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federica cabras

Chiara Parenti, "Con un poco di zucchero"

13 Settembre 2017 , Scritto da Federica Cabras Con tag #federica cabras, #recensioni

 

 

 

 

 

Con un poco di zucchero

Chiara Parenti

 

Rizzoli

 

Matteo Gallo ha trent’anni ed è molto, molto amareggiato. La sua carriera da giornalista è sfumata per colpa di un tradimento e di una buona dose di impetuosità e il suo nuovo romanzo è fermo; la vista di quella pagina bianca come la neve gli provoca spasmi di ansia. Blocco dello scrittore, si suppone. O sarà che è costretto ad abitare insieme alla sorella Beatrice – avvocato penalista, cinica e dura – e alla sua prole? I due ragazzini, Gabriele e Rachele, sono la quintessenza della malvagità e dell’iperattività; nemmeno le tate più forti, quelle con il pugno di ferro, sanno resistere: tutte scappano, e a gambe levate, per giunta. Matteo li chiama “loro” o “gli hobbit”; mai per nome – come se fossero creature tanto diverse da lui da non poter essere chiamate con un appellativo umano –. Quando l’ennesima babysitter scompare, ne arriva una nuova. Matteo le apre alla porta, dopodiché la guarda con occhi sgranati. Katie Baker è bionda e bella, sì, ma ha qualcosa di strano. Eccessivamente entusiasta per ogni cosa, si muove con leggiadria, saltando ed emettendo gridolini per ogni cosa. Non parla quando sale le scale – non può, confessa, perché mentre sale conta i gradini – e i colori che porta indosso sono vivi, accesi. È una specie di fata buona dell’allegria, insomma. Tiene un blog; in esso racconta di mondi incantati e vicende fatate. I bambini si affezionano, Beatrice la adora. Matteo invece – così insoddisfatto della sua vita triste e grigia – la odia. E allora cos’è quella sensazione? Ma sì, intendo quella sensazione che gli attanaglia le viscere quando pensa al suo fidanzato, che lo porta a pensare a lei con il sorriso, che gli fa saltare un battito del cuore quando lei lo osserva… cos’è? Lei ha gli occhi grandi come fanali, luminosi e vivi; quando lui la guarda, tutte le tessere del puzzle tornano al proprio posto. Lei è un respiro d’aria fresca in un tunnel di fumo. Lei è la Con un poco di zucchero felicità. Lei è la libertà.

Chiara Parenti tesse una tela che, complice l’ironia con cui è capace di impreziosire ogni frase, resta impressa; la storia d’amore tra Matteo e Katie è un vulcano di energia, di emozione. Humor e quotidianità troneggiano sempre, nei suoi romanzi; inoltre un occhio di riguardo è sempre dato alla crisi che attanaglia i ragazzi di oggi costringendoli a una strenua ricerca di un proprio posto nel mondo. Un romanzo per giovani, che parla di giovani con linguaggio da giovani.

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"Il giardino dei fiori segreti" di Cristina Caboni: un viaggio floreale nel mondo delle due gemelle

21 Agosto 2017 , Scritto da Federica Cabras Con tag #federica cabras, #recensioni

 

 

 

 

Il giardino dei fiori segreti

Cristina Caboni

 

Garzanti, 2016

 

Creato insieme dall’uomo e dalla natura, il giardino è un luogo affascinante sul quale si è scritto fin dalle epoche più remote, e continua ancora oggi a essere fonte di meraviglia, riflessione, scoperta. Ma per chi lo coltiva o lo frequenta è ben più che un luogo: è un compagno, un amante fedele, un amico sincero.”

 

Iris abita ad Amsterdam e lavora per un giornale che si occupa di giardinaggio, di fiori – suo grande amore. Determinata e tenace, sta ancora cercando il suo posto nel mondo. L’unica cosa di cui si ritiene certa – senza alcun dubbio – è che la sua carriera deve ruotare intorno a piante e fiori: sono la sua vita, il senso per ogni sua giornata e per ogni suo sorriso. Quando il suo capo le offre un posto a tempo indeterminato in cambio di un articolo, lei non si lascia pregare; tempo di fare il biglietto ed è a Londra: la mostra floreale più grande del mondo la attende. Non avvisa nemmeno suo papà della partenza: così presa da agitazione ed eccitazione, non vede l’ora di vedere quel pezzo sul giornale e il contratto sulla sua scrivania.

Viola è forte, un po’ chiusa. Certamente riservata. Abita con la madre. I suoi successi accademici sono impareggiabili e la sua mente è sempre, perennemente in subbuglio. Sente che qualcosa, nel suo passato, non torna: la madre non ama parlare del tempo che fu, non vuole immergersi nei ricordi; lei, dal canto suo, non insiste. Rimane così, a metà tra l’essere confusa e l’essere incompleta. Ad attendere. Ama i fiori, le composizioni le vengono naturali. Preda di sentimenti forti e emozioni incontenibili, è dipendente da quei colori e quei profumi. Anche lei va alla grande mostra floreale londinese.

Si incontrano. Si perdono di nuovo. Tuttavia, malgrado si vedano solo per un secondo, capiscono.

Capiscono tanto e in poco tempo... capiscono che qualcosa nel loro passato è stato celato, che i silenzi vissuti hanno un significato, che gli errori vengono fatti soprattutto da chi non ha scelta, da chi si sente in gabbia. E capiscono anche molto di più: sono due Donati, il loro destino è già scritto.

