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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

"Il mulino sulla Floss" di George Eliot

20 Agosto 2017 , Scritto da Altea Con tag #altea, #recensioni

 

 

 

 

Quando studiammo letteratura inglese dell'800 al liceo chissà perché glissammo su questa autrice e i suoi romanzi. Si, perché George Eliot era solo lo pseudonimo che Mary Ann Evans usava per farsi pubblicare (come le sorelle Brönte, George Sand ecc.) essendo lei una donna dell’epoca vittoriana. Diciamo che questo romanzo potremmo anche liquidarlo scopiazzando da Wikipedia e dicendo che è uno scritto che rappresenta molto bene l'immobilità della società inglese dell'epoca (è stato scritto nel 1860), a suo modo critica ferocemente l'ipocrisia che imperava in quella medesima società, e rispecchia certamente la tumultuosa vita sentimentale della scrittrice, che per una ventina di anni convisse con un uomo sposato come amante ufficiale con una discreta accettazione da parte di chi sapeva (tutti), ma paradossalmente fu linciata viva quando alla di lui morte, ormai donna matura, si sposò con un uomo di 20 anni più giovane (i toy boy già c'erano, non si è inventato nulla come al solito) e celibe, a proposito di ipocrisia. Ma per me c'è qualcosa di più. Tanto per iniziare mi ha colpito che alcune fonti lo inseriscano tra i romanzi di formazione, etichetta che stride col fatto che Maggie, la protagonista, non impara un bel nulla da tutte le sue disavventure e persevera in quel suo assurdo e aberrante bisogno di amare senza riserve ed essere amata, con la differenza che, mentre la prima cosa le riesce fin troppo bene con tutte le nefaste conseguenze che le procura, la seconda resta, ahimè, una chimera: Maggie non verrà mai realmente riamata se non dal padre ma al modo di un padre vittoriano, ovvero con obblighi, costrizioni e rinunce. La brama di Maggie di avere conferme su se stessa soverchierà anche la sua fantasia sfrenata, il suo volere andare contro le convenzioni e il suo amore per i libri sorretto da un'intelligenza vivace: è una ragazza in epoca vittoriana, il suo destino è già scritto e non contiene il verbo "studiare", nonostante suo fratello Tom, amato alla follia, sia un somaro a cui il diritto allo studio sia garantito. La nostra fanciulla così "selvaggia" sarà vittima prima di un amore tenero e sincero a cui dovrà rinunciare per motivi di famiglia e poi sarà vittima di un uomo disonesto, già impegnato con la cugina, che la trascinerà in un vortice scandaloso grazie ad una innocua gita che si tramuta ben presto in motivo di disonore per la ragazza, poi allontanata definitivamente dalla famiglia. Ciò che di questo romanzo mi ha lasciato un retrogusto amaro è stata una riflessione proprio su Maggie, personaggio perfettamente calato nella sua realtà vittoriana, fatta di abnegazione alla famiglia, a certi doveri di facciata, a delle regole che, pur non appartenendole, deve rispettare non avendo altra scelta. Ma esistono ancora delle Maggie al giorno d'oggi? Esistono ancora donne che sacrificano le loro passioni in nome di codici di una società non troppo evoluta, che pensano che l'unico scopo di vivere sia essere amate o comunque provarci elargendo quantità di amore ininterrotto anche su chi non lo merita nella speranza di essere considerate "brave ragazze" o comunque "integrate", "a posto"? L'angoscia che mi è venuta da questa lettura scaturisce dalla risposta secondo cui sì, ne esistono ancora, e non è un numero esiguo. A conferma che un classico è un libro che non hai mai finito da dire ciò che ha da dire.

 

 

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Il grande Lebowski

19 Agosto 2017 , Scritto da Guido Mina di Sospiro Con tag #guido mina di sospiro, #cinema

 

 

 

 

 

Questo articolo  è stato scritto da Guido Mina di Sospiro, pubblicato sul sito newyorkese Disinformation, e tradotto da Umberto Bieco

 

 

Più che un film Il grande Lebowski è il tipo di miracolo che, più raramente che occasionalmente, scivola attraverso le crepe dell'ingranaggio hollywoodiano. Questo perché il film precedente dei fratelli Coen, Fargo, guadagnò 7 nomination agli Oscar, e ne vinse due, per la miglior sceneggiatura originale e per la miglior attrice protagonista, Frances McDormand, tra l'altro moglie di Joel Coen. Quindi, sostenuti da un accresciuto prestigio, i fratelli Coen si imbarcarono nel loro successivo progetto, Il grande Lebowski, in cui il ruolo principale del Drugo è sublimemente interpretato da Jeff Bridges. Il Drugo, tra l'altro, fu ispirato da un uomo reale, Jeff Dowd, un addetto alle relazioni stampa che aiutò i fratelli Coen a lanciare Blood Simple (Sangue facile, 1984), il loro primo film.

 

Nel Drugo troviamo l'archetipo dello slacker, lo scansafatiche, secondo la definizione del dizionario, un giovane istruito che è antimaterialista, senza scopo, apatico, e che normalmente lavora in impieghi senza futuro. Infatti, il Drugo non sembra lavorare affatto. Gioca a bowling, però, e con passione.

 

Dopo il clamore suscitato da Fargo i critici si aspettavano, fatemi indovinare, un'altra dose di violenza esplicita sullo schermo, con persone che si fanno male tra i loro in modi inventivi (una cippatrice, ricordate?). Questo, secondo la visione del mondo esoterica che i mainstream media ci fanno digerire, è la via per gli Oscar e la fama: basti pensare a Il padrino 1 e 2, o a praticamente qualsiasi cosa di Tarantino, o allo stesso Fargo. Invece i fratelli Coen ci offrirono qualcosa che, nel 1998, lasciò la maggior parte dei critici perplessi. Che diamine avevano appena guardato?

 

Per trovare un senso al film, alcuni di loro tirarono in ballo Raymond Chandler, uno dei fondatori della scuola hard-boil della narrativa investigativa. In particolare, trovarono riferimenti a Il grande sonno, il primo romanzo di Chandler (1939), che fu adattato per lo schermo nel 1946 nell'eponimo film noir diretto da Howard Hawks. Ci sono senz'altro similarità. Più di tutte, entrambe le storie hanno un intreccio labirintico. Joel Coen ha detto “è una trama disperatamente complessa e in definitiva priva di importanza”. Ed ecco perché a molti critici è sfuggito il punto. Si sono persi nelle tortuosità della trama, che è più o meno risolta alla fine, se a qualcuno interessa seguirla.

Ma la trama era, di fatto, una parodia del genere. E non potrebbe essere altrimenti, in quanto il Drugo non è Philip Marlowe. Di nuovo, ci sono somiglianze superficiali: sono entrambi spiritosi e bevitori, ma questo è quanto. Il Drugo è uno stoner, un cannato, qualcuno che semplicemente non potrebbe appartenere all'universo di Marlowe. E soprattutto, il Drugo realizza una dimensione esoterica che è completamente mancante nel lavoro e nei personaggi di Chandler.

 

Citando Chandler: “Quando riguardo le mie storie sarebbe assurdo se non desiderassi che fossero state migliori. Ma se fossero state molto meglio non sarebbero state pubblicate. Se la formula fosse stata appena meno rigida, sarebbe sopravvissuta più scrittura di quel periodo. Alcuni di noi hanno provato piuttosto intensamente ad evadere dalla formula, ma usualmente venivano presi e rispediti indietro. Eccedere i limiti di una formula senza distruggerla è il sogno di ogni scrittore da rivista che non sia uno scribacchino senza speranza”.

Dopo il successo di critica e di pubblico di Fargo, i fratelli Coen si trovarono nell'invidiabile posizione di fare quel che più piaceva loro. E produssero un film che si sottrae a tutti i generi sfidandoli ed è assolutamente apprezzabile su molti livelli. Ad ogni modo, si aspettavano una ricezione ben migliore. Da allora Il grande Lebowski è diventato un cult movie, ed è chiaramente entrato in sintonia fin dall'inizio con le persone stanche delle minestre riscaldate hollywoodiane, persone che hanno trovato il Drugo e le sue bizzarrie se non altro rinfrescanti.

Il Drugo sembra propenso solo a giocare a bowling. Sorseggia dei White Russian il più frequentemente possibile e sembra sempre esserci un po' di erba a portata di mano. Dà molto valore al suo tappeto, su cui qualcuno minge. Infatti, il pisciare sul suo tappeto che “dà davvero un tono alla stanza” può essere visto come l'origine di tutti i mali. Quando riesce a prendere un nuovo tappeto dal Lebowski milionario, il Drugo viene mostrato steso su di esso, intento ad ascoltare con il suo Walkman registrazioni ambientali di una sala da bowling, e sembra sereno come un serafino.

Più avanti nel film, dopo che Drugo ha aiutato la figlia del milionario - Maude – a concepire (recitata molto bene da Julianne Moore), sentiamo il Drugo dirle che in gioventù ha contribuito a redigere la Dichiarazione di Port Huron che fondò il comitato Studenti per una Società Democratica, ed era un componente dei Sette di Seattle. Citando uno dei passaggi della Dichiarazione: “L'umanità ha disperatamente bisogno di una leaderhisp visionaria e rivoluzionaria per rispondere ai suoi enormi e profondamente radicati problemi, ma l'America langue in uno stallo nazionale, i suoi obiettivi sono ambigui e dettati dalla tradizione quando dovrebbero essere freschi e di vasta portata, la sua democrazia apatica e manipolata quando dovrebbe essere dinamica e partecipativa.”

Il film si apre con il Presidente George H. W. Bush in TV che si riferisce all'invasione del Kuwait da parte dell'Iraq con un “questa aggressione non durerà!”. Sembra incredibilmente retorico e falso. Infatti, alcuni giorni dopo, il Drugo usa la stessa dichiarazione per chiedere al Lebowski milionario di pulirgli il tappeto. Dopotutto, hanno orinato su di esso per un caso di scambio d'identità, scambiando il Drugo per il milionario. A questa ragionevole richiesta il milionario risponde con uno sbarramento di insulti pieni d'odio ai quali il Drugo risponde: “fanculo”.

In questa semplice asserzione vi è molto della prospettiva mentale ed emozionale del Drugo. Sono andati i giorni giovanili in cui scriveva urgentemente di una “leadership visionaria e rivoluzionaria”. C'è qualcuno come George H. W. Bush al timone, andiamo! Per cui, cosa può fare un uomo? Questo, sospetto, è quello che il film chiede. Il Drugo, un pacifista dichiarato, subisce la tortura dell'acqua nel suo stesso bagno, viene preso a pugni in faccia, pesantemente insultato sia dal milionario che dal capo della polizia di Malibu, viene schernito da un altro poliziotto, gli viene mentito, è sedotto da Maude che, forse con lungimiranza, vuole il suo seme, e ovviamente i suoi geni, per il suo bambino, ma certamente non un padre/marito. Non è tutto. La sua casa viene violata in diverse occasioni, e i nichilisti tedeschi minacciano il Drugo gettando un furetto (“Bella marmotta” esclama quando la vede la prima volta) nella vasca in cui sta facendo il bagno.

Quando Jesus, il giocatore di bowling pedofilo, gli dice: “Vedo che vi siete fatti strada fino alle semifinali. Dios mio, amico. Liam e io vi fotteremo per bene”, il Drugo risponde “Sì, beh, questa è solo, sai, tipo, la tua opinione, amico”.

La sua macchina scassata passa attraverso incidenti e disavventure di tutti i tipi finché viene finalmente incendiata. Non intasca nessuno dei compensi promessi dal milionario. E in aggiunta a quanto elencato tollera, per tutto il film e presumibilmente per il resto della sua vita, il suo amico di bowling, Walter, un veterano del Vietnam con problemi di gestione della rabbia, per usare un eufemismo. È la definitiva ironia: il vecchio hippy che fa coppia con un reduce che, come modus operandi nella vita civile, conserva un atteggiamento altamente belligerante.

 

E nonostante ciò, niente sembra coinvolgere il Drugo. Sì, si arrabbia (al punto che Walter gli dice: “Dai, stai facendo molto poco il Drugo, sei molto non Drugo”), impreca costantemente, e ribatte a Walter e a molte altre persone irragionevoli che sembrano stargli intorno come zanzare, ma presto si mescerà un altro White Russian, o si farà una fumata, o si rilasserà in un bagno caldo. Occasionalmente ripiega sui gentili movimenti del Tai Chi per tenere lo stress a bada. Come un mistico, si concentra sul disegno più grande. Ancora meglio, come un vero mistico, non si concentra affatto.

