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Narrare e leggere "belle storie"

14 Settembre 2018 , Scritto da Laura Nuti Con tag #laura nuti, #cultura, #educazione, #miti e leggende

 

 

 

 

Poiché non si può parlare di lettura senza parlare di libri, inizierò col raccontare qualcosa che ha a che fare con uno dei miei autori preferiti, Robert Louis Stevenson... Come è noto, nel 1889, a trentanove anni, Stevenson si trasferisce con la famiglia nelle isole Samoa, dove rimarrà fino al termine della sua breve e intensa vita. In questi anni di permanenza, Stevenson si meriterà dagli indigeni il nome di “Tusitala”, cioè “colui che racconta belle storie”, in particolare quelle della tradizione della Scozia, di cui era originaria la sua famiglia. Scrive Stevenson nel suo libro-diario “Nei mari del Sud”:

 

Quando volevo cercare qualche particolare di un costume selvaggio o di una credenza superstiziosa, frugavo indietro nella storia dei miei padri e ripescavo qualche tratto di eguale barbarie: Michael Scott, la testa di Derwentwater, la seconda vista, lo Spirito delle acque, ciascuno di questi ho trovato che funzionava come esca; la testa del toro nero di Sterling mi ha procurato la leggenda di Rahero; e ciò che sapevo dei Cluny Macpherson o degli Appin Stewart mi permise di conoscere i Tevas di Tahiti e mi aiutò a capirli. L’indigeno non si vergognava più, il suo senso di fratellanza cresceva e le sue labbra si aprivano”. (1)

 

Stevenson è orgoglioso di saper comunicare con queste persone con questi “ascoltatori e  narratori di storie”,(2) come egli li chiama. Così descrive una serata di veglia trascorsa in compagnia di uno straordinario narratore delle isole Paumotu: “Stretti intorno alla lampada serale, col sottofondo della risacca, pendevamo dalle sue labbra, emozionati” (3). Un intero capitolo di “Nei mari del Sud” è dedicato alla “storie cimiteriali” raccontate da costui, storie che venivano narrate durante le veglie funebri per esorcizzare la paura della morte e per consolare.(4)

Il 3 dicembre 1894, Robert Louis Stevenson si spegneva all’improvviso, colpito da emorragia cerebrale. Il suo biografo, Graham Balfour, racconta puntualmente la solenne cerimonia funebre: i capi indigeni, grati allo scrittore per essersi opposto alla colonizzazione americana e tedesca delle Samoa, aprirono in poche ore una strada nella foresta perché Stevenson, com’era suo desiderio, potesse essere sepolto sulla cima del monte Vea, “alto sui litorali bianco e celesti dell’isola di Upolu”, ai piedi del quale aveva costruito la sua casa, “una casa grande, e con un  grande e inutile caminetto di pietra, e un’ampia veranda affacciata sul panorama” (5)

Certo, Stevenson si guadagnò la riconoscenza degli indigeni per essersi opposto alla colonizzazione tedesca ed americana delle isole Samoa, ma si può di certo pensare, e mi piace pensare, che è anche al fascino delle storie da lui raccontate che deve gli onori che gli indigeni gli tributarono seppellendolo in cima a quel monte. Non sappiamo quanto le sue storie fossero comprese nel loro profondo significato, se la loro struttura fosse evidente, se i personaggi fossero individuati nelle loro caratteristiche, e francamente questo non è  affatto importante; ciò che conta è il fascino che quelle storie emanavano, la suggestione, la magia: sono questi i fili invisibili che hanno incatenato gli abitanti delle Samoa, così diversi per cultura, lingua, tradizioni, visione del mondo, ad un grande scrittore dalla strana vita proveniente dall’altro capo del mondo, e lui a loro; e ciò che ha reso possibile questo legame è stata proprio la narrazione, l’incanto della parola, della voce umana.

Stevenson quindi, fornisce “indicazioni didattiche” molto utili a chi vuol sperimentare nuovi modi per motivare alla lettura: un ambiente caratterizzato dalla piacevolezza, dall’intimità e dalla presenza della voce umana, la gratuità del raccontare, l’amore che il narratore nutre per le sue storie, la narrazione che veicola la letteratura e in genere l’insegnamento...

