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Seychelles:Un arcipelago ancora incontaminato la cui bellezza fa rimanere senza fiato.

8 Febbraio 2014 , Scritto da Liliana Comandè Con tag #liliana comandè, #luoghi da conoscere

Seychelles:Un arcipelago ancora incontaminato la cui bellezza fa rimanere senza fiato.

Il nome è indubbiamente melodioso e ricco di fascino esotico e chi non ha mai visitato anche una sola delle tante isole che ne compongono l’arcipelago, non può immaginarne la grande bellezza. Una bellezza che spazia dal mare limpido e cristallino alle bianchissime spiagge, dalla vegetazione rigogliosa, piena di colori e di profumi, alla popolazione creola ben predisposta all’accoglienza del turista. Nel mondo, fortunatamente, ci sono ancora alcuni luoghi incontaminati e le Seychelles, a pieno diritto, possono definirsi tali. Un Governo lungimirante, infatti, da molti anni ha a cuore la conservazione del suo ecosistema impedendo anche la costruzione di nuove strutture alberghiere per non alterarne l’equilibrio.

Niente turismo di massa, quindi, nessun sovrappopolamento in ogni periodo dell’anno. Tutto rimane circoscritto nell’ambito di un turismo che non altera l’armonia delle isole, della sua flora, della sua fauna e della sua popolazione.

Le Seychelles sono un grande patrimonio naturale da rispettare e conservare per tutta l’umanità. È questo il compito che i seychellesi si sono prefissati da tanti anni e che ogni “buon” turista, consapevole dell’importanza del mantenimento di un simile paradiso, dovrebbe aiutare a proteggere e a conservare. Un turista con una coscienza ecologica è il miglior turista che queste meravigliose isole possano ospitare.

Conosciamone un po’ la storia…

Le Seychelles, oltre 65.00 abitanti distribuiti su una trentina di isole in parte coralline e in parte granitiche, si trovano nell’Oceano Indiano a 1.100 Km circa a nord est del Madagascar e poco più a sud dell’equatore. Scoperte dai portoghesi nel XVI secolo, furono colonizzate dal francese L. Picault, inviato dal governatore delle Mascarene, che le chiamò inizialmente “Boudonnais”. Nel 1756 passarono alla Compagnia Francese delle Indie Orientali con il nome di Seychelles, derivato dal cognome dell’intendente generale delle finanze sotto Luigi XV, Moreau de Seychelles. Sotto Napoleone, invece, divennero luogo di deportazione di detenuti politici. Con il trattato di Parigi del 1814 le Seychelles vennero cedute agli inglesi ma nel 1976 hanno ottenuto l’indipendenza. I primi abitanti si stabilirono alle Seychelles un paio di secoli fa ed erano costituiti da schiavi liberati dalle navi negriere, da coloni di origine francese, da indiani e cinesi. Tutte queste unioni hanno dato origine alla bella razza creola che vive soprattutto a Mahè, e in particolare a Victoria, capitale e centro vivacissimo con il suo mercato pieno di banchi di pesce, di frutta esotica, di oggetti di artigianato locale e con un’incredibile miniatura del Big Ben londinese “ che campeggia” nella piazza centrale.

Le prime impressioni…

Appena si esce dall’aeroporto di Mahé, non si può fare a meno di notare che il paesaggio è molto più bello di quello che viene descritto da chi già ha avuto la fortuna di visitare le Seychelles. Si rimane stupefatti davanti alla vegetazione lussureggiante e varia. Ovunque palme, banani, felci, enormi acacie dai fiori rossi, fiori profumati, filodendri che si arrampicano sulle palme, alberi del pane, takamaca – tipico albero locale che cresce e quasi si adagia con il suo tronco e le verdi foglie sulle candide spiagge – e tantissime piante, che da noi raggiungono a malapena il metro di altezza, e qui, invece, sono alberi “vigorosi”.

Lontani dal traffico delle città, e liberi di respirare aria priva di smog, è facile farsi condizionare dai ritmi lenti e rilassati degli abitanti del luogo. Un inconsueto profumo di terra, piante, fiori e mare permea l’aria dell’isola più grande, così come quella di Praslin e La Dique – le altre due isole più conosciute dell’arcipelago.

Qui è tangibile il trionfo della natura rispetto all’uomo. Gli occhi si beano di tanto splendore e non possono fare a meno di ammirare le lunghissime e candide spiagge – orlate da alte palme e da takamaca – il mare, veramente incontaminato e di un colore che si fonde facilmente con quello del cielo; la fitta vegetazione, la varietà di uccelli che volano a bassa quota e sembrano non aver paura dell’uomo.

Vale proprio la pena di girare le isole e conoscerne sia i luoghi più nascosti e più belli, sia gli abitanti e il loro modo di vivere semplice e a stretto contatto con l’habitat. Al tramonto, in un’atmosfera che ha il sapore di tempi lontani, è facile incontrare gruppi di pescatori che sulla riva di una qualsiasi spiaggia scaricano dalle loro barche il pesce appena pescato. Nessuno grida, nessuno ha fretta, e il pesce viene spostato dalle piccole imbarcazioni con la massima calma.

Le semplici case dei seychellesi sono circondate da giardini nei quali gli alberi di papaya e banani sono carichi di buoni frutti. I bambini sono molto socievoli belli, con la loro pelle vellutata e gli occhi scuri, e si lasciano fotografare volentieri anche quando si incontrano all’uscita della scuola. Come in ogni altro posto del mondo – tranne in Italia – Indossano tutti ordinatamente la divisa scolastica, anche i ragazzi delle scuole superiori.

Cosa si può fare?

