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Il fiume di Eraclito di Adriana Pedicini. Recensione di Nazario Pardini

23 Maggio 2015 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #recensioni, #poesia

Il fiume di Eraclito di Adriana Pedicini. Recensione di Nazario Pardini

Adriana Pedicini

Il fiume di Eraclito

Poesie

RECENSIONE DI NAZARIO PARDINI

Siamo il fiume che invocasti, Eraclito.

Siamo il tempo. Il suo corso intangibile…

Jorge Luis Borges

Istantanee di vita

a fermare il tempo,

amore della vita

che lenta scivola nel rimpianto,

timore della morte

e nessun rimedio per fermarla.

Crogiuolo di mille domande

sulle ali di una farfalla.

Partire da questi versi dal sapore di vita, dalla visione di un tempo che scorre veloce senza darci la possibilità di palpare il presente irrequieto e inafferrabile, significa andare a fondo di una poesia complessa e inquietante. Di una plaquette che tocca i tasti più dubbiosi del fatto di esistete e che mette in campo i dati della realtà fenomenica e quelli di un ripiego escatologico di grande complicanza esistenziale. Sta qui il polemos tra gli opposti eracliteo; il pascaliano dissentire tra rien e tout. Sì, c’è la vita con tutta la complessità dei suoi ricami: saudade, mistero, nostos, melanconia, inquietudine, memoriale come fonte di amore, come tuffo in profumi di acacie:

Dietro il lento oscillare delle acacie

sale la filigrana del ricordo

del lungo ramo

che sbatteva alla finestra

e tra i fiori acri sfiorito il volto

e immobile lo sguardo.

Anche oggi

tra i passi lenti

di questa primavera

solo si spande nell’aria

il profumo dolceamaro

delle acacie.

Ai cigli delle vie fuori città

sui terrapieni corrono,

nei giardini e nelle aiuole cittadine

i fiori bianchi fluttuano sgranandosi

al vento gelido di fine marzo

che ora come allora

asciugandole rapina le mie lacrime.

Di te

solo il profumo dolceamaro

delle acacie (Le acacie di marzo).

Si nota fin dagli inizi il disagio della Nostra di fronte al confronto tra l’esistere e l’infinitezza degli spazi che ci circondano. E’ troppo umano questo esserci; troppo limitato, troppo precario:

Ho pianto il mio dolore

ho pianto la gioia

l’odio ho pianto

di quest’effimera vita.

Tutto sembra inutile

e il vivere sia fatto invano

in attesa del tempo senza tempo.

Eppure più forte è il desiderio

di questa precaria vita

come di assetato

che mai estingua alla fonte

nel cammino

la bramosia di lunghi sorsi,

di conservare sulle labbra

e in ogni fibra

della fresca estasi

il brio (Vita),

ed è per questo che allunghiamo sguardi in lontananze sperdute con la speranza di trovarvi la soluzione ai tanti perché dei nostri irrisolti e irrisolvibili dilemmi. C’è in ognuno di noi il desiderio di fermare la clessidra, di arrestarne l’ingordigia che fagocita le cose più preziose della nostra terrenità. Forse è ricorrendo proprio ai ricordi o al sogno che si cerca di riportare alla luce ciò che resta di questo sacro patrimonio nel tentativo di prolungarne la storia:

A brace spenta

bruciano

le mani del sogno

caldo in cuore.

Neri rami s’elevano

sterile fumo

alla neve del cielo.

Di pioggia le nuvole

s’ammassano dense

segni fatali di sorte.

