La Roma dei re
Fino al quarto re prevalse l'economia agricola, la maggior parte della popolazione, almeno quella di discendenza latina e sabina, viveva in promiscuità dentro capanne di fango e non vi era differenza fra popolo e Senatori, i quali, come tutti, lavoravano la terra, erano ancora lontani da venire i tempi dei cosmetici per le donne, dei vespasiani, della toga e dell'industria tessile. Un unico vestito e nessun piacere di gola, la sobrietà e la durezza degli antichi romani smentisce gli scienziati che sostengono che la forza di un popolo è proporzionata al suo consumo di calorie, loro dimostrarono che si può conquistare il mondo nutrendosi di un impasto di acqua e farina poco cotto, qualche oliva, un po' di formaggio e un bicchiere di vino solo nei giorni di festa.
Anche il re, sino ad Anco Marzio, era soggetto a questo severo regime: arava la terra, seminava e mieteva come il suo popolo. Non aveva una reggia e risulta che uscisse fra la sua gente, uguale fra gli uguali, senza una scorta per non essere accusato di regnare privo del consenso popolare. Prendeva le sue importanti decisioni all'ombra di un albero, ascoltando il Consiglio degli Anziani che gli sedeva intorno.
Pure per l'esercito valeva uguale regola: i pretori che comandavano le centurie non portavano nessuna mostrina identificativa del grado superiore che rivestivano. Le armi, di cui codesto esercito era dotato, erano per lo più bastoni, sacchi di sassi e spade molto rozze e primitive.
Le prime conquiste che Roma ottenne furono dunque lotte serratissime corpo a corpo. Il nemico, una volta battuto, diveniva succube di Roma, chi lo aveva catturato era padrone della sua vita, poteva ucciderlo o portarlo a casa e farne uno schiavo. Le città venivano spesso rase al suolo, le terre requisite e date in affitto ai sudditi, le battaglie e le conquiste che Roma fece fino al regno di Anco Marzio furono tutte terrestri, i Romani non avevano navi e non sapevano navigare.
Per vedere crescere in tal senso Roma si deve arrivare alla dinastia etrusca dei Tarquini.
Lucrezia
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I primi re di Roma erano tutti latini. Poi vennero gli Etruschi. I più vecchi e i più saggi fra loro furono nominati senatori. Infine un etrusco diventò re di Roma, e, dopo di lui, un altro e un altro ancora. Dapprima i Romani erano contenti di avere re etruschi che abbellivano la città con palazzi e templi, bonificavano i campi, portavano in città acqua potabile costruendo acquedotti. Le botteghe degli artigiani lavoravano alacremente e i loro prodotti erano venduti in tutto il Lazio fino a quelle terre meridionali dove si erano stabiliti i Greci. Anche i Greci fabbricavano armi, vasi, stoffe, gioielli e avrebbero voluto vendere le loro merci nel Lazio.
Fra Etruschi e Greci scoppiò una guerra e gli Etruschi furono vinti. I Romani approfittarono di questa sconfitta per cacciare i re etruschi. Ormai avevano imparato quello che c’era da imparare e non volevano più padroni stranieri. E così avvenne che i re etruschi furono cacciati per sempre.
Molti erano stati i re di Roma ma col passare del tempo si parlò solo di sette re. Quattro latini, cioè Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marzio e tre etruschi, cioè Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo, sotto il cui regno la monarchia diventò assoluta e grande fu l’influenza Etrusca.
Una sera, racconta Livio, durante un assedio, il figlio del re, Sesto, discuteva con Collatino della fedeltà delle proprie mogli. Collatino propose che prendessero i cavalli e andassero a Roma a sorprendere le loro consorti nel cuore della notte. La moglie di Sesto fu trovata a banchettare con gli amici, mentre quella di Collatino, Lucrezia, era intenta a filare la lana per confezionare un abito al marito. Sesto fu preso dal desiderio di mettere alla prova la fedeltà di Lucrezia, perse la testa per la bella e pudica moglie altrui, e tornò segretamente da lei, prendendola con la violenza.