Oltre alle escursioni che si possono effettuare all’interno di Mahé, è consigliabile quella al Parco Marino di Sainte Anne. Un’immersione nel suo reef, con maschera e boccaglio, è una delle esperienze più entusiasmanti che si possano provare. La barriera corallina pullula di vita e la moltitudine di pesci e coralli variopinti la fanno quasi somigliare ad un giardino fiorito.

Il paesaggio sottomarino è quantomai affascinante: coralli rossi, blu, neri e bianchi, a gruppi o isolati, formano una specie di scenografia unica nel suo genere, mentre pesci di piccole e medie dimensioni e dai nomi curiosi, come quello di pesce-leone, pesce-angelo, pesce-Picasso – nuotano tranquillamente fra questi organismi viventi.

A chi piace tuffarsi in un mare dal colore inimmaginabile, ma non protetto dal reef, per cui è spesso “mosso” con delle alte onde, non deve perdere l’occasione di farlo ad “Anse Intendence”, dotata anche di una larga e bianca spiaggia sulla quale si può sostare in tutta tranquillità.

Praslin, candide spiagge e foresta primordiale

Non si può andare alle Seychelles e non soggiornare o visitare la sua seconda isola, per grandezza, Praslin. Di origine granitica e meno montagnosa di Mahé, Praslin ha le spiagge sabbiose di un colore bianco così abbagliante che è quasi impossibile guardare la sabbia senza indossare gli occhiali da sole. E’ ricoperta da una fitta e insolita vegetazione che raggiunge il suo culmine nella Vallée de Mai, foresta incontaminata e unico posto al mondo – e unica isola delle Seychelles – dove cresce spontaneamente quel frutto raro che è il “coco de mer”, così somigliante agli organi genitali maschile e femminile da suscitare sempre tanto stupore fra le persone che hanno la fortuna di osservarlo da vicino. Una leggenda locale narra che il suo nome derivi dal fatto che fosse il frutto di un grande albero sottomarino, mentre un’altra – più affascinante ma non credibile – racconta che l’accoppiamento delle due palme avviene nelle notti di tempesta e solo in quest’isola. Ma nessun essere umano può assistere all’incontro amoroso perché ne riceverebbe sciagure.

Nella Vallée de Mai è stato creato un percorso che permette di osservare questa specie di jungla primordiale nella quale, in alcuni punti, a malapena riesce a trapelare la luce. Fa impressione quando il vento fa muovere le palme perché le foglie, nello sbattere, riproducono un suono quasi metallico – simile a quello delle lamiere. Nella Vallée si ode soltanto il canto solitario di qualche uccello che rompe il silenzio di quel luogo incantato la cui bellezza selvaggia attira ogni anno numerosi turisti

Ma Praslin è nota anche per la bellezza di quella che qualcuno definisce la spiaggia più bella del mondo il cui nome, Anse Lazio (si, avete letto bene, è proprio Anse Lazio), ci sembra familiare perché è uguale a quello di una delle nostre regioni. Situata a nord ovest dell’isola, sulla sua bianchissima spiaggia c’è addirittura un piccolo lago nel quale si riflette il verde della vegetazione che ricopre un’altura situata alla sua sinistra.

Fa impressione vedere quello specchio d’acqua incastonato nella sabbia, ma anche le formazioni granitiche che si trovano sia a destra che a sinistra dell’ampia spiaggia, e che, se ci s’inoltra nei piccoli passaggi che ci sono nelle rocce – sulla parte sinistra – si può sostare nelle splendide insenature, tutte circondate da alti alberi di cocco i cui frutti cadono sulla sabbia. Descrivere lo splendido colore del mare e gli incontri “ravvicinati” che si effettuano con i suoi coloratissimi pesci potrebbe sembrare esagerato e ripetitivo, ma è la pura verità. Si può soltanto dire che è meraviglioso e indimenticabile poter nuotare in posti simili!

La Digue, i suoi graniti e la sua bellezza unica…

A circa 30 minuti di barca da Praslin c’è la Digue, intatto atollo dalle granitiche sculture e dalle inimmaginabili spiagge solitarie lambite da un mare trasparentissimo. Il suo fascino maggiore consiste nell’aver conservato l’antica atmosfera coloniale rifiutando – nei limiti del possibile – la modernità dei mezzi di trasporto meccanici.

Poche automobili sono adibite al trasporto delle merci, mentre per lo spostamento delle persone sono utilizzate le biciclette e alcuni carri trainati da buoi. Ma anche andare a piedi è piacevole perché in un’ora si riesce ad arrivare da una parte all’altra dell’isola. A La Digue, come in tutte le isole delle Seychelles, le palme sono le regine incontrastate della sua vegetazione, ma qui sono più alte che nelle altre isole.

Se ci si va a fine ottobre-novembre si possono osservare anche le numerose varietà di orchidee selvatiche che crescono nei cespugli che costeggiano i sentieri. La Digue è naturalmente protetta dal reef e le sue spiagge sono circondate dalle rocce granitiche che sembrano quasi volersi congiungere con il mare.

È su quest’isola che sono stati girati film come “Robinson Crosue” ed “Emanuelle”, perché ritenuto l’ambiente ideale per rappresentare – in quanto la ha – una natura incontaminata.

Le sue spiagge sono bianche o bianco-rosato e sono ricche di conchiglie e coralli (che è proibito, però, raccogliere). L’isola è nota per la lavorazione del cocco e della vaniglia ed è interessante visitare la “fabbrica” dove le noci di cocco vengono vuotate del guscio per prepararle alla trasformazione in olio da esportare poi all’estero. All’interno dell’isola, una grande roccia granitica e la visione di tartarughe giganti merita senz’altro una escursione.

Tanti motivi per tornare alle Seychelles…

Se si disponesse di molto tempo si potrebbero visitare anche le altre isole che compongono l’arcipelago perché ognuna è diversa dall’altra. Si potrebbe andare, ad esempio, a Denis Island, meta d’obbligo per chi pratica la pesca d’altura; a Bird Island, isola prediletta degli ornitologi e di chi ama il bird watching.