Pace o segno di

nero silenzio

questa assenza di voce (Sogno),

nel tentativo di placare il dolore delle sottrazioni, rifugiandoci in una alcova di volti rassicuranti, di primavere innocenti troppo presto sparite, chiedendo collaborazione ad una natura profumata e umanizzata per configurare e dare corpo a forti emozioni. D’altronde il nostro sguardo è limitato e incapace di andare oltre gli orizzonti che ci limitano. E si rischia di sperderci in mondi sovrumani, in ambiti d’infinita estensione per le nostre flebili forze; per noi che viviamo l’”amore della vita/ che lenta scivola nel rimpianto,/ timore della morte/ e nessun rimedio per fermarla”. Thanatos e eros, vita e morte, speranza e rimpianto, rimpianto e nostalgia per parole non dette, per cose non fatte, cosciente, la Nostra, della precarietà dell’esistere e della sua definitiva ultimazione:

Scivola ancora

di nuovo

più fitta la pioggia

lungo i muri e le pozze riempie

porta suoni lontani di voci

sopite per sempre,

la nostalgia porta di una vita

che non è quella da vivere.

Sfilza le ore

e grava l’aria di cupi ricordi.

Tutte son morte le foglie

e la vita è un desiderio

strozzato nel cuore.

All’orizzonte

il nulla di questo giorno.

Sull’impiantito della mente

disegno il mio larario antico

e di ghirlanda adorno

il posto vuoto (Nostalgia),

una dualità, una contrapposizione di estremi la cui simbiotica fusione si fa alimento della scioltezza eufonica del poema, i cui versi, combinandosi con quelli che sono gli input vicissitudinali, si risolvono in brevi e apodittiche soluzioni; in un linguismo che fa della metaforicità la base d’appoggio per verticalità meditative; per confessioni di ontologica complessità emotiva. E’ qui il nocciolo della substantia di questa poesia; sta tutto in una versificazione stretta e monoverbale, anche, incisiva e redditizia, per il valore etimo-fonico e comunicativo dei significanti. La parola è sufficiente a se stessa, si fa unità morfosintattica e risolutiva per un pensiero di intensità epigrammatica sul rapporto della vicenda umana col tempo; tanto che, dal polimorfismo di accostamenti inconsueti, emerge, con nettezza parenetica, che la vita è il tempo prestato dalla morte. “La vita è un naufragio, ma nelle scialuppe di salvataggio non dobbiamo dimenticare di cantare” affermava Voltaire. Anche se illuminista, anche se della ragione faceva il fulcro dei suoi convincimenti, in tale affermazione presagiva uno dei motivi focali del primo ottocento: il mare; quell’immenso spazio che più si avvicina al bisogno di libertà; ma di una libertà vaga, indeterminata di memoria delacroisiana cercata inutilmente dai romantici, anch’essi còlti da quel malum vitae che portava, spesso, a pessimismi o a melanconie congenite di memoria leopardiana. Alfredo Panzini definì i Poeti “simili al faro del mare”: quel faro che illumina una parte di un tutto sommerso dalla notte. E’ in quel mare che si perde l’animo del Poeta incapace di andare oltre quella scia che invita a più ampie navigazioni. Questo è tutto ciò che troviamo nella poesia della Pedicini. Una poesia complessa che fa degli interrogativi esistenziali il cuore del canto; un canto, che, con grande partitura musicale, e con urgente partecipazione panica, ci prende per mano per inoltrarci, al fin fine, in quelli che sono i valori della vita. Sì, perché porsi le tante questioni sulla nostra venuta, non significa altro che amarla questa storia; esserne integrati moralmente, civilmente ed esteticamente; esserne passionalmente avvinti tanto da non dimenticare di cantare sulla scialuppa di salvataggio; perché, in definitiva, sono proprio i dolori a farsi gradini di una scala tramite cui ci eleviamo a cime spirituali le più vicine all’inarrivabile “… E se la costante della vita è, in definitiva, il dolore, in esso è anche il riscatto della dignità umana, oltre che l'unico veicolo possibile della conoscenza (πάθει μάθος). E, inoltre, esso predispone ad una dimensione altra, dove il dolore è anche il veicolo per raggiungere livelli spirituali alti, in cui la Fede e la preghiera risultano essere di significativo impatto sull’animo umano che in tal modo “graziato” produrrà positive energie con ricadute notevoli nella personale vicenda esistenziale” (dalla prefazione dell’Autrice).

Quando il dolore

avrà macerato

le fibre del mio cuore

stilleranno i ricordi

in gocce di parole.

Nazario Pardini

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