiume of d'Annunzio and joined fascism, becoming one of the signatories of the "Manifesto of fascist intellectuals" but, after racial laws and pact with Germany, he detached himself from Mussolini's ideology until he became a writer "unwelcome" to the government.
Between the two wars he traveled extensively, especially in East Africa, where he made the documentary Aethiopia on behalf of the Istituto Luce. He even organized an expedition in vain to find a dead explorer.
He bought the Torre di Santa Liberata on the Argentario, carrying out excavations that brought to light a Roman villa.
A daughter died of suicide in 29.
His production starts from the twilight poems of L'Urna and The paths and the clouds - which make him fully fall into Decadentism, with an intimate, melancholic and disheartened vision - passes through theatrical production to flow into the realism of the novels, based on childhood memories and on the Maremma but also African environment.
He remains famous above all for having written the libretto of La fanciulla del West set to music by Giacomo Puccini.
Shelley a Livorno
Il poeta inglese Percy Bysshe Shelley (1792 – 1822), complice l’eredità del nonno e per ovviare alla salute malferma dovuta alla tisi che lo minava, scelse di trascorrere molta parte della sua vita in Italia, luoghi di elezione furono Napoli, Pisa (dove lo raggiunse Byron) e Livorno.
A Livorno soggiornò tre volte, nel 1918, nel 19 e nel 22, anno della sua tragica morte in mare.
Fu ospite di amici inglesi ma alloggiò anche a villa Valsovano, dove compose la tragedia The Cenci, pubblicata nel 1819 - cui attinse anche il Guerrazzi – e le famose odi To a Skylark e To Freedom.
Da giugno a settembre del 1819 Shelley e Mary Wollstonecraft si stabilirono a villa Valsovano. Mary era molto abbattuta, avendo visto morire due dei suoi tre figli in un anno. Solo nel maggio precedente erano venuti a Livorno con tutti e tre i bambini e due domestiche ma ora la casa era molto più triste. Shelley cercò rifugio nel lavoro e quell’estate, sul tetto della villa, compose The Cenci, tragedia dal gusto gotico, basata sulla storia di una famiglia realmente vissuta nel cinquecento. Ne furono stampate nella nostra labronica 250 copie, poi spedite a Londra.
L’estate dopo erano nuovamente a Livorno e Shelley compose la famosa ode All’ allodola, della quale riportiamo alcuni versi centrali particolarmente belli e già, in pieno romanticismo prima maniera, precursori di quello che sarà il nostro decadente Gelsomino Notturno e di alcune liriche wildiane cariche di sensualità estetizzante.
“Like a rose embowered
In its own green leaves,
By warm winds deflowered,
Till the scent it gives
Makes faint with too much sweet these heavy-wingéd thieves:
Sound of vernal showers
On the twinkling grass,
Rain-awakened flowers -
All that ever was
Joyous and clear and fresh - thy music doth surpass.”
Villa Valsovano si trova in via Venuti 23 e una lapide del 1962 ricorda il soggiorno di Shelley:
“In questa casa già villa Valsovano dimorò da metà giugno a fine settembre 1819 nel suo più lungo dei soggiorni livornesi Percy Bysshe Shelley tornato a ritemprare le forze e lo spirito nella pace della nostra amena campagna a lui ispiratrice di stupendi carmi. Scrisse allora tra l’altro la tragedia “I Cenci”e nell’estate seguente alloggiando poco lungi la poetica epistola a Mary Gisborne e la celebre ode “a un’allodola.”
Fu nel golfo di La Spezia, davanti a Lerici, che, tornando in barca proprio da una gita a Livorno, l’8 luglio 1822, Shelley naufragò in una tempesta. Il suo cadavere fu ritrovato dieci giorni dopo su una spiaggia nei pressi di Viareggio.
Amalia Guglielminetti
AMALIA GUGLIELMINETTI
(1885-1941)
Ricordo con simpatia e conservo ancora il biglietto di Arturo Graf che mi scrisse - alla pubblicazione del mio libro di poesie Le Vergini folli - « la sua ispirazione è viva, schietta, delicata quanto più si possa dire…. Quelle sue figure di fanciulle e donne son cose di tutta gentilezza… »
Caro prof: Arturo Graf, che già si era entusiasmato per la mia opera quando gli avevo mandato in visione il manoscritto, definendo i miei versi "belli e nuovi"!
Fu la raccolta che mi diede importanza, ero ancora giovanissima, quindi l'insperato successo mi fece ancora più piacere; ma qualche anno prima, alla morte di mio padre, avevo già pubblicato un libro di poesie, che gli dedicai: Voci di Giovinezza, versi come dice il titolo che portavano dentro tutta la mia ancora fanciullezza, avevo solo 18 anni.
Perché ho cominciato a parlare di me partendo da queste due raccolte?
Beh, perché oltre ad avermi consacrato poetessa, furono i versi - almeno quelli di Le Vergini folli, il mio "libro galeotto" che mi avvicinò a Guido Gozzano.
Un critico famoso, ricordo, mi definì "un insieme di Gaspara Stampa e Saffo", quale onore! E onestamente non so dire se vide giusto. E pressappoco allo stesso modo mi definì poi Guido. Che ebbe a dire cose belle anche lui, di Le Vergini folli; per esempio mi scrisse, - dandomi del Lei - … ella… egregia Guglielminetti… conduce il lettore attraverso i gironi di quell'inferno luminoso che si chiama verginità…
Io gli avevo fatto dono del libro appena stampato in risposta ad una sua lettera con la quale mi aveva inviato la sua opera di poesia La via del Rifugio.
Così il male durò. Più tentatore d’allora, a tratti, il tuo volto mi abbaglia.
Curiosità di te mi punge il cuore, desiderio di te me lo attanaglia.