« Nocte intempesta nostram devenit domum. »
«Venne da me nel cuore della notte. »
(Varrone De lingua Latina VI 7)
Ecco, non possiamo non pensare a Igraine, moglie del duca di Cornovaglia, presa con l’inganno da Uther Pendragon, col quale generò Artù, non posiamo non vedere Uther che cavalca l’alito del drago per attraversare il fossato ed entrare nel castello di Tintagel.
Ma Lucrezia non partorisce un re, bensì, dopo aver raccontato tutto al padre e al marito e aver fatto loro giurare che l’avrebbero vendicata, si toglie la vita con un pugnale nascosto sotto le vesti. E qui capiamo che la morale celtica era diversa da quella romana.
La tradizione vuole che sia stato questo increscioso episodio a decretare la fine della monarchia e l’inizio della Repubblica.
Orazi e Curiazi
Col trascorrere degli anni, Roma cresceva, aumentava il numero degli abitanti e il re, che, dapprima, oltre a celebrare i riti liturgici, a elevare sacrifici agli Dei, amministrava pure la giustizia, non riuscì più ad adempiere tutti i suoi doveri. Si vide così costretto a nominare dei “funzionari” cui affidare alcuni dei suoi compiti di giustizia ed ecco che nacque la “burocrazia”. Fu costretto anche a farsi aiutare nell'amministrazione della cosa pubblica, nominò così qualcuno che si occupasse delle esigenze che aumentavano, cioè che si occupasse di strade, di catasto, di igiene e nacque così il Consiglio degli Anziani o Senato composto dai discendenti per diritto di nascita dei pionieri che erano venuti con Romolo a fondare Roma.
Il Senato inizialmente aveva compito di consigliare il re, in seguito prese sempre più potere. Infine, per completare l'organizzazione dello stato nacque in pianta stabile l'esercito. Ogni curia in cui erano divise le varie tribù, doveva fornire una centuria di uomini, cento fanti, e una decuria, dieci cavalieri, formando così trenta centurie e trenta decurie, pari a tremilatrecento uomini che costituivano una legione. Il comandante supremo delle forze armate di Roma era il Re che aveva sui suoi soldati potere di vita e di morte ma, per l'amministrazione dell'esercito, eleggeva un comizio centuriato che si occupava anche della nomina degli ufficiali, allora chiamati pretori. Il re ebbe in questo modo sempre meno potere e difficilmente avrebbe potuto trasformarsi in un tiranno, suo compito esclusivo restavano le funzioni religiose, conservava il diritto di giudicare i fatti gravi, i delitti rivolti contro la comunità e di comminare la pena di morte.
Questo l'ordinamento che trovò il terzo re di di Roma Tullo Ostilio. Un re molto diverso dal pacifico predecessore che aveva assicurato al popolo quarant'anni di pace e di crescita. Tullo Ostilio fu l'artefice della guerra contro Alba Longa, la città più ricca e importante fra i borghi che circondavano Roma. La leggenda vuole che in maniera molto cavalleresca la vittoria venisse decisa con un duello fra i tre Orazi romani e i tre gemelli Curiazi albalongani, dove l'ultimo dei fratelli Orazi, rimasto solo, uccise tutti e tre i Curiazi decretando la vittoria di Roma. Sta di fatto che Alba Longa fu distrutta e rasa al suolo e il loro re legato a due carri i cui cavalli, correndo in direzioni opposte, lo squartarono.
Il successore di Tullo Ostilio fu Anco Marzio, che continuò con la politica di espansione attaccando e conquistando i paesi dei dintorni.
LA LEVATA DEL SOLE di Luigi Pirandello
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Il protagonista della novella, Gosto Bombichi, lascia questa lettera alla moglie, dopo una drammatica riflessione sulla sua vita:
“Ho perduto: pago. Non piangere, cara. Ti sciuperesti inutilmente gli occhi, e sai che non voglio. Del resto, t'assicuro che non ne vale proprio la pena. Dunque, addio. Prima che spunti il giorno, mi troverò in qualche luogo da cui si possa goder bene la levata del sole.”.
