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serie tv

Leopardi, il poeta dell'infinito

9 Gennaio 2025 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #serie tv, #poesia, #personaggi da conoscere

 

 

 

Se Leopardi il poeta dell’infinito fosse una qualsiasi serie in costume, mi sarebbe piaciuta. Ma è una serie su Leopardi e non va bene.

La prima puntata si salva: Ranieri che si batte per una degna sepoltura al poeta malvisto dall’intellighenzia e dalla chiesa, il conte Monaldo, superbamente interpretato da Alessio Boni (molto migliorato negli anni come attore), la cui tensione morale e affettiva si rivela da ogni tendine e muscolo facciale, l’austera e terribile madre, felice che il figlio sia malato per poterlo immolare al suo Dio corrucciato. Bello, per dirla in breve, l’inizio.

La seconda puntata lunga, tronfia e quasi inguardabile, con l'improbabile carteggio alla Cyrano de Bergerac fra Raneri e l’Aspasia/Targioni Tozzetti. Passano gli anni e questa sorta di gobbo di Notre Dame rimane troppo giovane, troppo bello, troppo dritto e con lo stesso, anonimo filo di voce per tutto lo sceneggiato (sì, io chiamo ancora così le serie tv e me ne vanto).

Non trovo giusto aver puntato tutto sul Leopardi filosofo, sul suo nichilismo, disfattismo e pessimismo, quando, in realtà, questo “giovane favoloso” era innamorato della vita, dalla quale si sentiva escluso. Ebbene sì, avrebbe rinunciato a tutta la sapienza, a tutta la cultura, alla fama e alla gloria pur di essere come qualsiasi altro. Leopardi amava l’amore e s’infatuava, Leopardi gridava alla luna il suo dolore e la sua rabbia per la cattiveria con cui la natura matrigna si era accanita contro di lui. Insomma, non mi è piaciuto l’aver puntato tutto sulle Operette Morali piuttosto che sui grandi e piccoli Idilli.

La figura del Ranieri, poi, è completamente sbagliata. Da Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi si evince la figura di uno sfruttatore, certo non di un grande, sincero e disinteressato amico, come si vuol far credere qui; il quale non si è battuto perché venisse ricordata la grandezza del genio leopardiano, ma piuttosto le bizzose meschinità di un povero malato: nevrastenia, golosità, piccole cattiverie che sicuramente erano presenti in una figura tanto sofferente e delle quali, però, non c’è traccia nella serie di Rubini.

Concludendo, molto meglio Il giovane favoloso di Martone.

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Doc nelle tue mani

28 Marzo 2024 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #serie tv, #televisione

 

 

 

 

Sono arrivata alla fine della terza stagione di Doc nelle tue mani, medical drama strepitoso – probabilmente ce ne sarà una quarta, visto il successo – ma l’ultimo episodio mi ha molto scontentata. Dopo una “puntatona” grandiosa come la sesta, quella del terremoto per capirci, degna delle migliori serie americane e del capostipite E. R., sono rimasta delusa dal finale.

Nelle altre puntate si era creata una suspence incredibile, tutti lì ad aspettare di conoscere i motivi per cui Doc aveva lasciato la moglie, e gli intrighi di potere che lo coinvolgevano insieme alla sua ex e a un politicante senza scrupoli, per avere alla fine una spiegazione debole e acquosa.

E poi, diciamolo, tutti parteggiavamo per Giulia Giordano (alias Matilde Gioli), da sempre innamorata di Doc (al secolo Luca Argentero). Per tre stagioni aveva atteso che lui si rammentasse della loro storia d’amore cancellata dall’amnesia, e che si liberasse del fantasma della ex moglie (non considerata per niente ex da lui) ed ecco che, quando finalmente i due si ritrovano, Doc si riavvicina ancora una volta alla moglie, minacciata da una mortale recidiva di un vecchio tumore. Ma povera Giulia! Il suo sguardo nell’ultima inquadratura è tutto un programma.