 

Molto si è detto del Drughismo, una filosofia di vita ispirata dal Drugo. Ma non c'è niente di nuovo in questo, in quanto sembra appartenere al grande flusso di Philosophia Perennis che, giù per i millenni, ha prodotto concetti marcatamente similari anche se espressi in modi differenti e da differenti culture ed epoche. E infatti i proponenti del Drughismo citano Lao Tzu, Epicuro, Eraclito, il Budda, e il Gesù Cristo pre-ecclesiastico come esempi di antichi profeti Drughisti.

 

Quel che nel Drugo è sublime è che non predica affatto. Ci ha provato in gioventù, e ora ovviamente vede la cosa come una follia giovanile. In qualche modo sopravvive con molti pochi soldi e trova il materialismo una bestia strana. Il “cinese” che originariamente piscia sul suo tappeto; il milionario; i Nichilisti tedeschi; il produttore di film porno; i teppisti assortiti – sono tutti materialisti molto attaccati alla ricchezza e intenzionati ad utilizzare la violenza per salvaguardarla o accrescerla. A causa di un caso di omonimia, egli è improvvisamente circondato da questo tipo di gente come se fosse entrato in un manicomio. Ma almeno è chiaro a lui e allo spettatore percettivo che sono tutti lunatici.

 

Il livello di aggressività, e latente o esplicita violenza, che rileva attorno a sé stesso è scioccante.

Dopo che ha fatto l'amore con Maude, le dice: “È un caso complicato, Maude. Un sacco di input, un sacco di output. Fortunatamente, mi sono attenuto ad un rigoroso, uhm, regime di droga per mantenere la mia mente, sai, agile”. Ciò è rivelatore. Il mondo attorno a lui è talmente andato a p......e di recente, che si è sentito forzato ad attenersi ad un “piuttosto rigido regime di droghe”. Normalmente, si ha la sensazione che le sue lunghe serate spese a giocare a bowling e un atteggiamento generalmente rilassato dovrebbe togliere la maggior parte dello stress. Ma lo stress, di recente, è stato enorme. Eppure, egli mantiene miracolosamente la sua pace mentale.

 

C'è qualcosa di trascendentale in questo: il Drugo si solleva al di sopra di tutte le circostanze. È arrabbiato per l'intero film, che non è affatto la sua natura, e i fratelli Coen meritano ulteriori lodi per una simile intelligente idea: estrapolare il Drugo dal suo abituale milieu e gettarlo in un circo pieno di ostili lunatici che vogliono qualcosa da lui e lo insulteranno, minacceranno e picchieranno per ottenerlo.

Siamo a milioni di miglia di distanza dal claustrofobico mondo di Raymond Chandler. Per essere onesti, egli scrisse i proprio romanzi all'apice del modernismo, un periodo teo-eccentrico e molto poco giudizioso nella storia della cultura occidentale in cui il mondo fu ridotto solamente alla percezione sensoriale e ad obiettivi materialistici.

Lao Tzu è un saggio della Cina antica e una figura chiave del Taoismo. Se egli sia effettivamente vissuto o sia una figura leggendaria rimane da stabilire, ma è considerato l'autore del Tao Te Ching, un libro fondamentale sia nel Taoismo filosofico che nella religione cinese. In esso, si trova l'asserzione: “bandisci la saggezza, scarta la conoscenze, / e il popolo ne profitterà cento volte”. Escludendo Platone e tutte le scuole neoplatoniche, così è come “l'amore di Sofia”, o della saggezza, la filo-sofia nell'Occidente è degenerata nell' “amore del sofismo” - precisamente il tipo di “saggezza” e “conoscenza” che Lao Tzu ci invita a scartare. Infatti, il Nichilismo, così presente nel film attraverso le azioni dei Nichilisti tedeschi,  probabilmente ridicolizza ciò a cui il mondo occidentale è malaccortamente arrivato dopo millenni di filosofia digressiva andata a male.

Il Drugo svetta sopra una tale incompleta e distorta Weltanschauung. E questo è quello che i critici mainstream inizialmente non sono riusciti a comprendere. Vedendo come il film raggiugeva il cult status e diventava, in effetti, popolare, sono ritornati ad esaminarlo, e hanno tardivamente scodellato recensioni favorevoli – dieci anni o più dopo la sua uscita originaria, alcuni di loro de facto ritrattando pubblicamente. Il fatto è che i critici mainstream hanno la pancia piena del canone Artistotelico/Euclideo/Cartesiano/Newtoniano/Darwiniano che ci hanno somministrato a scuola. Allora, se perseguono un'istruzione superiore, gli vengono servite ulteriori dosi dello stesso canone, di cui la storia del cinema è a sua volta pervasa. Cogliere le implicazioni de Il grande Lebowski era oltre le loro capacità, e infatti la maggior parte di loro non le ha colte. Ma fece vibrare le corde giuste di molti di noi, che vi sono ritornati ripetutamente, e l'hanno fatto conoscere agli amici. Fa un ottimo punteggio anche dal punto di vista della riguardabilità.

All'inizio si prova, invano, a concentrarsi sulla trama. Ma il film è anche molto divertente. Ci sono inoltre numerose gemme nei dialoghi: “[Walter] dì che quel che ti pare sulla dottrina del Nazionalsocialismo, Drugo, ma almeno ha un ethos” “[Walter] E inoltre, Drugo, “cinese” non è la, uh, terminologia preferibile... Asiatico-Americano. Per favore.” “[La moglie da esibire del milionario] A Dieter non importa nulla. È un nichilista” “[Drugo] Dev'essere estenuante”.

La fotografia e le sequenze oniriche sono clamorose, e la musica, un accompagmento perfetto, grazie anche a T-Bone Burnett, che è accreditato come archivista musicale. The Man In Me di Bob Dylan risuona ripetutamente ed è perfetta: “L'uomo in me compirebbe qualsiasi compito / e come ricompensa, chiederebbe poco / Ci vuole una donna come te / per arrivare all'uomo in me”. Naturalmente ciò potrebbe esser visto come un commento ironico sulla scelta di Maude. Ma infatti, nonostante le sue osservazioni denigratorie dopo aver fatto l'amore con il Drugo (“Vedi, Jeffrey, non voglio un partner. Infatti non voglio che il padre sia qualcuno che io debba vedere socialmente, o qualcuno che io voglia cresca il bambino stesso”) lei ha scelto il Drugo, tra tutti, nella moltitudine di potenziali donatori di seme. E ciò dev'essere perché egli è talmente disarmante che lei ha deciso, su due piedi, parlandogli nel proprio atelier, che lui era quello da cui voleva avere un bambino. Quindi qualcuno, in questo mondo materiale, comprende le potenzialità e le qualità del Drugo.

Infine, la recitazione è ispirata, soprattutto quella di Jeff Bridges e John Goodman, rispettivamente nei ruoli del Drugo e di Walter.

Il film finisce con la morte di Donny, il terzo componente della loro squadra di bowling, un uomo mite interpretato da Steve Buscemi (all'opposto del suo personaggio in Fargo) che è costantemente e sgarbatamente zittito da Walter. Ma nonostante Walter brandisca una pistola e persino un Uzi, e nonostante l'utilizzo da parte dei Nichilisti, stupefacentemente, di una sciabola, non c'è morte violenta nel film (evidentemente con disappunto dei critici mainstream): Donny muore di infarto. E il riversare delle sue ceneri da parte di Walter è ancora un'altra “pagliacciata”, come il Drugo la chiama, dato che le ceneri non finiscono nell'Oceano Pacifico, come voluto, ma, portate dal vento, principalmente in faccia del Drugo stesso.

Alla fine del film il narratore, un cowboy con un forte accento strascicato del sud interpretato da Sam Elliot, incontra di nuovo Drugo alla solita sala da bowling. L'intera avventura, o disavventura, sembra ora, è stato un caso di molto rumore per nulla, con due maggiori eccezioni: la morte di Donny, tragicamente, e la notizia che “c'è un piccolo Lebowski in arrivo”. Il Drugo non sa nemmeno questo, e probabilmente non gli sarà mai detto, e nemmeno lui indagherà: ormai conosciamo il personaggio abbastanza bene. Ma è di nuovo di buon umore,  si prepara per le finali del torneo di bowling, sereno e sorridente. Quella è la natura del Drugo. Il narratore dice: “Prendila comoda, Drugo – so che lo farai”. E il Drugo replica: “Sì, amico. Bè, lo sai, il Drugo sopporta”.

E questo è quanto: il Drugo sopporta. Alla faccia dell'avversità e della virulenza dell'intero mondo il Drugo, tra tutta la gente, è equilibrato, tollerante e coerentemente non-violento. Non colpisce mai di ritorno; il concetto di vendetta non sembra abitare la sua mente. Come se non bastasse, egli sembra implicitamente essere indulgente con un sacco di gente ultra-aggressiva, là fuori, che si comporterà come una massa di ostili lunatici. “E' bello sapere che è là fuori, il Drugo, a prendersela comoda per tutti noi peccatori” - alla fine commenta il narratore dopo che il Drugo se n'è andato.

Ci sono molti pacifisti nel mondo – fino a che la loro pazienza viene severamente messa alla prova, o i loro diritti palesemente usurpati. Ci sono anche persone persuase che la pace è il naturale stato dell'umanità. È una bella idea che sfortunatamente non corrisponde alla realtà. Anche il Buddismo concede “il male minore” per evitare “un male maggiore”. La storia è una tragica litania di aggressioni arbitrarie e invasioni. La pace sembra essere l'eccezione, la guerra la regola.

L'antico drammaturgo romano Plauto sintetizza la natura umana con “homo homini lupus” - l'uomo è lupo per l'altro uomo. Troppi esseri su questo pianeta prosperano sulla morte di altri, dai microbi ai predatori. Presumere che l'umanità è una fratellanza di, diciamo, angeli, è malaccorto. Anche gli alberi si uccidono l'un l'altro in una sorta di guerra chimica chiamata allelopatia.

In gioventù, il Drugo ha provato a cambiare il mondo, con un manifesto, nientemeno, occupando Berkeley e così via. Alla fine ha capito che era senza speranza. Ma ciò non l'ha fatto diventare un rancoroso, arrabbiato o vendicativo. E nemmeno è un esempio, come vorrebbe il cliché. Lui non fa, lui è. Anche quando provocato, non fa male a nessuno. Gli importa poco del denaro ed è, essenzialmente, un sensibile, onesto uomo con il tipo di pazienza e tolleranza che appartiene agli spiritualmente dotati. Egli non predica; ora nella saggezza della sua maturità, non lo farebbe mai; egli semplicemente sopporta. Con più persone come lui, il mondo migliorerebbe marcatamente.

 

 

 

 

 

 

More than a movie The Big Lebowski is the kind of miracle that, more rarely than occasionally, slips through the cracks of the Hollywood machinery. That’s because the Coen Brothers’ previous film, Fargo, earned seven Academy Nominations and won two, for best original screenplay and best actress in a leading role, Frances McDormand, incidentally Joel Coen’s wife. So, with a lot more clout behind them, the Coen Brothers embarked on their next project, The Big Lebowski, in which the leading role of the Dude is sublimely played by Jeff Bridges. The Dude, by the way, was inspired by a real man, Jeff Dowd, a publicist who helped the Coen Brothers in launching Blood Simple, their first film.

In the Dude we find the archetype of the slacker, i.e, according to the definition in the dictionary,  an educated young person who is antimaterialistic, purposeless, apathetic, and usually works in a dead-end job. In fact, the Dude doesn’t seem to work at all. He does bowl, though, and with a passion.

 

After the clamor over Fargo critics expected, let me guess, some more graphic violence on the screen, with people harming each other in inventive ways (a wood chipper, anyone?). That, according to the exoteric worldview we are made to digest by mainstream media, is the way to Oscars and fame: think of The Godfather I and II, or just about anything by Tarantino, or Fargo itself. Instead the Coen Brothers gave us an offering that, back in 1998, left the majority of the critics perplexed. What on earth had they just watched?