Ha perso molti soldi al gioco, al Circolo dei buoni Amici; i creditori gli hanno dato solo ventiquattro ore di tempo per saldare il debito. È notte fonda e Gosto ha fatto il suo sconsolante bilancio sulla situazione. La vita lo ha sempre nauseato e non trova appigli morali o pratici a sorreggerlo. La moglie tedesca è per lui una persona distante; alla fine nemmeno le lascia il biglietto che annuncia la terribile decisione. Ma ai condannati spetta un ultimo desiderio; il suo sarà quello di vedere la levata del sole. Esce da casa nella tenebra, dopo aver preso la rivoltella. Intende raggiungere un posto dove gustarsi questo evento naturale; sarà uno spettacolo grandioso oppure una cosa da poco, amplificata da tanti poeti e poetucoli? Gosto vuole soddisfare questa curiosità prima di spararsi. L'ambiente cittadino immerso nell’oscurità provoca variegate sensazioni in lui; disgusto e schifo davanti a certi passanti, senso di ristoro grazie alla frescura dell'aria e alla bellezza del cielo stellato. Lentamente si avvia verso la periferia, controllando di avere sempre con sé l'arma. Le strade sono sporche e bagnate; si insozza nel fango. Ormai non c'è più nessuno in giro. È stanco e allora si appoggia a una pietra attendendo che il sole sorga.
Ma cosa significa la levata del sole? Ogni giorno nasce il sole; ogni giorno si apre una possibilità nuova. Forse Gosto, nonostante si premuri di vedere se la pistola è sempre nella sua tasca, si augura che quell'evento gli porti forza e fiducia, orientandolo ad affrontare i problemi e non a fuggirli.
Per la scrittrice Hanna Arendt l'uomo ha il potere di iniziare (un’azione, un discorso, un progetto) e questa facoltà gli viene da quell'inizio che è stato la sua nascita. Ogni giorno l’uomo può intraprendere e creare. La levata del sole darà forza anche al disperato Gosto? Nella triste periferia in cui si trova, dopo qualche ora finalmente la luce arriva, timidamente, quasi scusandosi col mondo ancora in riposo. Poi però si fa decisa e salutare:
“Lievi, quasi fragili, rosei ora, in quella luce, pareva respirassero i monti laggiù. E sorse alla fine, flammeo e come vagellante nel suo ardore trionfale, il disco del sole”.
Gosto, appoggiato alla pietra e vinto dalla fatica, in quel momento rappresenta l’umanità sofferente, bisognosa di fede, di infinito, di coraggio per affrontare la vita. Avrà saputo ricevere quanto probabilmente sperava vedendo, per la prima volta, la levata del sole?
Ecco il testo:
“Per terra, sporco, infagottato, Gosto Bombichi, col capo appoggiato al masso, dormiva profondissimamente, facendo, con tutto il petto, strepitoso mantice al sonno”.
Carlo Cipparrone "Betocchi, il vetturale di Cosenza e i poeti calabresi"
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Carlo Cipparrone
Betocchi, il vetturale di Cosenza e i poeti calabresi
Edizioni Orizzonti Meridionali - Pag. 132 – Euro 12
Carlo Cipparrone scrive un ispirato ricordo di Carlo Betocchi, poeta conosciuto nella sua Cosenza molti anni fa, quando lui era soltanto un aspirante poeta in cerca di consigli e voleva entrare in sintonia con un grande autore della nostra letteratura. La parte più affascinante del libro vede la riproduzione de Il vetturale di Cosenza di Carlo Betocchi (contenuta ne L’estate di San Martino, Mondadori 1961), pubblicata su concessione della casa editrice milanese, che ripercorre le emozioni suscitate nel poeta dal viaggio in terra calabrese. Altrettanto interessante Betocchi (e la comune strada), lirica ispirata e sentita, composta da Cipparrone in ricordo del poeta e del loro incontro, che rievoca la nascita di un’amicizia e gli scambi epistolari, le confidenze, gli incentivi a continuare e a pubblicare liriche, ricevuti dal poeta.
Il libro è corredato da lettere e cartoline postali - non le fredde mail dei nostri giorni - che Betocchi e Cipparrone si sono scambiate nel corso degli anni, vero e proprio monumento alla disponibilità e all’altruismo di un uomo che non pensava soltanto alla sua arte ma trovava il tempo per leggere manoscritti e non mancava di dare consigli ai giovani poeti. Interessante la parte in cui Betocchi fa capire a Cipparrone che per scrivere poesia non è necessario aver compiuto studi classici, perché la lirica è soprattutto tecnica e - a suo parere - mestieri diversi possono coesistere. Betocchi porta se stesso come esempio, geometra impegnato nei cantieri, ma anche i colleghi Quasimodo, Lisi, Bargellini e gli ingegneri Gadda, Sinisgalli e Vittorini.