Da maggio a settembre, infatti, è il regno di oltre due milioni di uccelli che vi nidificano. Aldabra, inoltre, non è da trascurare perché è considerata una delle ultime meraviglie “al naturale”. È il più grande atollo al mondo – protetto e gestito dalla Fondazione isole Seychelles – nel quale vivono ancora allo stato selvaggio le tartarughe giganti. Ormai solo ad Aldabra e alle Galapagos si possono osservare queste enormi testuggini che altrove si sono estinte.

Ma le Seychelles meritano più di una visita anche per la sua gastronomia. La cucina creola, infatti, è l’esaltazione dei profumi e dei sapori dei prodotti naturali delle sue isole. Naturalmente gli ingredienti base sono il pesce e il riso sapientemente combinati con l’aggiunta di spezie esotiche. La frutta, poi, è veramente saporita: dalla papaya al mango, dal frutto della passione alle banane e all’ananas, si possono fare delle vere “scorpacciate” senza il timore di ingerire concimi chimici o degli OGM.

Liliana Comandè

Seychelles:Un arcipelago ancora incontaminato la cui bellezza fa rimanere senza fiato.
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Nemesi

7 Febbraio 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #racconto, #valentino appoloni

Racconto molto carico, con termini duri che si susseguono (sputare, stuprare, graffiare), la violenza è esacerbata, oltre che appunto dai termini e ovviamente dalla brevità del testo, anche dal luogo domestico che si immagina ristretto e di cui si focalizzano solo alcuni punti (come l’angolo della stanza); nello stesso tempo la dialettica tra la presunta serenità della casa in cui si sta e di cui si pensa di avere controllo quasi totale (come sarebbe in un contesto di normale quotidianità) e il repentino e angosciante svolgersi dei fatti, ridisegna il luogo del proprio vivere assegnandogli una pesante nuova dimensione. Il tutto senza che la protagonista possa più intervenire, potendo ormai solo subire e avere un ruolo passivo .. Un racconto che non lascia indifferenti. (Valentino Appoloni)

Il primo è stato l’aspirapolvere. Ha sputato invece di inalare.

Poi la lavapiatti ha cominciato a opacizzare tutte le stoviglie. Poi un piatto nuovo nuovo è caduto giù dal pensile di taglio sopra il tuo piede. E l’albero è crollato un numero sospetto di volte con tutte le palle che si sono frantumate e tu lì a ricomprarle come una cogliona a metà prezzo che ormai mancavano solo tre giorni a Natale.

Poi c’è stato il robot e hai avuto la conferma. Ha staccato a bella posta un pezzo di battiscopa, l’ha trascinato sul parquet appena fatto rilucidare e, con un chiodo, ha rigato tutto il pavimento. In modo coscienzioso, chiaramente intenzionale. Ora le rigature si vedono bene, sembrano ghirigori di una mano inviperita.

Il parquet… il parquet dove è successa la cosa. È successa lì perché era il posto più illuminato e occorreva luce per rasare il pelo, per inserire la cannula dell’ago in vena. È successa lì ma non doveva succedere lì, doveva essere sul letto, nell’incavo del tuo braccio, come avevi disposto, immaginato. Ma la realtà ci stupisce, ci previene, ci prevarica. L’incavo del tuo braccio si è trasformato in un pavimento di legno mai abbastanza caldo. Le lacrime concepite c’erano, sì, anche tante, ma c’erano anche discorsi fuori luogo, convenevoli, mezzi sorrisi, e quel tentare di convincerti che è giusto così. Ti hanno dovuto chiamare persino perché ti eri allontanata, perché non eri dove dovevi stare, lì con lui, a stringerlo, a carezzarlo, ti eri arresa al fatto che le cose non stavano andando come avresti desiderato. E non lo hai abbracciato che dopo, quando la testa già ciondolava, quando gli occhi erano sbarrati, quando dalla bocca usciva sangue. Ma poco, non quanto avresti voluto e dovuto, non con quella rassegnazione, quella dolcezza sfinita e infinita che avevi avuto con gli altri, piuttosto con un senso di azione irrimediabile, crudele, fredda. Col senso di rendertene conto solo a cosa conclusa, col senso di non essere in pace con la tua coscienza, di voler riportare le lancette indietro di un’ora e non farne più nulla.

Ti sei chiesta se lo hai fatto perché ormai era programmato, perché il veterinario aveva guidato per mezz’ora col tempaccio, perché non ce la facevi più a reggere l’agonia dell’incertezza, perché subentra un egoismo per il quale vuoi che tutto finisca, perché c’era da fare l’albero di Natale e venivano i parenti e tu, ancora, non avevi comprato nessun regalo.

È morto incazzato, ringhiando fino all’ultimo istante. Così, poi, di certo te l’ha fatta pagare, anche se ti ama ancora, anche se gli hai chiesto perdono mille volte. Perché di te si fidava come di nessuno, perché eri stata tu a salvarlo, ad allattarlo, perché non voleva morire anche se soffriva, perché voleva rimanere ancora abbracciato con te su quel letto e ti aveva messo la testa nella mano e si era pure sforzato di alzarsi, di mangiare, ti aveva fatto le fusa.

Ecco, da allora, le cose hanno cominciato a ribellarsi, a vendicarsi, si sono arrabbiate. La punta aguzza di uno sportello ti si è conficcata nella caviglia come l’ago nella vena, il mouse saltella e cerca di sfuggirti come lui per tutta la casa mentre lo rincorrevano con la siringa e, alla fine, il robot si è incaricato di stuprare il pavimento.