Peccato, dicevo, che il finale sia così insoddisfacente, perché questa fiction ci ha tenuti incollati allo schermo – tv, tablet o telefonino che sia– per tre stagioni, a seguire difficili e intriganti casi sanitari ma, soprattutto, le vicende di straordinari personaggi impersonati da straordinari attori. Medici preparati, professionali, innamorati del proprio mestiere, che si prendono a cuore le vicende di ogni malato come fosse un loro parente. Una squadra giovane, affiatata, fatta di bella gente dall'enorme carica emotiva, con sulle labbra sempre la parola adatta a tirarti su il morale e farti ritrovare la strada, non solo della salute ma anche della vita.

Fra tutti spicca il grande successo di pubblico e di carriera di Pierpaolo Spollon, che interpreta il dottor Riccardo Bonvegna, con una protesi di metallo al posto della gamba e un pezzo d’oro fuso al posto del cuore. Ma, soprattutto, in primo piano c’è lui, il protagonista principale, Andrea Fanti, ispirato a una vicenda realmente esistita.

Bello, sexy e dal sorriso dolce, sogno erotico di sane e malate, Fanti è un prefrontale, costretto a dire sempre la verità a causa di un incidente, capace di entrare in empatia anche col tubo dell’ossigeno. Da un microscopico dettaglio – da come gratti la punta del naso o sbatti le ciglia – ti fa all’istante una diagnosi salvifica. Insomma, il medico che chiunque vorrebbe trovare sul suo cammino.

Impossibilitati a pensare di non rivederlo ancora all’opera, attendiamo fiduciosi il riscatto, nella prossima stagione, di un finale decisamente appiccicaticcio.

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Lost in Space

21 Gennaio 2024 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #serie tv, #fantascienza

 

 

 

 

Che dire di Lost in Space –  serie remake dell'omonimo telefilm americano degli anni '60 ispiratore di un film del 1998 (che all’epoca ho visto e mi è piaciuto) e risalente ai  romanzi di Johann David Wyss prima e Jules Verne poi – dopo aver visto tutte e tre le stagioni, se non che si tratta (finalmente!) di buona fantascienza in stile anni 80, alla vecchia maniera, molto ben confezionata, con tanto di navi intergalattiche, robot, pianeti alieni, avventure mozzafiato, rischi inverosimili da cui i protagonisti si salvano per un pelo all’ultimo secondo, effetti speciali superlativi, ottimi attori  e personaggi molto ben caratterizzati ed amabili, se non che il rapporto fra Will Robinson, il più piccolo e il più coraggioso dei protagonisti, con il suo Robot, è veramente un elemento eccezionale e vale l'intera storia?

Will Robinson, novello Crusoè naufragato con la famiglia su pianeti alieni, è un antieroe, per la giovanissima età che lo rende naturalmente timoroso e perché non ha nemmeno passato la selezione per intraprendere il viaggio verso la colonia Alpha Centauri. Veniamo a sapere che è stata sua madre, Maureen, formidabile scienziato, a imbrogliare per farlo ammettere. Il piccolo crescerà durante le tre stagioni, di statura e di dimensione etica, fino a divenire il salvatore dei mondi, l’anello di congiunzione fra le specie, colui che, liberando i robot alieni dalla schiavitù dei programmi, farà loro capire che possono scegliere di non combattere gli umani ma di collaborare in un rapporto che non è più di schiavitù bensì paritario.

Robot” è un meccanismo alieno creato da una razza che si è poi estinta proprio a causa dell’intelligenza artificiale. Viene salvato da Will, bambino indifeso, e ne diviene il paladino. Dapprima lo serve per riconoscenza, poi ne diventa amico e lo ama, e questa emozione lo affranca. Scopre che amare vuol dire sacrificarsi per l’altro, volere il bene dell’altro, non per interesse o condizionamento, non per un algoritmo, ma per scelta.

Interrogativi etici, avventura e molti buoni sentimenti, tra i quali non spicca l'innamoramento se non in modo fugace e poco coinvolgente, lieto fine assicurato per tutti, persino per la “cattiva” di turno, dottor Smith. I legami familiari sono strettissimi e fondamentali, ma anche la nuova amicizia con Robot ha accenti elegiaci e commoventi. Insomma, un bel prodotto che mi sono goduta dal primo all’ultimo episodio.

