Domenico Vecchioni, "Chi ha assassinato Rasputin?"
Domenico Vecchioni è un ex diplomatico di carriera che da tempo si dedica alla divulgazione storica, confezionando agili saggi su personaggi popolari come Evita Peron, Raúl Castro, Pol Pot, Raoul Wallenberg, sullo spionaggio e sulla Seconda Guerra Mondiale.
Chi ha assassinato Rasputin? è un libro scritto con il solito stile colloquiale, con pretese di serietà scientifica, ma con taglio divulgativo, perché risulti accessibile a un vasto pubblico. Abbiamo avvicinato l'autore che ci ha concesso un'intervista ricca di particolari nel corso della quale spiega la genesi del libro.
Perché un libro su Rasputin?
Sono stato affascinato dalle più recenti interpretazioni storiche sul suo assassinio e sul ruolo politico da lui svolto. Rasputin, cioè, sarebbe stato eliminato nel contesto di un complotto ordito dai servizi segreti britannici, ossessionati dalla prospettiva di una pace separata della Russia con gli Imperi Centrali (siamo nel dicembre 1916). Rasputin, in effetti, era un pacifista convinto e aveva sempre cercato di impedire il coinvolgimento dello Zar Nicola II nelle guerre balcaniche. Gli inglesi temevano che il "diavolo santo", in sintonia con la zarina Alessandra (di origini tedesche), alla fine avrebbe convinto lo Zar a sganciarsi dagli Alleati. Un abile 007 dell'MI6, Oswlad Rayner, sarebbe l'autore del "professionale" colpo di grazia sparato sullo Staretz, già ferito da giovani aristocratici russi. Viene d'altra parte rivalutato il suo ruolo "politico": pacifista appunto, contrario alle discriminazioni razziali, preoccupato della sorte dei più poveri, critico degli eccessi della Chiesa ufficiale, fautore della collaborazione tra le classi ecc… Insomma finora molti studiosi si sono fatti forse abbagliare più dal mito che dal personaggio, in una sorta di sfasatura storica. Rasputin non è stato la causa della caduta della Russia imperiale, ne è stato solo l'effetto.
In una simile biografia, fin dove arriva la realtà storica e dove comincia la leggenda?
Difficile, in effetti, stabilire una linea netta di separazione in un personaggio entrato da vivo nel mito e morto in maniera conforme al mito…Certo è che alla sua leggenda nera (corruttore di corpi e di anime, detentore di poteri occulti, possessore delle "forze del male"), si dovrebbero aggiungere le sue lungimiranti visioni politiche, ancorché espresse con la rozzezza dovuta alla sua limitata cultura storica e politica. Se lo zar avesse seguito i suoi consigli (sopratutto quello di non entrare nella Grande Guerra), forse la caduta della monarchia e del paese sarebbe stata rallentata e molti lutti sarebbero stati risparmiati alla popolazione. Rasputin probabilmente non era un "veggente", era solo un "visionario politico". Aveva, cioè, capito prima degli altri che il mondo imperiale russo stava irrimediabilmente decadendo, gestito da un regime che non sapeva più valutare gli eventi ed era incapace di correggere i propri errori.
Ci sono personaggi contemporanei che possono in qualche modo assomigliare a Rasputin?
Rasputin verosimilmente è un personaggio unico, irripetibile, legato ad un determinato ambiente politico e sociale. Certo si può considerare che appartenga alla categoria delle éminences grises , dei consiglieri occulti (o comunque senza incarichi specifici e ufficiali) del potente di turno. Ma non credo esistano personaggi animati da una personalità così straordinariamente contraddittoria. Rasputin era convinto che non ci può essere estasi, avvicinamento a Dio senza un sincero pentimento. E non ci può essere pentimento senza peccato… Quindi più si pecca, più intenso è il pentimento che ne segue e più facilmente ci si avvicina a Dio…Con una simile filosofia di vita ci si predispone alle peggiori aberrazioni per poi salire più in alto nell'estasi divina…
Ci parli dei suoi progetti per il futuro.
Continuare nella mia attività di divulgatore e saggista attraverso la pubblicazione di articoli su riviste di Storia (in particolare BBC History/Italia) e la pubblicazione di biografie di personaggi insoliti. Sto attualmente studiando le vicende di Felix Kersten, il "medico del diavolo", il fisioterapista di Himmler! Approfittando dei momenti di quasi "felicità" del Capo delle SS dopo i suoi interventi (era la sola persona al mondo capace di liberare Himmler dagli atroci dolori di stomaco che gli impedivano di vivere normalmente), Kersten riesce ad ottenere la liberazione di prigionieri ebrei e non ebrei. Massaggiando Himmler, gli si accredita di aver salvato 60.000 persone!
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Domenico Vecchioni Chi ha assassinato Rasputin? Domenico VecchioniPag. 190 - Euro 16,00 Chi ha assassinato Rasputin? Vita, sesso e miracoli del diavolo santo Ginevra Bentivoglio Editoria Domenico ...
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Un'estate sola
Teneva un’uggia in petto, s’era messo a guardare le punte dei cipressi che imbiancavano, i coppi di terracotta ai lati del cancello, con i limoni intirizziti dal freddo che si riempivano di neve, gli olivi contorti e depressi come il suo umore. Aveva camminato su e giù appoggiato alle grucce, ponderando l’assenza di lei, cercando conforto nei suoi oggetti sparsi per casa, nell’ordinata fila di volumi della sua libreria. Aveva passato il dito sulla copertina dell’agenda di cuoio in cui lei scriveva le sue poesie, fino allo scorso ottobre, seduta sotto un olivo. Si era chiesto perché non avesse preso con sé le sue medicine, tutte le pillole che assumeva ogni giorno, a ore stabilite, con meticolosa pazienza.
A mezzogiorno era arrivata la telefonata.
Quante volte gli aveva detto, prendendogli la mano nocchiuta nella sua coperta di vene azzurrine, “quando sarà, Roberto, non lo vivremo insieme”. Ma lui la interrompeva, cingeva con un braccio le sue spalle curve, sentendo il tepore del corpo sotto la lana del golfino. “Shsss, non parlare di queste cose. Siamo insieme adesso, è questo che conta.”
Era accaduto tutto in fretta, all’inizio dell’estate. Sedevano nel viale dei cipressi, sulla panca di pietra, era un giugno fresco e lei si riparava dal vento con una sciarpa leggera. “Perché no, Roberto?”, gli aveva chiesto, sistemandogli sul naso, con gesto materno, le lenti che erano scivolate giù.
Lui aveva scosso la testa: “Mia figlia non lo accetterà, minaccia di non farmi più vedere Matteo.”
Lei aveva stretto le palpebre per difendersi dalla luce del lungo pomeriggio, poi aveva sorriso ed una rete di zampe di gallina si era formata vicino agli occhi. “Patrizia capirà. Dalle tempo, Roberto. E tuo nipote ti vuole molto bene.”
Lui quasi non ascoltava, osservava il morbido cedimento nel volto ovale, le mani da pianista macchiate di lentiggini senili, i capelli grigi ancora morbidi. Gli era parsa bellissima ed era arrossito. “Alla nostra età”, aveva protestato debolmente, “e nelle mie condizioni, poi. Sono un invalido.” Aveva afferrato la gruccia e l’aveva agitata in direzione di Marta, come per difendersi dal sentimento che lo travolgeva.
Ma lei aveva allontanato la gruccia, gli aveva stretto gli omeri con entrambe le mani. “E le mie condizioni, allora? Sai quanto mi resta da vivere, ma voglio fare questa cosa con te”. All’improvviso si era illuminata, gli occhi scuri maliziosi come quelli d’una ragazzina che sta progettando una marachella: “Facciamolo, Roberto!”, aveva esclamato, “vieni a vivere qui, prima che sia tardi.”
Lui aveva fatto una carezza al nipote Matteo: “Nonno, ti verrà a trovare tutti i giorni”, aveva promesso.
“Scordatelo!” Patrizia si era intromessa, acida, aveva trascinato via il bambino imbronciato. “Che vergogna, la mamma si rivolta nella tomba. Sei un povero vecchio patetico, se lasci questa casa, non ci torni più.”
Si era trasferito da Marta due giorni dopo, lasciando Patrizia e suo marito a litigare da soli.
Era stata una buona estate, un’estate di passeggiate nel parco, appeso al braccio di Marta, a parlare di poesia, a progettare visite agli Uffizi ed a leggere i programmi dei concerti che animavano le sere fiorentine.
Discorrevano del passato perché il futuro non c’era.
Lui non parlava volentieri di sua moglie, ma ne ricordava la voce stridula che, negli ultimi tempi, inveiva persino contro le sue gambe impedite. “Mia moglie non amava i concerti”, si limitava a dire, poi cambiava argomento. Marta gli stringeva appena il braccio, faceva in modo che il corpo di lui si appoggiasse ancor più alla sua spalla. Cominciava a raccontare di sua madre, scesa da quelle stesse colline per venire a servizio in città, del fratello emigrato in America, di un amore di gioventù che le regalava ogni giorno una rosa gialla. “La vecchiaia mi ha colto di sorpresa”, diceva, “non so come ho passato tutti questi anni. Dentro mi sento quella di allora, la ragazza con la rosa gialla, ma non lo sono.” Ed ecco la sua risata giovanile, i capelli un po’ spettinati dalla brezza della sera.
Della malattia non parlavano mai, neanche quando i dolori le logoravano le ossa. Certe notti, però, Roberto si accorgeva che era sveglia, che fissava il soffitto. Allora, dolcemente, le prendeva una mano e la stringeva fra le sue, senza parlare.
Era arrivato l’autunno, un novembre spazzato dal vento che aveva portato via tutte le foglie e riempito di spifferi il casale. I dolori di Marta si erano intensificati, aveva dovuto raddoppiare la dose delle medicine e passare il tempo davanti al camino, con un libro in grembo.
Poi c’era stata l’improvvisa partenza, senza una spiegazione, senza una parola. Si erano abbracciati, il taxi che aspettava fuori dal cancello della villa. “Riguardati, Roberto”, aveva detto lei, “io devo andare, ma il mio cuore resta con te, in questa casa.”
Quel momento, adesso Roberto comprendeva, lei non lo voleva condividere con nessuno, nemmeno con lui.
Cercò il numero e telefonò negli Stati Uniti al fratello di lei. L’uomo gli disse che sarebbe arrivato per il funerale e si sarebbe fermato il tempo necessario per vendere la villa. Si fecero le condoglianze, Roberto ringraziò e riattaccò. Chiamò il fioraio e ordinò un mazzo di rose gialle.
Poi fece il numero della Casa di Riposo. “Sono Roberto Farnesi, avete una stanza per me?”
Giovani alla ribalta: Marco Amore
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Il Foglio Letterario - rivista e casa editrice non profit che dirigo dal 1999 - nasce per scoprire e valorizzare giovani di talento. Penso che l'abbiamo fatto e che lo stiamo ancora facendo, senza trascurare i meno giovani che abbiano qualcosa da dire e sappiano esprimere in forma letteraria le loro idee. Ricordo Lorenza Ghinelli, passata a Newton & Compton con Il divoratore (e adesso La colpa), ma pure Claudio Volpe, candidato allo Strega con Il vuoto intorno e adesso autore di punta presso Anordest Edizioni. Non ci fermiamo (il noi non è berlusconiano, vuol dire che questo lavoro non lo faccio da solo!), molti giovani pubblicano con Il Foglio Letterario e attendono una valorizzazione critica e commerciale. La troveranno? Non lo sappiamo, ma non è così importante. In fin dei conti quel che conta è trovare una ribalta per esprimersi, pur piccola che sia. Oggi approfitto di questo spazio per presentare un giovanissimo autore che merita attenzione per l'impegno, la costanza e l'umiltà con cui lavora alle sue creazioni. Si tratta di Marco Amore, nato a Benevento il 9 maggio 1991, ex studente del Liceo Classico Statale Pietro Giannone. La sua prima esperienza in campo letterario risale all'età di diciotto anni, un romanzo di cui non vuol parlare, ha vinto alcuni concorsi, ma si sa che lasciano il tempo che trovano, servono solo per mettersi alla prova. Scrive racconti e poesie che presentano chiari riferimenti classici, dimostrano voracità da lettore e omaggiano maestri immortali come Shakespeare, Bronte, Hoffmann, Poe… Il suo stile è classicista, zeppo di in elementi descrittivi, intriso di un linguaggio ricercato, a tratti desueto, sovrabbondante, gotico e barocco. Non è mai banale, però. Questo mi fa dire che - se troverà la trama giusta e una storia degna di essere raccontata, forse un romanzo di formazione - potrà darci delle grandi sorprese. Ho letto molte cose incompiute di Marco, cercando - nei limiti del possibile - di consigliare la strada giusta per le sue creazioni, a mio parere quella (poco commerciale) della poesia e della prosa lirica. Sono convinto che troverà la sua strada. Per il momento presento il suo racconto migliore, la creatura più compiuta tra i tanti lavori che mi ha inviato negli ultimi mesi, accettando critiche - cosa non comune - a volte sin troppo dure. (Gordiano Lupi)
ll Foglio Letterario
Marco Amore
Zeitgeist
Replica a un amico
Una stanza. Ecco quel che ci occorre per il nostro racconto. Basta una stanza. Non eccessivamente ammobiliata, dal momento che troppi fronzoli fanno perdere il filo del discorso, né luminosa oltre il necessario, giacché la troppa luce intralcia il pensiero. Una stanza di media ampiezza, con qualche quadro qui e lì a combattere la monotonia della carta da parati (magari scene silvestri frapposte a plumbei litorali nordeuropei), un grosso guardaroba color ebano, tre, quattro mensole leggermente inclinate e stipate di libri sul cui frontespizio è facile leggere nomi stranieri come Émile Durkheim, E.T.A. Hoffmann, John Milton ecc ecc. associati a nomi un po' meno oscuri come, che so, Alessandro Manzoni; un letto sfatto e ancora caldo del tepore di un corpo, certo non lontano; due comodini completi di abat-jour, uno scrittoio chiazzato d'inchiostro, un canterano sbocconcellato dai tarli, una vecchia seggiola cricchiante di vimini e, non poteva essere altrimenti, un grazioso tappeto bukhara rosso chermes. Ma forse ho esagerato: devo eliminare qualcosa, o l'insieme risulterebbe indigesto a un eventuale lettore. Ebbene, le mura sono spoglie a eccezione di un solo dipinto. Niente paesaggi stile Emily Brontë - altro nome curioso stampato sulla copertina di uno dei tanti libri -; niente brughiere velate di nebbia, terre torbose, spiagge deserte. Niente alberi ingemmati dalla galaverna, crepuscoli melanconici, burrasche o tempeste di sorta. Si tratta di un lavoretto da poco: una serigrafia di fine anni Novanta che mostra un grottesco omino deforme. La notte stellata fa capolino dalle imposte dischiuse. Contaminati da bruscoli d'argento, i fulgori plenilunari tramutano la sagoma anzidetta in una turpe chimera. Il brusio continuo di un climatizzatore sembra l'unico trambusto a sciupare un religioso silenzio ma, se si presta maggiore attenzione, è probabile distinguere un rumore quanto mai fiacco, eppure udibile, dalla foga della macchina. Un uomo, del tutto immerso in chissà quali pensieri, sta fumando poggiato contro il davanzale della finestra. Il rumore cui mi riferisco è il sistematico soffiare della sua bocca torva. Ha sopracciglia folte e spessi favoriti. Il viso, lambito da Selene, non deluderebbe le aspettative delle più esigenti fanciulle. Tiene i gomiti puntellati al marmo, le mani aperte. Con una sottrae e riaccosta un sigaro alle seriche labbra; con l'altra culla un mento glabro e pronunciato . Veste assecondando i dettami dell'epoca romantica: il torace riempie una camicia dal colletto alto, morbido e ripiegato in maniera asimmetrica; coi polsini lunghi e stretti da cui penzolano evanescenti fascette di lino. Sotto indossa pantaloni alla ussara, del tutto spiegazzati, che assieme alla capigliatura crespa gli conferiscono un'aria alquanto negligé. Anche se non si nota, calza eminenti stivali scuri. Spruzzi di fango rappreso violano il nero delle tomaie e i puntali, di per sé già frusti, sono ricoperti da una patina fulva. Il resto della sua "toilette" giace sullo schienale della sedia.