Sì, forse qualche rumore strano lo avevi sentito, forse c’era stato il suono dell’allarme quando un oggetto rimane incastrato fra le ruote e magari potevi anche alzarti e andare a vedere cosa succedeva. Ma non l’hai fatto, non ti sei voluta accorgere, ti sei tenuta a distanza anche lì. E così quel chiodo del battiscopa non era più fra le ruote (zampe?) del robot, ma era come fosse fra le tue dita, stretto fra i tuoi polpastrelli, a graffiare e rigare e incidere.

E vendicare.

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Marina "Morgatta" Savarese, "La Bruttina che conquista " e "Come tenersi un uomo"

6 Febbraio 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Marina "Morgatta" Savarese, "La Bruttina che conquista " e "Come tenersi un uomo"

La Bruttina che conquista

e

Come tenersi un uomo

Marina “Morgatta” Savarese

Edizioni Ink

Si prendono in mano questi due libretti rosa, “La Bruttina che conquista “ e “Come tenersi un uomo”, sottili sottili, con i disegnini invitanti in copertina e, diciamolo, magari dopo il tomo critico su Proust o su Hesse ci attirano pure parecchio per l’aspetto appetibile e vaporoso da chick lit, anche se qui non si tratta di romanzi. Le aspettative che ci creiamo sono due e vengono entrambe deluse: che i libriccini in questione siano scritti male, e non lo sono, e che dicano qualcosa di nuovo risolvendoci i problemi, e non fanno nemmeno questo.

Se siamo bruttine (nel caso specifico lo siamo) di certo coltiviamo la segreta e imperitura speranza d’imbatterci nel ricettario magico che ci trasformerà, nel consiglio di bellezza gratuito e miracoloso. Pia illusione.

“La Bruttina Sfiduciata la stima l’ha seppellita nel cassetto dei ricordi (e ha buttato via la chiave.) Forse l’ultimo complimento l’ha ricevuto al suo primo compleanno, quando, ancora incosciente, non capiva l’ironia della frase “che carina questa bambina”, classico riconoscimento di circostanza dove non è ammesso dire alla mamma che la sua pupetta è un mostriciattolo. Poi l’ha capito, che la bruttina se ne accorge anche da sola che è veramente bruttina. E la vita spalleggia sempre queste sue convinzioni, continuando a infierire con stilettate e piccole coltellate a ogni occasione, sgretolando ogni mattoncino di fiducia e ogni piccola conquista. E così la bruttina si adegua, si lascia colpire, si annulla, azzera i sentimenti e ogni tipo di aspettativa.”

La Savarese si dichiara a sua volta Bruttina doc, ci racconta che è diventata figa sfoggiando stile, guardaroba giusto e potenziando le proprie doti di simpatia e comunicatività, ma non ci dice cosa dobbiamo concretamente fare, cosa dobbiamo scegliere nelle nostre deprimenti sedute di fronte all’armadio, per tramutarci da brutti anatroccoli in superbi cigni veleggianti. Non ci offre nessun rimedio prodigioso, nessun consiglio soprannaturale, arcano, solo i soliti palliativi, che sanno tanto di già sentito, sul non trascurarsi, sul mostrarsi al meglio, sull’essere indipendenti, sicure di sé e, ovviamente, puttane al punto giusto, nel senso buono della parola.

E – inorridiamo, o noi sacerdotesse del pessimismo cosmico – ci propina la solita teoria del “be positive, be happy”, dello foggio di entusiasmo che conquista il maschio di turno. Ci viene il dubbio che non si stia parlando davvero di come trasformare le brutte in belle (se così fosse il libro renderebbe miliardaria l’autrice) ma si proponga piuttosto l’equazione bruttina uguale donna comune. Insomma, si fa leva sulla metamorfosi del brutto in avvenente ma in realtà si sta discutendo in generale, indicando ad ogni donna la via dell’indipendenza, della sicurezza, dell’autonomia, dello stile, dell’eleganza, dell’emancipazione.

Nel secondo testo c’è un’evoluzione, sia dal punto di vista linguistico che contenutistico. Lo stile diventa più incisivo, ironico, tagliente, l’autrice dimostra di avere cervello e cultura e che gli affilati artigli erotici sono solo un aspetto della sua personalità e non un chiodo fisso. E se, anche in questo caso, i consigli per tenersi l’esemplare maschile, lo straccio di amante previamente conquistato, appaiono scontati, balza agli occhi l’attenta analisi sociale del variegato (e un po’ triste) sottobosco di trenta/quarantenni in cerca di accoppiamento. La fauna che lo popola è votata al disimpegno, all’instabilità emotiva, al peterpanesimo, all’immaturità. Vediamo aggirarsi torme di single incalliti, trombamici allergici al matrimonio e disorientati, figure di cui si rivendica il diritto alla dignità ma che, per chi appartiene a generazioni ancora imbevute di romanticismo, grondano squallore e inadeguatezza.

Alcune descrizioni sono davvero spassose, specialmente quelle in cui è facile rintracciare qualche maschio di nostra conoscenza, come ad esempio l’uomo mistico, quello, per capirci, tutto chakra, energia, incenso e ristoranti vegani.

“Se non siete profondamente spirituali anche voi, tutto questo ascetismo alla lunga vi farà perdere la pazienza, facendovi sognare di chiudergli tutti i suoi chakra una volta per tutte.”

La Savarese, attualmente residente a Firenze ma vissuta molti anni a Livorno, ha assorbito dalla città labronica lo spirito arguto, acuminato, irriverente e un po’ sboccato, quello che fa sempre dire pane al pane. Appassionata di moda, di design, di danza, di burlesque, di cultura pop, piena d’interessi e informata, sembra conoscere l’argomento per esperienza diretta, un’esperienza sempre filtrata dall’ironia (e da una salutare autoironia). Ha interrogato molti amici, sia maschi sia femmine, stilando classifiche e facendo statistiche degli atteggiamenti più comuni. Il tutto con mano leggera, acume, simpatia, spirito, divertimento. Soprattutto con quel piglio deciso, in grado a suo dire di trasformare una bruttina qualsiasi in una donna audace, una donna che sa conquistarsi - piantando con sicurezza i piedi per terra e non pestandoli bizzosa - il suo posto in questo mondo non sempre accogliente.