 

“«Perché è quello che abbiamo sempre fatto noi Donati. Giardini, aiuole, composizioni. Strappavano sospiri, riempivano di emozione e di gioia. Erano famosi ovunque, i fiori dei Donati. In un modo o in un altro ci siamo avvicinati istintivamente alla terra, e l’abbiamo nutrita, coltivata, servita.»”

 

Iris e Viola infatti sono gemelle. Omozigote. Hanno gli stessi occhi, le stesse labbra. La stessa forma del naso. E lo stesso grande, immenso amore per i fiori e le piante.

Divise da bambine, riunite da adulte. Ci vuole il destino perché talvolta tutti i pezzi del puzzle tornino al proprio posto, perché tutto abbia un senso, finalmente. E il destino di Viola e Iris le mette dinanzi alla verità in modo secco, senza chiedere tempo – perché la verità non chiede sconti né rimandi.

Hanno comunque molta strada da fare, per giungere al perdono.

Questa è la storia di un giardino magico, in una grande villa. È un giardino speciale, e ha bisogno delle gemelle per rifiorire.

Questa è la storia di un segreto tenuto nascosto per lunghi anni. Quanto è difficile rivelare qualcosa dopo vent’anni? Quanto è complicato mostrarsi senza maschere, senza inganni?

Questa è una storia di una morte ingiusta – quando mai la morte è giusta? – e di un dovere fatto affinché almeno il ricordo non muoia, non venga contaminato.

Questa è una storia d’amore e di odio, di bugie e di verità. Di anime messe a morte e di cuori infranti. Di fiori e colori ma anche di nero – il nero del dolore profondo, del lutto, del senso di perdita.

Ma, soprattutto, è una storia che racconta di una magia, la magia dell’amore.

 

Era amore, quello che vedeva. Quel dare con speranza e fiducia, quel donarsi completamente e prendersi cura senza pretese era una forma d’amore.”

 

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L’amore idealizzato e vagheggiato della Agus in Mal di pietre

11 Agosto 2017 , Scritto da Federica Cabras Con tag #federica cabras, #recensioni

 

 

 

Mal di Pietre

Milena Agus

 

Nottetempo, 2016

 

 

Una ragazza trova un quadernetto con i bordi rossi. Appartiene alla nonna. Lì la donna si è confidata, mettendo nero su bianco desideri e timori ma soprattutto voglia... voglia di amore carnale, di mani intrecciate e sudore sulla pelle.

Si torna quindi indietro nel tempo. Come scenario, la Sardegna della seconda guerra mondiale; come narratore – un narratore che risulta essere attento e scrupoloso –, la nipote della donna. La donna – viene chiamata per tutto il testo nonna, mai un nome né un riferimento più preciso – è poco equilibrata, un po’ inquieta. Giunta a un’età in cui è normale esibire un marito – pena la compassione di tutti – non riesce a farsi chiedere in moglie. È una bella donna, non le mancano di certo i pretendenti. Ma lei, quando qualcuno si mostra interessato, gli scrive poesie bollenti, piene di sentimento e di desiderio. Ha frequentato solo le prime classi delle elementari, tuttavia scrive da sempre – malgrado debba farlo da sola, di nascosto, con il quadernetto tra le gambe e i sensi all’erta perché non entri nessuno –, è il suo modo per sfogare quell’inquietudine. Loro però non capiscono, fuggono dinnanzi a quell’arte, a quel sentimento. Quando i suoi decidono di farla convolare a nozze con un uomo rimasto da poco vedovo, lei rimane interdetta. Non c’è amore, grida a gran voce. Quando lui però fa notare che l’amore non sia necessario, le cose vanno veloci. La narratrice/nipote chiama nonno quell’uomo pratico e non interessato alle dicerie, alle cattiverie gratuite di chi considera la sua futura moglie una pazza da rinchiudere in manicomio.

All’inizio è un legame tiepido. Sono coinquilini. Lei è un’artista, in tutti i sensi. Per come vive la sua vita, sì, ma anche per le sue qualità di poetessa, di scrittrice. È un po’ in aria, nel senso buono dell’espressione. Non si conforma alla società, alle sue assurde e banali regole. Poi, la svolta. Non è proprio amore, il loro, ma diventa un legame fatto di rispetto, normalità e sesso. Sesso senza remore né paure. Sesso senza religione e senza timori. Senza tabù. 

Quando va alle terme per trovare un rimedio ai calcoli renali – Mal di pietre è un calco dal sardo che indica proprio i calcoli renali –, conosce un uomo distinto. Il Reduce. Menomato dalla guerra, attraente e colto. Se ne invaghisce. Finito il problema, fa ritorno alla sua vecchia vita. Rimane tutta la vita divisa tra due fuochi, amando sì il marito ma bramando anche il Reduce.

È un amore vagheggiato, idealizzato, quello che si trova nell’opera di Milena Agus. Un amore fatto di stranezza ma anche di normalità – perché chi è strano e chi è normale, in questo nostro mondo?

Un libro che tratta di amore – perché l’amore ha infinite sfumature –, di diversità, di pregiudizi, di vite particolari vissute in modo particolare. Un libro che si legge in un pomeriggio ma che regala tanto, che stupisce tanto. Un libro che è diverso da qualunque altro si sia letto in precedenza, con uno stile talmente particolare che  si potrebbe riconoscere una pagina scritta dalla Agus tra mille. Un libro dall’immenso valore.