Indumenti umidi. Una marsina, una redingote blu. Un cencio che non saprei definire. Avviluppati alla maniglia di ottone dell'ingresso - quasi dimenticavo! - figurano una coppia di guanti in cuoio glacé. I bordini cotonati sgocciolano acqua piovana sul pavimento (plic, plic, clop) e sul telaio dell'anta laccata avorio. Gradualmente, l'acqua supera i margini della piastrella e scorre a rivoli nelle fughe; dove viene osteggiata dalla porosità della malta, quindi assorbita, prima di raggiungere la testiera del letto. Mentre ciò accade, e la puzza di tabacco bruciato impregna l'ambiente e affumica i libri sulle mensole, la rigida fisionomia dell'uomo si addolcisce fino a cambiare. I suoi occhi divengono felini e sporgenti; il grigio delle iridi - un grigio che richiama le proprietà del piombo - si accende di un bagliore glauco; il naso adunco si raddrizza a imitazione di un modello ellenistico; la bocca si rimpicciolisce; la prominente linea della mascella si assottiglia; gli zigomi ben marcati affondano nella carne rosea di gote in boccio; collo, braccia e gambe perdono ogni traccia di rozza virilità… e così via. Segue il dileguarsi di camicia, pantaloni e stivali. Vediamo comparire al loro posto, contro la pelle lucida e diafana, un corpetto in taffettà, una gonna merlettata, un tablier di crêpe de chine broccato d'oro e due minuscole scarpette con fibbie in madreperla e fodera trapunta di fiori. Adesso il sigaro è una cassetta VHS: The Opening of Misty Beethoven. La redingote una cappa, la marsina uno scialle. Il cencio si sfalda in foglie di salice, i guanti si adattano ad accogliere dita affusolate.
Subito prende consistenza, dinanzi al nostro malcelato stupore, uno spettro da fiaba. Questa donna, perché di una donna si parla, possiede la grazia intrinseca del cherubino. Cammina per la stanza con flemma eterea. Sul capo, intrecciata alla chioma fluente, ha una corona di ranuncoli e orchidee. Le code della nappa di raso che le stringe in vita saltellano a destra e a manca ad ogni passo.
"O woe is me," mormora con voce rotta l'apparizione, "t'have seen what I have seen, see what I see! "
Poi si accascia a terra, inerte. È morta. La videocassetta ruzzola contro il muro, esplode in una confusione di schegge. Fuori dalla finestra, il fuoco fatuo dell'aurora profila le cime dei monti. Un gallo canta il De profundis. Il cocchio del sole avanza, pavesato di gramaglie; la notte batte in ritirata.
Tra l'armadio e il comò c'è uno spazio vuoto, un fosco anfratto. La luce del giorno non lo rischiarerà prima delle sei. Nascosta dalle tenebre, una sfinge indugia acquattata in quel punto. Di tanto in tanto frusta con la coda il gres porcellanato delle piastrelle. Morta la donna, risolve di uscire allo scoperto. Con le zampe leonine ne calpesta impassibile la salma. Un indovinello le tesse ragnatele nel cuore, su per la laringe; le si aggrappa all'ugola e la lingua palpita irrefrenabile.
"Chi ha dormito nel letto?" sbotta dunque la creatura. E un eco disumano riporta indietro la domanda.
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Il meglio di Laboratorio di Narrativa: Marco Claudio Valerio
Un racconto originale, “You Wan Chou” di Marco Claudio Valerio, cui dà un senso il sorprendente, vivificatore, finale, lasciato presagire da innumerevoli indizi e, tuttavia, inaspettato.
Quando la bufera investe e travolge mondi ed esistenze, quando “l’estrema violenza ruba, schiaccia e sbriciola moltitudine di vite”, non resta che “abbandonare lo sguardo al cielo” e aggrapparsi alle certezze di una quotidianità che rassicura. È quanto fa il monaco You Wan Chou un mattino d’estate: con apparente serenità s’immerge nel suo mondo di sempre e si rifugia nella luce del sorriso della sacra Statua. “Poco conta dove il monaco fosse”. E invece conta, eccome, e lo scopriremo alla fine.
L’atmosfera che si respira è frutto di particolari che si accumulano, disegnati minuziosamente, dipinti su una lacca giapponese, intarsiati nel legno, lavorati nell’oro, nella ceralacca, odorosi d’incenso e di fiori. Con voluta lentezza, l’autore ci parla di un tempo che rotola piano; di preghiere che portano con sé “desideri di un fiorire nuovo nel cuore”, memorie che si sovrappongono al presente; in quel Tempio, dove la ricerca del divino trasforma la percezione dello spazio. Da “orizzontale”, esso diviene “verticale”: perenne aspirazione dell’umana tensione al cielo. Ma, mentre il riflettere lento sulla preghiera come esortazione e speranza, sull’infinità del pensiero senza confini, sembra condurci, attraverso il fluire del tempo, ad un’estatica contemplazione del divino, una data, 9 agosto millenovecentoquarantacinque… un nome… Nagasaki… “l’ombra scura del bonzo impressa nelle pietre di uno spezzone di muro”, ci pongono di fronte al senso della umana finitezza: caduta e scomposizione in miliardi di atomi, pur se “luce nella luce… energia nell’energia…” Atroce ricordo dell’umana follia!
“Un monaco quando prega affonda nella sostanza della materia”. Ed è ciò che accade quando quei “venti di guerra”, “quel cielo gravido di ogni sorta di maleficio”, si rivelano per ciò che sono. Raggiungerà il suo scopo, il monaco, si scomporrà nella luce, che corre veloce come il pensiero, energia nell’energia.
Un periodare lungo e complesso, che quasi dimentica virgole, punti e relative, per seguire il ritmo del pensiero e della musica interiore.
Patrizia Poli e Ida Verrei
You Wan Chou
Marco Claudio Valerio
I venti di guerra, nel loro spirare attraverso le nostre esistenze, ci portano il desiderio ed anche la volontà di porre l’incertezza, nel tempo che rimane da vivere, nelle mani e volontà di entità a noi superiori, raccogliersi nell’intimo del proprio cuore rivolgendo gli occhi al cielo e affondando in esso con la speranza generata dalla preghiera che il “ tutto ” sappia conservarci in quel turbinio che ci aiuta a sentire la realtà, nonostante l’essere immersi in abnormi condizioni che sovente scavalcano oltrepassando a piè pari la cognizione dell’assurdo, scivolando lentamente ed inesorabilmente verso il compatibile incongruo rappresentato dall’estrema violenza che ruba, schiaccia, sbriciola e vilipende non una ma in quantificabile moltitudine di vite.
Il vento poi diviene bufera, colmando ogni interstizio della vita e bruciando al suo passare ogni seppur minimo simulacro di normalità. La ferocia, l’arroganza e la stupidità, con il passare dei mesi, vengono metabolizzate, digerite come un pasto pesante, dapprima con dolori all’addome e poi con un senso di nausea così da far proprie le ignobili condizioni dell’essere e ci si abitua all’enormità del bere l’amaro fiele di una supposta normalità da cercare e vivere, potendo giustificare la propria esistenza. In questa folle incongruenza si abbandona lo sguardo al cielo e si è sempre più spesso propensi a volgerlo a terra, così da assicurarsi di non calpestare anche quell’ultimo barlume di saggezza che viene inesorabilmente relegato nella mera sopravvivenza.
Così in quel mattino d’estate, alle prime luci dell’alba il monaco You Wan Chou lasciava il suo giaciglio e a passi lenti e pesanti si dirigeva alla fontana nel centro del minuscolo giardino. Il calore del giorno precedente si era dissipato nella bruma della notte, l’erba del piccolo prato era ancora madida di sudore, l’acqua dalla fontana scendeva fresca, gorgogliando a festeggiare quel lucente albeggiare parzialmente celato da nuvole sottili che lasciavano trasparire il blu di un cielo gravido di ogni sorta di maleficio e di quotidiana follia del vivere accettando che l’ombra oscura della morte cammini impavida al nostro fianco.
Un lento movimento delle mani a raccogliere i manicotti della colorata veste, ripiegandoli su se stessi, così da esporre avambracci nudi e scarni che affondavano nella frescura dell’acqua, sollevandone mani a conca ricolme di quella fonte di vita, il capo chino a lasciarsi aspergere creando la sensazione che dissolve in ogni più piccola goccia le nebbie della notte spalancando al giorno a venire la volontà ed il desiderio di fare di quella giornata il momento felice di una preghiera intensa e profonda. Quando il tamburo della guerra batte il suo ritmo siamo tutti stranieri in terra straniera, siamo tutti infelici di ciò che ci circonda eppure tutti continuiamo a porre un piede innanzi all’altro camminando a passi lenti e grevi come simulacro di normalità verso il nostro futuro, così, poco conta dove il monaco fosse, così poco conta da dove venisse.
Dal chiostro alla porta interna del tempio, dalla luce del sole alla penombra delle lacrime e dei desideri, del Budda…, chinando e reclinando il capo sino a giungere sommesso al centro del vuoto spazio il monaco si distese a terra sull’unico quadro di nuda pietra del pavimento posando la fronte ancora imperlata d’acqua; salutava così per il giorno, l’immagine sacra, rialzatosi e indietreggiato a lato del muro guardò la realtà degli eventi nella loro quotidianità, la ramazza il secchio la paletta per la cenere, nuovi incensi a sostituire quelli consumati dalla notte, togliere laddove possibile i sedimenti della polvere dai cuscini, muovere i grandi ventagli per far circolare nuova aria.
Uscire verso l’attiguo monastero, cambiare la veste, radersi il capo, cospargere di fiori il piccolissimo stagno, strofinarsi le mani nei petali del loto, immergersi nel profumo dell’incenso del piccolo tempio e con un sorriso solo apparentemente innaturale, a passi lenti e cadenzati ritornare al tempio e di qui alla porta principale per aprirla. Da molto tempo oramai era poca la gente in attesa, da molto tempo erano così poche le preghiere che si innalzavano al Lucente, eppure la speranza non demordeva, eppure la consapevolezza che in un modo o nell’altro “ quel tempo ” sarebbe finito faceva copiare nel volto del monaco il sorriso della grande statua solo parzialmente dorata.
Nel piccolo cortile d’entrata tra le mura maestre e la recinzione, il sole filtrava a fiotti di luce tra il fogliame verde dei pruni e quello grigio dei gelsi, i guardiani di pietra, immoti, guardavano ad est, il lastricato riluceva ancora della rugiada del mattino rifrangendo i raggi in mille scintille, una anziana donna nel suo scuro kimono attendeva seduta alla panca di pietra teneva le mani in grembo abbandonate e prive di nerbo, frasche odorose nella destra e nella sinistra la grande spirale d’incenso, attendeva senza fiatare, serena il suo momento di pace a contatto con l’infinito. You Wan Chou incontrò i suoi occhi, pozzi profondi di dolore e speranza, chinato il capo in segno di saluto e allargate le braccia ad accogliere girò su se stesso e con fare solenne aprì completamente i battenti di legno colorati ed incisi di mille storie di vita e di credo.
Le ore passavano lente come il battito del timpano che accompagna il ricordo di una danza del tempo passato, qualche vecchio si apprestava ad entrare, lasciare il suo obolo e il suo profumo d’incenso alla speranza che tutto potesse passare in quell’’immutato tempo di dolore e sofferenza, qualche giovane donna con il ricordo lontano di tempi belli di fioritura e d’amore cercava tra le solide mura il conforto o la speranza di udire una voce lontana che la richiamava, brevi passaggi densi di dolore e tristezza eppur così ricchi di un pensiero capace di superare le nubi e cogliere il colore della vita a venire, qualunque questa possa essere ovunque questa possa realizzarsi al di fuori di quell’incubo inumano che è la guerra.