Si conobbero nel 1906, in un incontro alla Società di Cultura; in quel periodo il poeta non riusciva più a scrivere, perché era tutto preso a selezionare, scegliere, correggere, integrare i suoi scritti per farne una raccolta, e fu preso dalla conoscenza casuale di questa giovane donna dall'aspetto tutto particolare. Tra i due poeti iniziò una lunghissima relazione epistolare che durò alcuni anni (dal 1907, appunto, alla fine del 1910), dapprima lettere in cui si disquisiva sui canoni delle loro poesie, ma ben presto le lettere si trasformarono in lettere d'amore,
Il nostro amore che sarebbe fiorito
con tutti i fiori della primavera torinese!
(così dolce per l’esule che ritorna!)
scriveva la poetessa.
Gozzano si rivolge alla Guglielminetti con un Egregia Signorina, per complimentarsi con lei della bontà delle sue poesie, mentre lei lo appella con un ben più austero Cortese Avvocato, chiedendogli, se fosse possibile, un (primo) incontro, in quella paciosa Torino di inizio secolo (ripetiamo, siamo nel 1907) ancora invischiata nel tepore di una morente primavera.
Il poeta si confida con lei, le confessa la sua malattia e le illustra i suoi timori per essa; e le dice della temporanea lontananza da Torino, sta sulla Riviera Ligure, "sto… in esilio… in solitudine" lontananza obbligata dai medici, per curarsi.
Una lettera tira l'altra, tra schermaglie a volte simpatiche, altre volte dolorose, lei che lo circuisce con richieste assillanti di un incontro, lui che la respinge girando e rigirando sempre intorno alla stessa causa, la malattia. Eppure le fa molti complimenti, per i begli occhi, per la bella bocca, per i bei capelli, per il fascino che ella emana; e tra il serio ed il faceto le dichiara la sua paura di conoscerla, proprio per questo fascino che emanano i suoi occhi da maliarda che potrebbero farlo capitolare.
Passa la primavera, che del resto era già per finire, passa l'estate, tra preoccupazioni da una parte e speranze dall'altra. Il poeta torna a casa, ad Aglié, ma poi la malattia lo porterà ancora fuori, tra andate e ritorni, che potevano apparire alla scrittrice più delle fughe da lei (alternate a ritorni obbligati a casa) che partenze per curarsi. E le lettere si susseguono per anni, dal 1907 appunto, fino al 1910, quando Gozzano decise di porre fine a quella relazione inquieta e turbolenta. Tra i due montagne di lettere; centoventiquattro, per l'esattezza; quelle del poeta sono un terzo del totale; lettere che ambedue conservarono, tra riflessioni e riletture.
"… In uno di questi bei pomeriggi di primo autunno
mi piacerebbe di venirvi a trovare»..."
"… indicarmi… un' ora e un paese qualunque di convegno…"
gli scrive la scrittrice; ma Gozzano tergiversa, non sa decidersi, la paura l'attanaglia; e quando si sbilancia con un quasi sì, lo fa escludendo di incontrala da solo a sola, e soltanto a condizione che sia in casa sua (di lui), e alla presenza di sua madre.
E' mai avvenuto questo incontro a casa del poeta? Non lo sappiamo, sappiamo che ce ne sarà uno a casa della donna, qualche tempo dopo, e in una lettera successiva sappiamo che il poeta ammirò molto … le vostre ciglia… le vostre labbra…
Ci sarà qualche altro appuntamento, dove il poeta non si presenterà, lasciando la scrittrice delusa e - scrive lei: « umiliata, avvilita, annientata »
La donna, che si definiva "scontrosa come un'ortica" e che nella Torino/Belle Epoque del periodo dava scandalo continuamente alla borghesia benpensante che le ruotava attorno, per la trasgressività che la distingueva, per le opere e per i versi delle sue prime pubblicazioni; e più tardi per le storie di eroine sensuali e disinibite, protagoniste dei suoi romanzi: tra ammirazione di molti ma critiche dei più.
Quell'amore impossibile per la mancata volontà di uno dei due, resterà sempre, fino alla fine, un amore platonico che non si trasformò mai in un amore materiale. Perché Amalia era una donna che dimostrava tutta la sua irrequietezza, tutto il suo ardore di ragazza nel pieno della sua femminilità che stava prorompendo impetuosamente, quasi un contrappasso alla educazione ricevuta nell'istituto religioso per ragazze, denominato Fedeli Compagne di Gesù…
Scrisse una poesia che pare proprio ispirata alla figura del "suo" poeta.
Bevvi a piccoli sorsi la menzogna /
come un filtro che induce fantasie /
fascinatrici al cuore di chi sogna. /
In ogni cosa io scoprii malie /
nuove; talvolta perseguii la traccia /
di un dolce incanto per malcerte vie. /
Non riguardai l'ingannatore in faccia /
per non tremar di oscura diffidenza /
nell'amoroso cerchio di sue braccia. /
Quegli blandiva: Niuna sapienza /
che insegni vale un bel gioco che finga. /
E mi versava in cuore una sua essenza /
fatta d'ombra, d'amore e di lusinga. )
(da Le seduzioni)
Erano anni difficili per la donna nella letteratura, i benpensanti della Torino bene di quei primi anni del novecento male accolsero i tentativi in versi di una donna, c'erano pregiudizi molto profondi, e si accentuarono e si accanirono contro di me dopo la pubblicazione della terza raccolta di poesie dal titolo, che dice già tutto, "Le seduzioni", che fecero di me, sulla bocca di tutti, una donna perversa. Sì, è vero, parlavano di me come di una poetessa sensuale, ma io la prendevo sul ridere, non me ne preoccupavo molto anche perché mi inorgogliva che si parlasse di me.Quella società, specialmente quella non letteraria, non poteva accettare che una donna si esprimesse in poesia trattando quegli argomenti scabrosi…
Del resto Amalia si presentava immediatamente come una femmina anticonformista, se teniamo presente la tradizione del tempo a Torino: capelli lunghi, che ella amava acconciare secondo la moda di Parigi, e i vestiti all'ultimo grido della capitale transalpina. A ciò si aggiunga il suo carattere chiuso, e il fatto che non le piaceva frequentare gente, anzi amava essenzialmente la solitudine. Con un carattere "passionale, focoso" in contrapposizione a quello del poeta "cinico e retrivo".
La storia, prima difficile, presto diventa impossibile.
