Vincenzo Zonno, "Non è un vento amico"
18 Novembre 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni
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Non è un vento amico
Vincenzo Zonno
Vocifuoriscena, 2015
pp 245
15,00
Vincenzo Zonno è un autore dalle enormi possibilità, specialmente se si considera che Non è un vento amico è il suo primo romanzo.
Ambientato nel suggestivo paesaggio baltico, in una exclave russa in territorio prussiano, Non è un vento amico mescola romanzo storico, giallo e climi surreali da castello kafkiano ma anche da fantasy novel.
Fino a metà del testo si pensa di avere fra le mani “il romanzo”, quello che aspettavamo da sempre, di ampio respiro e di grande atmosfera, pronto a diventare best seller prima e classico poi. A sostegno di questa speranza ci sono l’ambientazione e il fascino del paesaggio – fra San Pietroburgo, le foreste siberiane e il mar Baltico - insieme ad una gran bella scrittura, elegante, distesa, mai banale nelle descrizioni. Le sbavature sono pochissime, lo stile intelligente, di quella fluidità che nasconde tanto certosino lavoro di lima.
Il protagonista, Georges Stroganov, tenente di bell’aspetto e di belle speranze, viene chiamato a Cypel Koszalin, luogo di reintroduzione di ex deportati siberiani, dove sorge una fortezza che ricorda la montagna del purgatorio dantesco. Qui egli dovrà sostituire un console ucciso in modo atroce e sconvolgente. Indagando sulla fine inquietante del predecessore, scoprirà un mondo statico di peccatori, vittime dei suoi stessi vizi, primo fra tutti l’adulterio. S’innamorerà perdutamente di una bella vedova e farà amicizia con una lince.
La trama contempla personaggi storici, come il governatore Murav’ev, lo zar Nicola I e suo fratello Alessandro, scomparso in circostanze poco chiare. A questo riguardo, Zonno adotta e sviluppa la tesi di Lev Tolstoj, nel racconto incompiuto Memorie postume dello stareta Fedor Kuzimič. Non sveliamo la trama, che ha un intrigo da dipanare, ma diciamo che nel romanzo sono intrecciati molti elementi reali, come la rivolta decabrista e l’eresia dei Christovovery, ad altri di pura fantasia. Ci sono correnti irrazionaliste che pervadono la Russia di metà ottocento, ma il protagonista rimane con i piedi per terra e investiga con lucidità su quello che sembra un enigma sovrannaturale.
Peccato che, dalla metà del romanzo in poi, la storia non decolli, perda respiro e mordente. Tutto rimane un po’ troppo confinato intorno alla figura della bella Lidjia e all’amore che essa suscita nel tenente.
Come fa notare Oliviero Canetti nella postfazione, Cypel Koszalin è un “microcosmo”. Diciamo che è più un simbolo che un luogo narrativo, e di questo il romanzo risente, trasformandosi (e atrofizzandosi) da grande narrazione ad allegoria. Si sente che l’autore ha familiarità con i romanzi russi dell’ottocento, con i concetti di redenzione, peccato e perdono. Stroganov è un libertino, alla fine compirà il percorso inverso a quello di tutti i peccatori di Cypel Koszalin, fuggirà in Siberia in un cammino a ritroso di riscatto morale, dove l’amore e la comprensione hanno la meglio sui sensi di colpa e persino sul bisogno di Dio.
Siamo certi che di questo autore sentiremo ancora parlare, se saprà coniugare il simbolismo surreale con le necessità narrative, in un connubio che diverrà la sua cifra personale.
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