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Jenny Blackhurst, "Era una famiglia tranquilla"

24 Luglio 2017 , Scritto da Federica Cabras Con tag #federica cabras, #recensioni

 

 

 

 

Era una famiglia tranquilla

Jenny Blackhurst

Newton Compton, 2017

 

Susan è appena uscita da un ospedale psichiatrico. È stata dentro, tra quelle mura tristi, per due anni e otto mesi. Lei non ricorda nulla, di quel fatidico giorno di quasi quattro anni prima. Psicosi puerperale, dicono i dottori. Depressione post parto. Il piccolo Dylan aveva solo una manciata di settimane quando qualcuno gli calò un cuscino sulla faccia. Quando Susan venne trovata, quel cuscino giaceva tra le sue mani.

Adesso è fuori, può nuovamente guardare dritto verso il sole. Si è trasferita. Si chiama Emma, ora. Ha cambiato posto in cui vivere e identità. Non vuole che la gente la additi come infanticida, come pazza, come pericolosa. D’altronde lei ha sempre creduto, nel profondo del suo cuore, di non aver ucciso il piccolo amore della sua vita. Sì, si ricorda di essersi sentita inadeguata; si ricorda la stanchezza, il dolore, lo smarrimento che ha provato quando Dylan era tra le sue braccia. Tutti stanno lì a esaltare la maternità sempre e comunque, e nessuno che spieghi quanto può essere difficile essere all’altezza, sentirsi pronti. Lei lo sa, forse avrebbe avuto bisogno di un po’ d’aiuto, ma l’ha davvero ucciso? Ha davvero privato della vita quel piccolo pezzo di cuore, il sangue del suo sangue?

Qualcuno le manda presto un macabro messaggio: una foto di un bambino di quattro anni sorridente. Dietro, la scritta: Dylan. Ma è il suo Dylan?

Tra scoperte e mezze verità e colpi di scena, arriviamo a una fine che è macabra, spaventosa. Niente è come si crede.

La Blackhurst mette su un thriller che a tratti è forse un po’ surreale, ma che risulta pienamente riuscito. Si legge e si legge e si legge, e finché tutti i nodi vengono al pettine non ci si può dare pace. La narrazione è veloce ma non lascia nulla al caso.

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Claire Asby, "La libreria dei desideri"

18 Luglio 2017 , Scritto da Federica Cabras Con tag #federica cabras, #recensioni

 

 

La libreria dei desideri

Claire Ashby

 

Newton Compton,2016 

 

Dopo Le Sorelle, thriller conclusosi lasciandomi l’amaro in bocca, mi sono fiondata su un altro libro, libro che risulta essere super gettonato in questi giorni. La libreria dei desideri, della Ashby, è finito sul mio telefono ma non sul mio cuore, ahimè.

Meg è una futura mamma. Malgrado abbia già un pancino discretamente visibile – siamo pressoché al quarto mese – si rifiuta di annunciare il bebè al mondo. Solo la sua amica sa che quella pancia non è dovuta alle lasagne. Non può esibire come trofeo un compagno, e questo le dà un senso di inadeguatezza incredibile. Una delle ragioni per le quali si sente così abbattuta è il suo essere single, irrimediabilmente single. D’altronde il suo ex, del quale è rimasta incinta durante una gita finita nell’alcol, è sposato e ha già quattro figli. Del quinto non vuole proprio saperne nulla.

Quindi, detto ciò, per lei l’unica cosa da fare è fingere di essere solo un po’ ingrassata. Di lì a pochi mesi partorirà un cucciolo d’uomo, ma non si pone particolari problemi.

Nel bel mezzo di tutto ciò, incontra Theo. Ha una gamba sola perché faceva il medico in guerra e un incidente si è portato via metà del suo cuore oltre che un bel pezzo del suo corpo. È forte, un po’ rude, ma interessante.

L’autrice riesce a rendere Meg incredibilmente antipatica. La presenta come una ragazzina che si addormenta sognando anelli di brillanti sull’anulare, uomini carini che accompagnano mogli sorridenti a fare la prima ecografia, una vita normale – e con normale intendo da sposata/incinta.

Sembra un po’ superficiale, un po’ snob nel suo modo di relazionarsi con il mondo circostante. Tutti guardano lei, solo perché è incinta e non ha un anello nel dito. Tutti la osservano, la giudicano, sono pronti a mettere in dubbio la sua serietà perché un marito non le cinge le spalle mentre cammina. Rimango convinta che un buono psicologo le diagnosticherebbe la “sindrome della ragazza normale” – esiste? –, certo solo dopo averle insegnato le basi riguardo ad autostima e forza interiore.

Comunque, Theo è un miracolo in quella che è la sua vita noiosa. Sì, è un po’ maschio, un po’ scorbutico, di quando in quando, ma è l’unico che la scuote dal torpore. L’unico che non capisce perché lei si senta perennemente in difetto, sempre sotto accusa. La sveglia un po’, insomma. Le ricorda che non ci si deve preoccupare di ciò che gli altri pensano. Le dice anche che non potrà comunque tenere nascosta a lungo la cosa – qualora lei non l’avesse capito già.

Theo è un uomo virile, forte. Lei comunque se ne innamora fin quasi da subito. Lui pure. E qual è il problema?, direte voi. Non ce ne dovrebbero essere. Ma lei non dice quello che pensa, lui non esprime quelli che sono i suoi stati d’animo profondi. Quindi, fino alle ultime venti pagine non si riconciliano. C’è il classico meccanismo che io amo tanto – si fa per dire – di pace, guerra, pace, guerra. Praticamente, quando le cose vanno bene, caro lettore, qualcosa di terribile e infausto si abbatterà su questa incredibile storia d’amore. Quando la tempesta è in corso, ci sarà un momento tenerezza per riequilibrare gli animi.

Be’, viva l’amore.