Anche perché Guido era timoroso di questa relazione causata dalla sua malferma salute, malato, di quella forma di tubercolosi manifestatasi fin da bambino, e che lo avrebbe portato alla tomba.
Per contrasto al poeta di Aglié, in Amalia c'era solo voglia di provocare, di cercare e di cogliere in ogni occasione ogni frutto proibito, un carattere nato per scandalizzare con le sue poesie, i suoi drammi, i suoi romanzi, i suoi modi di fare e di presentarsi. Pensate, quando nel 1923 pubblicherà il romanzo Quando avevo un amante, Amalia subì uno dei tanti processi per oltraggio al pudore.
La Guglielminetti ha rincorso il poeta tempestosamente per tutta la durata della loro relazione a distanza, ma nulla poté il vigore di questo suo desiderio dinnanzi all'assenza cercata costantemente da Gozzano, ossessionato dalla paura di una donna decisa a tutto. Amalia non si sposò. Avrebbe volentieri sposato soloGozzano; ma quegli cercava la fuga dalla donna (e dalle donne), qualcuno dirà poi per aridità e impotenza sentimentale. E si fece derivare questa sua paura dalla maledetta malattia ai polmoni che l'afflisse da sempre.
Guido non voleva il suo amore, voleva la sua amicizia. Non voleva il contatto fisico, voleva l'immaginazione. Non voleva un rapporto reale (che lei rincorreva strenuamente, con ogni mezzo), desiderava solo un rapporto ideale. Glielo scrisse anche, in una lunga lettera del novembre del 1907: leggiamone qualche passo:
Vi siete mai domandata ciò che succederebbe se io non dovessi esiliarmi? Io sì. Succederebbe più o meno questo.
… un giorno, un bel giorno, io sarei a casa vostra, nel vostro salotto, con Voi… … sarebbe un crepuscolo, un crepuscolo della prima primavera, …
… si farebbe notte, più notte, nel quadrato della finestra, rabescato dalle cortine, il vostro profilo apparirebbe appena…
… allora io, che avrei le vostre mani nelle mie mani, crederei di sognare, e inconscio, irresponsabile come in un sogno, mi chinerei sulle vostre dita, salirei lungo le falangi con le labbra, fino a mordervi le vene del polso…
… istintivamente, sempre come in sogno, la mia bocca si troverebbe dietro il vostro orecchio, alla radice dei capelli fini, e vi morderei alla nuca (il morso è il mio vizio preferito).
Ecco, Guido ci pensava, eccome se ci pensava al rapporto fisico con l'amante ideale, ma la paura (o qualche altra cosa?) lo tratteneva, e si limitava a fantasticare a sognare.
Non voleva soffrire per questo, lei aveva capito questo timore, tanto che gli scrisse: « Non mi sfuggite, Guido, non abbiate paura di me, io non voglio farvi del male »
Scriveva Amalia, ne Le Vergini folli (1907), in un sonetto che poteva ben attagliarsi a se stessa, estroversa, libera e libertina, in un periodo culturale in cui si presentava talvolta ornata di piume di struzzo, con cappellini alla francese e una veletta che le copriva gli occhi di maliarda:
Tu t'abbandoni, o pallida indolente,
nella ricca mollezza de' cuscini,
e in sonnolenta voluttà reclini
le ciglia gravi tediosamente,
quasi un'ebrezza tenue la tua mente
oziosa per strane ombre trascini,
o vélino i tuoi occhi felini
soporiferi aromi d'oriente.
O sei come una bella agile tigre,
che s'allunghi a giacer sotto una palma,
con tue movenze regalmente pigre.
Ma non t'insidia il serpe tentatore,
e tu per scuoter la tua uggiosa calma
ti lasceresti pur suggere il cuore.
Anche nei versi più belli si sente un certo dannunzianesimo, dal quale la scrittrice non seppe mai staccarsi, alla continua ricerca dell'estetismo estremo: e nel portamento, e nelle vesti, e nel suo atteggiarsi, tutto al contrario del crepuscolarismo di cui erano intrise le opere del Gozzano. Nelle sue poesie, poi, sembra quasi specchiarsi l'impossibilità di una unione materiale coll'amato, quell'unione sempre agognata ma mai raggiunta.
Ella lo sente lontano, sfuggente, quasi un nemico.
"… che avete, Guido, contro di me? Vi sento fasciato di freddezza e di ostilità."
Era passato già un anno e il loro rapporto non aveva fatto nessun passo avanti, le solite rincorse di lei, le solite ritirate di lui. In un ennesimo tentativo di appuntamento (galante) la Guglielminetti scrive:
"… voi attendetemi nella piazza del monumento a Vittorio Em. sotto i portici presso l’ufficio postale. Vi raggiungerò verso le cinque. Prenderemo, se credete, una vettura e andremo fuori. Bisogna ch’io vi guardi negli occhi e nel cuore un momento...".
Ma si tratterà ancora un incontro mancato.
… perché mi fate piangere Guido...
… vi voglio bene e soffro crudelmente di sentirvi tanto lontano.
Gozzano sentiva il bisogno di amare, ma non nella vita reale bensì nella vita di sogno, amare come si immaginava nella fantasia, disegnandosi "in mente" una figura di lei simile a quella signorina cocotte che lo stregò, lui ancora bambino, mentre giocava nel giardino
ed ella si chinò come chi abbia
fretta d'un bacio e fretta di ritrarre
la bocca, e mi baciò di tra le sbarre
come si bacia un uccellino in gabbia
… un ideale di donna sognata, da quel momento fatato, per sempre; una donna che non dimenticherà mai, e che avrà davanti anche durante la relazione sentimentale con la Amalia Guglielminetti.
Dirà pochi versi appresso nella suddetta poesia, infatti
Sempre ch'io viva rivedrò l'incanto
di quel suo volto tra le sbarre quadre
Questo amore per Gozzano non fu mai amore, fu piuttosto, come ebbe a definirlo una volta: "fraternità spirituale".