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Riverdale

1 Dicembre 2023 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #serie tv

 

 

 

 

Benché Riverdale sia molto ben confezionata e per certi versi pure iconica, non pensavo di scriverci due righe sopra. Soprattutto non lo pensavo dopo le ultime stagioni, la sesta e la settima, così anomale e confuse. Ma l'episodio finale mi ha fatto ricredere. Ho sentito tutto il fascino di questa serie tv tratta dai fumetti della Archie Comics. E fumettistica Riverdale lo è, in modo patinato e glamour. Personaggi belli, elegantissimi e colorati. Chiaroscuri, macchie di rosso sul nero, poche location azzeccate, numeri musicali di alto livello, attori superlativi, rendono questa storia – anzi queste storie intrecciate, arzigogolate, (appunto “full Riverdale” si dice negli States) ripescate e riscritte da capo più volte – una gioia per gli occhi e per le orecchie. La trama oscilla fra il mistero, il giallo, il fantasy, l’horror quasi splatter, la gangster e la teen story.

Riverdale High ricorda un poco la Rider di Grease e nella serie ci sono vari accenni a molti musical famosi. Da una parte le feste della scuola, le solite immagini americane di Halloween, dei balli di fine anno, del giorno dei diplomi, così cari ai telespettatori da dover, credo, riportare indietro i personaggi ai tempi del liceo nell’ultima stagione dopo averli fatti crescere e diventare adulti nella penultima. Dall’altra oscure foreste, magioni spaventose, cimiteri, serial killer, autopsie e cadaveri.

Personaggi molto ben caratterizzati: Archie il buono, Betty la brava ragazza con un’anima noir, Veronica la femme fatale. Il mio preferito è Jughead, lo scrittore e fumettista, la voce narrante.

Non c’è una vera storia d’amore perché gli amori si accavallano, si scambiano e s’intrecciano. E non c’è nemmeno una vera definizione di genere perché anche gli eterosessuali sono un po’ queer e non disdegnano incursioni nell’altra sponda.

A Riverdale, tranquilla – si fa per dire – cittadina americana, il male cova e cresce fino a esplodere: L’omicidio di Jason Blossom, il re Gargoyle, il serial killer Blackhood, l’arrivo del diavolo in persona, la cometa catastrofica. Alla fine, però, ci sarà un rovesciamento e un riscatto, o, meglio, una seconda possibilità. Ci si potrà mondare del male dimenticandolo, rivivendo un’altra vita, tornando al passato e mettendo a posto le cose, facendo del bene, lavorando per superare i pregiudizi.   

L’ultimo episodio, tutto di commiato (come era già stata la puntata commemorativa per la scomparsa di Luke Perry che impersonava il padre di Archie), con l’addio ai personaggi ormai morti, con quel “lasciamoli lì, dove avranno sempre 17 anni”, mi ha fatto spuntare un malinconico nodo alla gola.

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The Tailor

14 Novembre 2023 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #televisione, #serie tv

 

 

 

 

Mi piacciono molto le serie tv turche, per la bellezza degli attori, per il pathos dei rapporti umani (enfatizzati da una certa recitazione sopra le righe) e per gli splendidi scenari di una Istanbul moderna e patinata.

La serie The Tailor, il sarto, nonostante sia stata male accolta dalla critica, mi ha conquistata fin dalla prima scena. Se molte vicende mi sono rimaste oscure, e forse andrebbero sviluppate in un'ulteriore stagione che purtroppo non si farà, la storia di Peyami Dokumaci, stilista di fama, del suo amore proibito per Esvet, moglie del suo migliore amico, e di quest’ultimo, Dimitri, mi ha tenuta incollata allo schermo.

La love story è bella e palpitante ma, se questa è centrale nella prima stagione - insieme al problema del padre minorato di cui il protagonista si vergogna - nella terza giganteggia invece il rapporto fra Dimitri e Peyami, trasformando la soap in una specie di bromance.

