C'era una volta la Romagna: il raccolto
Al tempo della mietitura si andava tutti nei campi, anche i bambini, presi dall'euforia dell'occasione, si rendevano utili spostando mannelli, piccoli fasci di spighe, o portando da bere ai mietitori. Finito il raccolto si trasportavano a casa i covoni e si faceva una grossa bica (o barcone) a forma di parallelepipedo con grandi spioventi. Il giorno della trebbiatura era una vera festa. Si sentiva in lontananza il battito di un trattore che si avvicinava lentamente trainando una lunga carovana composta da macchina per la trebbia, scala, carretto dei carburanti e lubrificanti. Enorme, arancione, si presentava come una grande cassa di legno, montata su un carro a quattro ruote della lunghezza di circa sei o sette metri, e arrivava nell’aia come un mostro, impegnandola quasi completamente. Al seguito venivano tutti gli uomini a salario che avrebbero aiutato nel compito di prendere i covoni, scaraventarli dentro una specie di grosso imbuto in cima a quel diavolo rumoroso e ansimante, che sbuffando faceva uscire inspiegabilmente da sotto il grano in chicchi, mondato dalle spighe, mentre la paglia usciva da dietro, raccolta in balle legate col filo di ferro. Noi bambini restavano a bocca aperta nel vedere tale trasformazione e confabulavamo chiedendoci chi fosse nascosto dentro quel grosso cassone, e quanta fatica doveva fare per lavorare così bene, in fretta e al chiuso. Spesso, troppo spesso, si rompeva la grossa cinghia di trasmissione che dal trattore faceva funzionare la macchina trebbiatrice, e allora si sentiva volare dalla bocca degli operai addetti ogni sorta di imprecazioni per santi e madonne. A noi scappava, maliziosamente, da ridere, e il nonno, arrabbiato, ci prendeva a scappellotti perché, misteri della fede, “un uomo in un momento di nervoso poteva anche bestemmiare, ma un bambino mai e poi mai doveva sentire!”
Gli uomini, col cappellaccio calato fin quasi sugli occhi per difendersi dalla polvere e dalla pula che volavano intorno, si proteggevano il viso con grossi fazzoletti legati dietro la nuca, che coprivano naso e bocca, tanto da sembrare quei banditi che vedevamo sui giornaletti di Tex Willer assaltare le diligenze. Così fantasia su fantasia ci mettevamo anche noi il fazzoletto e iniziavamo a correre battendo la mano sul sedere come se stessimo incitando un cavallo e giocavamo a rincorrerci, “indiani e cowboy”, urlando e saltando per tutta l'aia.
Mente noi giocavamo, per parecchie ore si udivano, martellanti, il battito frenetico del trattore e il rombo cupo della trebbiatrice. Anche in lontananza si poteva vedere il polverone sollevato, mentre le biche dei covoni calavano e contemporaneamente crescevano i pagliai.
Il grano raccolto in grossi sacchi di tela di juta veniva accatastato nel granaio e sarebbe stato in parte venduto dal nonno al mercato e in parte portato al mulino per ottenere la farina necessaria alla famiglia tutto l'anno: pane e pasta si facevano ancora in casa.
Infine una parte di grano si conservava per la semina successiva. Il nonno faceva depositare questa grande quantità di chicchi in una stanza vuota della casa vecchia, la stanza veniva riempita per tutta l'ampiezza e quasi per metà in altezza. Alla porta d'ingresso mettevano di traverso un grosso asse di legno che non consentisse al grano di spandersi all'esterno, ma per noi era perfetto da usare come trampolino per piacevolissimi tuffi nella nostra “piscina privata”. Incuranti della polvere del grano che mordeva le carni, affondando nei chicchi profumati e morbidi che si modellavano lentamente sotto il nostro peso, immaginavamo di essere al mare e di nuotare incalzati dalle onde verso l'isola del tesoro.
AMO LA TERRA
“Amo la terra che mi ha
partorito:terra di pianura,
nera e grassa che alimenta i
tralci e matura le messi.
Terra umida in cui è dolce
affondare le mani e piantare
profonde radici.
Amo la terra di rossa creta
dove correvo l’estate
graffiandomi i piedi,
“calanchi” che scivolano a
valle, si sciolgono, si
increspano, ondulati come il
mare.
Amo la terra secca e brulla
quando d’inverno il gelo
disegna arabeschi sulle zolle
nude e un giorno vi farò
ritorno:
lei si aprirà accogliendomi
nel suo seno e non avrò
freddo, non avrò paura nel
caldo abbraccio di mia
madre.
E poi sarò di nuovo viva: sarò
albero, sarò fiore.”