Queste indicazioni le ritroviamo anche in Daniel Pennac, autore contemporaneo di romanzi per adulti come Il paradiso degli orchi, La fata carabina, La prosivendola e di Signori bambini. Pennac, in Come un romanzo, un saggio piacevolissimo e molto stimolante che appunto si legge  come un racconto, affronta il problema della disaffezione alla lettura nei giovani e indaga sul perché il libro si stia sempre di più trasformando in una “muraglia” che ci separa dai nostri figli e dai nostri allievi.

Nel saggio Pennac parte dalla sua esperienza di genitore di un ragazzo che non ama leggere e ripercorre all’indietro le tappe che hanno portato il figlio a questa disaffezione, un “male” che colpisce anche gli alunni del liceo parigino dove l’autore insegna francese. Così inizia il suo libro:

 

“Il verbo leggere non sopporta l’imperativo, avversione che condivide con alcuni altri verbi: il verbo “amare”... il verbo “sognare”... Naturalmente si può sempre provare. Dai, forza: “Amami!”, “Sogna!” “Leggi!”... Risultato? Niente.”(6)

 

Questa avversione alla lettura, continua Pennac, diventa una muraglia perché è veramente inconcepibile per noi, soprattutto “...se apparteniamo a una generazione, a un’epoca, a un ambiente, a una famiglia dove la tendenza era piuttosto quella di impedirci di leggere. ‘Ma smettila di leggere, insomma, ti rovinerai gli occhi!... Spegni la luce! E’ tardi!... Leggere a quei tempi era un atto sovversivo. Alla scoperta del romanzo si univa l’eccitazione di disobbedire alla famiglia. Duplice incanto! Oh, il ricordo di quelle ore di lettura rubate sotto le coperte alla luce di una torcia elettrica!”(7). Dopo aver riflettuto su se stesso bambino, Pennac riflette su se stesso genitore:

 

“Siamo giusti: non abbiamo pensato subito di imporgli la lettura come dovere. All’inizio abbiamo pensato subito al suo piacere. I suoi primi anni ci hanno messo in uno stato di grazia e l’assoluto stupore dinanzi a questa nuova vita ci ha conferito una sorta di genialità. Per lui siamo diventati narratori. Dal primo sbocciare in lui del linguaggio abbiamo incominciato a raccontargli delle storie. Era un talento che ignoravamo di avere... Se invece non abbiamo avuto questo talento, se gli abbiamo raccontato le storie di altri, e anche piuttosto male, cercando le parole, storpiando i nomi propri, confondendo gli episodi... poco importa. E se anche non abbiamo raccontato affatto, se ci siamo limitati a leggere a voce alta, eravamo il suo romanziere, il narratore unico grazie al quale ogni sera lui si infilava nel pigiama del sogno prima di scomparire sotto le lenzuola della notte. O meglio, eravamo il Libro. Ricordatevi di quell’intimità così ineguagliabile. Come ci piaceva spaventarlo per il puro piacere di consolarlo! E lui, come chiedeva quello spavento! Già così poco credulone, eppure tutto tremante di paura. Un vero lettore, insomma... Che pedagoghi eravamo, quando non ci curavamo della pedagogia!” (8)

 

Anche Pennac, quindi, ci invita a creare ambienti “caldi”, leggere per il piacere di farlo, e soprattutto a narrare, legando quindi strettamente lettura e narrazione.

La narrazione, infatti, “è una delle forme di discorso più diffuse e più potenti della comunicazione umana”(9) Fra le sue straordinarie caratteristiche ha quella di ordinare in sequenza gli eventi, di renderli lineari, di collegarli logicamente, ma anche di elaborare ciò che esula dalla norma, “l’elemento insolito”, e quindi di dargli significato. La curiosità del bambino verso il nuovo, l’inusuale, il divergente, che diventa nell’adulto desiderio di conoscenza, amore per la ricerca e la scoperta, potrebbe avere qui le sue radici. La narrazione infatti investe fin dall’inizio la vita dell’uomo: i concetti di bene e di male, i valori, i comportamenti, i canoni estetici ecc., vengono trasmessi al bambino attraverso racconti ed egli, a sua volta, per rapportarsi al mondo, impara a raccontare attraverso suoni, gesti, parole, frasi che l’adulto trasforma in storie, in comunicazione. Il meccanismo della narrazione è così connaturato all’uomo che i bambini comprendono le storie ancora prima di aver appreso a parlare ed avanza l’ipotesi che “la struttura della grammatica umana potrebbe aver avuto origine da una pulsione protolinguistica a narrare.”(10)

Narrare quindi, e narrare belle storie” a casa e a scuola, creando ambienti gradevoli dove il clima sia quello descritto da un altro dei miei autori preferiti, Italo Calvino, nella prefazione al suo libro “Se una notte d’inverno un viaggiatore”:Mettetevi comodi...”