 

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Claire Douglas, "Le sorelle"

10 Luglio 2017 , Scritto da Federica Cabras Con tag #federica cabras, #recensioni

 

 

 

Le sorelle

Claire Douglas

 

Editrice Nord, 2016

 

Quasi trecento pagine. Per duecento buone non si capisce granché. Non si abbandona la lettura, però: diventa una lettura compulsiva, quasi malata, senza ombra di dubbio urgente. Perché questa frase? Ora che sarà capitato? Ma chi è il colpevole?

Ma vediamo le cose nel dettaglio.

Abi è devastata. Si sente impotente, svuotata. Dev’essere così, quando hai un gemello e il destino te lo strappa via presto, senza aver potuto dirgli addio. Ciò che non può sopportare Abi, poi, è il fatto di essere la causa della morte di Lucy, della sua gemella. All’inizio queste sono le uniche cose che comprendiamo. Lei l’ha involontariamente uccisa, non si capisce bene né dove né perché, e il senso di colpa la sta mangiando. Ah, certo, l’altra cosa che ci appare chiara come il cielo a maggio è che lei mente. Ha paura che si venga a sapere ciò che, diligentemente, ha sepolto in un anfratto della sua mente malata. Gli unici che sanno di questa ipotetica menzogna erano con lei quella sera, la famosa sera della morte di Lucy. Non sta bene, Abi, e tra le righe leggiamo di un ricovero in un ospedale psichiatrico, di antidepressivi, di un suicidio mancato.

Quindi, ricapitoliamo: abbiamo una ragazza mangiata viva dal rimorso e con problemi psicologici non indifferenti, una bugia che non vuole vedere il sole e una morte incomprensibile avvenuta un anno e mezzo prima. Ci sono gli elementi giusti affinché la nostra attenzione venga catturata.

Abi cerca Lucy in ogni ragazza che incontra, ma questo è comprensibile. Chi, dopo una morte, non cerca quel viso – quello che non si potrà mai più vedere, quello che non potrà più sorridere né piangere né vivere – tra la folla? Un giorno, però, rimane interdetta. Lucy è lì, dinanzi a lei. Poi si riprende, capisce. Non è Lucy ma sembra lei. Quella ragazza con il caschetto biondo e la personalità effervescente somiglia così tanto a sua sorella che per un attimo il dolore della sua perdita si affievolisce. Assomiglia a sua sorella gemella Lucy, sì, ma anche a lei. Perché lei e Lucy erano identiche. Solo che lei ora ha qualche ruga attorno agli occhi che la gemella non avrà mai. Lei ha quasi trent’anni e Lucy ne avrà per sempre ventotto. Lei invecchierà e Lucy sarà sempre uguale, una giovane donna strappata alla vita e consegnata alla morte.

Così, vanno a vivere insieme. Ma Beatrice ha un gemello. Strano il destino, quando decide di giocare tiri mancini. Quella ragazza così maledettamente uguale a lei, quella che le ricorda immensamente la gemella sepolta nella fredda terra, ha un gemello. Ben.

Così inizia il tunnel delle cose strane. Dei fraintendimenti. Degli avvenimenti che fanno venire la pelle d’oca. Delle incomprensioni – perché sfido chiunque a capire che avviene – e delle menzogne sussurrate a mezza voce.

Non perdiamo concentrazione neppure per un secondo, così presi dall’impulso maniacale di arrivare all’ultima pagina. Per capire. Per analizzare i fatti. Per non perderci.

Comunque, la psicologia dei personaggi – di tutti i personaggi –, anche quando si arriva alla parola “Fine” e tutti i tasselli tornano al proprio posto, rimane interessante. Nessuno è completamente sano, nessuno è completamente malato. Ci sono tragedie, colpi del destino, sbattimenti di testa. C’è il fato che talvolta si accanisce. C’è tristezza, amarezza perché non sempre si può capire tutto dalla vita.

Ma, soprattutto, c’è la cupa presenza della morte che aleggia, ricoprendo di un oscuro nero che sa di presagio tutto quello che incontra.

 

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Rosa Montero, "In carne e cuore"

4 Luglio 2017 , Scritto da Federica Cabras Con tag #federica cabras, #recensioni

 

 

 

 

 

In carne e cuore

Rosa Montero

Salani, 2017

 

"La vita è un breve intervallo di luce tra due nostalgie: la nostalgia di ciò che non si è ancora vissuto e quella di ciò che non si potrà vivere. E il momento in cui bisogna agire è così confuso, così sfuggente ed effimero, che lo si spreca guardandosi intorno storditi."

 

Soledad ha quasi sessant’anni e, benché odi il passare del tempo – guardandolo non come un qualcosa di inevitabile ma alla stregua di una maledizione –, le rughe hanno avvizzito la sua pelle e scolorito un’antica ma forte bellezza. Cerca l’amore in un modo così forte, intenso, incondizionato da non riuscire mai a saziare questa sua fame.

Il suo giovane amante sposato l’ha lasciata, ha scelto la legittima compagna incinta, e lei non si dà pace. Vorrebbe urlarlo, questo suo amore, riconquistare quel legame. Così, certa che sia una soluzione, ingaggia un gigolò affinché la accompagni a un evento cui sarebbe stato presente anche il fedifrago e consorte; la gelosia, pensa, lo farà tornare da me, lo risveglierà dal torpore. Nulla di più sbagliato, ma quella sera cambia l’intero suo futuro.

Si tiene bene, Soledad, con il suo fisico sodo e il buon gusto nel vestire. Ultimamente, però, un forte senso di inadeguatezza e un profondo malessere le ghermisce il cuore con una presa fatale: è appassita, malgrado tutto. Ecco perché la sproporzione tra lei e il giovane gigolò la sente, eccome se la sente; pulsa, le entra nelle viscere, la fa tremare. 