Scopriamo che Dimitri è cattivo solo perché ha subito continui abusi dal padre, ma è capace di slanci di generosità e sentimenti profondi. Dal triangolo amoroso emergono i due uomini, la loro fratellanza. Esvet, che spiccava nella prima stagione per la sua empatia e compassione nei confronti del padre di Peyami e per i soprusi patiti dal futuro marito, qui rimane sullo sfondo, passiva e schiacciata fra i due, una sorta di semplice oggetto del contendere. Dimitri è geloso di Esvet, vuol essere amato da lei in modo esclusivo, ma, soprattutto, vuole l’amore dell’amico e l’idea che egli possa dimenticarlo dopo la sua morte lo sconvolge più del tradimento della moglie, di cui sembra essere invaghito e non innamorato. Quando pare che stiano per morire tutti e tre, sono i due uomini ad avvicinarsi, ad abbracciarsi, a rivedere il passato e l’infanzia, ad aspettare la fine insieme. Lei rimane da sola, in un angolo, quasi inutile e dimenticata.

Certo questa serie ha i suoi bei difetti. Lascia aperti molti interrogativi che diventano vicoli ciechi, enfatizza in modo grottesco la malattia mentale di Mustafà, allunga a dismisura certe scene ed estremizza sentimenti troppo urlati. Ma alcuni elementi hanno un fascino indiscutibile che ha segnato il successo di pubblico, se non di critica. Il primo è senz’altro la nascita del forbidden love fra Esvet e Peyami. La solita favola della ragazza buona e gentile – qui badante sotto mentite spoglie – che riesce a conquistare il burbero e ricco padrone di casa. Un classico romantico che non delude mai. Il secondo elemento è il rapporto fra Peyami e suo padre, intenso, controverso, tenero (forse improbabile), capace di trasformare un essere abbrutito e animalesco in un genitore quasi normale. Il terzo è il legame fra Peyami, musulmano sufi, e Dimitri, cristiano ortodosso. Alla fine, quello che più ha dato e più ha amato è proprio lo scapestrato e apparentemente incorreggibile Dimitri. «Sei la persona che più ho amato al mondo», dice rivolto a quello che lui chiama “fratello di sangue”.

Peccato che gli sceneggiatori abbiano deciso di chiudere. Peyami Dokumaci, (al secolo Çağatay Ulusoy) bello e tenebroso al punto giusto anche se un tantino sovrappeso, mi mancherà.

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Imma Tataranni

18 Aprile 2023 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #patrizia poli, #recensioni, #serie tv

 

 

 

 

Non amo i gialli, specialmente quelli che si risolvono nell’arco di un episodio, e il personaggio principale di questa serie italiana a colpo d’occhio non mi attirava, perciò non avevo ancora visto Imma Tataranni, serie tratta dai romanzi di Mariolina Venezia. Poi, complice la noia di alcune recenti serie americane (tipo Outer Banks), ho deciso di dare una possibilità al sostituto procuratore di Matera.

Sono rimasta folgorata. Era dai tempi di Lucifer che una serie non mi coinvolgeva emotivamente a tal punto. Non per la splendida location lucana. Non per la comicità da commedia all’italiana o la fantastica caratterizzazione dei personaggi. Non per l’ironia della sceneggiatura e, allo stesso tempo, per la partecipazione empatica alle vicende di sospettati, vittime e colpevoli. No, è perché si tratta della più bella storia d’amore degli ultimi anni. Imma e Calogiuri hanno persino un loro gruppo di fan su Facebook. Pura quintessenza amorosa, straziante come tutti gli amori impossibili, il loro legame è reso struggente dalla bravura stratosferica della protagonista Vanessa Scalera.

Lei è Immacolata Tataranni, sostituto procuratore di Matera, spauracchio della procura, dal carattere rigido e intransigente circa i valori della legalità. È, comunque, una donna buona, empatica e profondamente femminile. Il suo piglio da iena, le sue movenze sgraziate, la sua lingua tagliente che non fa sconti a nessuno, contrastano con i vestiti coloratissimi e i tacchi che le conferiscono un’andatura goffa e traballante.  Possiede una famiglia normale e felice, una figlia adolescente con la quale ha ordinari contrasti, una suocera arcigna e impicciona e, soprattutto, un bravo marito, comprensivo, premuroso e innamorato. Si capisce che lo ha sposato in gioventù perché lo amava e non se ne è mai pentita.