Ne vien fuori un bel ritratto di Betocchi, sobrio nel mangiare, attento a curare la sua ulcera gastrica, prodigo di consigli, curioso mentre visita una terra sconosciuta e chiede di leggere autori promettenti.
Carlo Cipparrone conclude un libro interessante con una breve antologia di poeti calabresi: Lorenzo Calogero, Nerio Nunziata, Ermelinda Oliva, Gilda Trisolini, Silvio Vetere. Un solo appunto. Non sarebbe stata di troppo una piccola antologia contenente i versi degli autori citati, perché del solo Nunziata possiamo leggere alcuni passi ispirati, mentre gli altri restano ingabbiati in una sterile biografia con elencazione di titoli. Sarà per la prossima edizione aggiornata.
Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi
Cipparrone Carlo - Betocchi il vetturale di Cosenza e i poeti calabresi
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Romolo
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Al contrario degli odierni cittadini di Roma che prendono tutto per scherzo, gli antichi romani prendevano tutto sul serio, se si prefiggevano uno scopo lo raggiungevano a qualunque prezzo e a qualunque ragione, non per niente con questo spirito hanno conquistato il mondo.
Fra le varie teorie sulla nascita di Roma, una tra le più accreditate vuole che a fondarla fossero gli Etruschi. Sembra infatti che il nome Roma derivi dall'etrusco “Rumon” che significa fiume e se questo corrisponde al vero bisogna dedurre che la prima popolazione romana fosse formata non solo da latini e sabini (come vuole la leggenda del famoso “ratto”) ma anche da etruschi . Addirittura certi storici attribuiscono a Romolo stesso cittadinanza etrusca.
Gli Etruschi, navigatori provetti e commercianti, pare che durante i loro viaggi “commerciali”, avessero fondato un piccolo villaggio sul Tevere e lì li trovarono Latini e sabini quando vi giunsero. Avevano creato un comodo scalo per fermarsi con le loro navi durante la navigazione sul Tirreno. Gli indigeni laziali non legarono con il popolo etrusco, certamente più evoluto, e ci si misero d'impegno per distruggerli. Di essi vollero epurare ogni cosa, cultura, tradizioni e storia e se questo è vero di Romolo, in seguito gli storici cambiarono anche l'identità di nascita.
Punto fermo di tutti gli storici e di ogni teoria circa la nascita di Roma è che Romolo fu il primo re, il fondatore. A lui successe Numa Pompilio, un uomo mite e molto religioso. Siccome fra i tre popoli che componevano la sua città vi era un discreto miscuglio di credenze, egli decise di mettervi ordine. Stabilì un grado di importanza tra gli dei e, per farsi ubbidire, raccontava che a suggerirgli e a dargli istruzioni fosse direttamente la ninfa Egeria che lo raggiungeva durante il sonno. In questo modo riuscì a compiere un'opera politica fondamentale, cioè aggregare le tre dinastie diverse che componevano il popolo di Roma e questo tornò utile ai re che gli succedettero, perché ebbero a disposizione un popolo unito per affrontare le guerre vittoriose contro le altre città rivali.
I re di Roma non venivano eletti per diritto di successione, ma erano scelti dal popolo. Le tre tribù erano divise in curie (quartieri) e ogni curia in dieci gens (casate), le casate in famiglie. Le curie si riunivano due volte l'anno e in occasione della morte del re, durante il comizio curiato eleggevano il successore. Tutti avevano il medesimo diritto di voto, la maggioranza decideva, il re eseguiva. Era la realizzazione della democrazia assoluta e funzionava bene, almeno fino a quando la città restò un piccolo paese che viveva dentro le proprie mura. Di seguito narreremo come si è evoluta la democrazia romana.