To make some sense out of the film, some of them brought Raymond Chandler into the picture, one of the founders of the hard-boiled school of detective fiction. In particular, they found references to The Big Sleep, Chandler’s first novel (1939), which was adapted for the screen in 1946 in the eponymous film noir directed by Howard Hawks. Indeed there are similarities. Most of all, each film is loaded with a labyrinthine storyline. Joel Coen said that “it’s a hopelessly complex plot that is ultimately unimportant.” And here is where many critics missed the point. They got lost in the convolutions of the plot, which is more or less resolved at the end if one really cares to follow it. But the plot was, in fact, a parody of the genre. And it couldn’t be otherwise, as the Dude is no Philip Marlowe. Again, there are some superficial resemblances: they’re both wisecracking and hard-drinking, but that’s about it. The Dude is a stoner, something that simply could never belong in Marlowe’s universe. And above all, the Dude brings forth an esoteric dimension that is completely lacking in Chandler’s work and characters.

Quoting Chandler: “As I look back on my stories it would be absurd if I did not wish they had been better. But if they had been much better they would not have been published. If the formula had been a little less rigid, more of the writing of that time might have survived. Some of us tried pretty hard to break out of the formula, but we usually got caught and sent back. To exceed the limits of a formula without destroying it is the dream of every magazine writer who is not a hopeless hack.”

After the critical and popular success of Fargo, the Coen Brothers found themselves in the enviable position of being able to do as they pleased. And they produced a film that defies all genres and is thoroughly enjoyable on many levels. They did, however, expect a much better reception. The Big Lebowski has since become a cult movie, and obviously it resonated from the very start with people who are tired of formulaic Hollywood concoctions and found the Dude and his antics if nothing else refreshing.

The Dude seems to be very keen only on bowling. He sips White Russians as often as he can and there always seems to be a little pot at reach. He makes much of his rug, which is “micturated upon.” In fact, the peeing on his rug “that tied the room together” could be seen as the source of all evils. When he manages to get a new rug from the millionaire Lebowski, the Dude is shown lying on it, listening in his Walkman’s headset to sounds recorded in a bowling alley, and looks as serene as a seraph.

Later on in the film, after the Dude has helped the millionaire’s daughter — Maude — to conceive (she is played very well by Julianne Moore), we hear the Dude tell her that in his younger years he contributed to drafting the Port Huron Statement that founded Students for a Democratic Society, and was a member of the Seattle Seven. Quoting one of the Statement’s passages: “Mankind desperately needs visionary and revolutionary leadership to respond to its enormous and deeply-entrenched problems, but America rests in national stalemate, her goals ambiguous and tradition-bound when they should be new and far-reaching, her democracy apathetic and manipulated when it should be dynamic and participative.”

The film opens with President George H. W. Bush on TV addressing Iraq’s invasion of Kuwait with, “This aggression will not stand!” It looks incredibly rhetorical and phony. In fact, a few days later, the Dude uses the same statement so as to plead with the millionaire Lebowski for him to have the rug cleaned up. After all, they peed on it because of a case of mistaken identity, taking the Dude for the millionaire. At this reasonable request the millionaire responds with a barrage of hateful insults, to which the Dude replies, “Fuck it.”

In this simple assertion lies much of the Dude’s mental and emotional outlook. Gone are the youthful days in which he would urgently write of “visionary and revolutionary leadership.” There’s somebody like George H. W. Bush at the helm, come on! So, what can a man do? That, I suspect, is what the film asks. The Dude, a self-confessed pacifist, is water-boarded in his own toilet, punched in the face, heavily insulted by both the millionaire and the head of the Malibu Police, mocked by another policeman, lied to, seduced by Maude who, perhaps long-sightedly, wants his semen, and obviously his genes, for her baby, but certainly not a father/husband.

That’s not all. His house in broken into various times, and the German nihilists threaten the Dude by throwing a ferret (“Nice marmot,” he exclaims when he first sees it) in the tub in which he’s taking a bath. When Jesus, the bowling pedophile, tells him: “I see you rolled your way into the semis. Dios mio, man. Liam and me, we’re gonna fuck you up.” The Dude replies, “Yeah well, that’s just, ya know, like, your opinion, man.”

His beat-up car goes through all sorts of accidents and misadventures until it’s finally set aflame. He pockets none of the rewards promised by the millionaire. And in addition to all of the above he puts up, for the whole film and presumably for the rest of his life, with his bowling buddy Walter, a Vietnam veteran with an anger-management problem, to put it mildly. It’s the ultimate irony: the former hippy paired up with the war veteran who, as a modus operandi in civilian life, retains a highly belligerent attitude.

 


And yet, nothing seems to phase the Dude. Yes, he gets angry (to the point that Walter tells him: “Come on. You’re being very unDude.”), swears constantly, and talks back to Walter and many other unreasonable people who seem to surround him like mosquitoes, but soon he will be stirring himself another White Russian, or will have a smoke, or relax in a warm bath. Occasionally he resorts to the gentle movements of Tai chi to keep stress at bay. Like a mystic, he focuses on the big picture. Better yet, like a true mystic, he doesn’t focus at all.

Much has been made of Dudeism, a philosophy of life inspired by the Dude. But there’s nothing new in this, as he seems to belong in the great stream of Philosophia Perennis which, down the millennia, has produced strikingly similar concepts even if expressed in different ways and from different cultures and ages. And in fact the proponents of Dudeism cite Lao Tzu, Epicurus, Heraclitus, the Buddha, and the pre-ecclesiastical Jesus Christ as examples of ancient Dudeist prophets.

What is sublime about the Dude is that he won’t preach at all. He tried that in his youth, and now obviously sees it as youthful folly. Somehow he gets by with very little money and finds materialism an inherently strange beast. The “Chinaman” who originally pees on his rug; the millionaire; the German Nihilists; the porno film producer; the sundry thugs — all are materialists very attached to wealth and willing to employ violence so as to safeguard it or increase it. Because of a case of homonymy, he is suddenly surrounded by such people as if he’d walked into an asylum. But at least it’s clear to him and to the perceptive viewer that they are the lunatics.

The level of aggressiveness and latent or explicit violence he registers around himself is appalling. After he’s made love to Maude, he tells her, “It’s a complicated case, Maude. Lotta ins, lotta outs. Fortunately I’ve been adhering to a pretty strict, uh, drug regimen to keep my mind, you know, limber.” That is telling. The world around him has gotten so f….d up lately, he’s found himself forced to adhere to a “pretty strict drug regimen.” Normally, one gets the feeling that his long evenings spent bowling and a general relaxed attitude would take much of the load off. But the load, lately, has been enormous. Yet, he miraculously maintains his peace of mind.

There is something transcendental about this: the Dude rises above all circumstances. He spends the whole movie angry, which is not his nature at all, and the Coen Brothers deserve further praise for such a clever idea: to extrapolate the Dude from his habitual milieu and toss him into a circus full of hostile lunatics who want something from him and will insult him, threaten him and beat him to get it.

We are a million miles away from the claustrophobic world of Raymond Chandler. In fairness, he wrote his novels at the height of modernism, a very injudicious and theo-eccentric period in the history of western culture in which the world was reduced solely to sensory perception and materialistic pursuits.

Lao Tzu is a sage of ancient China and a key figure in Taoism. Whether he actually lived or is a legendary figure remains to be established, but he’s considered to be the author of the Tao Te Ching, a fundamental book both in philosophical Taoism and Chinese religion. In it, one finds the assertion: “Banish wisdom, discard knowledge, / and the people shall profit a hundredfold.” Excluding Plato and all Neoplatonic schools, this is how from “love of Sophia,” or of wisdom, philo-sophy in the West has degenerated into “love of sophistry” — precisely the type of “wisdom” and “knowledge” that Lao Tzu urges us to discard. In fact, Nihilism, so very present in the film through the actions of the German Nihilists, is lampooned probably as what the western world has misguidedly arrived at after millennia of discursive philosophy gone awry.

The Dude towers above such a warped and incomplete Weltanschauung. And that is what mainstream critics initially failed to realize. As the movie has grown in cult status and become, in effect, popular, they’ve gone back to it, and belatedly dished out favorable reviews — ten or more years after its original release, some of them de facto recanting publicly. The fact is, mainstream critics are fed the Aristotelian / Euclidean / Cartesian / Newtonian / Darwinian canon we were all fed at school. Then, if they pursue higher education, they’re fed more doses of the same canon, of which the history of cinema is also imbued. To grasp the implications of The Big Lebowsky was beyond them, and in fact for the most part they did not. But it struck a chord with many of us, who have gone back to it time and again, and turned on friends to it. It scores very highly from a standpoint of rewatchability, too.

At first one tries, in vain, to focus on the plot. But the film is also very funny. Then there are many gems in the dialogue: “[Walter] Say what you like about the tenets of National Socialism, Dude, at least it’s an ethos.” “[Walter] And also, Dude, Chinaman is not the preferred, uh, nomenclature… Asian-American. Please.” “[Millionaire’s trophy wife] Dieter doesn’t care about anything. He’s a nihilist. “[Dude] That must be exhausting.”

The photography and dream sequences are stunning, and the music, a perfect accompaniment, also thanks to T-Bone Burnett, who is credited as musical archivist. Bob Dylan’s The Man in Me is heard repeatedly, and is ideal: “The man in me will do nearly any task / As for compensation, there’s a little he will ask / Take a woman like you / To get through to the man in me.” Of course this could be seen as an ironic comment on Maude’s choice. But in fact, despite her disparaging remarks after she’s made love to the Dude (“Look, Jeffrey, I don’t want a partner. In fact I don’t want the father to be someone I have to see socially, or who I’ll have any interest in rearing the child himself”) she has picked the Dude, of all people, out of the multitude of potential sperm donors. And that must be because he is so disarming that she’s decided at once, upon talking to him in her atelier, that he is the one who will give her a child. So somebody in this material world does realize the qualities and potentialities of the Dude.

Finally, the acting is inspired, especially from Jeff Bridges and John Goodman respectively as the Dude and Walter.

The film ends with the death of Donny, the third member on their bowling team, a meek man played by Steve Buscemi (as opposed to his character in Fargo) who is constantly and rudely silenced by Walter. But despite Walter’s brandishing of a handgun and even of an Uzi, and despite the Nihilists’ resorting to, astonishingly, a saber, there is no violent death in the movie (evidently to the chagrin of mainstream critics): Donny dies of a heart attack. And the disposing of his ashes by Walter is yet another “travesty,” as the Dude calls it since the ashes end up not in the Pacific Ocean, as intended, but, carried by the wind, mainly on the Dude himself.

At the very end of the film the narrator, a cowboy with a strong southern drawl played by Sam Elliot, meets the Dude again at the usual bowling alley. The whole adventure, or misadventure, it now seems, has been a case of much ado about nothing, with two major exceptions: Donny’s death, tragically, and the news that “there’s a little Lebowski on the way.” The Dude doesn’t even know this, and probably will never be told, nor will he ever inquire: by now, we know the character well enough. But he’s back in fine spirits, preparing for the bowling tournament finals, serene and smiling. That is the true nature of the Dude. The narrator says: “Take it easy, Dude — I know that you will.” And the Dude replies, “Yeah, man. Well, you know, the Dude abides.”

And that is that: the Dude abides. In the face of adversity and the virulence of the whole world the Dude, of all people, is level-headed, tolerant, and consistently non-violent. He never punches back; the concept of revenge doesn’t seem to inhabit his mind. What is more, he seems implicitly to make allowances for a lot of overaggressive people, out there, who will act like very hostile lunatics. “It’s good knowin’ he’s out there, the Dude, takin’ her easy for all us sinners,” finally comments the narrator after the Dude has left.

There are many pacifists in the world — until their patience is severely tested, or their rights blatantly usurped. There are also people persuaded that peace is the natural state for mankind. It’s a beautiful idea that unfortunately doesn’t correspond to reality. Even Buddhism allows for “the lesser evil” to avert “a greater evil.” History reads like a tragic litany of wanton aggression and invasion. Peace seems to be the exception, war the rule.

The ancient Roman playwright Plautus summarized human nature with “Homo homini lupus” — man wolf to the man. Too many beings on this planet thrive on the death of others, from microbes to predators. To presume that mankind is a brotherhood of, say, angels, is misguided. Even trees kill one another in a type of chemical warfare called allelopathy.

In his youth, the Dude tried to change the world, with a manifesto, no less, occupying Berkley, and so on. Eventually he realized that it was hopeless. But that didn’t make him become bitter, or angry, or revengeful. Nor does he lead by example, as the cliché would go. He doesn’t do, he is. Even when provoked, he harms no one. He cares little about money and is, in essence, a sensible, honest man with the kind of patience and tolerance that belongs to the spiritually gifted. He doesn’t preach; now in the wisdom of his maturity, he never would; he just abides. With more people like him, the world would improve markedly.