Mi feci le ossa, non lo dimenticherò mai, dentro la redazione della rivista "La donna", ne fui l'anima, ma la gente non apprezzava i miei scritti, già da allora sentivo intorno a me un'atmosfera negativa, per le mie idee nuove, per il mio modo di poetare.
… conobbi Guido, e imparai ad apprezzarlo prima, ad amarlo poi, ma lui…
… ci definivano crepuscolari, ma eravamo poeti nuovi, innamoratissimi della poesia…
… cominciavo ad essere conosciuta anch'io, rare volte però ho frequentato i salotti, preferivo stare sola, ero molto riservata, e ciò non piaceva ai letterati di Torino.
… ci scrivemmo lettere…
« Vi bacerei le mani, le vene dei polsi, vi morderei la nuca. È il morso il mio vizio preferito »
« Guido, ditemi una parola di tenerezza, mentitela pure se non la sentite, cercatela se non l'avete »
Finì anche la relazione sentimentale con il poeta. Ciò che la scrittrice aveva previsto già molto prima, in un sonetto famoso:
Folle è lasciarci, tutti accesi ancora
di desiderio, ancor pronti a godere
di tutto ciò che l'un dell'altro ignora.
La volontà che tiene prigioniere
le nostre giovinezze le flagella,
per farle in solitudine tacere.
Ma più le volge incitatrice a quella
gioia non mai gioita, che la morte
pur ci farebbe nel suo riso bella.
Più dolce sorte è la comune sorte :
darsi con umiltà l'un l'altro, ciechi.
Abbandonarsi al vortice più forte
e dirsi dopo un breve addio, senz'echi.
Morì dunque un amore mai nato. Era dicembre, un dicembre dei più tristi per Amalia; terminava un amore "solo finto" per Guido, molto sofferto e mai raggiunto, per la scrittrice. Il poeta scappa di nuovo in Riviera, e lascia sola l'amata inconsolabile, disfatta.
« Addio, Amalia, senza molta tristezza. Di lungi vi scriverò ancora quando avrò qualche bella notizia della nostra poesia. E voi anche. Ma non parleremo della nostra passione e del nostro passato. La passione è un ingombro al nostro cammino di gloria... ».
Ma lei gli risponde ancora testardamente: « Io non voglio che tu mi sfugga, Guido…poi si arrende: …Guido… mi respingi… mi allontani… pure implorando … qualche segno di bontà in cambio di tutta la mia tenerezza ».
E la parola fine, da parte di lui: … questa è la grande verità. Io non t' ho amata mai...
… io non ho amato mai; con tutte non ho avuto che l' avidità del desiderio… dichiarando implicitamente, forse, la propria incapacità di amare fisicamente.
Pier Paolo Pasolini, in un saggio di circa quarant'anni dopo, dice di Gozzano: l’essere è un colloquio con se stesso, in cui dibattere il problema della propria impotenza, rendendolo infinitamente complicato per poter avere, insieme, infinite ragioni per giustificarsi…
Intorno al 1914 Amalia si lega sentimentalmente con lo scrittore Pitigrilli. In breve divenne suo amante, ciò che contribuì ad aumentare le voci negative che la circondavano.
Lo stesso Pitigrilli, nella biografia della scrittrice/poetessa (Amalia Guglieminetti, Milano, 1919, D.Segre) ebbe a scrivere:
"i malati di impotentia coeundi dei giornali clericali, i moralisti d'ambo i sessi, i gesuiti con o senza cotta, si scaraventarono contro questa poetessa che non chiudeva le imposte prima d'accendere la veilleuse del suo boudoir".
Il romanzo della Guglielminetti La rivincita del maschio, pubblicato nell'anno 1923 fu ritenuto osceno e contrario alla moralità e favorì ancora di più l'opinione negativa sulla scrittrice.
I due amanti non ebbero vita facile, tutt'altro, ma come tutte le cose anche questo rapporto presto virò verso la fine: tra accuse e controaccuse, denunce e controdenunce, arresti e processi e assoluzioni e condanne dei due scrittori,
Fu un rapporto molto turbolento e tormentato, che la scosse profondamente e alterò i suoi nervi. Finì ricoverata per alcun tempo; fino a che poté tornare alla realtà quotidiana, ma profondamente cambiata: dentro e fuori. Non era più la donna de Le Vergini folli, né quella dei libri di fiabe per bambini che aveva scritto anni prima. Certo, continuò a scrivere: racconti brevi, testi teatrali (che ebbero anche un discreto successo) ma niente era come prima.
Quella Amalia Guglielminetti che visse a lungo nella eterna rincorsa del solo uomo che amò, non c'era più.
Morì a Parigi nel 1941.
marcello de santis
Il Futurismo e la poesia
La poesia futurista, se di poesia è lecito parlare, oltre a servirsi come già detto della forma libera, affronta gli argomenti più strani, se posti in relazione ai contenuti della poesia dell’800 e di certa poesia del primo novecento.
Nascono allora composizioni che si presentano con termini come (scusate l’elenco un po’ fastidioso) carrozze, pagnotte di sterco, verzure, dormiglioni, faccia marmifica, bocciuoli, famigliola, garofani, ruffiani, sconcezze, sputacchi, sbudellare, etc, oppure componimenti chiaramente artefatti, vorremmo aggiungere, fatti per stupire, con locuzioni del genere pettinare pensieri, bulinare il cervello, cantare l’epicinio; con definizioni tipo tiremolla d’allegria, altare cornuto dell’incudine, decapitazione del sole, ventarole di latta, pipe sornione.
Ecco come, in questa breve poesia, descrive le orchidee Corrado Govoni (e notate che Govoni fu un poeta futurista solo per alcuni tratti, noi infatti lo ricordiamo piuttosto come un crepuscolare influenzato dal Pascoli e D’Annunzio):
Ernie variopinte dei fiori/ semicupi delle farfalle/ spegnitoi
delle lucciole verdi/ aborti gialli degli incubi/ malattie veneree riprodotte
in cera/ vulve complicate ed oscene/ berretti da notte degli gnomi/
pitali delle silfidi/ fiori di stupro/ fiori di lupanare/ fiori omosessuali/
tavolozze dell’arcobaleno/ afrodisiaci peni rossi/
serviti sopra piatti di maiolica”.