Marina "Morgatta" Savarese, "La Bruttina che conquista " e "Come tenersi un uomo"
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IN GIRO PER BOLOGNA: Le Sette Chiese

5 Febbraio 2014 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #luoghi da conoscere

IN GIRO PER BOLOGNA: Le Sette Chiese

Il complesso di Santo Stefano , detto “le sette chiese” ,è uno dei luoghi più antichi di Bologna, porta questo nome perché inizialmente era composto da sette chiese che col tempo sono state distrutte e non ricostruite, oggi se ne conservano quattro . Ancora più antico è l’appellativo “Santo Stefano detto Gerusalemme”, la Sancta Hierusalem bolognese, e con tale dicitura la troviamo negli atti notarili della città, fin da quelli antecedenti l’anno Mille. Pare che in antichità nel luogo dove sorgono le chiese vi fosse un tempio dedicato a Iside. Si narra che nel 1299 scavando nella piazza antistante le sette chiese sia stata ritrovata una lapide di epoca romana con un’iscrizione che celebra il gesto del liberto Aniceto che innalzò un altare a Iside. La lapide è ancora visibile all’esterno di uno degli edifici, ma c’è anche chi sostiene sia stato portata lì in un secondo tempo e non ritrovata in sede. Il complesso Santo stefano è situato nella piazza che dà vita alla omonima via ed è senza dubbio una delle costruzioni religiose più affascinanti della città. Fu Petronio , vescovo di Bologna tra il 431 e il 450 e odierno patrono della città , a disporne la costruzione dopo un viaggio in Terra Santa, quando volle costruire ,la basilica del Sepolcro a immagine del santo Sepolcro di Gerusalemme. Fino al XIV secolo rimase Santo Stefano la chiesa di Bologna che custodiva il culto del vescovo Petronio, che rimase sempre caro alla città e ai suoi cittadini. La questione cambiò quando nel 1388 il Comune decise di costruire una nuova basilica dedicata esclusivamente a San Petronio, affacciata sulla piazza principale della città, piazza Maggiore, dove la vediamo tuttora e dove oggi giacciono le sue reliquie. Ancora oggi camminando all’interno delle chiese , si arriva nel cortile di Pilato , rappresentazione di dove fu condannato Gesù, e al centro c’è il grande catino, che vuole essere la copia esatta di quello in cui il prefetto romano “si lavò le mani”, ora posto al centro del giardino interno, inizialmente era destinato a raccogliere le offerte dei fedeli per le celebrazioni liturgiche. Sul muro antistante la basilica è affissa una pietra che racconta una leggenda. Chiunque pronunci una menzogna davanti a essa verrà scoperto perché la pietra cambia di colore , spesso gli innamorati vi sostano davanti e si scambiano promesse scrutando eventuali mutazioni della pietra. Visitando il complesso si incontra ancora la basilica sei santi Vitale e Agricola con resti di pavimento a mosaico romano. L’altare stesso è un’ara pagana rivoltata e addossata alla parete, quindi la chiesa della Trinità, incompiuta, che fu adibita a battistero , e dove fino al 1950 era custodito un frammento della croce di Cristo. Di notevole interesse la cappella dell’adorazione dei Magi che contiene il presepe più antico al mondo con statue lignee a grandezza naturale risalenti al 1200. Oggi l’unica chiesa in cui si può ancora ascoltare la messa è quella del Crocifisso chiamata anche di San Giovanni Battista, al tempo della dominazione longobarda era considerata la loro cattedrale. Vi sono custoditi affreschi e statue di notevole valore artistico e vi sono diverse colonne di varia fattura, una di queste, si distingue dalle altre , perché completamente di marmo nero, è chiamata “la colonna della flagellazione” e identificherebbe l’esatta altezza di Gesù , circa un metro e settanta. Un’altra curiosità, siamo nella seconda metà dell’ottocento Joseph Renan scrittore francese, storico delle religioni, di passaggio a Bologna volle visitare la città e trovatosi presso “le sette chiese” di fronte alla colonna di cui sopra, si mostrò incredulo riguardo all’altezza di Cristo. Allora Enrico Panzacchi , bolognese, suo accompagnatore nella visita, lo apostrofò dicendo “Non potete crederci perché era più alto di voi!?” Ultima notizia che risale ai tempi nostri chi volesse incontrare l’onorevole Prodi, potrà farlo facilmente proprio nel piazzale di Santo Stefano perché spesso la domenica è presso questa chiesa che va ad assistere alla messa.

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I fratelli Grimm

4 Febbraio 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #personaggi da conoscere

Jacob Ludwig Karl Grimm (1785 - 1863) e Wilhelm Karl Grimm (1786 – 1859) erano fratelli, legatissimi al punto che, quando uno dei due si fece una famiglia, prese l’altro a vivere con sé. Le numerose delusioni li portarono poi a chiudersi in un loro mondo fantastico, un po’ come capitò a Tolkien nell’ultima parte della vita. Nati ad Hanau, vicino a Francoforte, furono linguisti e filologi, padri fondatori della germanistica, autori di un importantissimo dizionario che venne completato postumo solo negli anni sessanta. Jakob è anche famoso in glottologia per la celebre legge che da lui prende il nome: la prima rotazione consonantica (Erste Lautverschiebung).