Divine
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DIVINE
di Flavia Piccinni
Quattro puntate di Passioni
a cura di Cettina Flaccavento
Radio 3 dedica quattro puntate di Passioni
ad altrettante grandi donne
in onda sabato 11 e domenica 12 giugno alle 14.00
in onda sabato 18 e domenica 19 giugno alle 14.00
Quattro donne protagoniste di altrettante monografie. Quattro donne che hanno vissuto da protagoniste la loro epoca, e che sono state in parte dimenticate. Quattro donne che Radio3 Rai ricorda con la scrittrice Flavia Piccinni in altrettante puntate del programma Passioni.
Qual è la risposta? Sono queste le parole di Gertrude Stein, sul letto di morte, alla compagna di una vita Alice Toklas che si limitò ad abbracciarla, lasciando che il suo respiro si facesse più lento, e che poco prima di sparire domandasse, ancora, a sintesi perfetta di una vita: Allora, qual è la domanda?
Qual è la risposta? Si chiede adesso, a distanza esatta di 70 anni da quel giorno d’estate, la scrittrice Flavia Piccinni. E lo fa ripercorrendo la vita e le opere, ma anche ricostruendo le ambizioni e le aspirazioni di quattro grandi donne del Novecento che, in modo diverso ma con uguale intensità, hanno lasciato andare un filo nel tempo: la loro personalissima, unica, irripetibile risposta all’arte e all’amore. Forse, anche alla vita.
Protagoniste di Divine – Donne del Novecento sono quattro donne che con personalità, coraggio e determinazione hanno cambiato il loro destino, lasciando una traccia nelle rispettive epoche. C’è Fausta Cialente e la sua scrittura che si avvita a Paesi levantini e restituisce romanzi e racconti che negli anni sono stati completamente dimenticati. Ma anche Lina Merlin che fece della sua fede politica e del suo rigore una traccia per migliaia di donne. E poi Luisa Spagnoli che fondò dal niente in una Perugia di neve e di guerra un impero di cioccolatini e si dedicò alla moda seguendo l’istinto. E, appunto, Gertrude Stein, scrittrice dalla mirabolante e sterminata opera, dal successo tardivo e dall’incredibile capacità di tradurre in parole l’arte, costruendo immagini intraducibili e allestendo intorno alla sua persona nella Parigi del dopoguerra un cenacolo di pittori, scultori e poeti che non ebbe uguali nella mitica casa studio di rue de Fleurus 27.
Attraverso testimonianze inedite, materiale d’archivio, interviste a studiosi e intellettuali, Flavia Piccinni guida l’ascoltatore nella vita e nelle storie di queste donne incredibili. Il risultato sono quattro puntate monografiche che accompagnano il lettore nel cuore del Novecento e nella sua spietata logica, che porta alla dimenticanza. Perché, come era solita ripetere proprio Gertrude Stein: “Dove, suo malgrado, muore una rosa, l’anno dopo ne nasce una nuova”. Sta a noi però difendere la memoria dei boccioli passati, e futuri.
in onda sabato 11 giugno alle 14.00
Luisa Spagnoli
Una nota casa di moda porta il suo nome, eppure Luisa Spagnoli dal cuore dell’Umbria, a Perugia, costruì la sua vita non fra le stoffe, ma fra i dolciumi, creando il celebre Bacio Perugina (che nacque per recuperare materiale di scarto, e che Luisa Spagnoli voleva chiamare “cazzotto”) o la caramella Rossana. Una donna in un mondo di uomini che seppe anticipare il futuro, ma soprattutto dominare la vita con straordinaria creatività e inventiva.
in onda domenica 12 giugno alle 14.00
Fausta Cialente
Grandissima scrittrice, e grandissima “escapista”. Una maga, al pari di Houdini, che sa prodigiosamente sottrarsi al tempo e ai suoi obblighi. Vincitrice del Premio Strega nel 1976 con Le quattro ragazze di Wieselberger, e autrice di romanzi dal cuore levantino come Pamela o la bella estate (1962), Un inverno freddissimo (1966), Il vento sulla sabbia (1972), Fausta Cialente resta un talento dimenticato – forse per segreto desiderio della stessa autrice – della narrativa contemporanea, una “straniera dappertutto”.