Abbiamo detto più sopra: "se di poesia è lecito parlare", e il dubbio è nato (e resta) dopo la lettura di un bel mucchio di versi (abbiamo affrontato, per amore di informazione, poesie chilometriche di vari autori futuristi e, quando siamo giunti alla fine di ogni composizione, con tanta fatica e tanta tanta noia, ci siamo accorti di aver dimenticato nel frattempo il senso ed il contenuto “delle liste di cose elencate alla rinfusa”).
E’ necessario qualche esempio:
… In sera di festa, la veglia era piena/ smagliante di luci e di gemme/
fiorita dai petali rossi e scarlatti/ di dolci sorrisi lunghissimi,/
fra muover di passi leggeri,/ di piccoli passi dorati/ strisciare d’inchini
profondi, lentissimi,/ frusciare di serici manti,/ di manti vermigli,
violetti,/ di manti bianchissimi,/ coperti di gemme fulgenti,/
cosparsi di perle finissime,/ goccianti di vivi diamanti,/
fluenti di trecce biondissime/…
Riportiamo adesso una decina di versi sempre di Palazzeschi, presi da La passeggiata, che si snodano sullo stesso tono per più di cento versi:
… orologeria di precisione./ 43./ Lotteria del milione./ Antica trattoria/
la pace,/ con giardino;/ mescita di vino./ Loffredo e Rondinella,/
primaria casa di stoffe,/ panni, lana e flanella./ Oggetti d’arte,/
antichità./ 26,/ 26 A./ Corso Napoleone Bonaparte,/ ecc…
Passiamo ad un’altra poesia, e vi prego se potete, arrivate fino in fondo:
… Or sibili e zirli, fra trilli e strilli acutissimi e fischi!/
All’ombra di tristi lentischi, li gnomi in arcione su grilli/
cavalcano./ Il Re, su la groppa si perde di un sorcio
in gualdrappa/ turchina,/…
Leggiamo adesso qualcosa di Ardengo Soffici, altro munifico rappresentante del movimento, ma anche grande pittore e saggista e precisamente alcuni versi tratti da Atelier (non sappiamo dove cominciare, visto che non esiste punteggiatura, né consecutio… logica!).
… Dai quattro punti del mondo/ addipano l’arcobaleno/
lasciate le cose gli uomini i paesi/ venite a me come semplici fanciulli/
posarmisi intorno ognuno al suo posto nelle cornici/ bottiglie di tutti
i liquori scritti sull’etichetta/ Sher Tyui Césa/ un fico dottato/ cocomeri
che marman la bocca/ …
E alcuni versi della poesia dall’argomento principe per i futuristi: Aeroplano: …
Frrrrr frrrrrfrrrrr affogo nel turchino ghimé/ mangio triangoli di turchino
di mammola/ fette d’azzurro/ ingollo bocks di turchino cobalto/
celeste di lapislazzuli/ celeste blu celeste chiaro celestino/
blu di prussia celeste cupo celeste lumiera/
E, per finire, un ultimo esempio, tratto da Sobborgo di Luciano Folgore:
… Mezzodì. Pausa./ Riposo delle ciminiere./ Facce di nero all’aperto./
Fuliggine di mani./ Bocche spalancate:/ stridenti musiche di denti,/
e passanti radi/ nei vicoli,/ e guadi d’orina./
Assistiamo inoltre alla esaltazione degli “automobili” degli aeroplani, delle ranocchie, dell’elettricità, della paglia, del caffè, etc…
Il fenomeno, però, pur presentando quasi sempre creazione scadenti sotto l’aspetto della “poesia”, fu senza dubbio importante per la spinta che portò a quel cambiamento, di cui si avvertiva il bisogno, in un’epoca in cui la staticità stava debilitando gli animi.
Il rinnovamento che il Futurismo propugnava forse ci voleva; ma non avrebbe dovuto essere portato alle estreme conseguenze formali e sostanziali di cui sopra, che generarono la morte della letteratura e dell’arte in generale.
Non vogliamo parlare qui delle conseguenze decisamente forti che il movimento ebbe negli altri campi della cultura, specie nelle arti figurative. Ma è doveroso accennare all’influenza rilevante che esercitarono in tutta l’Europa, il Marinetti e la sua avventura politico-letteraria.
La Russia, la Francia, la Germania subirono in maniera sensibilissima quella violenta scossa; in tutta Europa venivano pubblicati i manifesti futuristi lanciati da Marinetti e dai suoi adepti e seguaci; e si andò ancora oltre, con l’allestimento in diverse capitali europee di mostre di pittura, dove si potevano toccare i prodotti più veri ed immediati della idee scaturite dal movimento d’avanguardia italiano.
CONCLUSIONI
Giuseppe Prezzolini, contemporaneo di Marinetti, riteneva lo stesso: “uomo scarsamente colto, ma di una verbosità eccezionale”. Nel Futurismo, ebbe a dire, qualcosa di buono c’era; ma questo qualcosa non era “né nuovo né futurista, e consiste nell’anelito verso una arte moderna in Italia, quale l’Italia ancora non ha” . La voce, V, n.15, 10 aprile 1913. Continua l’articolo di Prezzolini: ”Alla domanda di un’arte moderna, le opere stesse dei futuristi non rispondono che imperfettamente, piene come sono di roba vecchia, di residui, di rimasticature, di zeppe d’annunziane, pascoliane, corazziniane, maeterlinckiane, decadenti, simboliste, wildiane, e anche classiciste e romantiche”. Forse Prezzolini esagera un poco, ma ci trova sostanzialmente d’accordo.
Parere non troppo dissimile fu quello di altri uomini di cultura del tempo, i quali riconobbero al buon Filippo Tommaso un’esuberanza che forse essi stessi avrebbero voluto avere.