Ma in procura arriva lui, Ippazio Calogiuri, giovane e timido appuntato, poi maresciallo, con il quale non riesce a essere brusca ed esigente come con tutti gli altri. Lui è bello come il sole, gentile, intelligente, coraggioso, professionale. Soprattutto, ha la metà dei suoi anni, al punto che lei viene persino scambiata per la madre. La Tataranni è il superiore, è più vecchia di lui ed è felicemente sposata. S’innamorano, tuttavia, perdutamente l’uno dell’altra, nonostante le convenzioni e le regole. Lui ammira in lei la donna volitiva, super-intelligente, dotata di intuito e memoria di ferro, sebbene più anziana e non particolarmente bella. Lei vede in lui l’innocenza, la purezza del cuore, la possibilità di rinascere, di lasciarsi travolgere da un presente che annulla il passato ma non ha futuro. Più sono costretti a stare divisi, a non sfogare la crescente e traboccante passione, più essa cresce, li dilania, li tormenta.

Il loro amore appassionato è declinato in un duplice registro: da una parte la struggente sofferenza, ben resa dalla magistrale recitazione degli attori, dall’altra un’amabile ironia che trasforma le apparizioni di lui in spassosi richiami cinematografici, come la divertentissima citazione da Top Gun.

Per ora siamo alla seconda stagione e in trepidante attesa della terza. Non per il bozzettismo gustoso o gli intrighi polizieschi, e nemmeno per i tanti spassosi e curiosi personaggi secondari, ma in quanto tutti speriamo che Imma e il suo bel maresciallo finiscano prima o poi insieme, perché la fedeltà, i buoni principi, il senso della famiglia vanno pure bene nella realtà, ma il sogno vuole altro, vuole la carne e il sangue, vuole le stelle e il firmamento. E in questo bellissimo sogno lucano, per un amore come quello fra Imma e Calogiuri non c’è logica o razionalità che tenga.    

 

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Mare Fuori

24 Marzo 2023 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #patrizia poli, #recensioni, #serie tv, #televisione

 

 

 

 

Si sentono le tre diverse regie nelle rispettive stagioni di Mare Fuori. Asciutta, cruda e bellissima la prima, a firma Carmine Elia; coinvolgente ma melodrammatica la seconda, dove si avverte la mano femminile di Milena Cocozza; fin troppo ingolfata di lacrime e abbracci la terza, a mio avviso la peggiore, diretta da Ivan Silvestrini.

Mare Fuori piace perché ribalta tutte le prospettive. La vera libertà è l’IPM, sembra dirci, lo spazio ristretto del penitenziario minorile affacciato a pelo d’acqua. Lì dentro succede di tutto ma in specie avvengono cose buone: rivolgimenti interiori, pentimenti, crescite. Fuori, invece, c’è il male, ci sono persone malvage che ti obbligano a delinquere, a diventare quello che in cuor tuo non vorresti essere, a finire schiacciato dagli ingranaggi del sistema camorristico. “Fuori è pieno d’infami”. Al punto che non si capisce perché si continuino ad accordare permessi premio quando poi, una volta usciti, i ragazzi compiono, volenti o nolenti, gli atti più crudeli o rischiano la pelle. “Siamo più liberi qui dentro”, dice Naditza a Filippo. In carcere, infatti, le differenze si appianano, si diventa uguali, la zingara napoletana può sognare l’amore con il Chiattillo, il figlio di papà milanese.

La figura più affascinante non è, appunto, il fighetto milanese, per quanto coraggioso e determinato, ma Carmine di Salvo, figlio della boss Wanda, il quale cerca di svincolarsi dalla melma deterministica che lo avvolge e impastoia, che gli impedisce di vivere una vita semplice e onesta, che gli uccide la giovane e innocente moglie. Mediterraneo, con le labbra carnose e lo sguardo malandrino, tormentato e buono, è il vero eroe del penitenziario. Carmine passa attraverso ogni genere di ribellione e sofferenza. Ha un rapporto padre- figlio col comandante – altro personaggio romantico – un tenero legame con la figlioletta, che non a caso ha chiamato Futura, una sorta di bromance con il Chiattillo, amico fraterno disposto a tutto per salvarlo, e una passione alla West Side Story per Rosa Ricci, rampolla del clan avverso.