in onda sabato 18 giugno alle 14.00
Lina Merlin
Ci sono donne, e battaglie, che vengono capite con gli anni. Questo forse è il caso di Lina Merlin, e della legge che porta il suo nome e che cambiò un’epoca. È bastato “in Italia un colpo di piccone alle case chiuse per far crollare l’intero edificio, basato su tre fondamentali puntelli: la Fede cattolica, la Patria e la Famiglia. Perché era nei cosiddetti postriboli che queste tre istituzioni trovavano la loro più sicura garanzia”. Così scriveva Indro Montanelli in Addio Wanda, il libro pubblicato in opposizione alla legge Merlin. E partendo da queste parole inizia il viaggio nella storia, e nel cuore, di una donna coraggiosa, instancabile, libera e testarda.
in onda domenica 19 giugno alle 14.00
Gertrude Stein
“Noi abbiamo internamente sempre la stessa età”. È solo uno dei celebri aforismi di Gertrude Stein, che costellò la sua vita di incontri e d’arte. Partendo dallo studio di rue de Fleurus 27, ma ancor prima dalla vita americana, e da quello che Gertrude Stein era prima dell’arrivo a Parigi e dell’incontro con pittori come Picasso e Matisse, a metà fra il racconto e il viaggio in un museo interiore, Flavia Piccinni racconta la più incredibile scrittrice americana del Novecento.
Oggi in cucina
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I garganelli sono un tipo di squisita pasta all'uovo, specialità della Romagna, se ne contendono i natali varie località, ma direi che la più accreditata è Imola. Nacquero come alternativa ai cappelletti e, inizialmente usati come ripiego, nel corso dei secoli hanno guadagnato uno dei posti d'onore sulle tavole romagnole, soprattutto nei giorni di festa.
Si narra che i garganelli siano comparsi per la prima volta a Imola sulla tavola di un alto prelato la notte di capodanno del 1725. Leggenda vuole che a casa del cardinale Cornelio Bentivoglio d'Aragona, legato pontificio della Romagna, la cuoca, durante i preparativi dei cappelletti, fosse rimasta a corto di ripieno; senza lasciarsi prendere dal panico, arrotolò i quadretti di pasta già pronti in un bastoncino. Passò poi i quadretti di sfoglia, avvolti uno ad uno diagonalmente, sui denti del pettine del telaio usato per filare la canapa, e nacquero dei piccoli maccheroni rigati.
Il termine garganelli con cui sono sono oggi conosciuti deriverebbe dal latino, a indicare la trachea per la loro forma a cannula e, a conferma di ciò, anche in dialetto romagnolo “garganel” sta proprio a significare la trachea del pollo composta da anelli cartilaginei che ricordano la rigatura di questi maccheroni.
Vi è un’altra versione simile alla prima secondo la quale però l’invenzione dei garganelli risalirebbe ad un paio di secoli prima quando, ad avere l'intuizione, sembra fosse stata la cuoca di Caterina Sforza, moglie di Girolamo Riario, signore di Imola e Forlì tra il 1473 al 1488. Restata senza il ripieno dei cappelletti, perché mangiato dal gatto.
O, forse, si sono volute per forza trovare nobili origini a un piatto divenuto nei secoli una prelibatezza, e magari nato semplicemente dalla fantasia di una “sdora” romagnola che non poteva permettersi di comprare il ripieno. Infatti, inizialmente erano cucinati rigorosamente in brodo di cappone o manzo e in sostituzione dei cappelletti, mentre oggi, invece, vengono consumati prevalentemente in asciutto con svariate ricette, al ragù di carne, oppure conditi con piselli e prosciutto, o ai funghi.
Per chiudere, dunque, ecco una delle ricette più tradizionali: garganelli salsiccia e funghi.
Ingredienti: Per la pasta: 4 uova; 400 gr. di farina. Per il condimento: un bicchiere di vino; 200 gr. di salsiccia fresca; 350 gr. di funghi; 200 grammi di scalogno pulito; sale e pepe q.b.
Preparazione: preparare l’impasto con la farina e le uova, lavorare a lungo e lasciar riposare per un’ora. Stendere la pasta col mattarello sino ad ottenere uno spessore sottile; tagliare dei quadretti di 3 cm di lato. Appoggiare il lato diagonale su un bastoncino e arrotolare, spingendo sull’apposito pettine affinché l’impasto si saldi e rimanga ”rigato”.