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Stefano Colli, "La diaspora del senso"

18 Agosto 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

La diaspora del senso

Stefano Colli

 

Edizioni Helicon, 2017

pp 78

11,00

 

Ancora un altro poeta, ancora un’altra silloge, La diaspora del tempo, di Stefano Colli, scritta con estrema fluidità e semplicità. Poesie non ermetiche, suddivise in tre sezioni, la prima dedicata allo scrivere versi, la seconda agli orrori della storia odierna, la terza più intima e personale.

Le liriche di Colli non rinunciano mai a soffermarsi su di sè, sull’atto stesso del poetare, sul parto delle sillabe, che è irrinunciabile, consolatorio ma spesso inutile. L'autore dialoga con Alda Merini, con Dino Campana, i riferimenti classici sono espliciti e voluti, quel non chiedere la parola di montaliana memoria ci impone di riflettere su cosa serva poetare, se debba o meno essere legato alla vita: “perché non hanno un pubblico i poeti?/se i versi non si aprono alla vita/e il poetare è questione di castelli privi di un ponte levatoio? E ancora: Un giorno senza versi è come vivere una seconda morte.

Se scrivere parole è gesto intimo, personale, liberatorio, è comunque anche un ponte, un occhio sulla realtà che ci circonda, come i naufragi nel mediterraneo, come i paesi distrutti dal terremoto o dalla guerra. Così lo scrivere assomiglia al tradurre, non da un altro mondo ma da questo, non da un iperuranio ma dalla bruta realtà che ci circonda, fatta di scene terribili, del piccolo Aylan arenato su una spiaggia, di sofferenza ma anche di una natura distaccata, a volte matrigna, sempre contemplativa e da contemplare, una natura alla quale ispirarsi per raggiungere una sorta d’indifferenza che ci protegga dal dolore. C’è un vano tentativo di comprensione, subito abbandonato a causa della diaspora del senso, che coincide con la perdita di umanità in generale ma anche con la solitudine e incomunicabilità del singolo. Il male del mondo - gli occhi dei bambini vittime della guerra - non si può redimere, il dolore sarebbe forse un poco lenito dall’amore, servirebbe il sorriso di una donna, ma anche quello ormai è negato, lei è lontana, fisicamente o moralmente, e scrivere diventa il surrogato di amare.  

Lo stile è molto scorrevole e misurato, alcuni versi, però, denotano poco sforzo e potrebbero, con maggiore approfondimento, risultare meno banali, come , ad esempio “all’ineffabile angoscia del nulla”. Non basta usare parole poetiche e indefinite, come notte, luna, stelle o mare, per ottenere i risultati di Leopardi. Forse, la cosa più interessante di questa raccolta è proprio, come dicevamo prima, quel rimasticare versi già digeriti di un comune patrimonio poetico: Venne la morte e aveva occhi di follia, piegandoli ad esprimere l’indicibile orrore di momenti come l’11 settembre, anch’essi, non casualmente, parte di una storia che ci accomuna tutti.  

Ci sono però picchi di splendore in alcune poesie, sia sociali che introspettive, come in Ragazza di Kobane e  Surrogato di amare, di cui riportiamo alcuni versi.

 

Ogni mattina pregherò per rivedere

quel bagliore nello sguardo di ragazzi

ignari del tempo che impiega

una sigaretta a consumarsi, lenta

tra le rovine di una città assediata

E la vita che scorre, indomita

Con il fumo confuso tra i capelli

E in tasca soltanto la speranza. (Da Ragazza di Kobane)

 

***

Esposti a questo strano vento

di un ottobre malato, si levano

i tuoi capelli verso il cielo grigio

come storni impauriti

in cerca di una timida gioia.

Riempio il bianco della pagina

solo per sopravvivere, ma so

che stasera scrivere

può essere soltanto il surrogato di amare. (Da Surrogato di amare)

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Lorenza Ghinelli, "Almeno il cane è un tipo a posto"

17 Agosto 2017 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni

 

 

 

 

Lorenza Ghinelli

Almeno il cane è un tipo a posto

Rizzoli Best Bur , 2015– Euro 11,50 – Pag. 270

 

Galeotta Festambiente, località Rispescia, dalle parti di Grosseto, dove incontro il libro e ritengo che sia adatto per mia figlia, che ha soltanto undici anni. In realtà, mi accorgo quasi subito, per lei è un po’ complesso, l’età giusta per leggere il romanzo sarebbe dai 13 anni in poi, senza un limite estremo, ché va bene pure per un adulto. Poco male, ci sono abituato a leggere libri ad alta voce, mi piace pure, finisce che poco per volta glielo leggo io e lei mi aiuta; dopo aver letto tutto Roald Dahl, faccio il bis, e Lorenza Ghinelli mica ci sfigura.  Almeno il cane è un tipo a posto è un romanzo appassionante, scritto con stile impeccabile, rapido e guizzante; ci si appassiona alle vicende che si svolgono in un palazzo e vedono impegnati adulti immaturi, adolescenti nerd, bambini che scrivono un diario, vicini di casa insoliti e bulletti da strapazzo. Tutti tipi strani costellano il romanzo di Lorenza, a parte il cane come dice il titolo, ma la particolarità - complessa e originale al tempo stesso - sta nella bravura che l’autrice dimostra nel gestire le diverse prime persone. Il romanzo, infatti, è tutto narrato in prima persona, ma ogni capitolo rappresenta la voce di un diverso narratore, e la storia si sviluppa tenendo conto di molti punti di vista. Non è per niente facile, soprattutto farlo in questo modo, cioè rendendo il romanzo godibile e fresco, in modo tale che anche una bambina di undici anni si entusiasma e pretende prima possibile una nuova lettura. Tra le pagine del libro c’è tutto quel che serve per far appassionare un adolescente, un preadolescente e pure un vecchietto come me che ha sospeso la rilettura di Proust per leggere a voce alta un bel romanzo per ragazzi. Troviamo il problema del bullismo, l’omosessualità femminile, i pregiudizi di ogni tipo, i ragazzini smanettoni, i rapporti familiari precari tra genitori in odor di divorzio e figli che soffrono, due fratelli che si odiano e che si amano. Insomma, personaggi ben descritti, mai monodimensionali, che ti fanno parteggiare per loro e stare in ansia per le sorti dei più deboli. Persino i bulli non sono cattivi tout court, perché il personaggio di Vito - picchiato e vessato da un padre ubriacone - presenta le sue brave giustificazioni per un comportamento deviato ed è comunque capace di sentimenti. Il mio personaggio preferito è Margot che avrebbe meritato un romanzo epistolare a parte, perché il diario di Margot è esilarante, in una parola racconta il mondo visto da una ragazzina di undici anni. Magari ho dato un’idea a Lorenza. Dimenticavo, non è il primo romanzo che leggo della Ghinelli, conobbi la sua scrittura e mi accorsi delle sue grandi capacità sfogliando un dattiloscritto che subito dopo pubblicai con Il Foglio Letterario. Un milione di anni fa, credo. Quel libro si chiamava Il divoratore, poi Lorenza è stata finalista al Premio Strega e adesso pubblica con Rizzoli. Insomma, di acqua sotto i ponti ne è passata, non invano, per fortuna. Mi fa piacere pensare di aver contribuito - anche se in maniera piccolissima - a far sbocciare un talento della narrativa italiana contemporanea. Nessuno me ne darà merito, lo so, ma intanto consiglio questo romanzo, tra i più straordinari e intensi che abbia letto negli ultimi anni. Dramma, noir, commedia, disagio sociale, troverete di tutto. E non ve ne pentirete.

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Antonella Di Martino, "Una famiglia bellissima"

14 Agosto 2017 , Scritto da Pee Gee Daniel Con tag #pee gee daniel, #recensioni

 

 

 

Una famiglia bellissima

Antonella di Martino

 

Eclissi, 2016

 

 

 

Che cos'è la normalità?

È un ideale inarrivabile. Un modello fornitoci dalla società imperante, al quale essa ci chiede di attenerci pur sapendo che, per forma, peso, attitudini, costumi, vizi mentali, personalità nessuno mai vi riesca a rientrare perfettamente.

Per di più la normalità è soggetta a continui cambiamenti, che, pur lentissimi, sembrano proporre una riedizione del vecchio paradosso di Achille e la tartaruga, in cui l'individuo fa una fatica ulteriore a raggiungere e acconguagliarsi alla norma prefissata per via dei seppur minimi spostamenti di questa sempre un po' più in là.

Ecco, la normalità, come la si accetti o come la si rifugga sono i temi centrali dell'interessante romanzo della Di Martino Una famiglia bellissima, edito da Eclissi.

L'autrice lavora sui cliché, nel tentativo di scardinarli piuttosto che di confermarli. A cominciare dal capofamiglia, un alto-borghese illuminato che detesta razzismo e arretratezze culturali ma che, nel volgere del testo, si dimostrerà forse ancora più retrivo di coloro che a parole stigmatizza (questo ci ricorda per esempio l'alta moralità di quel manipolo di intellettuali progressisti, in pubblico sostenitori indefessi dell'immigrazione di massa, che tuttavia alzarono le barricate in tutta fretta non appena fu anche solo ventilata la possibilità di dirottare alcuni richiedenti asilo presso un albergo di Capalbio, loro consueto comune dorato ritrovo…).

Il pater familias Ottaviano si sforza di salvaguardare con ogni mezzo l'immagine perfetta che il proprio nucleo familiare trasmette all'esterno: belli, ricchi, realizzati, colti, dotati di buon gusto, lui, la moglie e il figlio adolescente Massimiliano vivono in una grande villa, attorniati da tutti i comfort. Ma, com'è facile prevedere in questi casi, il quadretto da spot della Barilla comincia a scricchiolare sinistramente sin dalle prime pagine.

Questo perché la famiglia Oderico nasconde qualcosa. Il classico scheletro nell'armadio? Quasi, solo che qui non si tratta di un armadio, bensì di un bunker hi-tech nascosto nel seminterrato della villa, e lo scheletro ha ancora attaccati alle ossa muscoli, tendini, organi vari e cute, a sua volta interamente ricoperta di una fitta peluria rossiccia.

Eh sì, chi si agita nei sotterranei di casa è in realtà un freak in piena regola, ossia un anormale: in altre parole, ciò che c'è di più lontano dalla norma costituita. È per questo che, in barba ai proclami liberal, viene tenuto segregato, lontano dagli occhi del mondo, come un segreto di cui vergognarsi.

C'è da dire che in questo romanzo, nonostante le apparenze, nessuno in realtà è normale in senso stretto: non lo è Jamal, amico e coetaneo di Massimiliano, a causa delle origini nordafricane che lo rendono in qualche modo estraneo al contesto in cui vive, non lo è la nonna, che per l'età l'assetto sociale tende a relegare ai propri margini, non lo è la madre, ipersensibile e facile ai cali depressivi, men che meno lo è Ottaviano, che occulta fatti imbarazzanti collegati sia al passato della famiglia d'origine che al suo patrimonio genetico.

Ottaviano Oderico pretende che tutti quanti recitino la propria parte, secondo un copione ipocrita e socialmente accettabile, eppure non è l'unico a voler rientrare così ossessivamente entro le convenzioni dettate dalla società. Anche il mostro rinchiuso nella cantina della bella villa anela a una vita qualunque. Perché la normalità, oltre a essere quella fonte di stress e di senso di inadeguatezza cui si accennava all'inizio, rappresenta nondimeno quel traguardo cui tutti o quasi, che lo ammettano o meno, sotto sotto ambiscono: anche il rivoluzionario, anche l'anarchico, anche il globe trotter, anche l'anticonformista ripudiano lo status quo borghese solo fino a che non verrà loro concesso di condividerne comodità e privilegi.

E infatti il povero ipertricotico di famiglia (il cui genere sessuale e il cui grado di parentela con gli altri protagonisti del romanzo qui non spoilereremo) non chiede di meglio che perdere quell'irsutismo che così bene lo identifica e lo rende speciale per diventare una persona qualsiasi, tanto anonima e banale da potersi tranquillamente confondere nella folla.

Ce la farà? Beh, per saperlo non vi resta che gustarvi questo romanzo scorrevole e di piacevolissima lettura...

 

DATI TECNICI:

Editore: Eclissi

Collana: I Dingo

Anno: 2016

EAN: 9788899505028

Pagine: 260 pp.