Che il torto di Marinetti fosse quello di reputarsi un “maestro”, un “caposcuola”, come dubita lo stesso Lucini? In effetti, non ci fu una scuola di futurismo, quanto meno non se ne hanno i prodotti (in senso positivo). Per cui il nostro personaggio, che un po’ ironicamente nel titolo abbiamo definito un “regista” del movimento, possiamo definirlo come un uomo di buona volontà, che ebbe il coraggio di tentare, e di combattere per le sue idee, e al quale bisogna riconoscere il merito di aver dato una scossa indimenticabile (che contribuì in maniera determinante a “cambiare”) alla letteratura e all’arte di quel periodo. Tutto qui.
Intanto parallelamente al movimento, stavano mettendo le ali giovani di valore, quali Cardarelli, Montale, Ungaretti.
marcello de santis
GRODEK di Georg Trakl
Grodek è una poesia del poeta salisburghese Georg Trakl (1887 - 1914) che pubblica le sue prime opere sulla rivista Der Brenner nel 1912.
Negli ambienti culturali di Vienna conosce Karl Kraus, Wittegstein e Kokoscha. La vocazione poetica si accompagna a vari sfortunati tentativi di trovare un impiego stabile. I suoi ultimi slanci si spengono nei primi mesi della Grande Guerra in cui serve come medico in Galizia.
I massacri del conflitto lo traumatizzano; le nuove armi (artiglierie e mitragliatrici) mostrano effetti micidiali ai soldati.
Godrek è una poesia scritta dopo l'omonima battaglia sul fronte orientale combattuta contro i russi nel 1914; Trakl termina di scriverla pochi giorni prima di morire in ospedale a Cracovia.
Come medico si trovò ad assistere con mezzi minimi molte decine di feriti, subendo uno shock enorme.
Venne ricoverato dopo aver tentato di uccidersi.
La sera risuonano i boschi autunnali
di armi mortali, le dorate pianure
e gli azzurri laghi e in alto il sole
più cupo precipita il corso; avvolge la notte
guerrieri morenti, il selvaggio lamento
delle loro bocche infrante.
Ma silenziosa raccogliesi nel saliceto
rossa nuvola, dove un dio furente dimora,
Il sangue versato, lunare frescura;
tutte le strade sboccano in nera putredine.
Sotto i rami dorati della notte e di stelle
oscilla l’ombra della sorella per la selva che tace
a salutare gli spiriti degli eroi, i sanguinanti capi;
e sommessi risuonano nel canneto gli oscuri flauti dell’autunno.
O più fiero lutto! Voi bronzei altari,
l’ardente fiamma dello spirito nutre oggi un possente dolore,
i nipoti non nati.
Nel testo si descrive un mondo fisico e storico giunto al tramonto; il bosco è immerso nei colori cupi di una sera d'autunno, il sole sta sparendo (per sempre?). Si parla di guerrieri morenti e lamenti aspri che escono da bocche squarciate. Una nuvola rossa mostra un dio irato che guarda lo spettacolo di nefandezze costruite dall'uomo, oppure egli stesso vi partecipa.
La nuvola rossa che ospita la divinità, infatti, è nel saliceto, in mezzo all’orrore.
Un senso di freddo, di atmosfera gelida domina la lirica. Nella parte finale il concreto della sofferenza (“guerrieri morenti” e “bocche squarciate”) si fa più sfuggente e astratto; si parla enigmaticamente dell'ombra della sorella che se va (il poeta ebbe un rapporto intenso con la sorella che si ucciderà qualche anno dopo la sua morte) e di anime degli eroi, per tornare poi all'immagine forte delle teste sanguinanti; nell'apocalisse del mondo (austriaco e non) nulla resta, neanche il suo unico conforto affettivo e familiare rappresentato dalla sorella.
All'inizio c'erano ancora l'azzurro e l'oro del sole; poi tornano dominanti i colori scuri e cupi e la sublimazione di un dolore senza rimedio. L'ultima riga dice: " I non nati nipoti", quasi un'epigrafe; i guerrieri morenti non lasciano nessuno dopo di loro.
Il verso libero
Nelle antologie scolastiche per licei e istituti superiori in genere, per rappresentare il Novecento letterario italiano si scriveva, almeno negli anni del mio ormai lontano liceo (perché non so se oggi nelle scuole si studi ancora poesia e futurismo) che “la letteratura del nuovo secolo si apre all’insegna della insoddisfazione e dell’irrequietezza”.
E questo per giustificare (e forse va bene così) la nascita di diversi movimenti, vedi: futurismo, crepuscolarismo, ermetismo, anche se per alcuni di questi non può parlarsi di vero e proprio movimento, formati, e diremmo meglio fondati, da gruppi di letterati o artisti (pittori, scultori, musicisti) tutti presi da anelito di rinnovamento, in antitesi ai vari decadentismo e simbolismo che non rispondevano più agli scopi della vita.
L’imperatore Gabriele D’annunzio, il focoso D’annunzio, canta la gloria militare, si ciba di rischio e di azione fremente, mostra una certa simpatia, anche se talvolta velata, per la violenza intesa in senso lato. Tutto questo – si commenta – è giustificato dal periodo in cui egli vive.
Già negli ultimi anni del secolo precedente, infatti, se andiamo a vedere nel sociale, ci sono movimenti di ribellione dei lavoratori, tendenti ad ottenere miglioramenti salariali e normativi; e non sempre l’autorità costituita interviene a proposito per portare o riportare la calma, per cui gli odi aumentano e gli scontenti si allargano. Allo sviluppo dell’industria fa riscontro una stasi delle misere condizioni dei braccianti e spesso un peggioramento delle stesse. I rincari dei generi di prima necessità rendono difficili le condizioni di vita. Nel periodo che ci riguarda (1900-1920), con Giolitti al governo, c’è qualche miglioramento, ma, ad un approfondito esame, è un miglioramento solo apparente, perché, con la crescita della coscienza della classe lavoratrice, crescono i fremiti di ribellione. La guerra di Libia (1911) e la forte emigrazione, in parte calmano, in parte eccitano, il popolo italiano.