Quando il sole fu forte nel mezzo del cielo e iniziò a penetrare in sghembi raggi dagli alti lucernai del tempio ferendo il denso fumo delle spirali d’incenso, dipingendo di ceralacca le travi e le colonne, quando oramai la certezza che alcuno si sarebbe più inoltrato tra le porte massicce in quella rossa penombra di credo; il bonzo, passando vicino alla sorda campana la percosse sei volte per poi prendere da un lato il suo cuscino e lasciarlo cadere di fronte alla statua, raccolse dal lato opposto il suo piccolo Mani, tornato al cuscino vi ci sedette e chiuse gli occhi il piccolo mulinello della preghiera ruotava nella mano destra accarezzato dalla sinistra, un sospiro profondo ad accompagnare gli ultimi riverberi del bronzo della campana parevano ovattare ancor di più se mai possibile quell’ambiente rendendolo fuori dal tempo e dal mondo, il sant’uomo sprofondò allora in un fiume di pensieri ed immagini.
Il tempio lo aveva accolto nel suo ventre opalescente molti anni addietro, quando la sua vita era un forte virgulto di bambù, le antiche mura gli avevano parlato per anni negli anni di pellegrini, credenti che cercavano il loro mantra, disperati d’ogni sorta che chiedevano un attimo di ristoro e cuori felici che donavano come a voler ripagare il bene ricevuto, poi qualche profondo pensiero lasciato tra luce e ombra di giorni d’estate pennellati nell’intarsio delle travi, molti “desideri” posti come preghiera come petali di fiori di pruno ad invadere le lunghe e tante primavere trascorse, altrettanti i dolori trasmessi come messaggio del difficile passare del tempo che come spifferi feroci dell’inverno freddo e violento arrivavano a coprire la porta di leggera e spumosa neve candida sciogliendosi ai primi soli tiepidi così i graffi delle effige del tempo nel legno, lunghe le attese di un ritorno o di una dipartita come foglie ingiallite che cadono una ad una nell’abbreviarsi delle giornate d’autunno.
Dubbi sulla propria esistenza ed il suo valore, certezze sul rotolare del tempo verso la direzione che gli eventi portano con loro, desideri di un fiorire nuovo nel cuore e volontà perché quel tempo avesse da finire e con lui la memoria del male, promesse fatte a se stessi e agli altri così poco spesso mantenute, ricerche di un io a volte nascosto nelle pieghe di un’esistenza che non corrisponde alla desiderata, semplici gesti del cuore e forti moti di rabbia si erano stampati in quel legno del soffitto come l’acre odore d’incenso, inglobati nella seta degli stendardi che si muovevano a ricordo delle nuvole in cielo. Il tutto gli passava attraverso il corpo e l’anima, assorbendo le sensazioni e le emozioni, le conteneva assommandole ai suoi pensieri per poi essere pronto a raccogliere una piccola lamina d’oro per ricoprire un nuovo lembo del bronzo levigato e nudo.
Posato il piccolo mulinello della preghiera sulla destra del cuscino, aprì gli occhi e fissando il vuoto oltre le mura, oltre i monti e oltre la terrena esistenza lasciò che le immagini si componessero agli occhi della mente come a quelli del presente sovrapponendole.
L’aria nel tempio era densa di fumo e profumo, gravida di quella tensione che sottende il viaggio nel profondo dell’umano a cercare il divino che esso contiene, colori apparentemente smorti per la fioca luce si rincorrevano veloci nei molteplici vortici delle spirali d’incenso e del fumo che lento saliva verso il soffitto, la lignea struttura con incastri, travi e colonne modificava la percezione dello spazio trasformando come per incanto l’asse del percepire da orizzontale a verticale; dovuto tributo al tendere al cielo, un cielo, quello interno al tempio seminascosto dai rossi drappi di seta e offuscato dal fumo denso delle spirali e delle lampade ad olio. La luce del giorno non entrava mai direttamente, rifranta da tendaggi e complessi sistemi di portelloni si diffondeva come nuvole barocche che conquistano il cielo azzurro in refoli di vento che si rincorrono. Centro gravitazionale di quel minuscolo universo caotico la statua del Luminoso, immota come a voler dire che il tempo scorre oltre il suo essere lasciando intatte le sembianze e le parole scritte nella pietra del mondo.
Ai due opposti lati della statua la fila dei Mani delle preghiere, grandi cilindri di legno laccato che contengono lo spirito che si eleva a cercare ed accogliere, teso ad incontrare, parole antiche scritte e riscritte dal tempo e dall’umano sentire, metamorfosi costante di un capo chino rivolto alla sua sentita origine, parole pesanti di legge e dottrina, frasi leggere come canti di fiori che si schiudono al sole, pensieri enormi nella loro semplicità che tendono all’anima globale del mondo, sentimenti di grandezza a volte percepita come superiore a quella dell’essere umano. Sulla destra come soglia d’entrata alle preghiere la rozza campana di bronzo appesa a travi variopinte di legno intarsiato, effige di volti, intagli di occhi, colore di gote accese all’ardore, e il bronzo fuso nel tempo antico colmo di bugne ad assorbirne la vibrazione e smorzare i toni acuti che troppo veloci nella loro vibrazione non arrivano al cielo.
Di fronte alla statua bracieri colmi di cenere e un numero incredibile di sottili dita frementi e tese verso il serafico sorriso emanando il profumo al cielo verso l’orizzonte lì dove terra incontra, a lato di questi, piccoli brandelli di stoffa arpionati all’uncino che saldi li tiene innanzi all’occhio ridente e mesto di chi ha lasciato le grandi parole. Ogni uno di questi una preghiera, un’esortazione una speranza, multicolore forma degli esseri umani innanzi al grande, You Wan Chou ne sentiva nei polpastrelli la diversa consistenza, così come aveva incontrato le diverse anime delle genti che a lui venivano pregando e chiedendo, liscia seta raffinata, forte corda stirata, consunto lino e calda lana tessuta stretta.
Nulla può contenere il pensiero, nulla può limitarne i confini, ed ecco alle pareti interne fodere di legno lavorate e ricamate dalla mano dell’uomo con l’ausilio della natura, millanta anni passati a crescere nell’equilibrio, solo questo può contenere l’idea, non scatola chiusa ma acuminato tempo che come punta di lancia fende la realtà portandosi appresso il profumo e l’odore della mano che l’ha scoccata, della corda che l’ha sospinta dell’altro legno che ha caricato la corda. Profondo mistero dell’equilibrio celeste che nasce dal tempo e in questo si rinnova, infiniti gli intagli molteplici i colori rinnovati e cambiati ancora una volta terra su legno semi su fibre sogno su dura realtà.
Opalescenti lastre di pietra che lasciano entrare la luce poca alla volta, senza mai esagerare senza mai permettere al moto del tempo di essere in alcun modo violento, antica pietra levigata da mani antiche, nulla nasce dal nulla e nulla muore nel nulla, tutto si trasforma, tutto diviene parte del totale per poi tornare ad essere particolare, il seme dal frutto, le mani dall’amore, il legno dal seme, il volto dalla propria genia, il pensiero poi dalla forza e dall’equilibrio del mondo che ci circonda e che come le rosse vele del soffitto, lasciano trasparire soffusa e confusa, la realtà, che nelle mani non sappiamo e non possiamo contenere.
Appese e aggrappate alle pareti panche di legno grezzo, scure dal tempo e lisce dall’uso, infisse in un pavimento di lunghe tavole che delle vene del legno fanno onde lievi al sentire della pianta del piede delicatamente vestita dal feltro dei calzari, lisa e consunta la polpa del legno a distanziare e unire la lisa e più scura vena disegnata dagli anni, multicolori cuscini di seta a comporne un dipinto fatto di macchie di vividi rossi, gialli solari e profondi blu del cobalto. Involucro sacro, scrigno di pensieri e di volontà, nave pesante e sicura che và nel tempo che si srotola, a volte lento a volte burrascoso come i giorni che ora passavano sopra il chino capo dei molti.
Così guardava il bonzo attorno a se stesso, così con lo sguardo sfocato oltre i confini della misera vista, lasciando che il palpitare del tempio lo aiutasse a vibrare con il sospiro lento e regolare dell’universo intero, quelle immagini quel sentire lo aiutavano nel ricercare, nel comprendere e per poi sprofondare meditando a larghe spirali di falco nel cielo che osserva il terreno; calandosi dentro la consapevolezza della luce emanata dal sorriso dell’effige che innanzi a lui si ergeva, solido bronzo forgiato con amore, levigato con pazienza e solo parzialmente coperto di piccole lamine d’oro.
Il mattino si assottigliava sempre più arrendendosi verso lo zenit del giorno, un monaco quando prega affonda nella sostanza della materia e di questa diviene parte e sostanza, …il vuoto è forma, la forma è vuoto ... così recita la sutra del cuore, così in quegli istanti la mente di You Wan Chou
Pronto a ricevere il tutto, pronto a dare il tutto perché solo così si può sperare che il male possa corrispondere al bene come qualità e quantità perché solo così si arriva a confondere il significato ed il valore dell’equilibrio creandone una nuova dimensione che possa toccare la …
….la luce che corre veloce quasi come il pensiero, lento e grezzo invece il suono segue le malefiche spire dell’aria che lo frena, che lo costringe a muovere tutto…
… nel fragile lembo di pensiero che ci separa dal precipizio del divino che conteniamo in noi e nella nostra profondità, succede a volte di precipitare e cadere oltre la linea, You Wan Chou il monaco al culmine della sua preghiera sentì d’essere caduto oltre, luce nella luce, materia nella materia e …
… si scompose in miliardi di atomi diseguali nell’essenza e nel tempo… energia nell’energia ….
Era il nove Agosto dell’anno millenocentoquarantacinque dell’era dei Cristiani, alle undici e due minuti del mattino il sole splendeva, una… due… tre … quattro ….. millanta volte nel cielo e sulla terra tra le case e le strade di Nagasaki.
… ora, oggi, l’ombra scura del bonzo impressa per sempre nelle poche nude e ricotte pietre di quello spezzone di muro che ancora è rimasto a fronteggiare gli eventi, quella sagoma scura ci parla della sua preghiera, del sorriso e del pianto, della forza e della violenza, del sereno immutato dell’universo, parla a chi ha il coraggio di saperla e volerla ascoltare, nell’infinitesimamente piccoli di cui siamo composti ma …,
… luce nella luce…, materia nella materia …, energia nell’energia….
Sezione primavera: Nené
Marlene Castagnini, per gli amici Nené, è nata (beata lei) il 26 maggio del 2000, a Piombino, dove risiede. Frequenta le scuole medie, nel tempo libero si diletta con la danza e la scrittura, compone poesie e brevi racconti di taglio onirico - fantastico. “Ho iniziato a scrivere lo scorso inverno. La scrittura mi ha fatto provare un senso di leggerezza e di libertà”, dice. Marlene deve ancora crescere, certo, non è una scrittrice nel vero senso della parola, ma è una ragazza che si diletta a usare le parole, cercando di imbastire una trama sufficientemente articolata. Il breve racconto che segue ci porta nel centro storico di Piombino, a contatto con lo struscio dei ragazzini, nel pieno di una storia fantastica, a tratti persino horror, con un imprevedibile virata romantica. A mio parere è un buon inizio per Marlene, se si considera che non ha ancora compiuto 13 anni. Voi che ne dite? (Gordiano Lupi)
Pomeriggio d’estate
Un sabato pomeriggio d’estate, caldo e tranquillo, mi ero data appuntamento con i miei amici davanti al nuovo negozio di vestiti del centro. Arrivai per prima, feci passare i minuti fissando un paio di meravigliosi leggins leopardati che tanto desideravo. Ero così assorta che non sentii neppure arrivare il resto del gruppo, nonostante i ragazzi urlassero e si prendessero in giro. Sabrina mi abbracciò alle spalle. Mi voltai. Vidi che si erano riuniti davanti al negozio, si rincorrevano e, come spesso accadeva, si prendevano gioco delle persone anziane.
-Siamo tutti? - chiesi a Sabrina.
- Tutti. Ginevra non viene. È dal dentista. Alessandro è malato.
-Bel modo di passare una giornata come questa - ironizzai - Andiamo ragazzi. Siamo tutti!
-Ciao Marina!- gridò Giacomo. Lui per me era qualcosa in più di un amico. Mi piaceva. Era un bel ragazzo dai capelli crespi, castani, i suoi occhi color smeraldo erano uno spettacolo.
- Quando sei arrivata? - mi chiese perplesso.
- Molto prima di te, sicuramente!- dissi abbracciandolo.
Fra una battuta e l’altra, cominciammo lo struscio in Corso Italia, urlando come idioti. Giunti alla fortezza del Rivellino, decidemmo di andare nella piazzetta di Marina. Mi piace l’atmosfera di Marina: è un posto tranquillo, in riva al mare, e poi il tramonto è un vero spettacolo. Inoltre si chiama proprio come me!
Arrivati sul posto subito ci rendemmo conto che le panchine erano libere e che la fontana era vuota. La fontana di Marina non è come tutte le altre. Non sembra una piscina formata dagli zampilli d’acqua. No davvero. Pare una piccola struttura in metallo fatta apposta per mettersi a sedere. Corremmo a prendere i posti migliori. Restammo quasi mezz’ora seduti a scherzare, fino al tramonto del sole. Ci gustammo il breve spettacolo, quindi tornammo verso il corso, passando per piazza Bovio. Fu in quel momento che un amico propose: - Facciamo un salto alla Tolla! -. L’idea non mi andava per niente a genio. Sapevo bene che voleva andare a vedere una casa che tutti consideravano infestata.
- Non è una buona idea. Non è prudente andare laggiù, specie adesso che è buio - dissi. Mascherai il nervosismo e aggiunsi: -Perché non restiamo un po’ in giro? Magari andiamo all’Euronics e proviamo i televisori in 3D…
- No davvero. Non voglio perdere l’opportunità di andare alla Tolla. Ci sarà da divertirsi. - disse Giorgio con sarcasmo.