All’opposto di Carmine c’è Viola, il male assoluto, fine a se stesso e incarnato, per cui non si prova compassione. Quando cade dal tetto della prigione nessuno si dispiace per lei e tutti i telespettatori tirano un sospiro di sollievo.

La serie attrae perché dà una spiegazione al male, sempre figlio di altro male. Perché implica un riscatto, anche per gli atti più atroci, come accoltellare una madre o violentare una ragazza. Basta pentirsi, piangere e abbracciarsi, basta non averlo voluto davvero. E qui, forse, nasce il pericolo, il messaggio sbagliato, cioè che tutto si possa perdonare, dimenticare, archiviare, relegare nel passato, persino l’azione più efferata in stile Erica e Omar. Solo l’oggi ha valore, esistono esclusivamente il presente e un futuro sognato. Così il male viene sminuito a favore di altri valori, molto esaltati nelle serie televisive odierne, siano esse fantasy, storiche, poliziesche o drammatiche: amicizia, lealtà e amore hanno più importanza di omicidi, violenze e faide di sangue, e le intenzioni sono più forti delle azioni.

Chiunque di noi, suggerisce inoltre Mare Fuori, può trovarsi nella situazione di questi ragazzi, messo a nudo e costretto a delinquere per finire poi circoscritto nel limbo di un carcere, luogo più dell’anima che fisico, dove le differenze si annullano, dove bene e male sono ingigantiti oppure appiattiti, dove si formano alleanze e si giurano odi eterni. 

Una carrellata di personaggi forti, ben disegnati e indimenticabili: la direttrice, il comandante, Carmine, Filippo, Naditza, Cardiotrap, Pirucchio, Pino, Ciro, Kubra, Edoardo e tutti gli altri sono destinati a rimanere nel cuore, così come i vicoli tortuosi di una Napoli affacciata su un mare che può stare fuori, sì, ma anche perforarti l’anima.  

 

 

 

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Vikings

7 Marzo 2023 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #patrizia poli, #recensioni, #serie tv, #televisione

 

 

 

 

Serie molto ben confezionata, a firma Michael Hirst, Vikings, anche se troppo moderna nell’impianto visivo, nelle acconciature, nel trucco e parrucco. I protagonisti sembrano più rock star, per le movenze e le espressioni, piuttosto che antichi norreni. Ma le ricostruzioni di ambiente sono minuziose ed efficaci, i personaggi tanti e ben disegnati: l’indovino cieco, i cinque figli di Ragnar, il pazzo visionario Floki, la volitiva Lagertha, la cattiva Aslaug, il giusto e forte Ragnar Lothbrok e una miriade di altri.

Su tutti, però, spicca Athelstan, il monaco che viene preso prigioniero dai Vichinghi e vive con loro. Man mano che passano gli anni, si trasforma da cristiano convinto a uomo del compromesso e del sincretismo. In lui albergano più anime, quella cattolica e quella contaminata dalla frequentazione pagana. Athelstan comincia a intravedere la bellezza e la spiritualità anche in certi riti di sangue violenti e raccapriccianti. “Amo Gesù e amo Odino”, dice. Dopo la morte per mano di Floki, continua a essere presente sotto forma di visione e assume sempre più un’immagine salvifica e cristologica. La sua eredità sarà assunta dal figlio naturale Alfred, futuro re del Wessex, la figura più nobile e giusta di tutta la serie. Athelstan è irrisolto, tormentato e tuttavia completo, frutto proprio del suo lasciarsi andare a una molteplicità di pulsioni, da quelle più religiose a quelle terrene e lascive. “La loro morale è diversa”, dice ormai scevro di giudizi o pregiudizi parlando dei suoi catturatori che definisce “la sua famiglia”.

