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Una casa di vento: incipit

14 Aprile 2020 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #walter fest, #pittura

Disegni di Walter FestDisegni di Walter Fest

Disegni di Walter Fest

 

 

 

 

 

Incipit de Una casa di vento di Patrizia Poli

 

Sale la scala a piedi, senza accendere la luce. Gli par di sentire Michela: «Hai tanto insistito per l’ascensore e ora non lo prendi?». Gira la chiave ed entra, lo accoglie la vampa dei termosifoni, s’infila in camera di suo figlio, subito sulla destra, con la porta spalancata perché devono averlo a portata d’orecchio anche mentre dorme. Si lascia cadere ai piedi del letto, il respiro pesante di Loris dà spessore al buio.

«Babbo.»

«Dormi, ciccio.»

«Perché ci hai messo tanto a tornare?»

«Ho fatto un giro, si sta bene fuori.»

«Volevo salutare il nonno.»

«Poi un giorno ti ci porto, ora dormi, è quasi l’alba. Cazzo, hai di nuovo la tosse.» Gli sistema il lenzuolo sotto il mento, poggia le labbra sulla fronte che è appiccicaticcia, sgradevole, calda. «Buonanotte, per quel che ne resta.»

«Buonanotte, babbo.»

Spera che si riaddormenti, che non stia sveglio nei suoi laghi di sudore, nelle sue tossi convulse che grattano la gola. Va in camera sua, si spoglia, lascia cadere gli abiti sul parquet, tutti in un mucchio solo, sa che domani Michela si arrabbierà anche per questo, ma adesso non importa, adesso è così e basta. Si stende accanto a lei. Odori e scricchiolii prendono corpo dall’oscurità. Il ticchettio della sveglia, il puzzo dei calzini che ha tenuto su tutto il giorno, la tosse di Loris, secca e raschiante, il gatto che russa fra le gambe di sua moglie. Non saprebbe dire se lei dorme o fa finta, in ogni caso è molto tardi, è stanco e non gli va di parlare. Gli occhi, però, rimangono aperti e si adattano pian piano all’oscurità della camera. Comincia a intravedere il profilo di Michela. La frangia liscia arriva fino al naso, che è grosso, la bocca è come un taglio nella faccia, solo il labbro inferiore è carnoso, l’altro è sottile, lungo. Ha un accenno di doppio mento che s’intensifica non appena ingrassa. La conosce a palmo a palmo, anni fa la percorreva con la lingua dalla fronte alle dita dei piedi, imparando il sapore dei suoi orifizi, dei suoi umori nascosti, della sua pelle, delle prime increspature che non erano ancora rughe. Ora lei non ha più un odore suo, sa di bagnoschiuma, di candeggina, di gatto. Un piede lo sfiora poi si ritrae, è freddo, con le unghie che tagliano.

Lei sente il suo sospiro e si gira nel letto, si è svegliata o forse non dormiva. Non apre bocca, però, non lo consola. Lui avrebbe tante cose da dire, le parlerebbe di come suo padre gli metteva una mano sulla spalla solo per farsi fotografare, di quando gli strappò la maglietta di dosso per punirlo, di come non era mai contento dei voti che portava a casa, di quella volta che lo sgridò perché, colorando l’album, era andato fuori dai contorni. Parlerebbe anche volentieri di tutti quei silenzi a cena, della mano di sua madre che stringeva la padella così forte da far cadere la frittata. E pure del famoso materasso, sì, che suo padre insisteva per portarlo giù, nel fondo dove trascorreva tutte quelle ore di pomeriggio dopo il lavoro, e sua madre a chiedergli perché non lo butti e perché ti fai sempre la barba dopo mangiato. Parlerebbe di tutte queste cose per vedere se quel blocco di pietra che ha sul cuore potrebbe spostarsi un pochino. Prima lei lo avrebbe anche ascoltato, pure tenendolo abbracciato, a quei tempi là, quelli della Uno. Ora gli direbbe solo: «Me l’hai già detto, che ci vuoi fare, è così.»

In una notte come questa, la notte che hanno appena tumulato tuo padre in quello schifo di loculo di cemento, Cristo santo, non dovresti fissare il soffitto, dovresti stare fra le braccia di tua moglie che ti dice «piangi amore mio sfogati», come si vede nelle fiction. A quel tempo là parlavano, quando fermavano la macchina sulla strada del Castellaccio - e la macchina non era quella di adesso e nemmeno quella prima, era la vecchia Uno - in quel posto dove di notte si vedono tutte le luci della città e delle navi in rada. Allora stavano mano nella mano per tutto il tempo, si guardavano la bocca, si baciavano. La lingua di lei cercava la sua, prima come un guizzo sulla punta, poi a fondo, fino alla gola, fino al palato, e lui rispondeva subito, la stringeva, la stritolava. E si raccontavano ogni cosa, parlavano fitto, le lucciole entravano dal finestrino, accendevano l’abitacolo d’estate, i fiati appannavano i vetri d’inverno, in macchina c’era odore del vino che avevano bevuto, del profumo di marca che lei si metteva, di sudore buono. «Chissà come saranno i nostri figli, chissà dove saremo noi fra qualche anno» gli diceva lei. Qui siamo, cazzo, qui, in questa stanza che hai arredato tu e ora non ti piace, con te che smani per le caldane e Loris che si gratta e respira male. A quei tempi lo avrebbe consolato, lo avrebbe stretto al cuore, magari avrebbe anche pianto con lui. Di piangere, lei, ha smesso da tanto. La musica si è spenta, l’amore evaporato come acqua di mare rimasta fra gli scogli. Quando l’acqua se ne va, rimangono cristalli aguzzi e amari, rimangono denti di cane che, se ti ci siedi sopra, strappano il costume, rimangono erbe marine che bucano, forse non sono erbe ma bestie con le chele, rimane il sale, proprio preciso a quello che lasciano le lacrime sulla pelle.