- Certo, magari potresti essere travolto dal crollo della casa! - risposi. Cercavo ogni scusa per non andare in quel posto. Non sono un tipo pauroso, ma la Tolla non mi piace, è un posto che odio. Gli amici che c’erano andati, raccontavano cose spaventose e raccapriccianti sul conto di quella casa. Verità? Fantasia? Non lo sapevo ma non volevo verificare di persona.
Le mie lamentele furono inutili. Andammo alla Tolla.
Quando fummo vicini alla casa ci trovammo davanti una grande rete di metallo e filo spinato. “Meno male, così non potre...”. Non terminai la frase. Andrea alzò la rete e indicò un piccolo passaggio.
-Muoviamoci. Non abbiamo molto tempo!- disse guardandosi intorno-
Entrammo tutti. Andrea e Giorgio estrassero alcune torce. Lo sapevo che quei due erano d’accordo!
-Tenete- disse Giorgio porgendo le torce- Ci divideremo in gruppi: Marina, Giacomo e io staremo al piano di sotto, gli altri, invece, con Andrea. Mi raccomando: restate uniti! -
Disse queste parole con tono di superiorità. Mi faceva così rabbia che gli avrei tirato un ceffone! Passammo sotto un corridoio naturale composto da alberi secolari e raggiungemmo la porta della casa. Andrea si avvicinò con fare spavaldo e spinse la porta che si aprì cigolando. Entrammo lentamente, mentre il pavimento di legno, reso logoro dal tempo, scricchiolava sotto i nostri passi.
-Seguitemi- disse Andrea al suo gruppo - Andiamo piano.
-Noi invece andiamo di qua - disse Giorgio indicando una stanza buia- E restiamo uniti!
-L’hai già detto! Non siamo mica scemi!- dissi. “Soltanto un gruppo di idioti come noi possono entrare in una casa come questa...”, pensavo. Il mio ragionamento fu interrotto da strani rumori. Mi venne la pelle d’oca, diventai pallida e iniziai a mordermi il labbro inferiore, come mi accade sempre quando sono nervosa.
-Andiamo a vedere- disse Giorgio cercando di fare il grande. Ma la sua voce tremante lo tradiva. Ci avvicinammo alla stanza dalla quale proveniva lo strano rumore e aprimmo la porta.
La stanza era vuota. C’era solo un tavolo con un grammofono che suonava!
-Bimbi, voglio uscire!- dissi terrorizzata.
-Aspetta un secondo. Voglio capire cosa succede- fece Giorgio, perplesso.
-No! Voglio uscire! Fosse l’ultima cosa che faccio!-
A Giorgio non importava quel che dicevo. Continuava ad avvicinarsi. Illuminò il grammofono, ma non vidi nulla perché lui mi faceva ombra con il suo corpo. A un tratto, senza un motivo apparente, si fermò e iniziò a tremare. La sua reazione mi fece paura. Mi avvicinai. Lentamente. Quando gli fui accanto, posai la mia mano sulla sua spalla e gridai come una dannata.
Il grammofono sputava sangue! La stanza grondava sangue, un liquido denso, rosso e puzzolente. Il sangue mi bagnava persino le scarpe.
-Usciamo subito!- urlai tirando via Giorgio- Sabri! Uscite immediatamente, svelti!
Uscimmo dalla stanza. Sabri e gli altri erano scesi spaventati.
-Che succede?- chiese Andrea nervoso.
-Non c’è tempo per le spiegazioni, scappiamo!- urlò Giacomo correndo ad aprire la porta.
Ma dopo aver fatto qualche tentativo, iniziò a balbettare:- Ra-a-gaz-zi-si-a-m-ochi-usi!-.
-Tranquillo- gli dissi -Usciremo da qui! Giorgio, Andrea afferrate quelle tavole di legno e sfondate la finestra!- dissi prendendo in mano la situazione. Si unirono Sabrina e gli altri per dare man forte, mentre io cercavo alcune pietre per sfondare la finestra.
Andrea riuscì a rompere il vetro.
-Forza!Tutti fuor...- ma non finì la frase. Dalla stanza dove avevamo trovato il grammofono uscì una persona: era malconcia, aveva la barba e i capelli lunghi. Sembrava un barbone. Ma i barboni di solito non brandiscono pistola e coltello per ucciderti.
-Non uscirete più, mi dispiace - disse con voce roca.
Sabrina gridò terrorizzata gettandosi dalla finestra. Tutti gli altri la seguirono. Io restai per ultima, subito dopo Giacomo. Quando lui uscì, mi lanciai senza pensare. Ero quasi fuori quando qualcuno mi afferrò per il braccio.
-Lasciami!- urlai con le lacrime agli occhi.
- Non posso - disse il vecchio alzando il braccio che brandiva il coltello, pronto a colpirmi.
-La prego, non mi faccia del male. Non dirò niente!- supplicai, piangendo lacrime di terrore. “Addio mondo. Accidenti a me e quando ho accettato di venire...”, pensai. Mi preparavo a una morte lenta e dolorosa. Ma il colpo non arrivò. Svenni, dopo aver udito uno strano rumore, ma quando aprii gli occhi vidi il barbone disteso in terra, mentre ero tra le braccia di Giacomo e correvamo verso l’uscita. Al recinto, passai sotto la rete. Aspettai Giacomo, che mi prese per mano e mi portò via. Arrivammo a casa sua, approfittando del fatto che i genitori erano fuori, salimmo e mi fece cambiare. Indossai una sua felpa sopra i miei pantaloni verdi. Ero ancora scossa dall’accaduto ma accanto a lui mi tranquillizzai facilmente.
-Vorresti uscire?- mi chiese.
-Non so. Sono terrorizzata. Vorrei restare ancora un po’ qui...
-Non c’è problema- disse, sedendosi con me sul letto. Poi mi passò il braccio attorno la schiena. Mi voltai lentamente e lo guardai negli occhi. I suoi splendidi occhi.
-Sei così bella - mi disse. Poi si avvicinò e mi baciò.
Niente fu come mi ero immaginata. Era tutto più bello, più dolce. Più reale. Nonostante i fatti orribili di un’assurda giornata, riuscii a non pensare a niente, lasciando spazio solo a cose piacevoli. Passai l’intero pomeriggio in estasi. Eravamo soltanto noi. Io e Lui.
Marlene Castagnini
Storia di una levatrice
Di mia madre ricordo la treccia che toccava la strada, e gli occhi.
Suo padre fabbricava mattoni ad Amritsar, la città del Tempio d’Oro, era mussulmano ma non aveva il Corano nel cuore. Si chiamava Mohammed e sposò Ruttie. Nella prima notte dopo le nozze furono concepiti cinque gemelli. Mia nonna li partorì, uno dopo l’altro, ma tutti i maschi nacquero morti. Sopravvissero solo due bimbe, mia madre e mia zia.
Erano due bambine magre, che piangevano piano ma poppavano il latte con tenacia. Mohammed disse che erano state le femmine a succhiar via la vita dei maschi e pianse la morte dei suoi tre figli. - Se i miei figli sono morti - si lamentò, allora non ho nemmeno figlie.
Strappò le bambine alla madre e con loro vagò in mezzo alle baracche di fango e bambù dei quartieri poveri. All’alba, le consegnò ad una famiglia indù. - Eccovi del denaro - esclamò -allevate queste bambine come se fossero vostre, perché io non ho il coraggio di affogarle.
Una mattina di tredici anni dopo, Mohammed si trovò a passare nel quartiere dove vivevano le sue figlie. Seduta sulla soglia di una casa, c’era una fanciulla che impastava il chapati. Aveva una treccia nera che spazzolava il terreno, un naso dritto e delicato, guance di pesca. Era assorta nel suo lavoro e cantava sottovoce un inno alla dea Sita. Mohammed chiese ad un vicino chi fosse quella ragazzina. Scoprì che si trattava di una delle figlie che aveva ripudiato, e che gli indù l’avevano chiamata Suyeda. In quel momento comparve sulla soglia anche un’altra fanciulla. Dalla somiglianza, Mohammed capì che era l’altra gemella, cresciuta però più bassa, più tozza e più scura.
Erano passati molti anni, e Mohammed non sentiva più alcun legame di sangue con quelle due ragazzine. Figlia o non figlia, volle Suyeda per sé. Sua moglie Ruttie era invecchiata, sformata da troppe gravidanze dove tutti i bambini erano morti. Se Mohammed avesse avuto timore di Allah, avrebbe capito che quei lutti erano la punizione per avere abbandonato le sue figlie, ma lui non aveva il Corano nel cuore e quella sera non tornò da sua moglie.
Comprò da mangiare ed entrò nella casa di Suyeda.
- Eccovi del cibo- esclamò - ridatemi le mie figlie perché da questo momento sono di nuovo mia proprietà.
Si accoccolò sul charpoi, in mezzo alle due gemelle, ma per tutta la sera non ebbe occhi che per Suyeda. Giocò con la sua treccia, le raccontò storie divertenti e scelse per lei i bocconi migliori. Alla fine della cena, gettò una manciata di rupie fra le ciotole colme di frutta e di riso. Parlò nell’orecchio del padrone e subito tutta la famiglia decise di dormire per strada. - Fa troppo caldo, dissero.
Anche Suyeda ed Haria presero la loro stuoia. – No - ordinò quello che credevano il loro padre - voi due stanotte dormite dentro.
Ubbidirono, distendendosi sul charpoi che dividevano tutte le sere.
Quando Mohammed le raggiunse, stavano già dormendo, abbracciate. L’uomo si tolse in fretta la veste e sollevò il sari di Suyeda. La ragazza aprì gli occhi assonnati. Vide sopra di sé quell’uomo imponente, con la barba folta, gli occhi nebbiosi. Era nudo, con un enorme fallo rosso puntato contro di lei. - Non gridare, Suyeda, o sveglierai tua sorella - le disse - io sono il tuo vero padre e posso fare ciò che voglio di te.
Accanto, Haria stava rannicchiata e non si muoveva. Mohammed calò sopra Suyeda e con una mano le bloccò le spalle contro il terreno. Con l’altra le allargò le gambe, poi conficcò il suo membro dentro di lei. Suyeda soffiò con le narici, come un animale, ma non gridò. Haria rimase girata di schiena, immobile.
Il peso dell’uomo era immenso e schiacciava Suyeda contro il pavimento. Lei sentiva dentro la pancia una mazza dura che si agitava e sfregava, pelle contro pelle. Poi, d’un tratto, Mohammed si lamentò e Suyeda credette che la dea Sita lo avesse ucciso, per vendicarla.
Invece non era morto. Si levò in piedi e lasciò la casa.
Suyeda sentì Haria sospirare forte, come se per tutto quel tempo avesse trattenuto il respiro. Rimase distesa contro la schiena della gemella e non fiatò. Non mosse le gambe fino alla mattina e lasciò che il sangue, e quell’altra cosa viscosa, si rapprendessero sulle sue cosce. Era tutta pesta, come quando era stata picchiata per aver bruciato il chapati. Si sentiva ancora addosso quella barba ispida che le sbranava il seno, e riviveva lo strazio d’essere impalata fra le gambe da un uomo che aveva detto d’essere suo padre.
Né lei né Haria parlarono più di quell’uomo.
Suyeda non sapeva di essere incinta. Glielo dissero le donne della casa, picchiandola con un bastone sulla pancia che si era gonfiata. - Avrai un figlio - strillarono - e questa vergogna ricadrà su tutti noi.
Chiamarono un astrologo e lo pagarono perché leggesse nelle stelle il sesso del bambino. - Sarà un maschio - predisse l’astrologo. - Un maschio va bene - dissero le donne e lasciarono in pace Suyeda per il resto della gravidanza.
Non ebbe un maschio ma una femmina e quella femmina sono io.
Venni al mondo di notte, dopo che il monsone aveva soffiato per tutta la giornata. Le strade erano paludi e mia madre era inquieta come una tigre, mentre le raffiche di pioggia si abbattevano sulla sua casa e filtravano dal tetto.
Non aveva mai amato quel tugurio, né le persone che vi abitavano. Voleva bene solo a Haria, la sua gemella.
Mentre così rifletteva, inginocchiata a sorvegliare il masala che tostava nella tawa, con la pancia che le arrivava quasi sotto la gola, sentì un dolore così forte ed improvviso che credette d’essersi bruciata coi tizzoni. Guardò giù, col respiro affrettato d’una cavalla impaurita. Era troppo lontana dalle braci per essersi scottata e fra le sue gambe non c’era fuoco bensì acqua che bagnava il sari.
Si mosse, ma era come se una mano la tenesse inchiodata accanto al fuoco. Scivolò indietro, sulla schiena, soffocata da un altro dolore e, mentre annaspava per chiedere aiuto, sentì l’odore delle spezie che si carbonizzavano nella tawa. Mi picchieranno, pensò, come l’altra volta che ho bruciato il chapati. Ma anche se l’avessero picchiata con tutti i bastoni del mondo, non avrebbe potuto sentire più male di così.
Furono solo le prime doglie, le più leggere, d’un travaglio che doveva durare tutta la notte. Molte ore più tardi, Suyeda aveva smesso anche di urlare, mentre attorno a lei un cerchio di donne si affannava.
Fu chiamato di nuovo l’astrologo e il cerchio si aprì, reverente, al suo arrivo. In cambio di tre pugni di riso, l’astrologo lesse il futuro sul palmo della mano sudata di Suyeda. - Non va bene - brontolò - stanotte le stelle sono contrarie.
Erano ormai pallide, le stelle, quando Suyeda ebbe l’ultima contrazione. Si aggrappò alle braccia di Haria e gridò. Apparve la mia testa ed una vecchia l’afferrò e tirò. Fui strappata in questa vita dalle sue mani sporche.