“Se sul piano politico e morale il giudizio sul futurismo italiano non può essere favorevole, bisogna però dire che nell’ambito letterario esso contribuì al superamento degli ultimi residui del sentimentalismo e del classicismo accademico; e stimolò il rinnovamento dei mezzi espressivi (A. Pasquali – M. Balestrieri – G. Terzuoli: La società e le Lettere. Edizioni Principato, Milano, 1981)
Il Futurismo, in effetti, nascendo e crescendo in mezzo alla “storia” cui abbiamo accennato, fu anche un movimento politico e morale (ma di quest’aspetto non parleremo nel presente saggio, perché l’argomento ci porterebbe troppo lontano; oltretutto richiede una trattazione a parte), per cui la prima affermazione (relativa alla politica e alla morale del futurismo.) l’accogliamo sic et simpliciter.
Cosa dire, invece, della seconda, che detta: … nell’ambito letterario esso contribuì… al rinnovamento dei mezzi espressivi? Ci torneremo sopra tra poco. Occupiamoci per adesso dell’aspetto propriamente letterario del futurismo. Se leggiamo le decine di manifesti pubblicati nel periodo storico del movimento, che copre appunto i primi quindici/venti anni dell’inizio del secolo, ci accorgiamo che le innovazioni, che lo stesso prevede e “ordina” ai seguaci, sono tantissime; accenneremo ad alcune (le più importanti) di esse, ché elencarle tutte richiederebbe troppo tempo e spazio.
Ecco le due novità basilari che il movimento propugna:
a) adozione del “verso libero”, all'inizio
b) adozione delle “parole in libertà”, in un secondo momento, quando si addiviene al rifiuto categorico del “verslibrisme” come “ormai sorpassato e non più rispondente” (F.T.Marinetti. Distruzione della sintassi – Immaginazione senza fili – Parole in libertà – 11 maggio 1913. “… il Verso libero dopo aver avuto mille ragioni di esistere, è ormai destinato a essere sostituito dalle parole in libertà”.)
Con il “verso libero” si intende dare un calcio al passato, creando qualcosa di diverso e di nuovo; ricordiamo, tra le altre, l’affermazione del Marinetti:
“Le forme prosodiche regolari devono essere escluse; lo scrittore futurista si servirà dunque, pel teatro, del verso libero; mobile orchestrazione di immagini e suoni…”.
Concetto che Marinetti rigetterà subito dopo, giustificando il rifiuto con il fatto che, purtroppo, nel verso libero non può esistere la sintassi e la grammatica, residuo di quel romanticismo che il Futurismo oppugna con tutte le sue forze.
Per cui lo troviamo ad addentrarsi nei meandri, invero contorti, delle parole in libertà, dove vanno ad imporsi altre regole; ricordiamo il bisogno di distruggere la sintassi, l’uso del verbo all’infinito, la necessità di abolire l’aggettivo e l’avverbio, e la punteggiatura.
E per ognuno di questi punti vengono dettate giustificazioni le più varie e le più strambe, che solo una mente fervida e superattiva come quella del nostro poteva immaginare.
Alla luce (o non sarebbe meglio dire “al buio”?) di quanto sopra, l’uomo di lettere si doveva ridurre a scrivere in questo modo:
“sole oro bilancia piatti piombo cielo seta calore imbottitura porpora azzurro torrefazione Sole=vulcano+3000 bandiere atmosfera precisione corrida furia chirurgia lampada raggi bisturi…”
Si noti che ho preso le poche righe di cui sopra, e non a caso, da quella che Marinetti chiama la sua “opera futurista… creata dal cervello” e che si affretta a precisare essere “un frammento fra i più significativi” (sic!).
Certo, secondo i canoni del suo “Manifesto tecnico della letteratura futurista” dell’11 maggio 1912, non poteva che essere così.
marcello de santis
Eugenio Montale
Molti anni fa, ricordo che ero ancora alle mie prime esperienze letterarie, scrissi queste modeste note su Eugenio Montale, solo poeta italiano insignito del premio Nobel per la poesia; non era e non è certamente il mio poeta preferito, ma l’uomo e il poeta mi appassionavano, e quella mia ammirazione mi indusse a scrivere su di lui.
E’ veramente un lavoro modesto e leggero ma lo conservai tra le mie cose giovanili, intanto per non mandarle disperse, un domani, e poi perché ritengo che sia testimonianza di un periodo della mia vita, che il tempo, giorno dopo giorno, si sta portando via...
EUGENIO MONTALE (Genova, 12 ottobre 1896 – Milano, 12 settembre 1981)
Nasce a Genova da una famiglia borghese; qui frequenta le elementari; ma subito dopo è costretto a lasciare la scuola pubblica per malattia; continuerà a studiare a casa, sotto la guida di Marianna, sua sorella. A vent’anni non pensa ancora alla poesia, e mai immaginerebbe che il suo nome possa diventare famoso nel mondo, proprio per la poesia. Spera di fare il cantante lirico, e per questo scopo, segue regolari corsi di canto, non tralasciando l’interesse per la letteratura, ed è assiduo presso la biblioteca comunale di Genova.
Ben presto, però, mette da parte l’idea del canto (pure portandosi dietro per tutta la vita la passione per la lirica), per dedicarsi completamente alla poesia. La famosa Meriggiare pallido e assorto nasce forse per caso; siamo negli anni della grande guerra. Il futuro poeta è chiamato ad assolvere il suo dovere di soldato.
Torna a casa nel ‘19, riprende a studiare e comincia a scrivere versi più seriamente di quanto non abbia fatto fino ad allora. Vengono pubblicati i suoi primi versi; l’editore Gobetti di Torino dà alle stampe Ossi di seppia, un volumetto che lo convince definitivamente che la sua vita sarà solo quella. Vivrà di poesia; i suoi versi e i suoi scritti cominciano ad essere accolti da riviste letterarie; perché ormai “è un letterato”, e come tale, a un certo punto, si trova a firmare il “manifesto degli intellettuali antifascisti”: siamo ancora lontani dagli anni ‘39-‘40; ma già, nel suo animo, sente che “qualcosa non quadra”
Lascia Genova per Torino, poi per Firenze, quindi Milano; viaggia come inviato speciale per un giornale, lavoro che lo porta in giro per il mondo; e le sue esperienze di viaggio influiranno in parte sulle poesie dell’età di mezzo, per essere poi raccolte e pubblicate nell’opera in prosa Fuori di casa.