 

 

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In risu Veritas: dieci dei più divertenti film americani, più tre stranieri altrettanto divertenti

13 Agosto 2017 , Scritto da Guido Mina di Sospiro Con tag #guido mina di sospiro, #cinema

 

 

 

 

Questo saggio è stato scritto da Guido Mina di Sospiro, originariamente pubblicato su Disinformation, alternative views website di New York City, e tradotto da Patrizia Poli

 

 

In Riflessioni sulla morte di Mishima, Henry Miller, dopo aver cantato le lodi, sia dell’autore giapponese che mise fine alla sua vita con un suicidio rituale tramite seppuku (taglio dell’addome), sia di ciò che è giapponese in generale, notò: “La sua completa serietà, mi sembra, gli ha remato contro.” In se stessa, l’osservazione suona come uno scherzo. Mishima, davvero tremendamente serio su tutto, avrebbe disapprovato con veemenza. Anche nella nostra società industriale si è alzato il ciglio contro l’umorismo per secoli, in realtà millenni.    

Platone censurò il divertimento della commedia nel Philebus come una forma di disprezzo. “In generale”, scrisse, “il ridicolo è un tipo di male, specificatamente un vizio”. Nella Retorica, Aristotele affermò che l’arguzia è educata insolenza, mentre ne L’etica nicomachea ammonì:  “La maggior parte della gente ama il divertimento e lo scherzo più di quanto dovrebbe… uno scherzo è una sorta di presa in giro, e i legislatori proibiscono alcuni tipi di prese in giro – forse avrebbero dovuto proibire alcuni tipi  di scherzi.” 

Va da sé che anche i primi pensatori cristiani siano stati contrari all’umorismo e alla risata, una tendenza, questa, che continuò attraverso tutto il Medioevo. Più avanti, i Puritani, tipicamente, incoraggiarono i fedeli a vivere vite sobrie e serie, mentre Hobbes e Cartesio diedero voce alle loro restrizioni. Nel 1900 il filosofo Henry Bergson pubblicò “Il riso”, una raccolta di tre saggi che per la prima volta si occupò dell’ilarità causata dal comico. Ma lo sforzo di Bergson rimase l’eccezione: fino ad oggi la tragedia è presa sul serio mentre si ride della commedia, sia letteralmente che figurativamente. Quando si parla di film, rimane inconcepibile per l’Accademia Cinematografica scegliere una commedia come miglior film o miglior sceneggiatura originale. E, tuttavia, far ridere la gente è infinitamente più difficile che farla piangere. 

Tra gli altri, un orientale molto perspicace, Gautama Buddha, secoli fa notò che “la vita è sofferenza”, e mise in cima alle sue nobili verità questa intuizione di portata mondiale. Infatti, le religioni più seguite sulla terra, che annoverano bilioni di persone – quella di Abramo, l’Induismo e il Buddismo – hanno tutte prodotto le loro prescrizioni per un diligente evitamento di vita. Si può argomentare che attraverso di esse la religiosità della vita sia stata soppiantata dalla religiosità del distacco dalla vita. Con queste premesse sempre più il riso può essere visto come un disordine cosmico. Sì, riconosce colui che ride, c’è sofferenza, e perdita, e tristezza,  e io rido ciò nonostante. È il nostro umano e, insieme, non umano, modo di dire: Sai cosa? Sono pienamente cosciente del memento mori, infatti ci vivo insieme tutti i giorni, e rido lo stesso! 

Qui di seguito dieci film americani, così come tre stranieri, che a mio avviso esprimono il meglio di ciò che l’umanità può raggiungere quando si tratta di sconvolgere il cosmo e con esso la logica. La tragedia ci circonda; la commedia non tanto. Perciò, troviamo la commedia e ridiamo. Ho fatto uno sforzo consapevole per fare un elenco di film che sono divertenti dall’inizio alla fine, e non solo in parte, e che si possono rivedere più di una volta.

Due notevoli film parzialmente divertenti che non fanno parte di questa lista sono Bringing up Baby, il classico del 1938, perché perde mordente dopo i primi due terzi e degenera in una farsa non divertente, e The Birdcage (1996), il remake del film franco italiano del 1978 La Cage aux Folles, che fa ridere solo in una scena particolarmente protratta, la cena col senatore in visita e sua moglie. Almeno un film con Laurel e Hardy farebbe parte di questa lista, ad esempio Swiss Miss (1938), meno l’inizio da operetta, scegliendo la versione italiana. Infatti, molti film di Laurel e Hardy furono doppiati in italiano da Alberto Sordi, lui stesso un comico di genio, che usò per entrambi gli attori un tono diverso e un forte accento inglese, che contribuì non poco alle loro comiche. Nell’originale, le loro voci non aggiungevano nulla alla comicità.

In ordine cronologico:

Duck soup, La guerra lampo dei fratelli Marx (1933). Straordinariamente divertente e perfetto sotto molti punti di vista. L’aggettivo “zani”, così spesso utilizzato in riferimento ai fratelli Marx, deriva da Zani, la forma veneziana per Gianni, Giovanni, usata nella commedia dell’arte come nome comune per vari servitori che si comportano da pagliacci. E, davvero, ciascuno dei divertenti fratelli (Zeppo fu considerato all’inizio come l’uomo giusto ma alla fine eliminato) poteva essere una maschera della commedia dell’arte; Groucho con i suoi giochi di parole e la sua veloce parlantina, il pseudo italiano Chico, o Chiccolini, con il suo surreale buon senso e accento esagerato, e, migliore di tutti, il muto, malandrino, sabotante e sempre arrapato Harpo. Se i personaggi che circondano i tre fratelli appaiono legnosi e innaturali è perché lo sono: il film è, inter multa alia, una rappresentazione del milieu diplomatico che, nonostante la sua aria civilizzata e le buone maniere, non ha impedito all’Europa e al mondo di immergersi nella prima guerra mondiale, appena diciotto anni prima, e non ha fatto niente, diciassette anni dopo, per impedire al mondo di cadere nella seconda guerra mondiale. Sulla pomposità che circonda questo mondo, i fratelli Marx hanno sempre prosperato, stabilendosi rapidamente come incarnazioni di pura irriverenza su schermo. La povera Margaret Dumont, incessantemente bersaglio degli scherzi di Groucho, fa la parte di Gloria Teasdale, un vedova facoltosa che si accolla il bilancio della Repubblica di Freedonia. È matronale e pomposa, e Groucho la demolisce  ogni volta che apre bocca.

L’anarchia presente nei migliori film dei fratelli Marx era il nocciolo della commedia dell’arte, in cui molti attori parlavano, o, piuttosto, gridavano, simultaneamente, e il canovaccio era un mezzo d’improvvisazione. Duck Soup è un tesoro di anarchia, zaninità, irriverenza, satira, comicità – e rimane un capolavoro da quando è stato realizzato tanti anni fa.

Ovviamente ci sono molti film divertenti negli anni successivi, non solo dei fratelli Marx. Ma, come ho detto, sto facendo una lista di film completamente divertenti, non solo in parte. Per la prossima voce, devo fare un salto in avanti di più di quaranta anni.

Young Frankenstein, Frankenstei junior (1974). Entriamo qui, grazie al genio di Mel Brooks e Gene Wilder, nel regno del postmodernismo, avanti di un buon decennio. Come parodia del classico film horror, il film fu girato in bianco e nero e con le stesse tecniche narrative e di editing degli anni trenta. Vi pare un po’ troppo intellettuale? Niente affatto. Il film è divertentissimo e, per la verità, alcune frasi sono diventate famose. Marty Feldman è divertente in modo eccentrico nel ruolo di Igor, e  lo stesso dicasi per Teri Garr (ve la ricordate nello show di David Letterman? Mostrò spesso in quel contesto la sua vena comica e in questo film mostra un grande talento). Gene Wilder recita come se fosse posseduto, e l’intera opera è da sbellicarsi dal ridere, insieme parodia e omaggio dell’era cinematografica pre moderna

 

National lampoon’s vacation (1983) (Vacation) Il patriarca Clark Griswold, un Chevy Chase al suo meglio, decide di trascorrere più tempo con la moglie e i due figli, e s’imbarca con una grossa station wagon in un viaggio on the road attraverso gli Stati Uniti, da Chicago al parco di Divertimenti Walley World di Los Angeles. Il viaggio dovrebbe stabilire legami ed essere basato sulla qualità del tempo trascorso insieme, ma si trasforma nella saga della sfiga. Tra le altre cose i Griswold uccidono accidentalmente un cane, legano la zia morta sul tetto della macchina, tanto per intenderci, mentre il patriarca è spesso tentato da una voluttuosa bionda che guida una Ferrari. Qua e là sono accennati alcuni dei conflitti sperimentati dai giovani genitori, e il tutto colpisce ancora di più per la leggerezza con cui il tema è trattato. Ad esempio, il fastidioso sospetto che il padre possa essere più interessato a cacciare belle ragazze piuttosto che a passare del tempo di qualità con i figli; che la vita familiare sia, in effetti, soffocante; che sua moglie sia bella, sì, ma l’uomo sia anche poligamo per natura… Alla fine, Walley Wolrld diventa, più che una destinazione, una fissazione. Al termine i Griswold raggiungeranno la meta, anche se persino questo si trasformerà in un anti-climax. Durante il viaggio, lo spettatore non farà che ridere.  

 

This is Spinal Tap (1984) è il documentario parodia di Rob Reiner, scritto insieme a Christopher Guest, Michael Mc Kean e Harry Shearer che vi recitò anche, rispettivamente, come Nigel Tufnel, David St. Hubbins e Derek Smalls. Spinal Tap, una band britannica che è stata attiva per diciassette anni con molti alti e bassi, arriva negli Stati Uniti per un tour che deve promuovere l’ultimo album, Smell the Glove. Rob Reiner fa la parte di Marty Di Bergi, un regista che sta girando un documentario su questo particolare tour, che passerà dal male al peggio fino alla catastrofe. Sebbene tutto sia inventato, l’effetto generale è estremamente realistico. In verità il film è un compendio di molti tropi classici del rock’n’roll: la fidanzata impicciona che minaccia l’unità della band, il promotore odioso,  il manager indaffarato e viscido, le due righe di recensione dell’album, la rissa nello studio, la pietra di Stonehenge (e similari) come meccanismo di palcoscenico, i cambiamenti di nome della band, il batterista scomparso, la perdita di direzione musicale che vira verso il jazz, la presenza nello show “Dove sono finiti?” in radio o televisione, senza menzionare il leggendario amplificatore che arriva a 11. 

Quando ho recensito il film per la prima volta, circa trenta anni fa, trovai una analogia con Don Chisciotte. I membri della Spinal Tap sono presentati come cretini assoluti, ed è normale ridere di loro dall’inizio alla fine, come se fossero i Tre Marmittoni armati di strumenti musicali. Ma i loro peccati sono così veniali che è difficile rimproverar loro qualcosa. Infatti ridiamo di loro e, tuttavia, siamo dalla loro parte, e ci sentiamo sollevati dall’improbabile lieto fine del film. Secoli prima, Cervantes ottenne lo stesso risultato con Don Chisciotte: ridiamo dello stupido e dei suoi errori ma, allo stesso tempo, siamo in ansia per lui. Cervantes scrisse una parodia del mondo cavalleresco – riuscì trionfalmente nell’intento – e, tuttavia, lo immortalò. Rob Reiner e i suoi co-sceneggiatori vollero filmare una parodia del rock’n’roll – anche loro vi riuscirono – e tuttavia lo resero immortale.

 

Lost in America (1985) (Pubblicitario offresi) Due yuppi, David (Albert Brooks ) e Linda (Julie Hagerty, di Airplane!) lasciano il loro posto di lavoro (in realtà David viene licenziato mentre sta aspettando una promozione e covando il sogno del suo feticcio, una BMW nuova fiammante con interni in pelle). Dopo aver venduto tutto quello che possiedono, si mettono in viaggio in una casa viaggiante, dopo che Easy Rider è diventato il loro nuovo feticcio, o, almeno, quello di lui. Decidono di fare tutto ciò che hanno sognato  in gioventù, come, “dobbiamo andare dagli Indiani!”. Presto la loro nuova vita prende, però, una brutta piega. A Las Vegas, all’insaputa del marito, Linda si gioca tutto il loro gruzzolo. David è sconvolto, ma se ne esce con un piano. S’incontra col direttore del Casinò, che si muove e parla come lo stereotipo del mafioso, e gli illustra “il più coraggioso esperimento pubblicitario, ovvero: ci ridai indietro i soldi.” È una di tante scene brillanti. Ne nascono molte complicazioni comiche. Albert Brooks non è mai stato così ispirato, sia come regista che come attore. Il film è un resoconto perfetto, non solo degli anni ottanta, ma anche del genere umano. Ed è divertente dall’inizio alla fine.