Nel mondo, però, sono conosciuti soprattutto per aver raccolto e rielaborato le fiabe della tradizione popolare tedesca in “Fiabe” (Kinder- und Hausmärchen, 1812-1822) e “Saghe germaniche” (Deutsche Sagen, 1816-1818). Pubblicarono, tuttavia, anche fiabe francesi e di altri paesi.

Il loro operato fa parte del movimento ottocentesco di riscoperta e rivalutazione del folklore popolare. In un periodo in cui la crescente alfabetizzazione portava alla scomparsa della tradizione orale, influenzati dal romanticismo di Clemens Brentano e da von Arnim, i Grimm compirono le loro ricerche col preciso intento di recuperare, non tanto favole per bambini, quanto racconti che contenessero lo spirito di un intero popolo, favorendo la nascita di una identità germanica.

Era forse giunta l’ora di riunire queste fiabe, dato che coloro che le devono conservare sono sempre di meno…”

La stessa azione compì Elias Lönrot nel 1835 in Finlandia con il Kalevala.

Le fiabe che riproposero erano in versione originale non destinate a un pubblico infantile. Quello che è giunto fino a noi è un adattamento edulcorato, depurato dei particolari più cruenti, risalente alle traduzioni inglesi del 1857. Le due sorellastre di Cenerentola, ad esempio, nella versione originale si tagliano calcagno e alluce nel tentativo di entrare nella famosa scarpetta. Sembra, però, che una certa censura sia stata condotta anche dai Grimm per quanto riguarda contenuti sessualmente espliciti.

Le stesure nel corso degli anni furono molteplici, i Grimm modificarono le storie per venire incontro ai gusti della nuova borghesia tedesca e perché s’imbatterono continuamente in versioni diverse. Si sforzarono, comunque, di rendere i racconti così come li avevano ascoltati, in uno stile semplice, mimetico del linguaggio popolare, senza abbellimenti e persino un po’ scarno. Molto diverse le due trasposizioni di Cenerentola, quella barocca, aristocratica, di Perrault e quella brulla, sanguinosa, dei Grimm. Dobbiamo, infatti, precisare che l’opera dei Grimm era stata preceduta nel seicento da quella del nostrano Gianbattista Basile (con “Lo cunto de li cunti” 1643 – 46) e da quella dal francese Perrault.

Le storie hanno un’ambientazione cupa, oscura, fatta di orchi, streghe che mangiano bambini, genitori che li abbandonano nel bosco, madri (e non matrigne!) che pretendono il cuore delle figlie, lupi che divorano. È un mondo di case nella foresta, di animali parlanti, di arcolai, di fusi che addormentano, di paglia che diventa oro, di specchi magici, di mele avvelenate. I protagonisti sono esponenti del popolo o dell’aristocrazia, l’intento è edificante, con il lieto fine che premia sempre il comportamento retto e onesto.

Se Vladimir Propp ne ha analizzato la struttura ricorrente, se non è impossibile ricollegarle alle teorie degli archetipi e dell’inconscio collettivo di Jung, è ormai famosissima l’interpretazione freudiana che ne ha dato Bruno Bettelheim. Certo è che le fiabe – tutte, non solo quelle dei Grimm - assolvono un compito consolatorio per i bambini.

Attraverso la narrazione i piccoli superano le paure, oggettivandole, acquistando fiducia in un lieto fine, risolvendo conflitti edipici, rivalità fraterne, sensi di colpa latenti, primi turbamenti sessuali inconsci, timore dell’abbandono, riti di passaggio all’età adulta e alla maturità psicofisica. Imparano altresì a distinguere ciò che è bene da ciò che è male, a schierarsi dalla parte dell’eroe positivo, a fidarsi dell’aiuto esterno, a non demoralizzarsi di fronte a difficoltà e a sentimenti d’inadeguatezza, ad accettare l’esistenza del male, considerandolo superabile. Nelle favole dei Grimm chi non è degno, chi non si comporta come dovrebbe, va incontro a una brutta fine, e l’apparente mancanza di pietà nella punizione è soltanto giustizia agli occhi dei piccoli.

Il bambino trae molta più consolazione e giovamento dall’ascolto di una fiaba che da un ragionamento logico. Attraverso le immagini fantastiche e la narrazione, rielabora in modo subliminale e istintivo i precetti, assimilandoli senza sforzo.

Anche nelle fiabe attuali, quelle dei libriccini cartonati in vendita negli scaffali degli autogrill, la parola più ricorrente è PAURA. Esorcizzare i terrori infantili, e vincere l’ansia da prestazione dei bambini, sembra essere lo scopo principale del mondo fiabesco.

Per concludere, ricordiamo che un’operazione simile a quella dei fratelli Grimm è stata compiuta dal nostro Italo Calvino nel 1956 con le fiabe della tradizione popolare italiana.

Jacob Ludwig Karl Grimm (1785 - 1863) and Wilhelm Karl Grimm (1786 - 1859) were brothers, very close to the point that, when one of the two started a family, he took the other to live with him. The numerous disappointments then led them to shut themselves in their fantasy world, a bit like what happened to Tolkien in the last part of life. Born in Hanau, near Frankfurt, they were linguists and philologists, founding fathers of German studies, authors of a very important dictionary which was completed posthumously only in the sixties. Jakob is also famous in glottology for the famous law that takes his name: the first consonantal rotation (Erste Lautverschiebung).

In the world, however, they are known above all for having collected and reworked the tales of the German popular tradition in "Fairy Tales" (Kinder- und Hausmärchen, 1812-1822) and "Germanic Sagas" (Deutsche Sagen, 1816-1818). However, French and other fairy tales were also published.

Their work is part of the nineteenth-century movement of rediscovery and revaluation of popular folklore. In a period in which the growing literacy led to the disappearance of the oral tradition, influenced by the romanticism of Clemens Brentano and von Arnim, the Grimm carried out their research with the specific intent to recover, not so much fairy tales for children, as tales that contained the spirit of an entire people, favouring the birth of a Germanic identity.