Nascono, dopo la prima opera che gli dà subito la fama, Le occasioni, La bufera e altro, e, verso la fine, le poesie di Xenia e dei Diari che, insieme ad altri, andranno a confluire in Satura.
E’ senatore a vita per meriti artistici e Nobel per la poesia.
Gli ultimi anni li vive, malato e solo, con la sua, ancora “testa pensante”.
OSSI DI SEPPIA (1920-1927)
… una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia…
.
Sono importanti, per il poeta, “il mare” e “la musica”; e il “tu” che usa per rivolgersi ad un interlocutore universale.
Gli “ossi di seppia” sono schegge di cuore e di mente, che descrivono, ora immaginaria, ora reale, la sua terra di Liguria e il suo mare di Genova, che per anni saranno una scenografia essenziale alle riflessioni e alle speranze del poeta; il verso scorre duro all’interno di una costruzione perfetta del “suo” endecasillabo, che fu il più bello del novecento letterario mondiale; ma il ritmo è spezzato, qua e là, da versi volutamente più brevi, spesso settenari, necessari alla pausa.
La lettura a voce alta degli Ossi ci porta all’orecchio in qualche modo, pur nell’asprezza dei vocaboli, nuovi per la poesia del primo novecento, una musicalità che ci fa pensare al Leopardi; diversa però è la sostanza dell’opera letteraria, pur “nella solitudine” che, a leggere i versi del nostro, lo avvicina al recanatese.
Il lirismo, fondamentale nei versi del Leopardi, nel nostro si trasforma totalmente nella sofferenza di una vita in prigione, prigione che il poeta malamente sopporta ma che purtroppo c’è; e a lui non resta che “saperla”.
Ecco allora il ricorso al “tu”, che egli, prigioniero senza speranza, usa per rivolgersi agli “altri ”, affinché recepiscano il messaggio e scampino alle catene della terra e del mare, dell’anima e della mente; perché accettino le speranze di fuga e di libertà che il poeta non sa più “crescere” dentro… e indica loro...
LE OCCASIONI (1928-1939)
la trama del carrubo che si spoglia
nuda contro l’azzurro sonnolento…
Il poeta s’avvede che “il mare” della sua giovinezza, non è solo nella sua Liguria, ma è “dovunque”.
Questo de Le Occasioni è un Montale meno istintivo, più maturo, rispetto agli “Ossi”.
E’ passato tanto tempo, in questi lunghi anni ha letto molto; D’Annunzio forse, Pascoli senz’altro; dai due ha preso le cose migliori; ma nel poeta de Le Occasioni, rispetto ai suoi predecessori, appare un gusto nuovo della poesia, che lo avvicina ai poeti liguri che ebbe amici e compagni nella sua prima età letteraria; ma è un gusto che da essi lo distacca per porlo su di un piano più elevato.
Il poeta affronta la realtà in maniera diversa da come ebbe a fare negli “Ossi”, e la plasma in modo da trasfigurarla in poesia nuova.
Ha abbandonato “il mare” e “la terra”, per gettarsi nello “infinito”, nello ” universo”.
Raccoglie la sua poesia “in poche righe e con frequenti pause”.
Oggi non è più al centro del creato come negli “ossi” ma sembra essere “spettatore in platea”, a mirare e notare la vita dell’umanità, come se questa si svolgesse su un immenso palcoscenico; allora, negli ossi, fu solitario e pensoso come il Leopardi, oggi vive tra la gente e cerca con essa il colloquio, anche se muto.
LA BUFERA E ALTRO (1940-1954)
La bufera che sgronda sulle foglie
della dura magnolia…
.
E’ il terzo periodo dell’uomo Montale, ed è un nuovo poeta quello che scrive; un uomo maturo, sessantenne ormai, scettico sul suo futuro letterario, e poeta staccato (forse per questo) dalla realtà che lo circonda; raccoglie nell’opera versi antichi che facevano parte di un’operetta dal nome Finisterre, e ne inserisce di nuovi, ispiratigli da un mondo che non conosce più, che non è più suo, che sperimenta di malavoglia, perché in esso nutre poca fiducia..
Ha nel cuore e nell’anima ancora i rumori della seconda grande guerra, che gli lasciarono segni indelebili, segni che neppure la presenza assidua della Mosca, malata, riusciranno a cancellare, o quanto meno ad attenuare; la Mosca, che morirà e lo lascerà nella più sola solitudine.
Dicevamo della guerra; il poeta ha assistito al disfacimento morale universale, battaglie con migliaia di morti, poveri e malati, e feriti e lutti, e bombe e… insomma, non vede tutt’intorno che una incommensurabile “nube di pazzia“.
Ne La bufera e altro bisogna scavare pazientemente per trovare ciò che egli ha voluto nascondervi: la crisi dell’esistenza che non accenna a finire. Troppi morti hanno colorato di sangue “la terra” e“ il mare”… troppi sono rimasti “vivi” a piangere lacrime di “polvere” e “di sale”… Ed ecco allora i vivi e i morti accomunati da uguali sentimenti; più nessuna distanza tra i due stati. Siamo noi vivi, i morti, o sono loro morti, i vivi?
Nessuna risposta, per la sua poesia, eppure con una pazienza che rasenta la rassegnazione, (e il poeta, sostituendo il “tu” degli “ossi” - come sono lontani quei versi), interroga se stesso in silenzio, come il silenzio dei morti, e usa solo, adesso, l'“io”. Un “io” più spesso usato in fase negativa, a scavare dentro di sé, a cercare “nelle segrete cose dei vivi”, il divino: a domandarsi: dov’è Dio?… La ricerca di un qualcosa che “deve esistere” a giustificare i mali che non accennano a placarsi, fuori e dentro la sua anima, nell’anima del mondo intero, non sa se avrà fine, e quando…
S’interroga e si chiude nella sua solitudine, che, pur non volendolo, lo riporta al centro della sua opera prima, gli Ossi di seppia.
marcello de santis
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