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Buena Suerte

22 Aprile 2018 , Scritto da Niccolò Mencucci Con tag #racconto

 

 

 

 

 

 

Racconto interno al “romanzo” BARTOLOMEO METTIMAL (o le farlocche e barocche e ampollose avventure di un matto toscano nel capoluogo fiorentino, tra realtà e sogno, tra ricordo e cronaca, tra sesso e amore).

  

 

Le palme stavano svolazzando per l’aria tropicale al vento aliseo, e il rumore delle macchine dell’autostrada interferiva con le comunicazioni di servizio della capitaneria di porto, la quale stava informando i possessori delle barche del porto Buena Suerte di una possibile perturbazione sul fare della sera. Il porto era costellato di navi di ogni forma, da quella dei pescatori locali, fino ai borghesi meno facoltosi, fino a quelli dei grandi magnati dell’industria e dell’imprenditoria. All’orizzonte, vicino all’entrata del porto, si intravide una piccola nave, della lunghezza di venti metri, che si stava avvicinando al pontile adibito per le navi di dimensioni più abbondanti. Appena venne avvistata, uno stuolo di marinai velocemente si avvicinò alla zona e aspettò l’arrivo. La nave rallentò la sua corsa verso la terraferma e si fermò vicino ai marinai.

"Comandante, oh, Comandante Che Guevara…”, cantavano alcuni marinai stanchi, mentre stavano facendo attraccare una piccola nave privata alle darsene e ai pontili della zona adibita agli yacht. Intanto dalla cabina apparvero diversi ragazzi, di età differente e dal vestiario diverso: c’era chi era vestito in maniera elegante e alla moda, e chi trasandato e addirittura con tracce di sporco, e chi fortunatamente vestito normalmente. Si diressero verso il pontile, facendo attenzione a non interferire col lavoro di attracco dei marinai; passarono per il ponticello, e alcuni di loro, per via delle onde, si tennero stretti alla balaustra, per evitare di cadere in acqua e di rovinarsi il vestito, anche se era sporco e logoro.

Le onde del mare erano alquanto agitate quella mattina, e probabilmente era segno di quella perturbazione che a breve avrebbe colpito la costa e il porto, ma non erano comunque così mosse da impedire la navigazione alla barca di Amerigo. Costui era il rampollo di un politicante di Montalto, e si trovava, con alcuni suoi amici, in vacanza nei Caraibi. Aveva viaggiato per tutto il suo paese d’origine e solcato ogni mare, ogni promontorio, ogni costa ed insenatura e grotta, e per quell’estate aveva deciso di cambiare rotta e di dirigersi in un’altra località. Era partito da Miami due giorni prima, dopo essere stato alloggiato in un resort a quattro stelle, con tutta la sua brigata di amici, per la maggiore suoi precedenti compagni di studi e di svaghi alternativi, e aver passato le serate a divertirsi nei locali più cari e in della città. Precedentemente era stato a New Orleans e a Orlando, sempre finendo per passare le serate in qualche locale alla moda a ubriacarsi in maniera talmente violenta da arrivare a dimenticarsi il giorno dopo di aver passato la notte con qualche ragazza, gratis o a pagamento.

“Questa è una tipica canzone divenuta nel tempo molto famosa tra gli abitanti di Cuba”, disse uno degli amici di Amerigo, dopo essere riuscito a passare indenne il pontile.

“Ma di quale stai parlando?” chiese Amerigo, un poco disinteressato alla sua questione.

 “Ma sì, quella che stanno cantando i marinai in questo momento. Senti!” e lui cominciò a sentire la canzone, che continuavano a cantare nonostante il caldo in aumento proporzionale alla loro fatica. Non fece alcuna smorfia, né corrugò la fronte davanti a loro, ma continuò a camminare assieme agli altri.

 “Non ti pare particolare il fatto che continuino a cantare nonostante il caldo?”;

 “E con ciò? Cosa ti sorprende?” domandò sarcastico Amerigo;

 “Che sia particolare la loro voglia di cantare. Tutto qui…”, rispose a tono basso l’amico;

“Buon per loro che han voglia di cantare. Io non trovo per niente la voglia…”, ma Amerigo preferì interrompersi lì, e pensare ad altro. Stavano passeggiando per la banchina quando uno dei ragazzi improvvisò una richiesta. “Dove siamo diretti? E, in quel momento, Amerigo, come rinsavito da quel passo: “Siamo diretti in un ristornate qua in centro, dove pasteggeremo e berremo come negli altri posti dove eravamo!”, e s’impuntò euforicamente nell’ultima parte della frase. Al suo accenno anche gli altri esultarono, e con maggior vigore lo seguirono verso il ristorante, ovvero una piccola trattoria ittica dedita anche alla produzione artigianale di rum e whisky, come generalmente facevano in tutta Havana. Fecero un pasto molto abbondante, a base di fritture di mare, gamberi allo spiedo e aragoste alla griglia, il tutto servite con un abbondante dose di alcol locale, tale da far saltare il cervello a quasi tutti i commensali. Solo Amerigo era rimasto a bocca asciutta: stranamente si era limitato all’antipasto a base di frutti di mare al vapore, ma non aveva toccato nemmeno l’ombra di tutto quel banchetto luculliano, e tanto meno l’alcol; nessuno si era accorto che era la prima volta che Amerigo non toccava l’alcol da quando avevano iniziato la vacanza. Ma un amico, in un barlume di lucidità, gli chiese:

 “Oh, Amerigo, o cos’è sta roba che tu non hai toccato un goccio di vino?”