- Ma non è un maschio! - esclamarono indignate le donne della casa. A turno guardarono il mio sesso. - E’ solo una femmina - disapprovarono - una femmina inutile e costosa. Liberiamocene!
Haria s’intromise, mi fece scudo col suo corpo. - Lasciatela a me, penserò io a lei!
Mi prese in braccio e, con il mio stesso sangue, segnò una tika sulla mia fronte.
- Ecco il tuo terzo occhio, nipote - disse - ti chiamerò Mandala, cerchio della vita.
E anche quando per tutti divenni Fatima, per Hariamasi sono sempre rimasta Mandala.
Suyeda si rimise a fatica del parto. Passò molti giorni distesa sul charpoi. La febbre le faceva vedere cose che non erano: un mostro con la barba, più alto del sole, che la inghiottiva; una lancia rossa che la trapassava da parte a parte; un bicchiere di latte che si mutava in sangue.
La zia Haria mi appoggiava vicino al corpo della sorella assopita, accostava la mia bocca al seno fino a che non trovavo da sola il capezzolo e mi ci attaccavo.
Lentamente, mia madre riacquistò le forze ma dalla febbre non guarì mai. Cominciò ad annusare l’odore del mio corpo e ad assaggiare le gocce di latte che mi sfuggivano dalle labbra. Teneva in bocca le mie mani ed i miei piedi e li scaldava col suo fiato.
Prese a sedere sulla soglia di casa. Non le importava di cosa poteva pensare la gente. Lei non era più una brava ragazza indù e non si sarebbe mai sposata. Si era congiunta col proprio padre, era diventata una paria fra i paria ed anche gli intoccabili la chiamavano impura ed evitavano di camminare nella sua ombra. Perciò abbandonò ogni ritegno. Scostava il sari e esponeva il suo seno di tredicenne per allattarmi in mezzo alla gente, senza pudore.
Quattro anni passarono, uno dopo l’altro. Crebbi sana e forte, mio malgrado, in quella casa dove ero invisibile per tutti, tranne che per le due gemelle. Somigliavo più a Haria che a Suyeda. Come lei avevo lineamenti forti, ossatura robusta.
La febbre e l’allattamento avevano assottigliato Suyeda, rendendola trasparente e bellissima. Aveva quell’aspetto di fiore sgualcito che accende la fantasia degli uomini.
La adocchiò Charim, il peggior sciupafemmine di tutta Amritsar. Aveva vent’anni, una moglie ricca e molto più vecchia di lui e due figli piccoli. Apparteneva alla casta dei mercanti ma era sua moglie a lavorare, mentre lui correva dietro a tutte le ragazze della città. Era il terrore dei padri e dei mariti. Si prendeva il suo piacere con mussulmane, buddiste ed indù, con vergini e con donne sposate, con cortigiane e persino con donne bandite dalla loro casta.
Vide mia madre e le piantò in faccia i suoi occhi baldanzosi. Passando e ripassando davanti alla sua casa, si lisciò i baffi, fece tintinnare i suoi ornamenti, si morse il labbro.
Suyeda aveva diciassette anni. La sua unica conoscenza degli uomini e dell’amore era il vecchio incubo di un demone che diceva di essere suo padre e la prendeva con la forza. Charim cominciò con lei una danza delicata. Scriveva il nome Suyeda sul terreno con un ramoscello. Era gentile con me, mi porgeva con la sua stessa lingua noci d’areca e foglie di betel. - Un giorno, piccola Mandala - mi diceva - sarai come la tua mamma che brilla più di una stella.
Ci raggiungeva quando sapeva di trovarci sole, e portava in dono a mia madre frutta e collane di fiori. Faceva mostra di rispettarla, come se, invece d’una fuori casta, fosse stata una vergine ch’egli intendeva sposare. Un giorno le mandò una vecchia mezzana che consegnò a mia madre noci, profumi, anelli, zafferano, e le parlò dell’amore ch’ella aveva suscitato nel cuore di Charim. Con voce lacrimosa, spiegò quanto lui avrebbe sofferto per un suo rifiuto. Le disse che la moglie di Charim era una donna brutta e cattiva, che maltrattava il marito e non gli voleva un briciolo di bene.
Suyeda ritrovò il pudore. Smise di sedere sulla soglia, se non quando sperava di veder passare Charim. Se lui era vicino, non lo guardava mai in faccia, ma abbassava la testa e rispondeva a mezza bocca alle sue domande. L’amore la rese timida come una cerbiatta.
Cominciò a sognare ad occhi aperti. Di sicuro, pensava, la moglie di Charim un giorno morirà. E’ vecchissima, c’è chi dice che ha addirittura trent’anni. Quel giorno, io diventerò la prima sposa e, dopo, riempirò la sua casa di fiori, farò brillare il pavimento e sarò sempre bella e profumata per lui. Mia sorella Haria e mia figlia Mandala vivranno con noi.
Erano sogni bellissimi, durante i quali Suyeda dimenticava di essere una fuori casta, una alla quale la sua stessa gente non rivolgeva la parola.
Una sera, Charim recò con sé una splendida collana. Era di pura filigrana d’argento, con un pendaglio che scendeva sul petto. - Per te, Suyeda - le disse - come pegno del mio amore. L’argento porta i segni delle mie unghie e dei miei denti.
- Shukria - rispose Suyeda - grazie, la terrò per sempre.
Quando si abbandonò fra le sue braccia, quella stessa sera, volle pensare di essere l’unica: Charim non aveva moglie e tutte le altre donne non esistevano più.
Avevo solo quattro anni, ma ricordo che stavo in un angolo, a spolpare i frutti di papaya che Charim mi aveva regalato, e guardavo mia madre e lui distesi sul charpoi. Lei aveva il sari sollevato. Lui le stava sopra.
La baciava sulla gola, sulle spalle, sulle braccia, sul viso. Si muovevano insieme ed il loro moto ricordava l’onda, la ruota, il cobra che esce dal suo cesto al suono del fakir. In mezzo a loro la collana brillava nell’ombra.
Avevo paura dei rumori che facevano, ma la papaya era dolce. Mi riempivo la bocca e mi coprivo le orecchie per non sentire.
Passarono alcuni mesi. Charim veniva da noi regolarmente. Ogni volta c’erano manghi per me, o foglie di betel, o noci. Ogni volta loro due si stendevano sul charpoi, oppure restavano in piedi, contro il muro, e facevano quei movimenti e quei rumori.
Poi Charim smise di venire. Ogni giorno Suyeda si sedeva sulla soglia e guardava in fondo alla strada.
Ad ogni giorno che passava senza che lui arrivasse, mia madre perdeva colore dal viso e scottava un po’ di più. Se mi avvicinavo a lei, mi scacciava irritata.
E poi venne il giorno della festa di Baisakhi. Per le strade c’erano maghi, indovini, e yogi che camminavano sui carboni ardenti o si trafiggevano le guance con fili di ferro. C’erano giocolieri, danzatori e incantatori di serpenti. C’era, ricordo, persino un elefante bardato.
In mezzo alla folla, vicino ad uno zingaro che aveva un cobra avvolto intorno al collo, scorgemmo Charim. Guardava i giocolieri e pareva divertirsi molto. Era accanto ad una fanciulla velata, che portava grandi orecchini smaltati e bracciali di ceralacca con pietruzze scintillanti. A tratti, Charim si chinava a sussurrarle qualcosa nell’orecchio. La fanciulla rideva, con grandi occhi di pece luminosa, e fingeva di coprirsi le orecchie per non sentire.
Per tutto il tempo, mia madre rimase inchiodata a fissarli, senza dire una sola parola. Quando la folla si disperse, li seguì, trascinandomi con sé.
Cercò in tutti i vicoli, dietro ogni muro, ogni bidone, ogni albero. L’istinto la guidò oltre la soglia di un cortile. Charim e la fanciulla erano avvinghiati nel buio d’una volta d’ingresso e si baciavano. La fanciulla non aveva più il velo e dimostrava a mala pena quattordici anni.
Suyeda rimase acquattata nell’ombra a spiarli. Io ero vicino a lei e non osavo neppure respirare.
Alla fine, Charim uscì dal cortile con aria soddisfatta. Mia madre gli si parò innanzi. - Charim! - lo chiamò - Charim...
Lui ci guardò appena. - Toglietevi dalla mia ombra, fuoricasta.
Mia madre gemette, si coprì la bocca con la mano. Fece un passo indietro, poi due, poi cominciò a correre.
Nei giorni successivi non disse più una sola parola. Le tornò la febbre e smise di mangiare. Rifiutava le foglie colme di riso che Haria le offriva e per molto tempo si nutrì solo di latte allungato con l’acqua.
Sedeva tutto il giorno sul charpoi, con la collana stretta fra le dita sempre più magre e febbricitanti. Si era fatta così trasparente che si accorsero che era di nuovo incinta solo quando il parto era ormai vicino.
Appena cominciarono le doglie, Suyeda disse alla sorella che sarebbe morta. Mi chiamò e mi mise in mano la collana di Charim. - E’ tua adesso, Mandala - disse, e mi strinse il pugno tanto forte che il pendaglio mi bucò il palmo. - Conservala sempre! Questa collana porta i segni delle unghie e dei denti di Charim.
Dopo due giorni di travaglio, mia madre ebbe un altro figlio, mio fratello Kartar. Subito dopo il parto, morì di febbre emorragica, come aveva predetto.
Avevo solo cinque anni, ma quel giorno giurai che non avrei più permesso che una donna perdesse la vita per dare alla luce un bambino.
Da allora ho cambiato città, nome e religione, ma, fino ad oggi, ho sempre mantenuto la mia promessa.
Dopo la morte di Suyeda, la mia vita cambiò. Fu nostra zia Haria ad allevare me e Kartar. Crescemmo nella casa dei nostri parenti adottivi, che ci trattavano da paria. Per loro eravamo impuri, figli dell’incesto e dell’adulterio. Nessuno ci rivolgeva la parola, nessuno tollerava la nostra vista. A noi erano riservati solo i lavori più umili.
Kartar, il mio fratellastro, era un adolescente timido, chiuso in se stesso, pigro e trascurato. Fedele alla mia promessa, io divenni levatrice, ancor più impura agli occhi dei miei familiari. Le donne che aiutavo, però, mi erano riconoscenti.
Un giorno fui chiamata fuori città. Feci tutta la strada a piedi ed arrivai sudata e stanca ad una capanna di fango, dove un uomo di circa cinquant’anni mi mostrò la sua mucca che muggiva disperata.
- Sono una levatrice, non un veterinario - protestai. Feci per andarmene, ma, quando vidi la testa del vitello che sporgeva fra le gambe della bestia, la mia indignazione sfumò e mi detti da fare. Il vitello nacque sano e la mucca lo leccò contenta.
- Non ho soldi per pagarvi - confessò l’uomo. - Ma vi sono riconoscente. Quella vacca è tutta la mia ricchezza e, anche se non sono indù, per me è sacra. Adesso, grazie a voi, potrò vendere il vitello. Venite nel mio campo e prendete quello che volete!
Disse di chiamarsi Kalim Hussein e spiegò che la sua famiglia veniva dall’Arabia.
Una settimana dopo, lo vidi apparire, con un mazzo di fiori di campo e un sorriso umile sulla faccia. - Sono mussulmano - affermò - e sono povero. Ho solo il campo e la mucca ma vi chiedo di essere mia moglie.
Accettai. Insieme a Haria e a Kartar, lasciai la casa dove non ero amata e andai a vivere con Kalim Hussein. Riparammo il tetto della capanna coi miei soldi e comprammo un asino. Per sposare Kalim Hussein, dovetti convertirmi alla sua religione. Lo feci per dovere ma anche per riconoscenza. Imparai a compiere le abluzioni, a mettermi in ginocchio sapendo sempre dov’era la Mecca. Imparai a poggiare la fronte sul tappeto ed a pregare Allah misericordioso.
Prima del matrimonio, arrivò un mullah che mi fece ripetere alcuni versetti del Corano davanti a due testimoni. - Non c’è altro Dio che Allah e Maometto è il suo profeta.
Con queste parole, entrai nella luce dell’Islam, col nome di Fatima.
Ci sposammo senza dote, senza festa e senza invitati. Dopo la cerimonia, Kalim Hussein tornò nel campo, Haria in cucina, io al mio lavoro e Kartar a sonnecchiare al sole nel fosso.
Scoprii che mio marito era un uomo compassionevole e gentile. Non mi obbligò mai a mangiare carne di manzo e la sera, quando tornava dal lavoro, mi portava sempre un fiore.
Pian piano, grazie a lui, conobbi la vera fede. La legge del Profeta divenne iman dentro di me, spirito e luce nel mio cuore. Di mia volontà, scelsi di portare il velo, come segno di rispetto per mio marito.
Per due anni vivemmo del nostro lavoro, tirando avanti meglio che potevamo. Per ogni bambino e per ogni vitello nato vivo, io venivo pagata. Se nasceva un figlio maschio, mi pagavano anche il doppio. Haria si occupava della casa. Kartar dava una mano a Kalim Hussein nei campi, quando ne aveva voglia. Mio marito non si lamentava mai della pigrizia di mio fratello. - E’ giovane - diceva - beata la gioventù!
Kartar era affezionato a Kalim Hussein, ai suoi occhi tutto ciò che egli faceva era ben fatto, tanto che volle convertirsi anche lui e mise nella nuova fede tutto il fervore della sua età.
Hariamasi non si convertì, perché per lei la religione non aveva significato. - Io credo in quello che vedo - diceva. Era una donna concreta e generosa che non si lamentava mai.
Ero giovane allora, e non amavo Kalim Hussein di quell’amore di cui parlano le canzoni o i racconti, ma lo consideravo un uomo pio e giusto. Quando ci univamo, nel fruscio notturno della nostra capanna, lui era premuroso ed attento anche al mio piacere.
Nel 1947, l’anno in cui l’India divenne indipendente, ero incinta anch’io. Il quindici agosto fu un giorno di gioia per molti, ma non per noi.