La lentezza, la piacevolezza, la gratuità: modi di essere spesso sconosciuti a scuola. Ci sono i programmi da finire, le verifiche da fare, e poi le aule sono disadorne, i banchi rotti, la luce fredda... Chi di noi, anche se appassionato lettore, amerebbe immergersi nel suo libro in un ambiente simile? Allora, per prima cosa, creiamo con i ragazzi un luogo nuovo, “nostro”, dove stare bene. Se nella scuola c’è uno spazio che nessuno utilizza, si può trasformare in un luogo magico, dove perdersi nelle storie (“Siate maghe!” raccomanda Pennac alle bibliotecarie, e l’invito potrebbe di certo estendersi a tutte le insegnanti, “e i libri voleranno direttamente dagli scaffali alle mani del lettore”) (11). Si può trasformare, ad esempio, in una sala oscurabile, quasi buia, dove gli alunni stanno seduti su tappeti o stuoie; si chiede loro di rilassarsi come desiderano; l’insegnante legge in modo lento ed espressivo, illuminata da un faretto; al termine della lettura si rimane per un poco in silenzio (Pennac suggerisce di non uscire bruscamente dalle storie...), poi l’insegnante invita gli alunni a sedersi in cerchio, all’indiana, e, senza accendere la luce, chiede loro come sono stati, se sono riusciti a concentrarsi, se c’è un’immagine che li ha particolarmente colpiti, se questa immagine suscita in loro ricordi personali o di altre storie; nelle risposte si segue l’ordine del cerchio, ma nessuno è obbligato a parlare... Se lo spazio non c’è, si può trasformare la propria classe: ognuno porta da casa un cuscino, da conservare insieme a quelli dei compagni dentro un grande sacco “parcheggiato” in un angolo della classe insieme ad una stuoia o ad un tappeto, e quando è il momento opportuno, si stendono stuoie e tappeti, il sacco si apre, le finestre si chiudono un poco, l’insegnante si siede in mezzo ai ragazzi, apre il libro e... comincia il viaggio nelle storie!

Come avrete notato in questi piacevoli luoghi si legge ad alta voce. Insieme alla narrazione, questo tipo di lettura è un altro “mezzo magico” troppo spesso trascurato. “Il leggere con forte motivazione e partecipazione emotiva, e quindi con gioia e gratificazione personale, è la vera decisiva pratica che deve mirare a promuovere una valida educazione alla lettura” (12), e la lettura ad alta voce, contrariamente a quanto spesso si ritiene, stimola il desiderio di leggere attraverso il suono, il ritmo ed anche la gestualità. Questi preziosi strumenti della comunicazione, che non vengono utilizzati nella lettura, facilitano la comprensione del testo e lo rendono più piacevole arricchendolo di quella “teatralità” che rende tanto accattivanti i mass-media:

La narrazione non può essere senza voce”, scrive Bruner.(13)

Infatti “...leggere significa stabilire una relazione attraverso il tatto, la vista, l’udito (le stesse parole risuonano). Si legge con tutto il corpo... Le parole, il modo in cui si succedono, le ripetizioni, la loro musica, il loro corpo affascinano. E il piacere viene leggendo, inspiegabile e desiderabile” (14); e nella lettura, “la voce della madre, del padre (del maestro, del professore) ha una funzione insostituibile... per la promozione del libro da mero oggetto di carta stampata a ‘medium’ affettuoso, a momento della vita” (15)

James Joyce a chi lo accusava di scrivere opere troppo complesse, rispondeva che tutti sarebbero stati in grado di capirle se fossero state lette ad alta voce.

Quindi, attrezzare luoghi “caldi” dove narrare e leggere ad alta voce “Belle Storie”. Ma che cosa s’intende per “belle storie”? Quali racconti, quali libri possono essere definiti tali e quindi proposti perché possano catturare alla lettura?