Adam è bello, prestante. Ha poco più che trent’anni – un’età che Soledad considera ancora valida, giusta – e lei vorrebbe perdersi in quegli occhi e in quella mente così inquieta, così tormentata.

 

"Il buio della notte era davvero pieno di mostri, come Soledad temeva e sospettava fin dall’infanzia. E gli orchi si chiamano ossessioni."

 

Fanno l’amore più e più volte, durante i giorni a seguire. Soledad si vergogna quando, portafogli alla mano, lo paga; d’altronde vorrebbe essere amata, e lui – lui così strano, chiuso, cupo – non si espone. Soledad non riesce a scrutarlo dentro, nei profondi anfratti della sua anima. La speranza mista alla consapevolezza di non poter reggere il confronto la devasta.

 

"Lei si sentiva angosciata, afflitta, straziata, sconsolata, sconcertata, perduta, fallita, a pezzi, preoccupata, infelicissima... insomma, più morta che viva."

 

Esperta di arte, sta organizzando una mostra sugli scrittori maledetti alla Biblioteca Nacional di Madrid. Ci mette tutta se stessa, anima e corpo. Ama quelle vite, quei fatti, quei nomi. Hanno un non so che di magico, pur nella loro follia.

Quegli animi tormentati, afflitti, appassionati – di una passione forte da far male, da uccidere – la affascinano. Rimarrebbe ore e ore a raccontarsi di quelle vite sul filo di un rasoio, di quegli artisti che, perseguitati dalla propria mente, fecero dell’illusione e del sogno realtà, perdendosi talvolta nella spirale dell’allucinazione. Noi con lei ne veniamo toccati, cambiati, ammaliati. Seguiamo le sue parole e le facciamo nostre, le ripetiamo nella nostra mente perché il buio e la follia hanno un potere assoluto: sanno spaventare e incantare allo stesso tempo. 

 

«Essere maledetto significa sapere che la propria arte non trova alcuna eco, perché non ci sono orecchi in grado di comprenderla. In questo assomiglia alla follia» sbottò improvvisamente Soledad. «Essere maledetto è sentirsi fuori dal proprio tempo, dalla propria classe sociale, dal proprio ambiente, dalla propria lingua e dalla cultura cui si dovrebbe appartenere. Essere maledetto è voler essere come gli altri senza riuscirci. È voler essere amato e invece suscitare soltanto diffidenza o qualche risata. Essere maledetto è non sopportare la vita e soprattutto non sopportare se stessi.»

 

Soledad, nella sua incapacità di voler invecchiare, è come un frutto che, troppo maturo, non vuole staccarsi dall’albero. È come una goccia che si ferma a mezz’aria, non capace di comprendere che il suo destino è il freddo suolo – come normale, naturale conseguenza della vita stessa.

Ha un sapore dolce e amaro insieme, la certezza di non potercela fare. Lei, così persa in un’illusione, sa bene che niente è semplice, niente è scontato. Perseguitata dai fantasmi del passato, non sa vivere il presente in modo totale.

 

"Il fallimento era un lupo affamato che la osservava da lontano fin da quando era bambina, un lupo che girovagava per le lande deserte della sua vita in attesa di un suo passo falso per avventarsi su di lei."

 

Rosa Montero riesce – in un crescendo di emozione, di forte trepidazione – a catapultarci in un mondo fatto di turbamento, di paure, di angosce. In un mondo dove tutto viene capovolto, analizzato, stravolto e ricucito. In un mondo di scrittori maledetti che, a causa di menti maledette, hanno condotto vite maledette. In un mondo, quello della giovane/vecchia Soledad, dove nulla è lasciato al caso.

 

"Tutti gli amori erano ossessivi? O forse le ossessioni si nascondevano dietro le apparenze di un amore per sembrare qualcosa di bello, e non un banale squilibrio psicologico? […] L’amore avvelena, non v’è dubbio. Abbrutisce, fa commettere ogni sorta di sciocchezze e di eccessi."

 

In carne e cuore racconta la storia di Soledad, è vero, ma non si ferma qui. Diventa una profonda riflessione su temi cari, importanti, degni di nota... la Montero parla delle donne – si sofferma sul concetto di identità, sulle incertezze e sulle paure –, della morte, della passione, dell’arte. Parla di quotidianità ma anche di stranezza. Parla di bellezza e inganno. Parla di tante vite, pur soffermandosi su una in particolare.

Parla dell’animo umano.

 

 

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Sui treni da prendere e sui sogni da rincorrere: c’è sempre tempo

25 Giugno 2017 , Scritto da Federica Cabras Con tag #federica cabras, #psicologia

 

 