Un’orda di sikh si rovesciò nel nostro villaggio, ad ovest di Amritsar. Arrivarono in bicicletta, a piedi, ad ondate, come cavallette furiose, brandendo kirpan, bastoni e mazze. Piombarono sugli uomini, li accerchiarono, li massacrarono.
Kalim Hussein era nel suo campo. Tentò di fuggire, mi dissero, ma gli saltarono addosso e lo sgozzarono fra le zucche, con l’asino che correva impazzito e la mucca che muggiva di terrore.
Quel mattino, mi trovavo in casa di una partoriente, accompagnata da mio fratello e da Haria. Un gruppo di uomini urlanti circondò la casa. Kartar sbarrò la porta, mentre io gli gridavo di scappare, di nascondersi. - Viva la luce dell’Islam! - gridò invece. - Viva la vera ed unica fede!
Lo fecero a pezzi davanti ai miei occhi.
Aveva diciassette anni, mio fratello. La voce non mi bastò per urlare quando gli mozzarono la testa e le gambe.
In cinque irruppero nella casa. Ci picchiarono col piatto dei pugnali e ci strapparono le vesti di dosso. Stuprarono me, mia zia e tutte le donne della casa. Un uomo mi gettò in terra, di traverso alla porta, e mi montò sopra.
Il collo inondato della sua barba fetida, la testa rovesciata all’indietro, io vedevo il cielo ed il cortile ed i cani che si azzuffavano intorno al corpo di Kartar. Udivo le grida della donna che partoriva. Un uomo stava spingendo a forza il suo membro dentro di lei, ricacciando indietro la testa del bambino.
Non sentivo i morsi, i tagli, il bruciore e il peso dell’uomo su di me. Ero assordata dai rantoli della partoriente e di una ragazza alla quale stavano strappando dalle mani un neonato.
Persi conoscenza un minuto, forse due, tre. Quando riaprii gli occhi, l’uomo non era più sopra di me, ma addosso ad una bambina che urlava e si divincolava. Rimasi distesa sulla soglia, incapace di muovermi, pesta e bruciante. La bambina fu presa, non più di otto anni aveva, ed inchiodata. Sentivo piangere, in fondo alla casa, singhiozzi straziati. La giovane mamma strisciava carponi sul pavimento verso qualcosa di piccolo, di inerte.
Alla fine ci trascinarono fuori. Ad una ad una ci spinsero, barcollanti, seminude, coperte di sangue, di graffi e di lividi, tagliuzzate dai pugnali.
Per prima uscì Haria. Mi resi conto che, per tutto il tempo, non avevo udito un solo grido dalla sua bocca. Venni fuori anch’io, poi la bambina, che uscì piangendo, con la mano fra le gambe, ed il sangue che colava lungo i polpacci esili. Per ultima apparve la giovane madre. Aveva recuperato il cadavere del suo bambino e lo teneva stretto al petto. Vacillava, guardando lontano, con gli occhi vuoti, fissi, spaventosi.
Poi non uscì più nessuno e la casa rimase in silenzio.
Il sole bruciava, gli avvoltoi ed i corvi stridevano e si abbassavano su di noi fino quasi a toccarci, i cani grufolavano e ringhiavano. I singhiozzi delle donne si spegnevano, poi tornavano a divampare.
Ci costrinsero a sfilare attraverso tutta Amritsar, insieme alle altre donne, fino al Tempio d’Oro. Superammo inebetite la passerella di marmo, accecate dal riflesso dell’acqua e dalle cupole di rame arroventate dal sole.
E, dentro, fu davvero la fine.
Ricordo che urlavo, che il pavimento del tempio era rosso di sangue, che le donne scappavano e sbattevano contro le pareti come falene intrappolate. Venivano sgozzate e cadevano una sull’altra. Ricordo che il sangue schizzava sui muri e che l’eco raddoppiava la violenza delle grida.
Non può succedere, pensavo, non è vero. Haria era accanto a me, impietrita. Insieme corremmo, cercando scampo verso il fondo del tempio. Inciampavamo nei corpi, i nostri piedi nudi scivolavano sul sangue, mani agonizzanti ci afferravano le caviglie. Scalciammo per liberarci, senza pietà. L’unico istinto era fuggire, uscire di lì.
Un uomo afferrò mia zia per i capelli, la immobilizzò. Haria era nuda, il corpo scosso da un tremito violento, lo sguardo d’un animale braccato. Mi aggrappai a lei, cercai di trascinarla via, di strapparla dalle mani dell’uomo, ma scivolai e caddi a faccia in giù nel sangue.
L’uomo tagliò la gola di Haria. Le vene zampillarono, le allagarono il petto, mi inondarono. Rimasi a terra, accanto al corpo floscio di mia zia, paralizzata, in attesa della morte. Non avevo più volontà.
Fu il caso a salvarmi. Una donna passò correndo vicino, urtò l’uomo che aveva già alzato il kirpan contro di me. Con un urlo di rabbia, lui rivolse la sua furia contro di lei. Le squarciò il petto. La donna cadde addosso a Haria ed io rotolai via. Strisciai sul ventre, mi rannicchiai immobile, nascosta in mezzo ai cadaveri.
Attorno a me, il massacro continuò. Sentivo grida disumane, vedevo le donne correre in cerchio, folli di terrore. Avvertivo che anche la mia ragione vacillava, mi abbandonava. Avevo gli occhi annebbiati, la pelle viscida, ero soffocata dall’odore del sangue e della paura. Non so per quanto rimasi lì, ferma e raggomitolata, mentre intorno a me le urla si spegnevano e restavano solo i gemiti delle moribonde.
Poi gli uomini tornarono a casa, dalle loro mogli, dalle loro sorelle e figlie.
Non cercai più il corpo di mia zia. In quel momento non potevo pregare, né per lei né per nessun altro. In quel momento non esisteva più nulla per me. L’importante era riuscire a muovere le gambe, fare un passo dopo l’altro, mandare giù l’aria nei polmoni e farla uscire di nuovo. Ero una bestia, un cane braccato che voleva sopravvivere.
Il dolore arrivò più tardi, ed insieme al dolore, l’odio.
Trovai mio marito dentro un fosso. I cani gli avevano divorato il fegato ed i genitali. Il corpo era nero di mosche. Lo trascinai fuori. Mi parve leggero, o forse era il furore a darmi la forza. Lo seppellii dietro la nostra casa.
Recuperai l’asino ed andai a cercare mio fratello. Il tronco era ancora nel cortile, davanti alla casa. Rinvenni le gambe, quel che restava delle braccia, ma non riuscii a trovare la testa. Seppellii quello che avevo trovato.
Nella capanna c’erano altri due cadaveri. Uno apparteneva ad una vecchia. L’altro era della partoriente. Fra le sue gambe spalancate, martoriate, si vedeva ancora la testa del bambino. Quella era stata l’unica volta che non ero riuscita a fare il mio lavoro fino in fondo.
Il rimorso per avere abbandonato Haria mi colpì all’improvviso. Caddi in ginocchio in mezzo al cortile e piansi. Piansi per lei, piansi per Kalim Hussein e per Kartar. Pregai Allah che accogliesse le loro anime in paradiso.
Era buio quando caricai l’asino. Presi una coperta, un sacco di riso, il Corano, la collana di mia madre.
Ormai, non avevo più nessuno ad Amritsar. Lasciai il Punjab e scesi a Benares, dove misi al mondo Ahmed. L’unica cosa di cui ringraziai Allah, il giorno in cui Ahmed nacque, è che era figlio di Kalim Hussein e non degli uomini dal cuore nero che avevano distrutto la mia vita.
Barolong Seboni Nell'aria inquieta del Kalahari
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In the disquiet air of the Kalahari
Traduzione di Marisa Cecchetti
Si legge poca poesia nel nostro paese, purtroppo, anche se la lirica resta la prima forma letteraria conosciuta, insieme al teatro. Ma interessa ancora la letteratura in un panorama editoriale guidato dal profitto e gestito da manager? La domanda è retorica. Per fortuna che ci sono i piccoli editori e i traduttori intelligenti, tra i quali - immodestamente - mi ci metto pure io, visto che Il Foglio Letterario (grazie a Malini) traduce Polanski, ma anche (grazie a me) i cubani Viera, Navarrete, Padilla e Piñera, oltre a pubblicare italiani di valore (Garofalo e Polito su tutti). LietoColle compie un'opera meritoria, grazie all'attenta traduzione di Marisa Cecchetti che rende in un italiano raffinato e lirico alcune poesie scritte a Edimburgo, nel 1993, da Barolong Seboni (Botswana, 1957). Poesie scritte fuori dall'Africa, ma che parlano dei problemi e dei panorami della sua terra, profumano di nostalgia e di sconfinate praterie del Kalahari, pur scritte nel rigido clima scozzese. "La poesia di Seboni - come scrive la traduttrice in una dotta prefazione - passa attraverso il recupero della memoria dei padri, del loro orgoglio nazionale, è un processo di riscoperta delle radici che diventa riscoperta e costruzione di sé, con un ritorno nel grembo materno della sua tradizione, in un'esigenza di dignitoso riscatto della propria cultura dopo il tentativo dei bianchi di cancellare tale passato". Un popolo senza passato è un popolo perso, afferma Seboni. Come dargli torto? Ognuno di noi è alla ricerca del suo passato, delle sue radici, ma nel caso di Seboni sono radici antirazziste, ricordano la lotta contro un colonizzatore bianco per il riscatto d'una terra libera. Il mio amore per Cuba fa sì che riesca ad apprezzare meglio di altri questa straordinaria opera poetica, perché sono molte le suggestioni che sento vicine. Alberi possenti come il baobab - nel Caribe si chiama ceiba ma è la stessa cosa - dove si seppelliscono i propri cari, simbolo di energia, di longevità e di forza.
La leggenda cubana della ceiba che protegge perché contiene le anime dei genitori, della possente sequoia immortale che non va abbattuta ha radici africane. La jacaranda è un altro fiore che unisce Africa e Cuba, commistione razziale e paesaggi sconfinati tra terra e mare sono il ricordo che torna prepotente alla memoria. La poesia di Seboni ricorda liriche di Piñera e racconti di Cabrera Infante quando cita il fiore dal rosso colore, l'erba ingiallita, il vento capriccioso, i cespugli dannati e gli ossuti rovi. Le donne della Namibia sembrano contadine cubane di razza nera sedute all'ombra della loro bancarella, un vestito che è fluire di luce splendente, mentre cuciono pezze multicolori sulle bambole che vendono. E che dire delle stagioni? Come posso non amare una lirica che recita: "Non ci sono stagioni/ in Africa, dicono/ solo calde estati che fumano/ di nubi tonanti gonfie/ di pioggia del tipo convenzionale/ e notti invernali che fischiano/ sulle sabbie gialle del Kgalagadi". Questa è Cuba, signori, non soltanto l'Africa, è anche la terra dei miei amati poeti che un tiranno fuori dalla storia mi impedisce di rivedere. Ecco perché non posso scrivere una recensione su questo piccolo gioiello di libro, ma solo testimoniare tutto il mio amore per liriche intense che raccontano un luogo dell'anima che non è patrimonio esclusivo del poeta. Due parole sulla traduttrice, Marisa Cecchetti, che ha scoperto un talento lirico ignoto al pubblico italiano. Pisana di San Giuliano Terme, lucchese di adozione, di cui abbiamo letto con piacere un intenso romanzo di formazione come La bici al cancello (Baroni, 2007). Vi lascio con due liriche particolarmente suggestive di Seboni. Leggere la sua opera fa bene al cuore.
Sanguedisole
Nelle sere
le donne di Soweto
con occhi arrossati
piangono
perché attraverso
il velo di fumo
densodipus
il loro sole
sanguina.
Coltello notturno
Al colpo
di un coltello
la notte si immerge
improvvisa sul tenero
fianco di Soweto.
La mattina grida
come sirene
insanguinate di rugiada.
E il giorno
si sparge vuoto
spalancandosi
in una sorpresa mortale
come una gola
fessa.
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Livorno Magazine - Periodico di Informazione
NUOVI NARRATORI LABRONICI E MAREMMANI con qualche eccezione territoriale Barolong SeboniIn the disquiet air of the KalahariNell'aria inquieta del Kalahari Traduzione di Marisa Cecchetti Si legge ...
http://www.livornomagazine.it/Gordiano-Lupi/Gordiano-Lupi-Letteratura-oltreLivorno-seboni.htm
I primi abitatori del Mediterraneo di Adriana Pedicini
“Viviamo intorno a un mare -aveva detto Socrate, (470 / 469 a.C.) ai suoi amici Ateniesi- come rane intorno a uno stagno”.
In effetti circa cinque milioni di anni fa, il Mar Mediterraneo non era ancora un mare, bensì era una vallata profonda e arida che divideva tre continenti: Europa, Africa e Asia, fino a quando un cataclisma aprì un varco nel muro di contenimento dell’oceano Atlantico ad ovest, verso l’odierna Gibilterra. In un processo durato moltissimi anni, una gigantesca mole di acqua ha incominciato ad inondare l’intero bacino mediterraneo, dando vita a un nuovo mare che, per la verità, appare piuttosto formato da un insieme di mari: il mar Alboran, il Golfo di Lione, il Tirreno, lo Ionio, il mar Egeo, l’Adriatico, ognuno con caratteristiche proprie.
Settecento anni dopo Socrate, nel 200 d. C., il mondo classico se ne stava ancora intorno al suo “stagno”: si teneva aggrappato alle sponde del Mediterraneo, l’unico mondo possibile e sicuramente il migliore, se un senatore greco dell’Asia Minore, nominato governatore di una località sul Danubio, mondo definito barbarico, ebbe a dire lamentandosi: “Gli abitanti conducono l’esistenza più misera di tutta l’umanità, perché non coltivano olivi e non bevono vino”.
Con l’estendersi dell’Impero romano al mondo che esisteva già da secoli sulle rive del Mediterraneo, nel II secolo d. C., è straordinaria l’ondata di vita mediterranea che rifluisce nell’entroterra arrivando più lontano di quanto non fosse mai accaduto in precedenza.