Fra i dieci diritti del lettore elencati da Pennac nel suo già citato saggio, c’è anche quello di “leggere qualsiasi cosa” (16), sia i “buoni” che i “cattivi” romanzi, perché, come quelle del Signore, le vie della lettura sono infinite ed alla fine, se non si è stati demonizzati e repressi, arriva il momento in cui “al romanzo chiediamo qualcosa di più della soddisfazione immediata ed esclusiva delle nostre sensazioni”, e le buone letture  hanno la meglio sulla letteratura “usa e getta” che “si limita a riprodurre all’infinito gli stessi tipi di racconti, che fabbrica stereotipi a catena, fa commercio di buoni sentimenti e sensazioni forti, prende al volo tutti i pretesti offerti dall’attualità per sfornare una narrativa di circostanza...” (17)

Se questo è vero, esistono comunque “belle storie”, più capaci di altre di affascinare e quindi di motivare alla lettura? Italo Calvino aveva un’opinione in proposito. Nel suo libro “Perché leggere i classici” (il titolo è da leggersi come un’affermazione, e non come un interrogativo...) egli dà 14 definizioni di che cosa è un classico; ve ne propongo alcune fra quelle più significative per me:

“i classici sono libri che esercitano un’influenza particolare sia quando s’impongono come indimenticabili sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale...

... i classici sono libri che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti...

... il classico è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire...

... il TUO classico è quello che non può esserti indifferente e che ti serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui...

... si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati...

...le letture in gioventù possono essere poco proficue, per impazienza, distrazione, inesperienza delle istruzioni per l’uso, inesperienza della vita. Possono essere (magari nello stesso tempo) formative nel senso che danno una forma alle esperienze future, fornendo modelli, contenitori, termini di paragone, schemi di classificazione, scale di valori, paradigmi di bellezza: tutte cose che continuano a operare anche se del libro letto in gioventù ci si ricorda poco o nulla. Rileggendo il libro in età matura, accade di ritrovare queste costanti che ormai fanno parte dei nostri meccanismi interiori e di cui avevamo dimenticato l’origine. C’è una particolare forza nell’opera che riesce a farsi dimenticare in quanto tale, ma che lascia il suo seme... Naturalmente  questo avviene quando un classico “funziona” come tale, cioè stabilisce un rapporto personale con chi legge. Se la scintilla non scocca, niente da fare: non si leggono i classici per dovere o per rispetto, ma solo per amore. Tranne a scuola: la scuola deve farti conoscere bene o male un certo numero di classici tra i quali (o in riferimento ai quali) tu potrai in seguito riconoscere i “tuoi” classici. La scuola è tenuta a darti degli strumenti per esercitare una scelta...” (18)

Forse, tenendo conto di tutto questo, la classicità, la lettura dei classici, come elemento di identità culturale ma anche di apertura alle altre culture, come motivazione al leggere, chiave di accesso allo scrivere, stimolo al narrare, come contributo alla formazione della persona, potrebbe essere un elemento di continuità della scuola dell’obbligo. Se lavorare in continuità nella scuola significa soprattutto eliminare i “disturbi” che impediscono la progressiva formazione e crescita culturale e personale dell’alunno, quale disturbo più grande ci può essere della disaffezione alla lettura? Per tutte le caratteristiche che Calvino ci ha elencato, i classici possono essere considerati fra gli “apprendimenti significativi”, cioè quegli apprendimenti che rimangono nella memoria, sui quali è possibile saldare altre conoscenze e che motivano ad altri apprendimenti.

Scrive Pennac: “In argot (19) francese leggere si dice ‘ligoter’, che vuole anche dire ‘incatenare’. Nel linguaggio figurato un grosso libro è un ‘mattone’. Sciogliete quelle catene e il mattone diventerà una nuvola.”

La lettura dei classici, "facilitando” la riconciliazione fra i nostri ragazzi ed i libri, può contribuire forse a tale magia.