 “Ma che ne so, non ne ho punta voglia…”

 “E nemmeno un po’ di rum? O che t’è successo?”

 “Boh, sarà stato il viaggio, non so…”

 “Ma quale viaggio!?! Che nelle prime zone eri arrivato a berti un litro di tequila puro tutto d’un fiato e ad andare a fare sesso con quella in fondo al locale! Ma cosa stai dicendo?”

“Boh, guarda, anch’io ne so davvero poco…”;

All’uscita del ristorante, verso il tardo pomeriggio, dopo aver importunato nel mentre alcune cameriere per via della loro abbondante scollatura e dell’assenza dei loro compagni, si accorsero che non erano abbastanza ubriachi per coronare il loro approdo ad Havana, e così decisero di dirigersi verso il litorale del porto per provare altri liquori e alcolici che potessero rinfrescarli dal caldo e dalla sbornia imminente.

Nel frattempo Amerigo li guidava, sobrio sia nel tragitto sia nell’itinerario degli alcolici: prima andarono in una taverna, e li vide gustarsi a fondo una grande varietà di liquori ad alta gradazione; poi passarono in un bar, dove provarono ber tre specialità di rum, e uno di loro, da quanto era cotto da tutto l’alcol che aveva trangugiato, arrivò a rigurgitare tutto il pasto ben prima di poterlo fare dentro il water; ripresosi e riunitosi al gruppo, tentarono l’ultimo locale, sul mare, e all’ora di cena presero quasi tutti il cocktail preferito dello scrittore Ernest Hemingway, il Papa Doble, e in men che non si dica si sentivano tutti pronti per un safari al femminile. Amerigo, come al solito, rimase sobrio per tutta la serata, e la passò a guardare in silenzio i suoi amici divertirsi con le ragazze del luogo, nel tentativo sia di ballare con loro sia di abbordarle a discapito dei loro fidanzati. Accadde però che uno dei fidanzati, un marinaio del ponte, li riconobbe e chiese spiegazioni per questo gesto avventato: uno dei ragazzi, ormai fuori di senno, sputò in faccia al nerboruto marinaio e fece partire un’infame rissa tre contro uno, che portò alla cacciata del gruppo dal locale e al ferimento di tutti e tre, poco consci dell’erculea forza del marinaio.

Fuori dal locale, uno degli amici di Amerigo riebbe un momento di lucidità e gli chiese:

 “O te? Ancora non hai bevuto nulla? Sei rimasto sobrio per tutta la serata?”

 “Così sembra…”, gli rispose mestamente Amerigo, mentre continuava a fissare i suoi amici che tentavano di riprendersi dalle botte inflitte dal marinaio;

 “O che fine ha fatto l’Amerigo delle altre sere, quello che, in un momento del genere, prima di far scoppiare una rissa, preventivamente, avrebbe preso una bottiglia vuota di rum e l’avrebbe spaccata in testa ad un energumeno del genere?”

“Ma che ne so… non ne so davvero niente…” e cominciò a spegnere la sua voce;

“O che fine ha fatto il nostro capitano? Quello che ci guida sui mari d’alcol?” ma a questa domanda non rispose e si eclissò, dirigendosi con tutti gli altri verso il porto. Non avevano ben chiaro cosa volesse fare in mare aperto Amerigo, ma l’idea di andare in mare a sera tarda non era sgradita, e lo seguirono senza scrupoli. Senza chiamare la capitaneria di porto fecero partire la nave e si diressero in mare aperto. Nel frattempo il mare aveva cominciato ad ingrossare sempre di più, e il vento ad aumentare intensità.

La città era ormai distante miglia da dove si trovavano loro e ormai avevano di fronte solo l’immensità del mare. Amerigo, dalla sua postazione di comando, spense il motore, mentre i suoi amici si erano affrettati per svaligiare, nell’impeto simposiale, la dispensa da ogni cosa che contenesse alcol. Amerigo si avvicinò ai suoi amici, sempre sbronzi; aveva gli occhi vitrei: “Voi come vi sentite?”, e a quella domanda nessuno seppe rispondere in maniera corretta, senza biascicare qualche sillaba di troppo, “No, davvero, mi piacerebbe sapere come voi vi sentite. Perché io ci sto pensando da stamattina, da quando siamo attraccati. Lui, sì, lui, m’aveva fatto sentire le canzoni dei marinai, che parlano del Comandante Che Guevara…Comandante… lui era diventato Comandante, e lo è stato fino alla morte. Comandante, non solo dell’esercito, ma anche della sua vita. E tutti che con le sue parole diventavano felici perché era Comandante. E io? Sono Comandante? Sono il vostro Capitano?”, e i ragazzi, cominciarono ad annuire, con poca serietà, “No, voi dite sì, ma non è così. Non sono capitano. Non lo sono nemmeno di questa nave, Cristo! Sono sempre stato un marinaio. Un maledetto marinaio. E io che mi sono creduto un capitano, quando non sono nemmeno un marinaio. Non sono niente. Niente!”, e in preda alle lacrime uscì dalla cabina e camminò nella prua della nave, e si appoggiò alla balaustra. Si sporse leggermente, guardando l’orizzonte rannuvolato, quando all’improvviso un’onda sbatté contro la nave e lo fece scivolare dalla balaustra, facendolo finire in acqua. Nessuno si era accorto che era la prima volta che Amerigo era finito in acqua, e nessuno si era accorto se era risalito o meno.

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