In seguito numerose civiltà, diversi assetti politici, svariati predomini si susseguirono sulle terre circondanti questo Mare fino a giungere all’evo moderno.
Sicché, attraverso secoli di storia e mutamenti politico-religiosi-culturali, è possibile ricostruire la storia di uno spazio, il “bacino mediterraneo” ovvero dei “paesi mediterranei”, spazio nel quale si sono incontrate diverse civiltà e culture nel corso del tempo, che hanno influito sulla civiltà dell’Europa intera.
Anzi, solo in esse è possibile rintracciare l’identità complessa e contraddittoria della civiltà europea fin dalle sue origini, partendo dal formarsi dei primi nuclei di civiltà, molte migliaia di anni or sono, per giungere alla sua configurazione attuale, nella convinzione che «questa vicenda millenaria possa essere compresa soltanto nel quadro più ampio del bacino mediterraneo, col suo intreccio senza eguali di culture e di fedi diverse».
La storia d’Europa è dunque una storia che si è estesa per cinque millenni.
Ma quali furono i popoli che abitarono le rive del Mar Mediterraneo?
Solitamente si distingue un Mediterraneo romano e un Mediterraneo arabico.
All’origine dello sviluppo culturale “storico” dei paesi gravitanti sul Mediterraneo romano stanno grandi movimenti etnici, cioè due grandi migrazioni di popoli, le quali hanno contribuito a conferire a questa zona geografica quella fisionomia etnica che le fu propria in tutto l’evo antico e che in parte rimane tuttora.
Queste due migrazioni sono quelle degli Arioeuropei (o Indeuropei) o semplicemente Ari, e dei Semito-Camiti: ambedue si svolgono dentro l’area fin d’allora occupata dalla razza bianca o europida e a questa razza appartengono perciò i popoli che vi partecipano.
Quando iniziò lo svolgimento di queste due grandi migrazioni, e cioè alla fine dell’età neolitica, tutto il bacino del Mediterraneo risulta occupato da una stirpe umana che una sufficiente omogeneità di caratteri fisici ci permette di designare col nome di razza mediterranea; essa si trova allora a popolare le grandi penisole e le isole dell’Europa meridionale, l’Asia Minore, la fascia costiera dell’Africa settentrionale. Quali e quanti fossero i gruppi etnici, cioè i popoli appartenenti a questa stirpe, quali lingue parlassero, come si denominassero, possiamo dire di saperlo in modo vago e generico, solo per quelle genti la cui cultura e la cui lingua non rimase troppo presto eclissata da quella di posteriori invasori del loro paese e durò tanto da lasciare sicura notizia di sé all’indagine dello storico.
Compaiono tra questi antichi popoli del Mediterraneo gli antichi Iberi, i Sardi, i Corsi e quelli che col nome di Liguri ed Elimi abitavano agli albori della storia rispettivamente gran parte dell’Italia settentrionale e la Sicilia occidentale; i quali tutti conservarono la loro cultura e la loro lingua fino alla loro latinizzazione per opera di Roma. E se di questi popoli nessuno fu creatore di una grande civiltà, un altro ve ne fu invece, il cui incivilimento progredì fino a stadi elevatissimi: il popolo dei Cretesi, cioè gli abitanti dell’isola di Creta.
A sconvolgere tale sistemazione etnica del bacino del Mediterraneo sopraggiunsero le due migrazioni sopra ricordate: prima quella dei Semiti e Camiti, poi quella degli Ari.
I nomi di Semiti e Camiti derivano dalla ben nota “tavola dei nomi” inserito nel racconto dato dalla Bibbia (Genesi, X) delle prime vicende dell’umanità dopo il diluvio: qui sono distinti i popoli discendenti da Sem da quelli discendenti da Cam e da Jafet; di qui i nome di Semiti, Camiti e Giapeti per determinati gruppi di popoli corrispondenti più o meno alla tripartizione biblica.
In epoca storica i Semiti occupano un vasto territorio dell’Asia anteriore, etnicamente e linguisticamente compatto. Si distinguono quattro gruppi che vi svilupparono successivamente le loro civiltà:
1) le stirpi assiro-babilonesi stabilite nelle valli del Tigri e dell’Eufrate
2) gli Aramei dal golfo di Alessandretta al deserto siro-arabico
3) i Cananei estesi verso la costa ad occupare le zone del Libano e dell’Antilibano, la Siria e la terra di Canaan, e distinti in Fenici, Ebrei, Ammoniti, Moabiti, Edomiti
4) gli Arabi e gli Etiopi: i primi stanziati nella penisola arabica a sud dei territori sopradescritti, i secondi formati da una migrazione del ramo meridionale degli arabi, che li condusse nel territorio dell’odierna Etiopia.
I Camiti invece li troviamo nelle regioni costiere dell’Africa settentrionale, a cominciare dall’Egitto e poi via via verso Occidente.
Da dove e quando arrivarono questi popoli nelle loro sedi storiche?
È probabile che i Semiti abbiano occupato, in un tempo più remoto, una zona dell’Asia centrale insieme coi Camiti e in prossimità delle sedi degli Indo-Europei. Da queste zone verso la fine dell’età paleolitica, i Semiti e i Camiti migrarono nelle loro più tarde sedi: i Semiti nell’Arabia e i Camiti nell’Africa settentrionale, dove rimasero durante lo svolgersi della successiva età neolitica. Nel corso del IV millennio a. C. i Semiti iniziarono il movimento migratorio verso nord, occuparono prima la Mesopotamia meridionale (o Babilonide) dove si trovarono a contatto con il popolo dei Sumeri, creatore della civiltà mesopotamica.
Col nome di Accadi, i Semiti della Babilonide soggiogarono politicamente i Sumeri, ma assorbirono gli elementi della loro superiore civiltà, a cominciare dalla scrittura cuneiforme.
Nel corso del III millennio una seconda ondata migratoria portò nella parte settentrionale della Mesopotamia il popolo degli Assiri, il quale si estese a nord tanto quanto glielo permise la resistenza delle stirpi asianiche e indoeuropee dell‘Asia minore.
Una terza ondata semitica produsse la prevalenza della cosiddetta dinastia araba (a cui appartiene il famoso Hammurapi).
Frattanto avvenivano altre migrazioni semitiche verso i territori del Libano, della Siria e della Palestina: dopo vari spostamenti che si svolsero nel terzo e nella prima metà del secondo millennio, verso il 1500 a. C. Aramei, Fenici, Ebrei ed i popoli ad essi affini si trovavano stanziati nei territori in cui presero consistenza le loro caratteristiche nazionali e in cui essi assunsero assetto politico.
La denominazione di “Indoeuropei” o “Arioeuropei” invece (o semplicemente Ari) si dà a un gruppo di popoli che parlano lingue, la cui derivazione da un unico ceppo è ormai un fatto scientificamente dimostrato. In età storica e in parte ancora oggi troviamo questi popoli distesi su alcune zone dell’Asia occidentale (India, Iran, Asia minore) e su quasi tutta l’Europa da cui cominciarono a emigrare, al tempo delle grandi scoperte geografiche, in America e in Australia.
Gli Indeuropei o Ari, dunque, costituiscono una grande famiglia linguistica, non una “RAZZA” ma piuttosto un popolo la cui sede primitiva fu probabilmente in Asia, in quelle regioni note ora con i nomi di Turkestan e di Steppa dei Kirghisi.
Caratteristiche della cultura indeuropea erano, nella lingua, l’abbondanza delle radici e la complessità della flessione nominale e verbale; nella religione, il suo progresso fino a un livello molto avanzato del deismo e forse fino all’antropomorfismo, con la concezione di un dio supremo luminoso (il Dyaus Pitar degli Indiani, identico allo Zeus dei Greci e allo Iupiter dei Latini) e di numerose altre divinità minori, quasi tutte luminose e celesti, non intimamente legate alla tribù o alla nazione, ma intese come estrinseche ad essa e universali: nei rapporti sociali, il solidissimo fondamento rappresentato dalla famiglia, su base patriarcale e sulla convivenza, in seno ad essa, di liberi e servi.
Quando intorno al 3000 a. C. gli Indoeuropei cominciarono a spostarsi dalle loro sedi primitive in cerca di altre terre avevano già conosciuto il rame, erano pastori, allevavano oltre agli animali domestici noti a quasi tutti i neolitici (bue, pecora, capra) anche il cavallo; praticavano un’agricoltura assai primitiva, sapevano filare, tessere e fabbricare vasi di argilla. Avevano doti fisiche e spirituali tali da assicurare agli Ari il dominio su tutte le altre genti che avrebbero incontrato sulla loro strada; doti che peraltro erano destinate a svilupparsi in grado diverso e a dare frutti differenti a seconda che i singoli gruppi indeuropei, separatisi e differenziatisi l’un l’altro, risentirono più o meno profondamente degli influssi del nuovo ambiente geografico in cui vennero a vivere e dell’influenza che ebbero su di essi le popolazioni con cui vennero a contatto e con cui si amalgamarono.
Alcuni gruppi di essi si spinsero verso mezzogiorno penetrando nell’India, nell’Iran, nell’Asia Minore e sovrapponendosi alle popolazioni locali.
Nell’Asia Minore gli Ari penetrarono in tre ondate successive: la prima si fuse con i precedenti abitatori non ari; la seconda, verificatasi al tempo della grande espansione indeuropea (intorno al 2000 a. C.), fu quella degli Hatti o Hittiti, che si stanziarono in quella parte dell’Asia Minore chiamata Cappadocia; la terza migrazione avviene nel 1200 a. C. circa ed è quella che portò in questa regione i Frigi, i Lidi e gli Armeni, i quali penetrarono però nell’Asia Minore dalla Penisola Balcanica attraverso gli Stretti.
Mentre le grandi ondate europee ora descritte, allargandosi verso sud-ovest, portavano nelle loro sedi definitive le popolazioni indoiraniche e gli Hittiti, altre correnti migratorie procedevano più decisamente verso Occidente, popolando gradatamente quasi tutto il continente europeo.
A questo movimento migratorio si deve lo stanziarsi nelle loro sedi storiche dei Traci, degli Illiri, dei Celti, dei Letto-Slavi, dei Germani e, particolarmente dei Greci e degli Italici, destinati, insieme con gli Hittiti e gli Indo-Irani a dar vita alle quattro più antiche civiltà ario europee.
Tra esse, quella che maggiormente influì sulla creazione di un’identità europea, fu senz’altro la civiltà greco-latina, che tanto comunque deve alla composita primitiva civiltà mediterranea, soprattutto grazie all’apporto dei Cretesi prima e dei Micenei dopo.
Dino
La guerra aveva costretto Dino, che aveva appena sei anni, a vivere in casa della nonna, lontano dai genitori, soprattutto lontano dalla mamma.
La nonna era rimasta vedova in giovane età. Era cresciuta in un ambiente popolare e contadino. Aveva ereditato da quell'ambiente tutte le caratteristiche negative che lo distinguono: l'asprezza dei modi e l'attaccamento al denaro che, d'altra parte, era scarso.
Ella aveva avuto e cresciuto dei figli; ma, nonostante fosse la loro madre, s'era comportata anche con loro sempre con ruvidezza e autoritarismo: "I figli si baciano, quando dormono", soleva ripetere spesso, per giustificare quel suo modo di fare.
Dino era molto timido. Aveva bisogno di sentire intorno a sè affetto, amore, per poter estrinsecare le sue passioni e i suoi pensieri.. Nella vecchia casa della nonna, invece, con quei muri massicci, con quelle porte pesanti cigolanti e scure, aveva trovato l'ambiente adatto a farlo intristire.
Era maggio e tutto, fuori, aveva acquistato un aspetto ridente. Al paesello, dove Dino era costretto a vivere, era festa: la festa del Santo Patrono.
La mattina Dino si era alzato di buon'ora, svegliato dalle note di una banda musicale: era un grande avvenimento per lui.
Saltato giù dal letto, andò alla finestra, l'aprì e un'ondata di sole e di musica invase la stanza. Si stropicciò gli occhi ancora incerti e abbagliati dalla forte luce solare, poi guardò fuori. Avrebbe voluto vedere la banda. Ma i tetti delle case vicine, più alte, glielo impedirono.
Il suono si avvicinava, diventava sempre più forte; la banda passava per la strada sotto la sua finestra. Ma una fila di fabbricati si intrometteva tra questa e quella, togliendo la visuale.
Dino, allora, si alzò sulle punte dei piedi. Poi, salì su di una sedia. Invano! I tetti stavano là immobili, impenetrabili. Dino sentiva di odiarli, perchè non gli permettevano di spaziare con la vista.
"Ah, se fossi ricco! vorrei costruirmi una casa alta, alta; una casa più alta di tutte. Mi metterei sulla veranda e, lassù, potrei sentirmi libero, padrone di tutto e di tutti", pensava Dino estasiato, mentre la banda si allontanava e il suono arrivava alle sue orecchie ovattato.
" Dino!", la voce stridula della nonna lo fece ritornare alla realtà della sua stanza scura, opprimente, della sua casa piccola, soffocata dalle altre. "Non restare alla finestra svestito! potresti prendere il raffreddore e se ne andrebbero dei soldi per i medicinali".
Dino sapeva, però, che il raffreddore la nonna glielo aveva sempre curato con un decotto, fatto con fichi secchi, mele e zucchero, che gli piaceva tanto. E quasi quasi valeva la pena di prendersi il raffreddore. Ne vedeva così poco di zucchero e di frutta; eppure ne era tanto goloso.
E ricorda, anzi, che un giorno, vedendo un compagno addentare avidamente delle belle e polpose mele, gliene venne un tal desiderio che, di nascosto, ne raccolse una mezza rosicchiata, gettata dall'altro sazio, e la mangiò, trovandola gustosissima.