Ma quali classici si devono privilegiare nella scuola dell'obbligo? A mio parere, i racconti tradizionali, cioè le fiabe, le favole, i miti, le saghe e le leggende epiche, devono avere un ruolo fondamentale. Perché? Perché sono storie che “hanno una storia”, che vengono da lontano, che “hanno viaggiato attraverso il mondo e si sono colorate qua e là di sfumature, riferimenti, chiaroscuri attinti cammin facendo” (20); sono storie nate dalla narrazione, dalla tradizione orale (perciò si prestano ad essere narrate, raccontate) e sono divenute poi letteratura (perciò si prestano ad essere lette, indagate nella loro struttura, “ricalcate” per dar vita ad altre storie).

Questi racconti sono anche patrimonio della nostra cultura ed una identità culturale forte è importante proprio nel momento in cui ci si apre all’Europa e si incontrano, cosa che sarà sempre più frequente, altre culture. Non dimentichiamo fra l’altro che oggi le trame ed i motivi di questi classici sono conosciute dai ragazzi attraverso il cinema e la televisione. Ciò rappresenta un vantaggio per l’insegnante che può contare, contrariamente a quanto avviene quando si affrontano altri generi, su un repertorio a cui può fare riferimento.

Oltre a motivare, i racconti tradizionali servono a “leggere la realtà”: il linguaggio della pubblicità, dei giornali, dei mass-media in genere fa continuo riferimento ai classici (l’Odissea dei profughi, il governo è in un dedalo, è fra Scilla e Cariddi, quel ministro è più ricco di Mida, il delitto della Circe della Versilia ecc.); come pure la pittura e l’arte di tutti i paesi ed in particolare del nostro Rinascimento.

Spesso i grandi classici giungono nelle mani dei ragazzi attraverso riscritture e riduzioni. Molti si chiedono: è opportuna questa procedura? Non è forse lesiva della personalità dell’autore? Non è fuorviante per il lettore che crede di leggere il testo di un autore mentre in realtà legge l’interpretazione che di quel testo ha dato un altro?

A questi interrogativi, alcuni rispondono di sì, e si schierano nettamente contro le riduzioni e le riscritture; altri sostengono che dipende: dalla riduzione, dalla riscrittura, dal testo “trattato”. Ci sono storie che i bambini amano, che possono accendere in loro immaginazione e fare “da esca”, come diceva Stevenson, ad altre storie. I miti della classicità e le leggende epiche ne sono un esempio. Ma per un alunno della scuola dell’obbligo leggere in versione integrale le Metamorfosi di Ovidio, l’Asino d’oro di Apuleio, la Saga dei Nibelunghi, la Canzone di Orlando, il Cantare del Cid è impossibile e penso rappresenterebbe un deterrente infallibile verso qualsiasi desiderio futuro a proseguire nella conoscenza. Però queste storie ai ragazzi piacciono, e molto. Allora ben vengano le riduzioni e le riscritture, fondate però su una profonda conoscenza dei testi che permetta di rispettare le caratteristiche dell’opera e di raccontarla con un linguaggio capace di suscitare emozioni e di stimolare l’immaginazione.

Accanto a tanti denigratori delle riscritture, mi piace citare un autorevolissimo difensore dei classici a misura di bambino, Elia Canetti, che, a proposito delle sue prime esperienze di lettore, racconta:

 

Andavo già a scuola da qualche mese, quando accadde una cosa solenne ed eccitante che determinò tutta la mia successiva esistenza. Mio padre mi portò un libro. Mi accompagnò da solo nella stanza sul retro dove dormivamo noi bambini e me lo spiegò. Era le ‘Mille e una notte’ in un’edizione adatta alla mia età... Lui stesso mi lesse ad alta voce una storia: altrettanto belle sarebbero state tutte le altre. Dovevo cercare di leggerle da solo e poi la sera raccontargliele. Quando avessi finito quel libro, me ne avrebbe portato un altro... Mi gettai subito su quel libro meraviglioso e ogni sera avevo qualcosa da raccontargli. Lui mantenne la promessa, ogni volta c’era un libro nuovo... Era una collana di libri per bambini... Che collana stupenda e impareggiabile! Non ce n’è mai stata un’altra simile. I titoli li ricordo tutti. Dopo Le Mille e una notte vennero le fiabe dei Grimm, Robinson Crusoe, i viaggi di Gulliver, i racconti tratti da Shakespeare, Don Chisciotte, Dante, Guglielmo Tell. Mi domando come fosse possibile ridurre il poema per renderlo adatto ai bambini. Ogni volume aveva parecchie illustrazioni a colori che però non mi piacevano, erano molto più belle le storie (ecco un prezioso suggerimento per chi produce testi, antologie ecc troppo carichi di immagini e abbellimenti in genere...); non so se nemmeno oggi sarei in grado di riconoscere quelle figure. Sarebbe facile dimostrare che quasi tutto ciò di cui più tardi si è nutrita la mia esistenza era già contenuto in quei libri, i libri che io lessi per amore di mio padre nel mio settimo anno di vita. Dei personaggi che poi non mi avrebbero più abbandonato mancava soltanto Ulisse”(21)