 

The Big Lebowski (1998) Non è un segreto che questo sia in assoluto il mio film preferito, non solo una semplice commedia. Sul seguente sito ho pubblicato due saggi su di esso

http://disinfo.com/2014/04/esoteric-take-big-lebowski/

http://disinfo.com/2014/04/importance-living-lin-yutang-meets-dude-esoteric-take-big-lebowski-part-2/

l’ultima parte è stata successivamente pubblicata nel libro: http://dudeism.com/lebowski-101/

Fiumi d’inchiostro sono stati versati su questo film, e a ragione. Da una prospettiva strettamente comica si può candidare come uno dei più divertenti di sempre. L’interazione fra il Drugo e il suo frenetico amico Walter è una delle migliori mai realizzate sullo schermo. Abbondano le situazioni assurde, e questo è senz’altro il capolavoro dei fratelli Cohen. Il fatto che il loro film precedente, Fargo, sia stato ricoperto di premi in tutto il mondo e che Il grande Lebowski sia stato considerato manchevole da molti critici quando uscì, rinforza quello che dicevo all’inizio: Fargo abbonda in omicidi e sangue, perciò merita l’attenzione della critica in quanto tragedia, specialmente in un paese pervaso dalla cultura delle armi. L’infinitamente più sofisticato Grande Lebowski è liquidabile come roba leggera e da ridere. A dire il vero, alcuni di tali critici hanno cambiato la loro opinione da allora; a prescindere da cosa pensano, il film è diventato un cult, a cui è dedicato anche un festival annuale, il Lebowski Fest. Questo è un film veramente imperdibile. L’ho visto e rivisto molte volte, anche in un angolo remoto dell’Islanda, con i sottotitoli in islandese: i locali non sapevano niente del film, ma ben presto hanno cominciato a ridere senza mai smettere.

 

Napoleon dynamite (2004) Jon Herder impersona Seth, “superstraordinario nerd”, nel trattato di Jared e Jerusha Hess sulla goffaggine, alienazione e disfunzionalità adolescenziale. Sebbene a basso costo e indipendente, il film evita l’atmosfera trita piena di angoscia di molti film indipendenti e ci consegna un ritratto di surreale anormalità nel reame del normale. Un sedicenne che va alla scuola superiore odiando ogni minuto della propria vita in un ambiente molto surreale. A volte l’Idaho ci appare come la luna, e il contesto domestico in cui si Seth muove è ugualmente bizzarro – la nonna che guida il quad, il memorabile zio Rico, l’inquietante fratello che si collega on line con LaFawnduh, che viene a trovarlo da Detroit. Il riso nasce da Seth e dalle situazioni bizzarre in cui egli si trova. Un piccolo capolavoro comico. Ah, non sorprende che il critico Rogert Ebert abbia dato al film una stella e mezzo.     

 

Nacho Libre (2006). Il film successivo a Napoleon Dynamite, di Jared e Jerusha Hess, è un altro gioiello. Il film è ispirato a Frate Tormenta, un prete messicano che, per più di due decenni, combatté come wrestler per mantenere un orfanotrofio. Vi recita Jeff Black in quello che ritengo il suo miglior momento, nel ruolo di un frate che cucina per i suoi compagni e per gli orfani. La sua recitazione è così pomposa, così sopra le righe, che ricorda Oliver Hardy al massimo dell’istrionismo. La sua spalla Esqueleto (che significa “scheletro” ed è recitata dall’effettivamente scheletrico Héctor Jiménez) a volte gli ruba la scena con frasi assurde come, “Non so perché mi devi sempre giudicare perché credo solo nella scienza”. Il film è un pastiche riuscitissimo di lotta libera, kitsch voluto, catechismo, frammenti di spagnolo e d’inglese con forte accento spagnolo, e ha l’aspetto di un film italiano o spagnolo di serie B degli anni sessanta. Alcuni critici lo hanno ritenuto offensivo per come tratta il cattolicesimo, i messicani, gli ultimi e persino gli orfani, quando Esqueleto afferma: “Sono stufo di sentir parlare dei tuoi stupidi orfani; io odio gli orfani!” Ma la commedia trascende tali restrizioni, o, in effetti, prospera su di esse, come ampiamente dimostrato dalla prossima voce.

 

Borat: cultural Learnings of america for Make Benefit Glorious Nation of Kazakhstan (2006) Borat - Studio culturale sull'America a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan. Col personaggio di Ali G, Sacha Baron Cohen aveva fornito più di un indicazione del suo talento comico. Ma è col personaggio di Borat Sagdiyev che la sua comicità diventa genio. Borat: Cultural Lernins etc è un finto documentario su Borat, un giornalista kazako che giunge negli States pieno di  entusiasmo, ignoranza e anche pregiudizi, e non risparmia nessuna delle tre categorie quando si tratta di americani reali.

Lo stratagemma permette a Sacha Baron Cohen di incorrere in ogni possibile passo falso, dallo sciovinismo al razzismo, al sessismo e via discorrendo. Lo spettatore storce il naso a molte delle battute e, tuttavia, non può far a meno di ridere. L’idea che costituisce il nocciolo del film è brillante quanto quella su cui si basa This is Spinal Tap. Il prodotto di Rob Reiner è confezionato meglio, la sceneggiatura più consistente, e non ci sono scene volgari (che non sono per forza divertenti solo perché volgari). Borat: cultural Learnins non solo esplora la landa proibitissima del molto politicamente scorretto, ma, allo stesso tempo, del basso livello. Ciò detto, Sacha Baron Cohen è un genio comico, e, se il film è carente nella struttura, fa però ammenda con una performance più che memorabile, addirittura archetipica. Uno dei film più divertenti di tutti i tempi, comprese le scene tagliate.    

 

Casa de mi Padre (2012) Ecco un’altra stranezza, l’invenzione del regista Matt Piedmont e dello sceneggiatore Andrew Steele. Will Ferrel impersona Armando Alvarez, un ranchero lento di comprendonio. Il ranch di suo padre è minacciato da un locale narcotrafficante e lui deve salvarlo. Will Farrel recita tutto il tempo in spagnolo, il che è già divertente di per sé. Il film, imbevuto dello stile ultra drammatico delle telenovelas, combina una serie di situazioni assurde, e presenta almeno un esempio di autentico humor nero. Conoscere bene lo spagnolo è un prerequisito per godere Casa de mi padre. Nel tal caso, il film risulterà estremamente divertente, tenuto su da un altro genio comico, Will Farrel, che, dovendo recitare in spagnolo, ha accettato una bella sfida e ci ha consegnato una performance trionfale. 

 

Aggiungerei alcuni film in lingua straniera.

 

Lo spagnolo: Torrente 2: Misión en Marbella (2001), la seconda parte della saga di Torrente, che è iniziata con Torrente, el brazo tonto de la ley (1998), il primo di quattro film. All’epoca questo è stato il film di maggior incasso nella storia del cinema spagnolo. Torrente è un ex poliziotto di Madrid, rozzo, pigro, completamente disonesto, sessista, libidinoso, razzista e di destra. Ben prima di Borat, abbiamo un personaggio che sembra prosperare su tutto ciò che è, sia politicamente scorretto, sia illegale, illecito, imbarazzante e terribile. In qualche modo, tuttavia, in lui c’è una vena comica e le sue disavventure ci fanno ridere. Ho visto per la prima volta questo film anni fa al Miami International film Festival, in lingua originale spagnola, e gli spettatori ridevano così forte che era impossibile sentire tutte le battute.

 

L’italiano Fantozzi (1975), primo di molti altri della saga. Fantozzi è l’archetipo dell’impiegato servile, frustrato, perennemente sfigato e sfruttato, che manca di coscienza di classe e lavora per una ditta molto grande, impersonale e alienante. Allo stesso tempo, è meschino ogni volta che può. Ad esempio, trova che sua figlia sia tremendamente brutta e sbava per una collega, che neppure si accorge di lui se non quando ha bisogno di un favore sul lavoro. Enormemente popolare in Italia, il personaggio di Fantozzi è diventato un archetipo, e l’aggettivo fantozziano è usato per descrivere una situazione in cui  potrebbe ritrovarsi Fantozzi. Paolo Villaggio, che ha scritto i libri su cui si basano questo film e i successivi, e che impersona Fantozzi, era un comico di rilevanza mondiale.

 

Da ultimo, il francese Les Visiteurs (1993) (I Visitatori) rifatto negli Stati Uniti, e puntualmente rovinato, col titolo Just Visiting (2001), il primo di una trilogia con parte finale nel 2016. Questa è l’ultima variazione sul tema del pesce fuor d’acqua. Per colpa di un incantesimo, un cavaliere del dodicesimo secolo e il suo scudiero viaggiano nel tempo e finiscono alla termine del ventesimo secolo. Volenti o nolenti devono confrontarsi col mondo moderno. Ogni situazione è divertente, fino a  sconfinare nella farsa. Jean Reno impersona il cavaliere impassibile, e vengono alla ribalta le considerevoli differenze fra come la società era considerata nel Medio Evo e com’è considerata oggi. I sottotitoli della versione originale francese sono sorprendentemente controrivoluzionari (essendo la Francia il luogo di nascita della famosa, o infame, Rivoluzione), mentre il remake americano è in favore dell’emancipazione e della democrazia, per la gioia dello scudiero. Questo è stato il film numero uno al box office in Francia nel 1993

 

In Reflections on the Death of Mishima, Henry Miller, after singing the praises of both the Japanese author who put an end to his life with a ritual suicide by seppuku (abdomen-cutting) and nipponica in general, noticed: “His utter seriousness, it seems to me, stood in Mishima’s way.” In itself, the observation sounds like a joke. Mihisma, dead serious (indeed) about everything, would have disapproved vehemently. Humor has been frowned upon for centuries, in fact millennia, in our own western tradition, too.

Plato censored the enjoyment of comedy in Philebus as a form of scorn. “Taken generally,” he wrote, “the ridiculous is a certain kind of evil, specifically a vice.” In Rhetoric, Aristotle stated that wit was educated insolence, while in the Nicomachean Ethics he admonished: “Most people enjoy amusement and jesting more than they should … a jest is a kind of mockery, and lawgivers forbid some kinds of mockery—perhaps they ought to have forbidden some kinds of jesting.”

Needless to say, early Christian thinkers objected to humor and laughter, too, a trend that continued through the Middle Ages. Later, the Puritans typically encouraged the faithful lo live sober, serious lives, while Hobbes and Descartes chimed in with their own strictures. In 1900 the French philosopher Henry Bergson published Laughter, a collection of three essays that, for the first time, concerned itself with the laughter caused by the comic. But Bergson’s effort remains the exception: to this day, tragedy is taken seriously; comedy, is laughed at, both literally and figuratively. When it comes to movies, it remains inconceivable for the Academy of Motion Picture Arts and Sciences to choose a comedy as Best Picture, or as Best Original Screenplay. And yet, making people laugh is infinitely more difficult than making them cry.

Among others, a very perspicacious Asian, Gautama Buddha, noticed centuries ago that “life is suffering,” and listed such an earth-shaking intuition as the first of his noble truths. In fact, the most followed religions on earth, which cumulatively number billions of people — the Abrahamic ones, Hinduism and Buddhism — all have produced their own prescription for diligent life-avoidance. It could be argued that through them the religiosity of life was supplanted by the religiosity of detachment from life. Given such premises, all the more can laughter be seen as a form of cosmic upset. Yes, acknowledges the one who’s laughing, there is suffering, and loss, and sadness, and I laugh, nevertheless. It’s our at once human and superhuman way of saying, Guess what? I’m fully aware of the memento mori, in fact I live with it every day, and I’m still laughing!

There follow ten American movies as well as three foreign ones that in my view express the best of what humans can achieve when it comes to upsetting the cosmos, and logics with it. Tragedy surrounds us; comedy, not so much. Therefore, let’s find comedy, and laugh. I have made a conscious effort to list movies that are funny throughout, and not just in part, and that are highly rewatchable.

Two notable partially funny movies that do not make this list are Bringing Up Baby, the 1938 classic, because it loses steam after its first two thirds and degenerates into an unfunny farce; and, The Birdcage (1996), the remake of the 1978 Franco-Italian La Cage aux Folles, which is laugh-out-lout funny only in a particular albeit protracted scene, the dinner with the visiting senator and his wife. Also, at least one movie with Laurel and Hardy would make this list, for example, Swiss Miss (1938) minus the operetta outbreaks, if I chose its Italian edition. In fact, many Laurel and Hardy movies were dubbed in Italian by Alberto Sordi, himself a comic of genius, who used for either actor a different pitch and a strong English accent, which contributed very much to their slapstick. In the original, their voices and lines do not add to the hilarity.