Frattanto s'era vestito. Aveva indossato l'abito nuovo che metteva, di sicuro, solo nelle grandi occasioni e, saltuariamente, la domenica. Si guardò allo specchio; si girò e rigirò e pensò che non era poi tanto brutto, come spesso gli diceva la nonna. Quel giorno anche lui avrebbe potuto figurare di fronte ai compagni. Ma il pensiero che l'indomani avrebbe dovuto indossare di nuovo il vestito rattoppato e logoro, gli fece passare ogni velleità di superiorità e finanche di uguaglianza.
Decise, infine, di uscire. Già! Ma quel giorno era festa! Aveva bisogno di soldi. Si presentò, allora, davanti alla nonna con gli occhi al pavimento e, con voce tremante, disse: "Nonna, è festa....sono arrivati..."
"Ho capito!", rispose fredda e con voce aspra e sdegnata la vecchia, " Vuoi i soldi. Te li dartò, ma sta' attento a come li spenderai. Cerca, anzi, di conservartene una parte; pensa che sono costati sacrifici immensi. Non fare lo spendaccione".
"Si!", rispose timidamente Dino, pensando che la somma doveva essere alquanto sostanziosa per una simile morale. Si rallegrava al pensiero di poter mostrare i soldi ai compagni, di farsi invidiare, di...
"Eccoti cinquanta lire!", disse la nonna, infilando la mano nella tasca del grembiule nero che portava sempre; poi, consegnò il denaro a Dino.
Dino restò di stucco. "Cinquanta lire?!.... Solo cinquanta lire?!", commentò mentalmente.
La testa gli si chinò, al punto che con il mento si toccava il petto. Gli occhi si arrossarono. Voleva piangere. Avvertiva un desiderio prepotente di manifestare il suo dolore per la condizione di inferiorità, in cui veniva sempre a trovarsi nei confronti dei suoi coetanei. Ma non una lagrima sgorgò da quegli occhi nerissimi e malinconici.
Voleva svestirsi, gettarsi sul letto, restare in casa per tutta la giorata. Ma gli riusciva penoso ancor più spiegare la ragione del suo comportamento. E poi, non era da lui lamentarsi.
Uscì.
Appena fuori la porta dovette socchiudere gli occhi, perchè di nuovo abbagliato dalla luce solare, vivida e splendente come non mai. Quel sole, quella luce, e il cinguettio allegro degli uccelli, lo fecero sorridere.
Imboccò di buona lena il vicoletto che portava in piazza. Si fermò in un punto dove la mancanza di fabbricati permetteva di vedere la vallata che si stendeva ai piedi del paesello, costruito sul cocuzzolo di una collina piuttosto alta.
Il terreno che scendeva lungo la valle era ricoperto da un verde diseguale, ma che offriva all'occhio un insieme riposante. Nel mezzo scorreva un fiume dalle acque chiare, limpide e talmente placide che da lontano sembravano ferme; lungo le rive, ricoperte da una folta e varia vegetazione, si trovava un gruppo di case, che la lontananza e l'altezza del punto di osservazione facevano apparire piccole, piccole, come quelle di un presepe.
Dino guardò con nostalgia quelle case. In u na di esse si trovava la mamma.
Alcuni colpi di tamburo lo destarono dal sogno ad occhi aperti. La banda musicale “attaccava un pezzo”.
Dino affrettò il passo e arrivò in piazza. C'erano degli archi di legno ricoperti di lampadine multicolori; in un angolo era situata la cassarmonica; intorno intorno alla piazza bancarelle cariche di noccioline, torrone, caramelle, biscotti ricoperti di zucchero, castagne infilate e tante altre golosità, che fecero venire l'acquolina in bocca a Dino.
C'era pure il venditore di gelati e, in una piazzetta vicina, la giostra: altre tentazioni.
E tanta, tanta gente, allegra, vestita a festa, che andava su e giù, si urtava, si fermava, si icrociava, formava dei capannelli rumorosi.
Dino camminava in mezzo a quella confusione sballottato da una parte all'altra, ricevendo gomitate e spintoni da quelle persone troppo euforiche, per poter badare ad un ragazzino.
Dino, dopo aver cercato di seguire una sua direzione, si lasciò trasportare dalla corrente della folla.
Dopo un certo tempo, acciaccato pestato e assetato, si trovò a passare davanti alla bancarella del gelataio. Si fece largo tra la selva di gambe e si fermò ad un lato della bancarella. Ordinò un cono da venti lire.
"A cioccolato e crema", disse all'uomo che gli aveva chiesto come lo desiderava.
Avutolo, Dini lo girò e rigirò tra le dita, guardandolo con occhi luccicanti. Lo avvicinò, poi, alle labbra con gesto lento e cominciò a leccarlo, e in quel gesto assomogliava tanto ai cagnolini. La lingua che schioccava e il viso sorridente denotavano il piacere che gliene derivava.
Era arrivato a metà, quando, alzando gli occhi dal gelato, si accorse che un ragazzino, più piccolo di lui e con i vestiti a brandelli, aveva puntato i suoi occhietti, mesti e quasi allucinati, sul suo gelato.
A quella vista, Dino perdette tutta la sua gaiezza. Il suo viso ridivenne triste e un lampo di luce cattiva attraversò i suoi occhi. Il gusto della crema del gelato era svanito.
Perchè quel bimbo, indubbiamente più infelice di lui, si era avvicinato proprio a lui? Perchè guardava fissamente proprio il suo gelato? Che cosa sperava da lui, che a stento poteva permettersi il lusso di comprare un gelato per sè?
Turbato e sconvolto, di scatto voltò le spalle per non vedere. Leccò ancora una volta la crema; ma non potè continuare. Sentiva lo sguardo del fanciullo sempre puntato su di sè. Si rivoltò. Si avvicinò al fanciullo deciso ad allontanarlo, anche a schiaffi.
Ma lo sguardo del fanciullo, diventato dolce e implorante insieme, lo rabbonì. Porse, allora, la parte del gelato rimasta al bimbo con gesto cordiale e con il sorriso sulle labbra.
Il bimbo, appena lo ebbe tra le mani, lo portò alle labbra e si mise subito a correre tra la folla.
Dino lo seguì con lo sguardo per un pò; poi, si infilò, pure lui, di nuovo tra la folla.
Si fermò, dopo un non lungo vagabondare, davanti ad una bancarella carica di dolci e noccioline. Comprò, con venti lire, un filo di noccioline e un pezzetto di torrone. Questa volta si nascose in un portone, e sgranellò tutto con evidente piacere.
Ritornò a camminare in mezzo alla folla. Ad un certo punto fu attratto da un signore che faceva il “gioco delle tre carte”: chi puntava sulla carta giusta, vinceva la somma posta sulla carta. Pensò di poter raddoppiare le ultime dieci lire che aveva in tasca. Si avvicinò al tavolino e mise le dieci lire sulla carta che lui pensava vincente. Ma non era quella vincente. Aveva perso gli ultimi spiccioli. Che delusione!
Mentre vagava deluso e sconfortato, venne attratto da un fatto singolare.
Di fronte a lui c'era un fruttivendolo che, in occasione della festa, aveva esposto molte ceste colme di frutta.
La folla, che comprava o si informava sul prezzo e sulla qualità, era molta. Il fruttivendolo, intento a pesare e a rispondere, non si accorgeva che alcuni ragazzi, approfittando della confusione, rubavano quello che era più a portata di mano e si dileguavano prontamente tra la folla. E lo avevano già fatto per diverse volte, senza che l'uomo se ne accorgesse.
Dino, riflettendo sulla facilità dell'impresa, poichè aveva finito i soldi, fu tentato di agire alla stessa maniera.
"Se lo fanno loro che non hanno soldi come me, posso farlo anche io", ragionava tra sè, quasi a giustificare l'azione che stava per compiere.
Attraversò la strada, facendosi largo tra la folla. Si avvicinò piano piano alle ceste della frutta. Aspettò che gli altri ragazzi tornassero alla carica , affondò, quindi, una mano nella cesta delle ciliegie e scappò via di corsa.
Quella volta il fruttivendolo, sfortunatamente, si accorse del furto e incominciò a gridare: "Ragazzacci!....Vagabondi!...Ladri!", disse infine con voce tuonante ed irata.
Ladro! Questa parola colpì Dino come una sferzata. "No, lui non era un ladro!"
Si fermò e, anche se a malincuore, ritornò sui suoi passi. Si avvicinò all'uomo, che era ancora infuriato, e gli porse le ciliegie.
"Ah, ecco uno di quei ladruncoli! adesso ti aggiusto io", sbraitò il fruttivendolo e colpì più volte il viso di Dino con forti manrovesci.
Dino, punto sul vivo per quella punizione inaspettata e piuttosto immeritata, si trasformò in una piccola belva. Sferrò calci e pugni negli stinchi e nello stomaco del bruto, che fu costretto a mollarlo. Subito fuggì, piangendo per l'ira, il disappunto, il dolore.
" Bella ricompensa, per avergli riportato le ciliegie! ...avrei fatto meglio a squagliarmela, come gli altri", disse tra i singhiozzi; e concluse :" Sono un buono a nulla; per rubare ci vuole fortuna e coraggio".
A forza di spintoni e dopo aver ricevuto varie pestate , arrivò alla giostra.
Ad un lato c'era il "tiro a segno" con fucili ad aria compressa: vi gareggiavano i giovanotti, desiderosi di mettersi in mostra davanti alle ragazze - "cittadine" le chiamavano - dello stesso tiro al bersaglio; ma proprio la presenza di quelle faceva tremare loro la mano.
I ragazzini si divertivano a sparare contro un disco girevole, su cui erano dipinti dei numeri: il premio era costituito da caramelle corrispondenti, per quantità, al numero centrato.
Per andare sulla giostra "giracavallo" occorrevano trenta lire. Dino non aveva più una lira. Come fare?
Vide che la giostra veniva spinta dal di dentro da alcuni ragazzi; dopo un determinato tempo, a turno, ognuno di loro faceva un giro gratuitamente.
La soluzione!
Si avvicinò al padrone della giostra e chiese di poter entrare anche lui a far parte del gruppo di ragazzi che azionava la giostra. Ricevuto il consenso, si mise a spingere, cercando di nascondersi il più possibile, perchè si vergognava di farsi vedere dai compagni di scuola.
Per un pò tutto andò bene. Poi, la fatica incominciò a farsi sentire e Dino, anziché spingere, quasi si appoggiava, si aggrappava alla giostra, lasciandosi trasportare.
Le grida festose e gioiose che i bambini dalla giostra rivolgevano alle loro mamme lo incantavano.
"Mammina, vedi come vado sul cavallo a dondolo!"
"Mammina, com'è bello andare sull'aereo!"
"Mammina, guarda come guido l'automobile!"
Queste ed altre mille frasi i bambini rivolgevano allegri alle madri, e queste ridevano, e mandavano baci e chiamavano i loro pargoletti coi nomi più dolci: "tesoruccio !"; "passerotto !"; "amore mio!"
Dino ascoltava e, con lo sguardo perso nel vuoto, come fissando un'immagine evanescente e lontana, sorrideva.
Un ceffone lo fece battere con la faccia a terra e lo riportò brutalmente alla realtà. Era stato il padrone della giostra a darglielo, visto che lui non spingeva e che, anzi, s'era addirittura seduto sulla piattaforma girevole.
Dino si alzò da terra con il viso sporco di polvere e di un pò di sangue che usciva da una escoriazione. Guardò l'uomo con occhi che, furenti dapprima, si riempirono subito di lacrime; poi, si allontanò con passo lento e pesante.
Era notte. Dino era accoccolato in un angolo della piazza, il più deserto e buio. Guardava in alto: c'era la luna che risplendeva argentina in un cielo terso e trapuntato di stelle. Guardava quella luna e quelle stelle e voleva pensare a tante cose. Ma nella sua testa c'era solo una confusione che, piano piano, si attenuò e svanì, fino a trasformarsi come in un vuoto. Sentiva solo un suono di violini dolce, sottile, penetrante che lo inebriava. Tutte le cose che lo circondavano si misero, all'improvviso, a girare, confondendosi: stelle, persone, cielo, case, luci.
Si trovò, meravigliato, in un mondo sconosciuto.
Una grande sala, con pavimenti sfavillanti e dipinti magnificamente; con pareti ricoperte di quadri stupendi e di cornici d'oro. In mezzo alla sala era imbandita una tavola lunga smisuratamente. Su di essa si trovavano dolci di ogni specie e grandezza, e frutta bellissima dai colori vivaci e invitanti.
Intorno a lui camerieri in livrea attendevano i suoi ordini.
Egli era vestito come i principini di un tempo, quelli che si vedono spesso nelle pellicole di cappa e spada.
"Maestà, aspettiamo i vostri ordini!", disse uno dei camerieri, che sembrava il capo. "Il pranzo è pronto e i bambini poveri, che voi avete fatto chiamare, sono dinanzi al portone".
"Fateli entrare, allora!", rispose Dino.
Una marea di bambini, mal vestiti sporchi e affamati, si riversò all'improvviso nella grande sala e prese d'assalto la tavola così riccamente imbandita.
Dino guardava, e il viso sorridente rivelava la sua immensa gioia.
Si avvicinò al cameriere, che prima aveva parlato, e disse: "Questi fanciulli resteranno sempre con noi; anzi, ordino che venga punito chi oserà far loro del male".
"Sarà fatto, maestà!", disse il cameriere, e si inchinò.
Dino si avvicinò alla tavola; guardò i bambini che mangiavano avidamente; poi, si sedette e stese la mano per afferrare una grossa mela....Ma la mano brancolava nel buio dell'angolo della piazza e stringeva solo aria...
Dino si svegliò al rumore degli spari dei fuochi artificiali.
Stordito e deluso, si avviò tristemente verso casa, attraverso quel vicoletto che la mattina era parso tanto festoso, e che allora era buio e tetro.
Intanto, in mezzo alla piazza, la gente sgranocchiava noccioline e commentava, per lo più con suoni gutturali, la bellezza dei fuochi che illuminavano di colori vari e vivaci la notte.
BIAGIO OSVALDO SEVERINI