Qualche tempo fa, compilando il curriculum aggiornato, mi è piombata addosso un’angoscia terribile, da mozzare il fiato. Mi sono resa conto di avere 26 anni, ormai. Io, con il cervello ancora impostato su “giovinezza”, non avevo ancora realizzato di essere più vicina ai trenta se non ai venti. Certo, nell’ultima torta di compleanno che mi ha fatto la mia mamma – la stessa che per coccolarmi mi fa tutti i ventitré maggio da quando sono venuta fuori dalla sua pancia tra atroci dolori, e queste sono parole sue – campeggiava, in cera e color azzurro acceso, il numero 26. Mica però, soffiando con lo stesso entusiasmo di quando di anni ne avevo quattro e dopo mi aspettava una vagonata di regali, mi sono resa pienamente conto del fatto. Anche il mio fidanzato e la mia sorellina mi hanno chiamata ventiseienne per giorni. Nemmeno questo mi ha mandata in crisi. Quel curriculum ha scatenato in me la stessa tristezza che mi assale quando apro il barattolo di Nutella, decisa a mangiarne un chilo almeno, e lo trovo vuoto. Mi ricordo quando, a diciannove anni, mi sentivo una wonder woman immortale. Ero più che convinta di poter fare di tutto, persino l’astronauta. A diciannove anni si pensa che si rimarrà sempre giovani, pieni di speranze e di energie. Adesso, a ventisei suonati, ho capito tre cose: il mio essere lunatica e psicologicamente instabile non era legato all’adolescenza; non posso più diventare astronauta – non perché non ci sia più tempo, e di questo parlerò dopo, ma perché non mi va proprio più –; le zampe di gallina sugli occhi non rendono certo lo sguardo più sexy. Però, oltre il fatto che sia un po’ sconvolta dal tempo che, inarrestabile, scorre senza che nessuno possa controllarlo, mi sono resa conto di una cosa: troppo presa a fare quello che si sarebbe aspettato il mondo da me, mi sono dimenticata di ciò che volevo io. Ecco perché non mi ero accorta di avere – non mi ero accorta veramente, intendo – già ventisei anni.

In questi ultimi anni ho vissuto di lavoro, di corse, di studio e di traguardi da seguire per essere “nella norma”. Laurea in pochi anni – anche se, con quella velocità e quell’ansia, non mi sono goduta il percorso – e specialistica iniziata presto, come era socialmente ritenuto giusto fare, malgrado le mille ansie e i mille dubbi. Risultato, quattro esami dati in pochi mesi con successo ma grande, immensa frustrazione. Non era il mio campo, non era la mia passione... non per adesso almeno. Malgrado la tristezza di essermi accorta del tempo che è volato, ho compreso che l’amarezza maggiore è data dal fatto che, nel rincorrere ciò che invece il mio cuore rifuggiva, ho sprecato del tempo prezioso, tempo che non tornerà; tutti noi sprechiamo il nostro tempo. Lo sprechiamo quando facciamo qualcosa che non vorremmo fare, quando ci concentriamo più sugli obiettivi che sul percorso, quando non sorridiamo per le piccole cose, quando non capiamo il perché della nostra pelle sciupata e delle borse sotto gli occhi. Ecco, ho capito che il mio tempo è passato perché mi sono preoccupata più dell’essere “normale” che dell’essere felice. Allora cosa ho fatto? Decisione repentina e cambio, Master. Niente specialistica. Se un giorno un’ondata di ispirazione mi coglierà, be’, vivrò l’attimo. Finalmente soddisfazione. Recensisco molti libri al mese, scrivo articoli, studio per il Master... e c’è persino qualcosa che bolle in pentola per quanto riguarda il mio sogno di scrivere di nuovo qualcosa che mi renda orgogliosa, malgrado non arrivi mai in alto.

Quindi, sapete a che conclusione sono giunta? Se volete fare filosofia, fatela – anche se non c’è lavoro. Se volete dipingere quadri in riva al mare, trovate un cavalletto e guardate il panorama. Volete ballare, cantare? Siete iscritti a giurisprudenza ma vorreste fare gli assistenti sociali? Cambiate. Mettetevi in gioco. Saltate nel buio.

Ho capito, senza mezzi termini e mezze parole, che di vita ne abbiamo una sola. Sì, so che sembra una frase fatta, però troppo spesso ce ne dimentichiamo. Dimentichiamo che vale più un sorriso di un pianto; dimentichiamo che l’ambizione è una gran cosa, senza ombra di dubbio – io sono ambiziosa da far paura, quindi mai potrei dire il contrario –, ma solo quando è rivolta verso qualcosa che ci riempie il cuore e la giornata; dimentichiamo che i traguardi si tagliano meglio e con maggior successo quando le cose si affrontano con passione. Vivere felici – irrilevante che sia in mezzo ad arte, musica, libri, numeri, colori, espressioni, stetoscopi, bambini – è l’unico nostro scopo; trovare la serenità, una serenità che odora di verità e di giustizia, dà un senso di estasi che nessuna sostanza stupefacente potrà mai regalare.

Ho capito, inoltre, che non è tardi per nulla e che è sbagliato conformarsi agli altri per forza. Che non si deve fare il 3+2 per soddisfare mamma e papà. Che non si deve prendere sempre 30, pena la delusione di qualcuno. Che è sbagliato rincorrere la normalità che fin da piccoli il sistema ci vuole inculcare. Siamo tutti normali. Siamo tutti diversi. Tutti abbiamo sogni e aspirazioni. Tutti noi cadiamo. Tutti noi possiamo rialzarci, ginocchia sbucciate, per fare meglio. L’ho capito quando mi sono sentita libera, felice di ciò che avevo scelto, finalmente affrancata dalle catene della superficiale normalità.

Non è mai troppo tardi per nulla, poi.

E magari mi starà sbucando qualche capello bianco, per carità, ma se domani mi svegliassi e capissi che sarei felice a studiare psicologia – o lingue, o biologia –, be’, prenderò quel treno.

Siate felici alla luce del sole. Mostrate i vostri desideri, rincorreteli come fareste con un aquilone se foste bambini. I sogni nel cassetto si rovinano: tirateli fuori. Anche quando credete di non avere più tempo. Tutti abbiamo tempo. Possiamo fare qualunque cosa. E questa è la più grande ricchezza che abbiamo.