Buone riduzioni, unite all’intimità ed alla voce paterna, hanno guidato questo bambino verso altissime mete; forse possiamo sperare in qualcosa di positivo anche per i nostri ragazzi.... Da Canetti ci viene anche un altro prezioso suggerimento: è bene ripensare a che cosa ci ha spinto ad essere lettori appassionati e poi, nel nostro caso, insegnanti appassionati perché questi due aspetti non possono essere disgiunti: 1989 “l’insegnante ... trasmette, per vie soprattutto indirette, il piacere da lui vissuto di leggere, ...‘contagia’ l’alunno  col suo amore della lettura” (22)

Un ultimo accenno alle rivisitazioni dei testi. Italo Calvino, per “giustificare” i suoi interventi sulle fiabe da lui raccolte, racconta di essersi fatto forte di un proverbio toscano: “la novella nun è bella se sopra nun ci si rappella”, cioè “la novella vale per quel che su di essa tesse e ritesse ogni volta chi la racconta, per quel tanto di nuovo che ci s’aggiunge di bocca in bocca” (23). Credo che questo possa valere per gli altri racconti tradizionali anch’essi figli della tradizione orale. Infatti è passando di bocca in bocca, di generazione in generazione, che i racconti tradizionali si sono sviluppati e arricchiti, sono mutati nei particolari perché cambiavano gli interessi e le caratteristiche di chi ascoltava; i temi centrali invece, i messaggi universali che questi racconti volevano trasmettere sono rimasti costanti nel tempo e sono giunti fino a noi. Rileggendo e raccontando con voce nuova antiche storie non si fa altro che camminare nella strada che esse percorrono da millenni e continuarne la trasformazione, per contribuire alla continua rinascita del mondo dell’immaginario.

 

 

(1)R.L.Stevenson, Nei mari del Sud, Mondadori, 1994

(2)R.L.Stevenson, Op.cit.

(3)R.L.Stevenson, Op.cit.

(4)La funzione “terapeutica” della narrazione viene utilizzata anche da Tilde Giani Gallino in Il fascino dell’immaginario, SEI, 1988, un libro che insegna ad usare l’immaginazione per dialogare con il proprio inconscio.

(5) R. L. Stevenson, Lettera al dottor Hyde, a cura di A.Bigongiali, Sellerio 1994

(6) D.Pennac, Come un romanzo, Garzanti, 1992

(7) D.Pennac, Op.cit.

(8) D.pennac, Op.cit.

(9) J.Bruner,“La ricerca del significato”, Boringhieri 1992

(10) J.Bruner, Op.cit.

(11) D.Pennac, Op.cit.

(12) F.Cambi-G.Cives, Il bambino e la lettura, ETS, 1997

(13) J.Bruner, Op.cit.

(14) Lionel Bellenger, Saper leggere, Editori Riuniti, 1980

(15) G.Rodari, Nove modi per insegnare ai ragazzi a odiare la lettura, in Scuola e fantasia, Editori Riuniti, 1992.

(16) D.Pennac, Op.cit.

(17) R.Valentino Merletti, Leggere ad alta voce, Mondadori, 1996

(18) I.Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori,1991

(19) argot: è il gergo dei malviventi parigini

(20) D.Demetrio, Agenda interculturale, Meltemi, 1990

(21) E.Canetti, La lingua salvata, Adelphi, 1991

(22) Maria Luisa Altieri Biagi, in  R. Cardarello- A. Chiantera (a cura di), Leggere prima di leggere. Infanzia e cultura scritta, La Nuova Italia, 1989

(23) I.Calvino, Fiabe italiane, Einaudi, 1988

 

 

 

 

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