 

"Perhaps the time had come to reunite these fairy tales, given that those who must preserve them are less and less ..."

 

Elias Lönrot did the same action in Finland in 1835 with the Kalevala.

The fairy tales they re-proposed were in the original version not intended for a child audience. What has come down to us is a sweetened adaptation, stripped of the bloodiest details, dating back to the English translations of 1857. The two stepsisters of Cinderella, for example, cut their heel and big toe in the original version in an attempt to enter the famous shoe. It seems, however, that some censorship has also been conducted by the Grimms regarding sexually explicit content.

The drafts over the years were multiple, the Grimm changed the stories to meet the tastes of the new German bourgeoisie and because they continually came across different versions. They endeavoured, however, to make the stories as they had listened to them, in a simple, mimetic style of popular language, without embellishments and even a little lacklustre. The two transpositions of Cinderella are very different: the baroque, aristocratic one, by Perrault and the bleak, bloody one, by the Grimm. In fact, we must specify that the work of the Grimm had been preceded in the seventeenth century by that of our local Gianbattista Basile (with "Lo cunto de li cunti" 1643 - 46) and by that by the French Perrault.

The stories have a dark, dark setting, made up of orcs, witches who eat children, parents who abandon them in the woods, mothers (and not stepmothers!) who demand the hearts of their daughters, wolves who devour. It is a world of houses in the forest, talking animals, spinning wheels, spindles that let you fall asleep, straw that turns into gold, magic mirrors, poisoned apples. The protagonists are representatives of the people or aristocracy, the intent is edifying, with the happy ending that always rewards righteous and honest behaviour.

 

If Vladimir Propp has analyzed their recurring structure, if it is not impossible to link them to the theories of archetypes and the collective unconscious of Jung, the Freudian interpretation that Bruno Bettelheim has given is now famous. What is certain is that fairy tales - all, not only those of the Grimm - perform a consoling task for children.

Through storytelling, children overcome fears, objectifying them, gaining confidence in a happy ending, solving oedipal conflicts, fraternal rivalries, latent guilt feelings, first unconscious sexual disturbances, fear of abandonment, rites of passage to adulthood and to psycho-physic maturity. They also learn to distinguish what is good from what is bad, to take sides with the positive hero, to trust external help, not to become demoralized in the face of difficulties and feelings of inadequacy, to accept the existence of evil , considering it surmountable. In the tales of the Grimm those who are not worthy, those who do not behave as they should, face a bad end, and the apparent lack of pity in punishment is only justice in the eyes of the little ones.

The child derives much more consolation and benefit from listening to a fairy tale than from logical reasoning. Through fantastic images and narration, he subliminally and instinctively reworks the precepts, assimilating them effortlessly.

Even in current fairy tales, those of the hardback booklets on sale in the shelves of the roadside restaurants, the most recurring word is FEAR. Exorcising childhood terror, and overcoming children's performance anxiety, seems to be the main goal of the fairy tale world.

To conclude, remember that an operation similar to that of the Grimm brothers was carried out by our Italo Calvino in 1956 with the fairy tales of the Italian popular tradition.

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In giro per Bologna: le torri

3 Febbraio 2014 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #luoghi da conoscere

In giro per Bologna: le torri

Bologna è nota in tutto il mondo per le sue torri. Se ne contano ancora oggi ventisei sparse per il centro storico, erano parecchie di più, ma molte sono andate distrutte nel corso dei secoli. Non è ben chiaro il motivo per cui ci sia stata una così ampia costruzione di torri, se ne ritrova l’origine quando le famiglie per dispute di prestigio avevano dato luogo a questa “gara” di insolite costruzioni, ma anche per motivi di difesa, essendo delle vere e proprie fortificazioni. Non si conosce il numero esatto delle torri presenti nelle varie epoche ma si stima che fossero tra le ottanta e le cento. L’ultima a essere eretta nel1257, fu torre Galluzzi, anno in cui a Bologna veniva abolita la schiavitù, con seicento anni di anticipo sul resto del mondo. Torre Galluzzi si trova all’interno di un complesso di edifici, vicino piazza Maggiore e non è ben visibile dall’esterno, mai bolognesi sanno bene dov’è e conoscono la macabra storia che la contraddistingue. Anche Bologna ha avuto la sua tragedia shakespeariana: l’amore proibito di Virginia e Alberto. La loro storia non è una leggenda, ma pura realtà, nel 1200 circa, i conti Galluzzi erano una famiglia tra le più potenti in città, di fazione guelfa e fedelissimi al Papa. I Carbonesi, invece, erano una famiglia altrettanto potente, ma della fazione opposta, ghibellini e fedeli all’imperatore. La figlia dei conti Galluzzi, Virginia, era una bellissima ragazza e si innamorò di Alberto Carbonesi .Il loro amore, ovviamente contrastato, trovò in alcuni amici confidenti i complici per riuscire a incontrarsi di nascosto e in seguito a sposarsi in gran segreto. Non bastò il matrimonio a tacitare l’ira del padre di Virginia che, saputolo, uccise Alberto a sangue freddo e dopo di lui tutti i suoi familiari. La fine della triste storia presenta due versioni, una in cui i fratelli di Virginia, dopo aver assassinato anche lei, inscenano un suicidio, e un’altra in cui è lei che, saputo della morte di Alberto, impazzisce di dolore si impicca al balcone di palazzo Carbonesi.