In chronological order:

Duck Soup (1933). Uproariously entertaining and perfect in many ways. The adjective “zany”, so often utilized in reference to the Marx Brothers, comes from Zani, the Venetian form of Gianni, “John”, used in the commedia dell’arte as a stock name for sundry servants acting as clowns. And indeed, each of the funny brothers (Zeppo was cast at first as the straight man, and eventually dumped altogether) could be a mask from the commedia dell’arte: the punny, fast-speaking and ever-deriding Groucho; the pseudo-Italian Chico, or Chiccolini, with his surreal common sense and exaggerated accent; and, best of all, the mute, mischievous, quirky, sabotaging, and ever-horny Harpo. If the characters surrounding the three brothers appear wooden and stilted it’s because they were: the film is, inter multa alia, a spot-on depiction of the diplomatic milieu that, despite its civilized airs and good manners, had not prevented Europe and the world from engaging in WW I just eighteen years before, and would do nothing, seven years on, to prevent the world from plunging into WW II. The pompousness all around is just what the Marx Brothers ever thrived on, quickly establishing themselves as onscreen incarnations of sheer irreverence. The poor Margaret Dumont, unfailingly the butt of Groucho’s jokes, plays Mrs. Gloria Teasdale, a very wealthy widow who underwrites the budget of the Republic of Freedonia. She is as matronly and pompous as it gets, and Groucho gingerly demolishes her every time she opens her mouth. The anarchy inherent in the best of the Marx Brothers’ movies was at the core of the commedia dell’arte, in whose plays many actors would speak, or rather shout, simultaneously, and in which the script was a vehicle for improvising. Duck Soup is a treasure-trove of anarchy, zaniness, irreverence, satire, slapstick—and remains a masterpiece so many years since it was made.

Of course, there are many funny movies in the following years, not only by the Marx Brothers, but by many others. But as mentioned, I’m intent on making a list of consistently funny films, not just in part. For the next entry, I find that I need to skip forward by over forty years, with:

Young Frankenstein (1974). We enter here, thanks to the genius of Mel Brooks and Gene Wilder, into the realm of post-modernism, ahead of a good decade. As a parody of the classic horror film genre, the film was shot in black and white and with the same narrative and editing techniques employed in 1930s. Sounds intellectual and a bit on the dry side? Not at all. The film is memorably funny, and indeed some of its lines have become famous. Marty Feldman is eccentrically funny as Igor, and so is Teri Garr (do you remember her when she used to be a staple on the Late Night with David Letterman? She often displayed in that context her comic talent, and it is very noticeable in this film). Gene Wilder acts like a man possessed, and the entire work is a riotously funny pastiche, at once spoof and homage to the pre-modern era of film-making.

National Lampoon’s Vacation (1983) Suburban patriarch Clark Griswold, a Chevy Chase his best, decides to spend more time with his wife and two children, and embarks, in a beat-up, out-sized station wagon, on a cross-country trip from Chicago to the Los Angeles amusement park Walley World. The trip should all be about bonding and quality time, but it turns into a mishap fest. Inter alia, the Griswolds inadvertently kill a dog, tie the deceased aunt on the roof of the car, you get the picture, while the patriarch is recurrently tantalized by a gorgeous blonde driving by in a Ferrari. Some of the conflicts young parents experience are hinted at in passing, and all the more strikingly because of such a light-handed treatment: the father’s nagging suspicion, for example, that he may be more interested in chasing beautiful girls than in spending quality time with his children; that married life is, in fact, constrictive; that his wife may be beautiful but man is naturally polygamous… Eventually, Walley World becomes, rather than a destination, a fixation. The Griswolds will reach it, at long last, even though that too will turn out to be an anti-climax. On the way there, the watcher will be laughing all along.

This is Spinal Tap (1984) is Rob Reiner “mockumentary”, co-written with Christopher Guest, Michael McKean and Harry Shearer who also starred in it respectively as Nigel Tufnel, David St. Hubbins and Derek Smalls. Spinal Tap, a British band that has been active for seventeen years with many ups and down, come to the States on tour to promote their latest album, Smell the Glove. Rob Reiner appears as Marty Di Bergi, a film director who is shooting a documentary about this particular tour, which will go from bad to worse to catastrophic. Although everything is fictitious, the overall effect is extremely realistic. Indeed, the film is a compendium of many classic tropes of rock’n’roll: the meddling girlfriend who threatens the band’s unity; the obnoxious promoter; the overworked, slimy manager; the two-word album review; the in-studio fight; the Stonehenge (and similar) stage prop; the band name changes; the disappearing drummer; losing musical direction and turning to jazz; being on the “Where Are They Now?” radio or TV show; not to mention the legendary amplifier that goes to eleven.

When I first reviewed the film, about thirty years ago, I found it analogous to Don Quixote, of all things. The members of Spinal Tap are presented as immense fools, and it’s only human to laugh at them, from the very start to the end, as if they were the Three Stooges with musical instruments. But their trespasses are so benign that it is hard to hold anything against them. In fact, we laugh at them, and yet we feel for them, and are relieved by the film’s improbable happy ending. Centuries before, Cervantes accomplished the same with his Don Quixote: we laugh at the fool and at his foolish trespasses while at the same time we feel for him. Cervantes set out to write a parody of chivalry—he succeeded triumphantly, and yet immortalized it. Rob Reiner, and his co-writers, set out to film a parody of rock’n’roll—they too succeeded triumphantly, and yet immortalized it.

Lost in America (1985) Two yuppies, David (Albert Brooks) and Linda (Julie Hagerty, of Airplane! fame), drop out of the rat race (or rather, David is fired when he was, in fact, expecting a promotion and kept coveting his fetish, a brand new BMW with leather interiors). After selling everything they own, they hit the road in a motor home, Easy Rider having quickly become their new fetish, or at least his, bent on doing everything they dreamed of in their youth, such as, “We have to touch indians!” Soon enough their new life goes south: in Las Vegas, unbeknownst to her husband, Linda gambles away their entire “nest egg”. David is devastated, but quickly comes up with a plan. He meets with the casino’s director, who looks and speaks like a stereotypical Mafioso, and illustrates to him “the boldest experiment in advertising history: you give us our money back.” It’s one of many brilliant scenes. Many comical complications ensue. Albert Brooks would never be this inspired again, both as a director and as an actor. The film is a tremendously accomplished commentary not just on the 1980s, but on human nature in general. And it’s funny throughout.

The Big Lebowski (1998) It’s no secret that this is my all-time favorite film, not just comedy. On this website I’ve published two essays about it:

http://disinfo.com/2014/04/esoteric-take-big-lebowski/

http://disinfo.com/2014/04/importance-living-lin-yutang-meets-dude-esoteric-take-big-lebowski-part-2/

with the latter being published later in the book:http://dudeism.com/lebowski-101/

 

Rivers of ink have been spent on this film, and with good reason. From a strictly comical perspective, it may also qualify as one of the funniest of all times. The interaction between the Dude and his manic friend Walter is one of the best ever realized on screen, and many other minor characters are very funny. Absurdist situations abound, and this is the Cohen Brothers’ masterpiece. The fact that their previous Fargo would be covered in awards from the world over and The Big Lebowski considered a miss by most critics when it was first released corroborates what I write in the introduction:Fargo showcases various murders and plenty of blood, so it’s deserving of critical attention as a tragedy, particularly in a country in which the gun culture is all-pervading; the infinitely more sophisticated The Big Lebowskiis light fare, comical, and dismissible. At least some of such critics have changed their mind since; regardless of what they opine, the film has become yet another cult classic, spawning even an annual festival, the Lebowski Fest. This is the one, truly unmissable film. I’ve watched many, many times, once I in a remote corner of Iceland with subtitles in Icelandic; the natives knew nothing about the film, but soon enough they began to laugh—and never stopped

Napoleon Dynamite (2004) Jon Herder stars as Seth, “super nerd extraordinaire” in Jared and Jerusha Hess’s treatise on teenage awkwardness, alienation and dysfunctionality. Though as low-budget and independent as it gets, the film eschews the trite angst-ridden atmosphere of most indies and delivers a portrayal of surreal abnormality within the realm of the normal: a 16-year-old who goes to high school hating just about every minute of his life in a very surreal setting, Idaho looking at times like the moon, and in an equally bizarre domestic context—his quad-bike-riding grandmother; his memorable Uncle Rico; his weird brother who hooks up on line with LaFawnduh, who comes to visit him from Detroit. Laughter is born out of Seth’s deadpan one-liners and out of the bizarre situations in which he finds himself. A small comic masterpiece. Oh, not surprisingly the late critic Roger Ebert gave the film one-and-a-half stars.

Nacho Libre (2006) Jared and Jerusha Hess’s follow-up to Napoleon Dynamite is another gem. The film is inspired by Fray Tormenta (Frair Storm), a Mexican priest who, for over two decades, competed as a wrestler in order to support an orphanage. It stars Jeff Black in what I deem his best moment, as a low-ranking friar in charge of cooking for his fellow friars and orphaned children. His acting is so pompous, so over the top, it is reminiscent of Oliver Hardy at his most histrionic. His foil Esqueleto (which means “skeleton” and is played by the indeed skeletal Héctor Jiménez) at times steals the spotlight with some absurd lines such as, “I don’t know why you always have to be judging me because I only believe in science.” The film is a supremely reussi pastiche of lucha libre, deliberate kitsch, catechism, bits of Spanish and bits of English with a strong Spanish accent, and the overall look of a Spanish or Italian B movie from the 1960s. Some critics found it offensive for its treatment of Catholicism, Mexicans, midgets and even orphans, when Esqueleto states, “I’m sick of hearing about your stupid orphans; I hate orphans!” But comedy transcends such strictures, or in fact thrives on them, as amply demonstrated by the next entry.

 

 

Borat: Cultural Learnings of America for Make Benefit Glorious Nation of Kazakhstan (2006) With the character of Ali G, Sacha Baron Cohen had given more than hints of his comic talent. But it is with the character of Borat Sagdiyev that his comicality turned into genius. Borat: Cultural Learnings etc. is a mockumentary about Borat, a Kazakh journalist who comes to the States with a great deal of enthusiasm, ignorance, and prejudices alike, and is not shy about any of the three categories when dealing with real-life Americans.

The stratagem allows Sacha Baron Cohen to engage in every possible faux pas, from chauvinism to racism, to sexism and on and on. The viewer cringes at most of his jokes, and yet laughing is inevitable. The idea at the core of the film is as clever as the one at the core of This is Spinal Tap. Rob Reiner’s offering is put together better, the writing is more consistent, and there are no gross-out scenes (which aren’t necessarily funny just because they’re gross). Borat: Cultural Learnings doesn’t only explore the very forbidden land of the extremely politically incorrect, but at the same time of the very lowbrow. Having said that, Sacha Baron Cohen is a comic genius, and what the film may lack in structure it makes up for with a more than memorable, indeed archetypal performance. One of the funniest films of all times, including its outtakes.

 

Casa de mi Padre (2012) Here is another oddity, the brainchild of director Matt Piedmont and screenwriter Andrew Steele. Will Ferrell stars as Armando Álvarez, a slow-on-the-uptake ranchero from Mexico. His father’s ranch is being threatened by a local drug lord and he must save it. Will Ferrell acts for the entire time in Spanish, which is hilarious in itself. The film, awash in the ultra-dramatic style typical of telenovelas, teams with absurd situations, and presents at least one instance of truly extreme black humor. Fluency in Spanish may be a prerequisite in order to enjoyCasa de mi Padre. In which case, it comes off an incredibly funny film held together by another comic genius, Will Farrell, who, by having to act in Spanish, took on quite a challenge and delivered a triumphantly comical performance.

I would add a few foreign-language films.

The Spanish Torrente 2: Misión en Marbella (2001), the second installment of the Torrente saga, which began with Torrente, el brazo tonto de la ley (1998), first of four. At the time, this was the highest-grossing movie in the history of Spanish cinema. Torrente is an ex-cop from Madrid, rude, lazy, thoroughly dishonest, sexist, lecherous, racist, right-wing. Well before Borat, we have a lead who seems to thrive on everything that is either politically incorrect, or illegal, illicit, highly cringe-inducing, and just awful. Somehow, however, there is a comic streak in him, and his mishaps make us laugh. I watched this film for the first time years ago at the Miami International Film Festival in the original Spanish, and viewers were laughing so uproariously, it was impossible to hear all the jokes.