 

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Odore di casa

17 Giugno 2017 , Scritto da Federica Cabras Con tag #federica cabras, #racconto

 

 

Aria di casa, ed è tutto così semplice

Una volta, in un articolo pieno di sentimento, di emozione, di passione, aveva letto di come per sentirsi sempre a casa, tranquilli e appagati, bastasse una valigia sempre carica, con un cambio di magliette e slip. Una valigia sempre pronta a viaggi in posti esotici, insomma; sempre pronta a contenere un po’ di cuore e una sana voglia di mondo, quella che si appaga solo con un aereo, un biglietto e un paio di occhiali da sole a nascondere gli occhi stanchi; sempre pronta a tutto o a niente, al sole o alla pioggia, al mare o alla montagna – l’importante è che fosse qualcosa di diverso dal solito grigiore agrodolce, quello che condisce la routine.

Si dice che gli unici cui è dato il privilegio di sentirsi sempre e ovunque a casa siano i re, le puttane e i ladri.

A me, affinché mi senta a casa veramente – perché non basta essere a casa, per sentirsi a casa –, basta poco. Un inizio di notte qualunque.

Una cioccolata calda alle undici e mezza – sì, anche quando fuori è già estate, anzi, soprattutto allora – mentre fuori è buio da ore, quando si torna tardi da lavoro e si è un po’ stanchi e un po’ brilli di vita. Un PC con un film thriller, che di quelli d’amore dove si piange, ci si abbraccia, si sta insieme sempre e comunque e finché morte non ci separi, ci siamo un po’ rotti, a onor del vero. Il cane acciambellato nelle gambe, lui che ha dei picchi d’affetto tenerissimi che mi scaldano il cuore. Un bacio rubato tra una scena e l’altra, con una dolcezza che sa di eternità, di urgenza e di bene, nonostante nessuna firma sancisca la promessa. Il rumore della lavatrice che fa l’ultimo lavaggio di maglie bianche, le stesse che probabilmente non vedranno luce fino all’indomani mattina – ché a quest’ora le cose si fanno, è vero, ma sempre in modo un po’ più svogliato del resto del giorno. Una macchina in lontananza, la sola che sfida la notte di un paesino. Una copertina leggera, bordeaux – s’intona poco alle pareti ma, forse proprio per questo, sembra perfetta.

È in questi attimi che tutto mi sembra tornare al suo posto. Nel mio divano rosso – il primo elemento di arredamento comprato sì con pochi soldi ma anche con molta autonomia, che per questo rappresenta orgoglio e libertà – mi sento a casa, io che non riesco quasi mai a tirare un sospiro di sollievo sentendomi soddisfatta, in pace. In questi momenti non vorrei essere in nessun’altra parte del mondo, in nessun altro luogo. Non in spiagge assolate con un cocktail in mano né nel deserto a rincorrere misteri. Non nell’oceano, o nella montagna. In una piscina, no. In un parco giochi – quelli che da bambina ho sempre desiderato visitare –, no.

Lì, cullata dalla normalità che mi sono guadagnata con sacrifici, sudore, insonnia, sento che il puzzle è completo e forma un bel disegno. Malgrado tutto.

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101 ragioni per non leggere il libro “101 modi per riconoscere il tuo Principe Azzurro”

14 Giugno 2017 , Scritto da Federica Cabras Con tag #federica cabras, #recensioni

 

 

Mi sono innamorata della Federica Bosco dei romanzi. Empatica, attenta ai personaggi, innovativa nei finali. In particolare Innamorata di un angelo e Il mio angelo segreto mi colpirono parecchio. Sì, è vero, si trattava di storie che parlavano di adolescenti – e forse ad adolescenti dirette – però mi avevano rapita, malgrado avessi più di vent’anni e i brufoli da quattordicenne mi fossero passati da un po’; alla fine del primo libro, di quel Pat un po’ dolce e un po’ tenebroso mi innamorai anche io. Nel secondo libro, piansi a lungo per lui e per lei e per quell’amore che non poteva avvenire. Ecco perché qualche giorno fa, alla ricerca di una lettura un po’ meno pesante delle ultime, mi sono illuminata vedendo il nome della Bosco.

Io non amo stereotipi né luoghi comuni, a maggior ragione se associati all’amore; forse già dal titolo avrei dovuto capire che il libro ne sarebbe stato pieno zeppo. Che mi aspettavo?

101 modi per riconoscere il tuo principe azzurro (senza dover baciare tutti i rospi) è probabilmente entrato nella rosa dei libri più brutti che io abbia mai letto. Sono una lettrice onnivora, generalmente finisco tutto quello che inizio. Di rado abbandono un libro a metà. Non mi pare corretto. Verso l’autore, sì, ma anche verso chi l’ha letto dandone una buona opinione. Poi io ho l’animo buono: anche quando un testo non mi ha convinta – non appieno, almeno – voglio sempre trovare un motivo perché venga letto. Che sia per l’uso interessante delle parole, per qualche analogia divertente, per la punteggiatura impeccabile... non mi accontento se non lo “salvo” almeno un pochino.

Questo non ho potuto. L’ho piantato in asso a metà.

Quindi voglio sottolineare che la mia recensione riguarda la prima metà del testo, la parte di testo che sono riuscita a leggere prima che un buco nero inghiottisse la mia pazienza.

La Bosco fa sostanzialmente una lunga lista di “tipi da evitare”, esortando noi donne, le principesse, a cercare il principe azzurro. Ma sì, sapete quale? L’uomo perfetto, quello che si ricorda compleanni e anniversari, che non russa e non puzza, che ti chiama quando vorresti essere chiamata e non ti chiama quando hai la sindrome premestruale; l’uomo che dorme accanto a te, che non guarda film porno – giammai! – e che si finge morto se tu parli del tuo peso.