Fare rosolare lo scalogno in olio di oliva, nel frattempo sbriciolare la salsiccia e aggiungerla lasciando insaporire bene, bagnare con vino bianco e lasciar evaporare, salare, pepare, infine aggiungere i funghi accuratamente asciugati e terminare la cottura. Cuocere i garganelli in acqua abbondante e salata, scolarli ancora al dente e passarli in padella alzando la fiamma per pochi minuti.
Scegliamo per accompagnare il piatto un buon sangiovese di Romagna giovane e profumato, oppure per chi ama il bianco, un buon vino fresco, con la giusta sapidità per sgrassare la bocca dal sapore della salsiccia, ma che non sia troppo alcolico per non rovinare il gusto, direi un bel pignoletto dei colli imolesi o un pagadebit di Romagna. E buon appetito alla faccia del gatto!
Visioni da Captaloona
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Carissimi,
Visioni da Captaloona è diventato un programma radiofonico. Chi vorrà seguirci tutti i lunedì alle 12,30, dal 20 giugno 2016, oppure in podcast, in qualsiasi momento.
Proporremo raccomandazioni di lettura e parleremo di letteratura, il tutto condito con ascolti di opportune selezioni musicali.
Seguiteci su radiopalcoscenico, e visitate il blog: claudiofiorentini.blogspot.it
Tom Rob Smith, "Bambino 44"
Bambino 44 è il primo lavoro di Tom Rob Smith, un romanzo avvincente, durante la cui lettura ci si cala nell'atmosfera della Russia gelida e illiberale del 1953, in pieno totalitarismo staliniano. Un paese che doveva essere perfetto, un vero paradiso, ragion per cui nemmeno i serial killer erano riconosciuti tali poiché “in paradiso ci non ci sono crimini”. Questo il ritornello che si sentiva ripetere Leo Stepanovic Dimidov, eroe di guerra prima e ufficiale dell'MGB poi, che aveva servito la patria fedelmente e aveva sempre eseguito scrupolosamente gli ordini del Partito. Quando si trova a indagare sulla morte di un bambino, figlio dell'amico e compagno d'armi Fedor, morte dichiarata dai suoi superiori un tragico incidente, capisce che si tratta di una brutta storia, non si accontenta di falsi colpevoli e continuerà a fare ricerche sfidando gli ordini superiori e subendo le ritorsioni del sistema.
Divenuto egli stesso preda, si troverà a fuggire, a nascondersi per salvare la moglie bersaglio del partito in una lotta all'ultimo respiro contro tutti e contro il tempo. Un'incalzante serie di avvenimenti sveleranno un uomo apparentemente duro, che in realtà crede nell'amore, nell'amicizia, che non può più obbedire ciecamente ai dettami di partito quando si rende conto che si creano meccanismi sbagliati per costruire falsi colpevoli, reietti che resteranno tali anche quando viene scoperta la loro innocenza.
Così si metterà di traverso e, a causa della sua ribellione, verrà degradato, subendo esilio e umiliazioni. Perderà tutto, ma ritroverà la moglie, con la quale aveva in precedenza un rapporto difficile, che lo aiuterà a ricostruire i passi dell'assassino, mutilatore di bambini, riscoprendo se stesso e le falle di quell'apparato in cui aveva creduto.
Un buon romanzo, ben scritto e ricco di spunti storici, Bambino 44, si gusta pagina dopo pagina, si assapora la suspence di una vicenda appassionante, si scopre l'istantanea di una società misconosciuta, spesso esaltata come il paradiso della classe operaia, ma dove la realtà era ben diversa, a causa di un regime del terrore che creava vittime innocenti e negava le vittime vere, sostenendo che in una società perfetta tutti erano felici e la criminalità non poteva esistere.
Il romanzo è ispirato alla storia di Andrei Cikatilo, il mostro di Rostov, che aveva ucciso 53 persone e fece scalpore negli anni 80-90 poiché la polizia russa continuava a negarne l’esistenza e a lasciarselo sfuggire. Dal libro è stato tratto un film di genere thriller, per la regia di Daniel Espinosa, uscito nelle sale italiane nell'aprile 2015.