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Riflessione personale sul film "La grande bellezza" di Paolo Sorrentino

12 Marzo 2014 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #cinema

Riflessione personale sul film "La grande bellezza" di Paolo Sorrentino

Atmosfera decadente organizzata in quadri giustapposti con protagonisti di una società essenzialmente borghese, vari ma accomunati da un identico modo di intendere l’intera esistenza come occasione per interpretare sul palcoscenico della vita parti consapevolmente o inconsapevolmente fittizie di un illusorio mondo teatrale dove pare siano banditi i problemi e le esigenze massime o minime che ogni giorno ci impone di affrontare se non di risolvere, e dove perfino la morte si ammanta del velo dell’ipocrisia. Occasione, dunque, e non opportunità continua di dare un senso al breve passaggio in questo mondo che non si chiude, si badi bene, con la morte, ma con la nascita inizia una specie di conto alla rovescia.

(Seneca Epist. ad Lucilium I,1: In hoc enim fallimur, quod mortem prospicimus: magna pars eius iam praeterìt; quidquid aetatis retro est mors tenet).

(Ecco il nostro errore: vediamo la morte davanti a noi e invece gran parte di essa è già alle nostre spalle: appartiene alla morte la vita passata).

Dunque il senso di precarietà e di frantumazione del quotidiano, per non dire il nonsense, che avvertiamo non è altro che la cortina superficiale che copre un mondo vuoto, senza passione, senza ideali, senza il senso dolce della soddisfazione che segue a un sacrificio. Manca anche la sguaiata spensieratezza dei personaggi petroniani o l’impalpabile poesia felliniana. La scena è animata da piccoli uomini, da uomini senza qualità in una collocazione comunque ambientale di grande impatto scenico. Ciò vale sia per le opere d’arte che fanno da sfondo alle situazioni, sia per gli arredi di un certo tono degli ambienti interni, sia ancora per alcuni sfondi paesaggistici.

E il resto dell’umanità, dove è rintanata? Nei bassifondi tetri, nelle borgate violente, nelle periferie urbane sommerse dal disagio, nella solitudine rischiosa delle campagne. Lì non arriva la macchina da presa perché quella gente non ha alcun peso nella società. Lì c’è povertà, che dà fastidio anche a raccontarla.

Invece la vita descritta nel film è ben peggiore, è miserevole, e non è neppure dolce, è molto, molto grigia, come lo status del protagonista principale, il monotonamente elegante e quasi ieratico Tony Servillo, una sorta di dandy, che osserva ora con occhio compassionevole, ora con nostalgia dei tempi andati, ora con disgusto, la vita scorrergli davanti, non la sua, quella degli altri. Come gli altri ha sperimentato anch’egli il vortice della mondanità, del lusso e delle lussuose passioni non si sa bene se per debellarle o per compiacersene.

Poi il nulla…..è annegato anch’egli nel bla bla bla, inetto anch’egli come tutti gli altri. La chiusa, peraltro banalmente parenetica, avrebbe dovuto essere non l’amara conclusione in una fase avanzata della vita, ma la svolta della giovinezza, il raggiungimento della consapevolezza, la quale arriva invece troppo tardiva e per di più con la convinzione dissacrante che tanto tutto è una finzione.

(…quam serum est tunc uiuere incipere, cum desinendum est? quae tam stulta mortalitatis obliuio in quinquagesimum et sexagesimum annum differre sana consilia et inde uelle uitam inchoare, quo pauci perduxerunt? Seneca, De brevitate vitae,III)

(Quanto tardi è allora cominciare a vivere, quando si deve finire! Che sciocca mancanza della natura umana differire i buoni propositi ai cinquanta e sessanta anni e quindi voler iniziare la vita lì dove pochi sono arrivati!)

Sconfitta dichiarata dell’uomo dei nostri tempi che assiste impotente al suo declino, mai artefice del suo destino e mai complice delle circostanze in chiave costruttiva, edificante. Eppure non mancano dei sussulti di coscienza critica, vorrei dire di un fugace profondo umanesimo ravvisabile sia nelle parole della giovane e bella donna impersonata dalla Ferilli che sostiene, a dispetto di un’affermazione che esaltasse il tripudio d’amore momentaneo, che l’importante è volersi bene, sia, sottoforma di istintiva ribellione verso una vita programmata ai fini dell’apparenza e del facile successo della piccola artista in erba. Meno “nobile” la giustificazione del personaggio interpretato da Verdone che abbandona Roma per essere stato tradito dalla città. La rinuncia è sempre una sconfitta personale, magari perdere contro i tentacoli di una metropoli non dà il successo, ma garantisce la gioia di averci provato, quando le linee guida siano la tenacia della volontà e la forza dell’onestà. O il coraggio di andare controcorrente. Sorvoliamo su altre situazioni e personaggi latori di altri problemi, di altri limiti esistenziali.

Dunque, un film che fa riflettere, giacché anche dai cattivi esempi s’impara. Non vogliamo dire che il film sia un cattivo esempio, anzi ha il merito della denuncia. Con fantasia poco vigorosa, con un ritmo troppo lento, ma pur sempre denuncia. E, come dicevo, l’esortazione finale a cogliere la bellezza nelle piccole o grandi cose che costellano le nostre vite prima che sia troppo tardi giustifica il mezzo. Ma sarà poi possibile? O è tutto un’illusione per sopravvivere? A questo punto il problema diventa universale: l’impossibilità di riscatto, di una scelta esistenziale autentica.

E l’effetto sonnolento, quello descritto più sopra, motivo di tante critiche, non so se sia voluto oppure no dal regista. Può darsi di sì, e allora lode a chi è stato bravissimo a dipingere l’esanime color grigio dell’esistenza con qualche sprazzo di luce che non sempre si è mostrato vitale, essenziale ma solamente effimero, offuscando la vera tonalità chiaroscurale della vita.

Adriana Pedicini

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