Le torri più famose comunque restano le due che sono l’emblema della città: Garisenda e Asinelli. I nomi deriverebbero dalle famiglie che le hanno erette intorno al 1100, ma in realtà anche sull’origine delle famose “due torri” ci sono molti dubbi. Leggenda vuole che la torre Asinelli, quella più alta, debba invece il suo nome a un giovane che andava con un carro trainato da alcuni somarelli a caricare ghiaia nel fiume Reno. Il ragazzo si innamorò perdutamente di una fanciulla che vedeva durante il tragitto, figlia di un nobile che ovviamente rifiutò la sua mano a un nullatenente, liquidandolo con la frase ”Avrai mia figlia soltanto se costruirai la torre più alta della città”. Fu così che il ragazzo innamorato e fortunato, dopo aver trovato, scavando ghiaia del fiume, un sacchetto di monete d’oro, fece erigere la torre che ancora oggi svetta nel cuore di Bologna e finalmente poté sposare la sua amata. La torre è situata all’incrocio di due delle strade principali della città, è alta novantasette metri, il suo aspetto caratteristico è leggermente pendente, ma ci si può ancora salire fino in cima, percorrendo 498 gradini e, una volta sopra, si gode il panorama più bello della città. Si vedono i tetti delle case che rendono famosa Bologna proprio per il loro colore rosso acceso, si vedono i portici che salgono fino a San Luca e, in un giorno sereno di sole lo sguardo si stende per tutta la pianura fino all’ Adriatico. Proprio a fianco alla torre degli Asinelli, sorge la Garisenda, più pendente e spezzata. Guardandola, se viene avvolta da una nuvola dalla parte pendente, la torre per uno strano fenomeno ottico sembra inchinarsi. Tale particolare viene ricordato anche da Dante nella Divina Commedia nel XXXI canto dell’Inferno: “Qual pare a riguardar la Garisenda sotto ‘l chinato, quando un nuvol vada sovr’essa sì, che ella incontro penda…” La torre Garisenda è rimasta ben salda al terreno fino ad oggi nonostante la forte pendenza, non può essere visitata come la vicina Asinelli, ma certamente insieme alla “sorella” è uno degli edifici che rendono unica Bologna.

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Before dawn

2 Febbraio 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #racconto

You’re looking out of the window, tears wet your throat and mix with the sweat on your chest, you writhe with stomach pain, you shudder. Nothing is as it was believed, she even hated you and you had not noticed. It was real hatred, otherwise she would not have said those horrible things, she would not have called you a failure. Wait, what did he say exactly? Ah, yes, “You’re a borne failure, you're a loser by nature, Thomas, and he is worth a thousand times more than you in bed."
You implored her while she was detaching from the wall the picture of her aunt - the disgusting crust you've always had to keep to please her – please, do not take away Chicco, you shouted, while she dressed him in a hurry and his lower lip trembled.
"The child is frightened, Anna, for the love of god."
But she could not see her son anymore. Then you were the first to fell silent, to pull her heavy suitcase up. "Ok, love, now mother takes you for a few days to granny, so you can play with the dog. How is the dog? How, Chicco, tell me! Make boo to Dad, like a puppy.”
But she turned as if to hide the child with her body, as if to protect it from you, from you, that love him like you've never loved anything in this shit of your life. You swore that your child would never have suffered, that you would always be at his side, he would have a father and a mother, yes, he, at least.
"You have no aspirations, you have no ideals", she told you. Yes you have it, shit, you have one. Chicco is your aspiration, your ideal. She doesn’t know what love you're capable of , you've never had a family of your own, you only imagined your parents, night after night, in an institute, sobbing, while the big ones leapt towards you or you were trying to escape the knocks, waiting the age of eighteen to go out, to learn a trade, to find a girl, to have a family.
Anna and Chicco no longer need you, they have abandoned you like those motherfuckers, yes, just like your parents, you are left alone in this ugly city, with your ugly work shop, and there is no return, there is no future, every gesture is useless.
You leave the window, you go to the bathroom. There is still Chicco’s jumpsuit across the edge of the tub. You grab it, you rub it on your face, it is soft, you feel the pee smell. You hold it on your nose with your left hand while, with your right one, you take a razor blade. You cut your left wrist, and then you cut also the right one.
You look at the blood that comes out and jump on the bed, thinking how long does it take. Your wrists hurt, but only a little.
And you are afraid.
Oh, yes, until recently, when you went up there to cut your veins, you just wanted to put an end to your pain, but now you are scared. It's a strong feeling that makes you think not so much of her and Chicco anymore.
You close your eyes, thrust your head into the pillow, but then you open your eyes again, yes, you let them open wide. The sky is clearing on the buildings, where the hills begin. You hear the noise of the newspapers van.

In June. A group of trees and a wall with too many windows, the creak of a swing. You are lying belly up in the meadow, smoking a prohibited cigarette. They have cut the grass and you know that it will stinge on the uniform, you' ll take a scolding from father Matthew, but you do not care, because the grass is cool and you like its tickle.
You look at the sky, at the white trail left by the aircrafts, a bumblebee buzzes on your head. You think the heat has a noise, and it is the sound of the bumbleb
ee.

Asshole. You're dying and you’re thinking of you as a boy, of classmates - but were they not all pedophiles? – you’re thinking about the workshop colleagues, especially Mariotto who always brings you the mortadella and the wine that his father makes in the country. You also think of your parents: before they gave you in, they have offered you your life.
You are cold, your forehead is covered with ice sweat. There is a glass on the bedside table, you see the water, you want it on your cardboard tongue.
Are you thirsty, huh? You had to think of it before, you know that when it bleeds to death it is so.
Thirst ... Thirst ...
Holy Christ ...
You think of the water that drips down the gutters and washes the machines. You raise your arm, you try at least. It remains there, caked to the sheet, like a stone, already half dead.
You know, asshole, you know that now you can’t pick up the phone anymore?

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Emozioni

1 Febbraio 2014 , Scritto da Margareta Nemo Con tag #margareta nemo, #vignette e illustrazioni

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