Noi principesse, dice la Bosco, incappiamo spesso in brutti a cattivi ceffi. Ecco, dopo aver letto questo libro, saremo tutte salve.

Dai consigli più scontati – “Se è sposato” – ai più sciocchi – “Se guarda troppi film porno” o “Se non vuole dormire con te” – la Bosco si dimostra una donna noiosa che vorrebbe un uomo perfetto, che non esca mai dalle righe che lei ha diligentemente tracciato. Un uomo barboso che fa sempre quello che la sua compagna vorrebbe, senza se e senza ma.

Ora, ci sta se mi dici che bisogna evitare gli uomini sposati o violenti o prepotenti – e ci credo, non pensavo nemmeno servisse un libro così strutturato per capirlo – ma come fai a dirmi che devi lasciarlo se non vuole dormire con te fin dai primi appuntamenti? Uno può anche voler riservare quella parte di intimità per il futuro della coppia, se mai ci sarà. Mica dal secondo appuntamento si può dormire abbracciati a cucchiaio come nelle migliori pubblicità di deodoranti, eh. Che consiglio sciocco. Io ad esempio soffro di insonnia. Come potrei dormire con uno sconosciuto – perché questo sarebbe, dopo due appuntamenti – così, senza nessun problema? Mi girerei e rigirerei nel letto per ore, facendo passare a lui tutta la voglia di vivere e di rivedermi. Ora io ho preso l’insonnia, ma ci sono almeno un milione di altre ragioni valide per non voler dormire insieme all’inizio di una relazione. Che la Bosco dica che è una cosa carinissima a prescindere offende un poco la mia intelligenza... macché!

 

Non mi ricordo di aver mai letto che il Principe, dopo aver sedotto Biancaneve, se ne saltasse in groppa nel suo cavallo bianco nella notte per raggiungere il castello da solo, perciò se non se la sente, molto probabilmente riesce a dedicarsi a te solo per un tempo breve.”

 

Un Principe, ragazze. Delle favole. Favole che non esistono e che vengono raccontate alle bambine sotto i dieci anni affinché prendano sonno.

Anche la storia del peso. Signori, siamo noi donne quelle ad essere super extra preoccupate del proprio peso. Ne parliamo continuamente, lamentandoci di quel grissino che ci ha fatto prendere mezzo grammo. Mettiamo che io passi due ore a lamentarmi di avere due chili in più e che il mio uomo, dopo aver ascoltato con grande pazienza tutti quei vaneggiamenti, mi faccia notare che quei due chili si potrebbero perdere facendo una camminata ogni giorno all’alba per venti giorni... sarebbe un insensibile? Andrebbe lasciato perché non mi ha abbracciata per dirmi che quei due chili sono belli, dolci e morbidosi? Perché non mi ha detto quanto impazzisca per quei due chili? Perché non mi ha proposto di correre con me e di mangiare anche lui solo insalata per tre mesi, tre settimane e tre giorni?

Io non mi sono mai considerata una principessa. Ho un carattere scostante, un umore spesso altalenante, un equilibrio psico-fisico molto poco stabile... potrei mai io – proprio io –, io che sono spesso cinica anche verso me stessa e un po’ insensibile, parlare del principe azzurro?

Che il principe azzurro non esista l’ho capito più o meno a sette anni. Non vedo perché alcune donne dovrebbero cercarlo da adulte. Non so, è quasi un’idea malsana, almeno secondo me.

Ragazze, se posso darvi un consiglio io, be’... state insieme a lui se gli occhi vi diventano lucidi e il cuore batte forte, anche se a volte non chiama. Anche se non vuole ancora presentarvi la mamma.

Se state insieme da un mese e mezzo, poi, amatelo anche:

“Se d’estate vuole fare vacanze separate”, “Se ti porta fuori solo il mercoledì” – che sarebbe, secondo un’amica dell’autrice, il giorno delle “donne brutte” –, “Se preferisce il suo lavoro”, “Se è troppo competitivo”.

D’altronde ognuno ha il suo modo di affrontare la vita.

Poi, riguardo il punto 37, se sua mamma lo chiama più di sette volte al giorno a voi che importa? Non siete costrette a sentire.

Non fidatevi dei luoghi comuni trovati nel libro come: “Gli uomini sono semplici, a volte dicono le cose senza pensare e senza il vero intento di ferire, quindi se lui ti ha detto che sei un po’ ingrassata, ma non intendeva altro che questo, informalo che per te non è piacevole che lui te lo faccia notare, perché lo sai benissimo da sola, e che saresti contenta se lui ti sostenesse magari stando a dieta insieme o andando a correre la domenica mattina” – che poi, veramente abbiamo bisogno che lui stia a dieta con noi?

Certo, prendendo in esame altri punti, se è sempre ubriaco, se ti ruba i soldi, se ti tratta male di fronte agli altri e se non ti rispetta forse non è quello giusto. Be’, anche se è capo di una setta, anche se credo sia meno frequente, in effetti...

Se poi fa sesso con la tua migliore amica o con tua sorella – punto 23 – forse nemmeno l’amica e la sorella sono il top, no?

Va be’, detto questo, siamo giunti alla metà che ho letto e su cui posso dare un parere. Quindi, passo e chiudo.

Ah, aspettate. Leggetelo se siete insicure, se pensate di essere principesse incomprese, se pensate di avere bisogno di una relazione con un uomo perfetto, se pensate di essere perfette voi. E auguri, soprattutto.

 

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