L’ammirazione e l’amicizia che Ragnar Lothbrok, il personaggio più importante, ha per lui, sono assolute. Ragnar, a sua volta, agisce spinto non da mera ambizione ma da curiosità: la voglia di sapere cosa c’è oltre il mondo conosciuto, la voglia d’imparare usi e costumi diversi, di parlare altre lingue. 

Altro personaggio controverso è re Ecbert, uomo dai continui rivolgimenti etici, pronto a tradire ma anche a soffrire per averlo fatto. Amico sia di Athelstan che di Ragnar, diventa l’amante della moglie del figlio, alleva Alfred nel ricordo del padre monaco e lo prepara a diventare un futuro re saggio e pio. La sua amante sarà la madre di Alfred, avuto dalla relazione di lei col monaco Athelstan, che ne difenderà l'ascesa al troino anche a costo di uccidere il proprio primogenito.

Diverso il caso di Lagertha, coraggiosa, tenace, da sempre innamorata di Ragnar, dolce con i familiari ma spietata e inflessibile con chi merita di morire.

Inevitabile in confronto con Game of Thrones. Ma qui c’è una base storica, molti dei personaggi sono realmente esistiti e c’è parecchia spiritualità. Si fa un gran parlare di dio, della sua differenza con gli dei nordici, di paradiso e di Valhalla. Esistono l’inferno e il paradiso? Esistono gli dei? E, se non ci fossero, la vita avrebbe più o meno senso?

Personaggi spietati, barbarici, che non ci pensano un secondo a infilarti un’ascia nello stomaco ma si pongono questioni filosofiche, parlano di Odino e Thor, ma anche di Gesù Cristo e di Budda. Fazioni e nazioni a contrasto, per le quali, come in Game of Thrones, di volta in volta parteggiamo.

L’unico personaggio assolutamente sgradevole, almeno per me, è Ivar the Boneless, interpretato benissimo dall’attore Alex Høgh Andersen. Invasato, megalomane perché frustrato, cattivo fino al midollo, finisce per perdere il senno credendosi un dio, prima viziato dalla madre altrettanto malvagia e poi adulato dalla moglie che lo manipola e tradisce. Ultimogenito di Ragnar, nato sotto una cattiva stella senza l’uso delle gambe, cresce forte, arrabbiato e vendicativo. “Vorrei non essere sempre così arrabbiato” afferma.

Il padre gli spiega che è speciale proprio per il suo handicap ma lui avrebbe preferito essere normale e amato come i suoi fratelli, i quali un po’ lo sostengono e un po’ lo disprezzano. Tutti indistintamente lo temono, per la sua forza, per la tenacia con cui cammina sulle mani, per la malvagità che non lo abbandona un istante.

Non giocano a favore delle ultime stagioni una subentrata tendenza melodrammatica e la presenza di personaggi nuovi di poco interesse, dopo l’uscita di scena di altri di grande spessore come Rollo – in continua tensione odio e amore nei confronti del fratello Ragnar – o Judith– madre capace di uccidere uno dei figli a favore della regalità dell’altro. Uno di questi caratteri insipidi è o storico vescovo Heamund, che non è ben sviluppato nelle sue potenzialità di personaggio. Grande guerriero e principe della chiesa, non si capisce perché dal giorno alla notte s’invaghisca di Lagertha, salvo poi respingerla preso da un’improvvisa paura della dannazione. Si salva solo Gunnhild, sorta di regina valchiria di grande impatto anche fisico sullo schermo.

Certe crudezze vichinghe nelle ultime fasi della narrazione vengono sostituite da un tono epico quasi arturiano, non sgradevole, specialmente nelle bellissime scene del funerale di Lagertha, che ricorda le esequie di Artù nel film Excalibur, o della morte di Bjorn Ironside che riporta alla mente il Cid Campeador.

Alcuni nodi della narrazione non vengono spiegati e vanno accettati per quello che sono, vedi la presenza dell’indovino cieco anche dopo la sua morte, la somiglianza estrema fra Freydis, moglie uccisa di Ivar, con la russa Katia, la vera paternità di Bjorn, la vera identità di Othere, la misteriosa natura di Harbard e via discorrendo.