The Italian Fantozzi (1975), first of many in the saga. Fantozzi is the archetype of the extremely sycophantic, totally frustrated, perennially-out-of-luck and overexploited clerk lacking in class consciousness and working for a very large, impersonal and alienating company. At the same, he is shown to be mean-spirited, whenever he can; he finds his daughter, for example, unbearably ugly and lusts after a female colleague, who hardly realizes he exits except for when she needs a favor at work. Hugely popular in Italy, the character Fantozzi has become archetypal, and the adjective “fantozziano” is used to describe a situation in which Fantozzi may find himself. Paolo Villaggio, who wrote the books on which this and the subsequent installments are based and also stars as Fantozzi, is a world-class comic.

Lastly, the French Les Visiteurs (1993) [remade in the States, and punctually ruined, as Just Visiting (2001)], the first in a trilogy, with the latest installment to be released in 2016. This is the ultimate variation on the fish-out-of-water theme: thanks to a wizard’s magical spell, a 12th-century knight and his squire travel in time to the end of the 20th century and, willy-nilly, have to confront the modern world. Every situation is hilarious, often trespassing into the farcical. Jean Reno plays the knight with a straight face, and the considerable differences in how society was conceived in the Middle Ages and now come to the fore. The subtext of the original French version is strikingly counterrevolutionary (France being the birthplace of the famous, or infamous, Revolution), while the American remake is in favor of emancipation and democracy, for the squire’s joy. This was the number 1 box office movie in France in 1993.

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La fantascemenza

12 Agosto 2017 , Scritto da Umberto Bieco Con tag #umberto bieco, #le prese per il deretano di umberto bieco, #fantascienza

 

 

 

 

Jules Verne: avrebbero potuto esporre in un museo il suo cadavere senza averlo imbalsamato, giacché, dato il suo stile di scrittura, è perfettamente chiaro che era già impagliato in vita: si sarà quindi conservato splendidamente. E' una cosa che si è chiarita nel tentativo di rileggere 20.000 Piaghe Sotto i Mari, uno o due anni fa, e trovando uno stile rigido, stridente come gesso sulla lavagna, la stessa lavagna su cui sembra scrivere didatticamente le sue osservazioni e misurazioni scientifiche che costellano ansiogenamente il libro, rendendolo una pesante lezione scolastica, piena di pedanterie a base di leghe, nodi, latitudini, longitudini e quant'altro. Viene salvato solo dalle invenzioni romanzesche, dall'intuizione sottomarina, il sogno di poter vivere autarchicamente sotto le onde, al di fuori della giurisdizione delle leggi umane, nascosto e imprendibile, il fascino oscuro del Capitano Nemo e un paio di gite nelle foreste di alghe: ma a ciò si accede solamente con dura fatica e il puntello dell'ostinazione a rompere il ghiaccio che incrosta le parole. E quindi, addio 20.000 Beghe Sotto i Mari: state bene lì dove state. E lì rimarrete.
In definitiva, ho un ricordo migliore di Viaggio al Centro della Terra, ma forse proprio perché è - e rimarrà - solo un ricordo, non sfregiato da un tentativo di verifica pratica. Qualche teoria strampalata di un secolo, un secolo e mezzo fa ipotizzava che la terra fosse cava. Verne, quindi, la riempie di preistoria preservata, un mondo nel mondo, rimasto ad un grado di sviluppo mesozoico, con tanto di lucertoloni giganti e vegetazione esoticamente ancestrale, cresciuta non si sa come. Ciò porta ad Arthur Conan Doyle e al suo mondo perduto, di mezzo secolo dopo, che insieme al precedente, costituisce l'archetipo delle storie di preistoria-che-arriva-nell'età-moderna (o così ho letto).
La differenza tra Conan Doyle e Jules Verne, è che il primo è coinvolgente e a tratti persino divertente, e forte di un razionalismo che non sfocia però nel linguaggio arido di Verne, per quanto rimanga piuttosto asciutto - oltre a ciò affiora persino un po' di calore umano, qua e là. Ma seguendo la coda dei dinosauri arriviamo in Russia, presso casa Bulgakov che - se famoso per il postumo Il Maestro e Margherita - è anche autore di una parodia fantascientifica a base di dinosauri distruttivi fatti rinascere attraverso una cova artificiale che porterà subbuglio e salmonella in Russia: Le Uova Fatali.

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L’amore idealizzato e vagheggiato della Agus in Mal di pietre

11 Agosto 2017 , Scritto da Federica Cabras Con tag #federica cabras, #recensioni

 

 

 

Mal di Pietre

Milena Agus

 

Nottetempo, 2016

 

 

Una ragazza trova un quadernetto con i bordi rossi. Appartiene alla nonna. Lì la donna si è confidata, mettendo nero su bianco desideri e timori ma soprattutto voglia... voglia di amore carnale, di mani intrecciate e sudore sulla pelle.

Si torna quindi indietro nel tempo. Come scenario, la Sardegna della seconda guerra mondiale; come narratore – un narratore che risulta essere attento e scrupoloso –, la nipote della donna. La donna – viene chiamata per tutto il testo nonna, mai un nome né un riferimento più preciso – è poco equilibrata, un po’ inquieta. Giunta a un’età in cui è normale esibire un marito – pena la compassione di tutti – non riesce a farsi chiedere in moglie. È una bella donna, non le mancano di certo i pretendenti. Ma lei, quando qualcuno si mostra interessato, gli scrive poesie bollenti, piene di sentimento e di desiderio. Ha frequentato solo le prime classi delle elementari, tuttavia scrive da sempre – malgrado debba farlo da sola, di nascosto, con il quadernetto tra le gambe e i sensi all’erta perché non entri nessuno –, è il suo modo per sfogare quell’inquietudine. Loro però non capiscono, fuggono dinnanzi a quell’arte, a quel sentimento. Quando i suoi decidono di farla convolare a nozze con un uomo rimasto da poco vedovo, lei rimane interdetta. Non c’è amore, grida a gran voce. Quando lui però fa notare che l’amore non sia necessario, le cose vanno veloci. La narratrice/nipote chiama nonno quell’uomo pratico e non interessato alle dicerie, alle cattiverie gratuite di chi considera la sua futura moglie una pazza da rinchiudere in manicomio.

All’inizio è un legame tiepido. Sono coinquilini. Lei è un’artista, in tutti i sensi. Per come vive la sua vita, sì, ma anche per le sue qualità di poetessa, di scrittrice. È un po’ in aria, nel senso buono dell’espressione. Non si conforma alla società, alle sue assurde e banali regole. Poi, la svolta. Non è proprio amore, il loro, ma diventa un legame fatto di rispetto, normalità e sesso. Sesso senza remore né paure. Sesso senza religione e senza timori. Senza tabù. 

Quando va alle terme per trovare un rimedio ai calcoli renali – Mal di pietre è un calco dal sardo che indica proprio i calcoli renali –, conosce un uomo distinto. Il Reduce. Menomato dalla guerra, attraente e colto. Se ne invaghisce. Finito il problema, fa ritorno alla sua vecchia vita. Rimane tutta la vita divisa tra due fuochi, amando sì il marito ma bramando anche il Reduce.

È un amore vagheggiato, idealizzato, quello che si trova nell’opera di Milena Agus. Un amore fatto di stranezza ma anche di normalità – perché chi è strano e chi è normale, in questo nostro mondo?

Un libro che tratta di amore – perché l’amore ha infinite sfumature –, di diversità, di pregiudizi, di vite particolari vissute in modo particolare. Un libro che si legge in un pomeriggio ma che regala tanto, che stupisce tanto. Un libro che è diverso da qualunque altro si sia letto in precedenza, con uno stile talmente particolare che  si potrebbe riconoscere una pagina scritta dalla Agus tra mille. Un libro dall’immenso valore.

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Stefano Labbia, "I giardini incantati"

10 Agosto 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #poesia

 

 

I giardini incantati

Stefano Labbia

 

Talos Edizioni, 2017

 

Una raccolta di liriche discorsive, persino dialoganti a volte, che raccontano momenti di vita, soprattutto coniugale, o comunque un difficile rapporto con se stessi e le donne di oggi e di ieri. Un uomo insoddisfatto, il protagonista di queste poesie, che rimpiange il passato e teme un futuro troppo simile al presente.

L’interlocutore, l’altro da sé, è quasi sempre la donna: moglie, amante, arpia, nemica. Un sentimento che non è generica misoginia ma fastidio nei confronti di alcune persone specifiche, di una donna, in particolare, alla quale il protagonista si è legato con squallide catene, cosicché vive la vita per modo di dire, come purtroppo capita a molti di noi: non sentirsi più vivi, provare astio, rabbia e rancore per chi ci sta a accanto, sentirsi artefici del proprio male e chiusi in gabbia, sognando al contempo tutte le possibilità di un’altra esistenza, più piena, più ricca di emozioni autentiche, e un domani luminoso che non arriva mai.

Lo stile è semplice, crepuscolare, le ripetizioni rafforzano i concetti e illanguidiscono il verso, le domande insistenti, spesso retoriche, cercano di fare chiarezza là dove, ahimè, forse tutto è già chiaro e immobile. E c’è anche, a tratti, un sottile amaro sarcasmo (se solo pagassi tu) che ci mostra il risvolto meschino di una realtà che sarebbe tragica se non fosse anche ridicola.   

Concludiamo questi brevi cenni con una delle migliori poesie

 

 

A Rina

 

Decantavi il valore di ogni singolo respiro,

ogni istante,

ogni fugace momento,

colla tua piccola insenatura,

al lato della bocca

ed il tuo piccolo difetto

dietro al collo.

Petali rossi

si dischiusero

per assaporare il vento...

Poi un tintinnio,

lontano,

ti fece voltare

dalla parte sbagliata.

 

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CIRCEO FILM ARTE CULTURA

9 Agosto 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #cinema, #eventi

 

 

 

 

 

CIRCEO FILM ARTE CULTURA
San Felice Circeo (LT) – 23/26 agosto 2017

 

Proiezioni di lungometraggi, corti sul mare, incontri pubblici con personaggi del mondo del cinema, cultura, musica, sport, moda e la presenza, tra gli altri, di Ambra Angiolini, Alessio Boni, Maria Grazia Cucinotta, Marco Giallini, Ricky Memphis, Primo Reggiani, Anna Foglietta, Lillo Petrolo, Ninni Bruschetta ed Enrico Brignano.

 

INGRESSO GRATUITO FINO A ESAURIMENTO POSTI

 

 

Si tiene a San Felice Circeo (Latina) dal 23 al 26 agosto 2017 il Circeo Film Arte Cultura, kermesse culturale promossa dal Comune di San Felice Circeo, in due location prestigiose e suggestive, Piazza Luigi Lanzuisi e, per gli eventi speciali, Vigna la Corte. La rassegna – a ingresso gratuito fino a esaurimento posti - è realizzata in collaborazione con l’associazione culturale Four Events, il coordinamento artistico di Francesca Piggianelli e la direzione artistica del regista Paolo Genovese. Conduttrici della rassegna Tosca D’Aquino, Matilde Brandi e Flora Canto.

Tra gli artisti attesi – del mondo del cinema, della cultura, dello sport, della musica e della moda - oltre al regista e “padrone di casa” Paolo Genovese, Ambra Angiolini, Enrico Brignano, Alessio Boni, Maria Grazia Cucinotta, Marco Giallini, Marco Belardi, Anna Foglietta, Ricky Memphis, Francesco Apolloni, Roberto Capucci, Ninni Bruschetta, Primo Reggiani, Francesco Montanari, Lillo Petrolo, Enrique del Pozo e tanti altri.

Sarà una vera e propria Festa del Cinema – dichiarano gli organizzatori dove i colori dell'arte si andranno a mescolare alle emozioni dei film. Verranno omaggiate le eccellenze del mondo del cinema con produttori, registi, attori e sceneggiatori. Un grande evento e una vetrina per raccontare i film e i loro protagonisti con i quali condivideremo degli incontri e dei dibattiti per entrare nel vivo delle diverse maestranze”. La rassegna è patrocinata da: Mibact – Direzione Generale Cinema; Regione Lazio; Comune di San Felice Circeo; Roma Lazio Commission.

 

 

Per maggiori informazioni
Associazione culturale Four Events - Presidente Elisabetta Napolitano
fourartevents@gmail.com
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