Dentro si sente come se avesse attraversato il deserto dimenticando a casa la borraccia. Il viso s’inumidisce, suda ghiaccio nella camera surriscaldata. Sono costretti a tenere quella temperatura per Loris, ma l’autunno è mite, un novembre che sta per diventare dicembre senza che nessuno se ne accorga, dicono che il freddo, però, quello vero, sia in arrivo a giorni. A suo padre il freddo dava parecchio fastidio negli ultimi tempi, stava ingobbito nella poltrona, non si voleva lavare. Francesco si annusa le mani, ci sente l’odore dell’olio con cui hanno lucidato le panche della chiesa e anche la bara. Forse usano lo stesso prodotto per tutto quello che è collegato alla morte. La bara è entrata nel loculo con una traiettoria sicura, forse l’unica certa della vita. Lui ha guardato Michela, sperando di vedere qualcosa, di cogliere uno di quei tic che indicano turbamento, magari anche solo la gola che deglutisce, ma lei aveva la solita espressione di sempre. Michela fa tutto quello che deve fare ma poi te lo rinfaccia, con gli occhi, con la postura del corpo. E lì lui si è spaventato, ha capito che si muore, che un giorno ti svegli ma non vai a letto la sera, apri il diario ma non ci scrivi, apri bocca ma non respiri, come suo padre all’ospedale che spalancava la gola e si sentiva il rumore attraverso la laringe. Ha capito che toccherà anche a Loris, che succederà presto, e che loro non possono farci nulla. Lui è padre ma non può proteggere suo figlio, non può difenderlo, può solo aspettarne la morte, che è innaturale, fuori dall’ordine normale delle cose. Ma stanotte deve accantonare per un momento persino il pensiero di Loris e concentrarsi solo sul proprio padre, congedarsi da lui come si deve. Di parole fra loro ce ne sono sempre state poche. Suo padre era quello che montava in silenzio le ruote del triciclo e poi stava a guardare mentre lui andava su e giù ai giardinetti spelacchiati della Questura. Quando si voltava, lo vedeva distratto che si fissava le scarpe.

Si gira nel letto, dà la schiena a sua moglie, prova a dormire. Lei soffia nel buio, forse sospira o forse è stato il gatto, o il primo inizio di vento dietro la tapparella.

 

 

Ormai è giorno, c’è una luce grigia che sporca la camera. Si alza, va in bagno a urinare, si prepara un caffè con la macchinetta a capsule compatibili. Michela si è alzata prima di lui e ora gli dà le spalle, con i polsi affondati nella schiuma del lavello.

«Il bimbo?»

«Dorme, meno male.»

«E allora lascialo dormire, non fare tutto quel casino. Perché non dai la via alla lavastoviglie invece di rigovernare?»

«Per due piatti? Non c’eri ieri sera a cena. Non ci sei mai.»

«È morto mio padre, te lo sei scordato? Avevo bisogno di un po’ d’aria, di schiarirmi le idee, di stare da solo.»

«Se eri da solo, non lo so.»

«Sempre gli stessi discorsi del cazzo.»

Lei si volta per metà: «Stare insieme a te è come lanciarsi tutti i giorni a testa bassa contro un istrice. E io sono stufa, stufa, stufa di dissanguarmi. Voglio un po’ di pace. Non mi va di litigare sempre.»

«Nemmeno a me, ma siamo quello che siamo.»

Vederla dibattersi come una farfalla intrappolata sotto il bicchiere della sua indifferenza gli procura una certa soddisfazione sadica, deve ammetterlo. «Io vado.»

«Sì, è meglio.»

Esce senza nemmeno radersi. Il gatto si piazza accanto alla porta e lo fissa, come per chiedergli dove vai così presto, dove cazzo vai tutti i giorni a quest’ora, che bisogno c’è di uscire all’alba se l’ambulatorio apre alle dieci? Ma non ce la fa a rimanere, non ce la fa vedere Loris che si sveglia e comincia subito a sudare e tossire, che lo guarda con quegli occhi imploranti. E non ce la fa a rimanere con lei, perché dovrebbe trovare parole diverse, parole morbide che non gli escono più di bocca da tanto tempo, dovrebbe avere il coraggio di toccarla, di stringerla fra le braccia e chiederle: «Com’è che ci siamo ridotti così? Siamo noi, cazzo, siamo ancora noi, Francesco e Michela, siamo tu ed io.»

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