Tutto sommato, nonostante i difetti, se si pensa che quasi tutto quello che viene narrato e quasi tutti i personaggi sono storici o semi storici, una saga bella e potente.

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Dark

15 Gennaio 2023 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #patrizia poli, #recensioni, #serie tv, #televisione

 

 

 

 

Binge watching forsennato per questa superlativa serie basata sul time travel. Incastri, incroci e rimandi difficili quanto un cubo di Rubic, filosofia allo stato puro e continue interrogazioni sul tempo, sul determinismo, sul libero arbitrio, sul senso della vita e della morte.

Tutto è adesso, il presente non esiste perché frutto di interconnessioni con passato e futuro, il futuro condiziona il presente quanto il passato, ciò che deve accadere accadrà comunque. Il tempo è Dio, e non è compassionevole.

Persone che incontrano e magari uccidono il proprio doppio più giovane o più vecchio, o il corrispondente di sé nell’altra dimensione. Madri che sono figlie delle proprie figlie. Figli che conducono nel passato il proprio padre bambino. Un rompicapo affascinante quanto arduo da ricostruire.

Nella terza stagione scopriamo che ci sono anche più realtà parallele e che i personaggi tanto amati in realtà non esistono, ma questo ci piace meno, preferiamo le prime due.

Un applauso comunque agli autori che – almeno loro – non hanno perso il filo, e al cast di bravi attori, numeroso poiché per rappresentare molti singoli personaggi si sono usate tre persone diverse. Ridotto, invece, il luogo in cui si svolge la storia e veramente poche, quasi claustrofobiche, le location, ma ciò non inficia la profondità spazio-temporale della trama.

Molto si basa su un dualismo manicheo, luce e buio, Eva e Adamo, ma tutto si risolve col ritorno allo status quo ante – una eucatastrofe triste e malinconica - prima che la creazione della macchina del tempo a opera dell’orologiaio (Dio? Il Big Bang?) scindesse l’universo creando altre due realtà parallele.

Un ottimo lavoro che dà da pensare, come tutta la buona fantascienza.

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Stranger Things

31 Dicembre 2022 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #patrizia poli, #recensioni, #serie tv, #televisione

 

 

 

 

Stranger Things

 

È piaciuta a tutti questa serie del 2016, arrivata ormai alla quarta stagione, scritta dai Duffer Brothers. Non attira solo per la storia horror – forse un po’ ripetitiva col passare delle stagioni – piuttosto per i personaggi ben disegnati e distinti, e per l’atmosfera anni ottanta, meravigliosamente ricostruita. È indirizzata a un pubblico di nostalgici, orfani di un periodo straordinario del cinema, della musica e della letteratura fantastica, che qui ritrovano continue citazioni d’epoca, da Ritorno al futuro (1985), a I Goonies (1985), a Stand by me (1986) a E. T. (1982) a La storia infinita (1984) fino a Nightmare (1984) e ai romanzi di Terry Brooks.

Abiti, colonne sonore, oggetti di culto che ci riportano indietro, non solo ricreando un’ambientazione ma richiamando, in modo autoironico e celebrativo, Spielberg e tanti altri maestri dell’epoca più brillante del cinema americano.

Fra umorismo e sceneggiatura brillante, scene d’azione confezionate in modo perfetto ed effetti speciali straordinari, sgorga potente la sensazione di perdita, di fine inesorabile dell’infanzia, con tutto quello che comporta, ossia l’abbandono degli amici, la difficoltà di crescere e trovare il nostro posto nel mondo, la rottura di legami che apparivano indissolubili, la fine dell’età del sogno e dell’immaginazione dove tutto era ancora possibile, sostituita dal mondo degli adulti, con le cocenti delusioni e la scoperta della diversità, che per Eleven sono i poteri soprannaturali e per Will l’amore omosessuale per l’amico Mike.  

Una serie commerciale e raffinata insieme, curata nei minimi dettagli, godibilissima. Un autentico tuffo nel passato.

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