Racconto di Natale: parte terza

Ah, lasciare ogni fortuna alle proprie spalle con una risata! - come recitava il Grande Bardo.
Era proprio giunto il momento, per una sera almeno, di tirare un sonoro calcione alla vita superficiale che aveva condotto sino ad allora: al cenone inaugurato da un po' po' de caviale co' li tocchi grossi come òva d'oca e co' cert'ostriche ar cucchiaio che parèveno meduse appena aggallate. Al macchinone scì scì. Alla strappona sbrilluccicante da portàsse sotto l'ala alla serata danzante, pè fa bella figura co' l'amici. Un calcio ai comfort e ai lussi. Come pure alle aziende e alle grane connesse, ai reclami dei creditori, alle tasse, ai lavoratori senza paga. Proprio la sera del Santo Natale, poi, quand'è che rinasce, da dumìl'anni a 'sta parte, Nostro Zignòre, che ci insegnò appunto a rimettere piamente i nostri debiti...
Abbracciare, anche se per breve tempo, una vita frugale, miserevole, disadorna: che grande idea! Vivere per una volta mettendosi nei panni di uno dei suoi operai: se nun era spirito natalizzio quello! (eppoi, fàmo a capìsse, chi mai anderèbbe a penzà che l'ing. Del Grosso Pasqualo, sotto viggìglia, sta 'mbucato derènto er cesso de casa d'uno dei dipendenti sua?!). Così pensava, complimentandosi in imo corde con se stesso, l'ultimo dei Del Grosso - già a suo tempo insignito della laurea in ingegneria presso una delle più importanti facoltà del Burkina Faso via corrispondenza, oltreché di già divinato del titolo di Commendatore della Repubblica Italiana, e in puzza da parecchio per il Cavalierato del Lavoro – mentre si stropicciava le mani e, lappolando i festosi occhioni a bulbo, inneggiava: «Suvvia, amici cari, che si dia inizio al cenone! Il cenone!» levatosi per un attimo dalla propria sedia, pigiata nel mezzo delle altre sedie della famiglia De Dominiccis disposte intorno alla piccola tavola rettangolare, coi relativi culi De Dominiccis (o née Squanquaronzio) appoggiatici sopra.
I componenti della famiglia ospite guardavano l'ospitato con deferenza, mista a timor panico, misto a crescente insofferenza, mista a un travaso bilioso, misto a un istinto omicida vieppiù pronunciato. Nessuno che osasse prender la parola per primo e farsi portavoce del generale malanimo: «Accà ci sta 'nu cazz'e nint', dottò!» Preferivano permanere a testa bassa, assoggettandosi tacitamente all'ignota evoluzione degli eventi.
Annunziata, senza dare troppo nell'occhio, scivolò verso la madia da cui trasse scarti di cibo o deterioramenti organici relegati lì dentro alla rinfusa, ne fece un impasto alla buona, che scallò poco poco a balneum Mariæ, dopo di che lo scodellò davanti all'augusto convitato, accompagnando il gesto con un commento didascalico e risoluto: «È tutto chell' che c'è rimanuto!» E tentava frattanto di darsi un qualche contegno.
Pasqualo non accusò il colpo, ma ringraziò e si getto a capofitto sul pasticcio, spazzolandolo in tempo record sotto gli occhi ploranti e sdegnati assieme degli altri commensali. «Ah, bontà divina! Che manine c'ha, signora mia! Bella e brava! Te sì che sei 'n omo co' tutte le fortune, ah Natalì!» A quel complimento, per la verità, l'irrigidimento di Annunziata parve un pocolino squagliarsi.
Finita la scorpacciata richiese il doveroso cafferino, seguito dall'ammazzacaffè (il fondo di un nocino che tenevano da conto comm' fùss'ò sang' 'e San Gennaro).
Poi, tentando di alzare la voce quel tanto da superare il coro di brontolii sempre più ostinati che le pance vuote del gruppetto di cristiani e del canide non la finivano di emettere, Del Grosso tenne però a precisare: «Non mancherò di ricambiare la vostra ospitalità, questo è chiaro. Vi inviterò da me, amici cari. Nelle magioni avite...»
E Annunziata, con occhio sempre più languido: «E da quanto tiempo li avìte?»
«Che cosa?» si sorprese Pasqualo.
«Codesti omaccioni di cui andate parlando...»
Pasqualo Del Grosso s'era accomodato. S'era rilasciato. S'era acclimatato e aveva familiarizzato col simpatico nucleo famigliare a tal punto che, nel giro di un'oretta e mezza massimo massimo si sentiva già ormai perfettamente a casa. Per finire in bellezza s'era pappato pur'anche la manciata di fagiuoli dalla scatola della tombola, così, crudi e rinseccoliti quali erano, e ora strippava spaparanzato sul sofà buco, a pancia all'aria, grattandosi rumorosamente il siedisopra, mentre il più piccirillo dei regazzini s'era messo, nascondoni, a leccare il fondo del piatto dell'ospite, giusto per mettere qualcosina sul palato...
Via via che la confidenza si era sviluppata, il visitatore si era dapprima allentato il giro della cravatta intorno al collo, quindi si era alleggerito della giacca sancrata, poi della camicia bianca candeggina, restando in un'altrettanto immacolata canottiera Dolce & Gabbana che ne risaltava il busto tuttora prestante: Annunziata, a quella vista, si morse ferocemente il labbro inferiore. S'era anche sfilato le Churchill infangate, accompagnando l'operazione con un «Oooooh!» che doveva esprimere tutto il deliquio per l'avvenuta liberazione da quella coriacea cattività. Levatosi i calzini in fil di refe, aveva domandato un pediluvio, cui la prole De Dominiccis aveva sollecitamente provveduto ricorrendo alla puntina di bicarbonato che rimaneva in dispensa sciolta in acqua càlla. Infine, fatta sua l'ultima nazionale del pacchetto di Natale, grato per la sentita strenna, se l'appicciò, continuando a mantenere, con l'altra mano, il vino in cartone, al quale generosissimamente s'abbeverava.
«Sapete che farei mò?!» chiese retoricamente rivolto alla famiglia che lo ospitava: dalle facce davano l'impressione di non saperlo, «Me metterebbe callo callo sur bordo daa piscina de casuccia mia, con un Martini ghiacciato stretto ammàno, un sigaro Cohiba nell'artra e sto da papa!... Perché, dite, voàntri come ce l'avete la piscina? Olimpionica? O a forma de faggiòlo, magara?»
«Nun la tenìmmo...» confessò, un po' imbarazzato il pater familias.
«Come, come? Cioè, tu me vòi dì che drent'a 'sta bigoncia... o internamente alla vostra tenuta, per meglio esprimersi, sète privi de piscine? E come mai?»
«Ehm... Preferiamo la doccia...» tentò di giustificarsi ancora l'interlocutore.
Dopo quella, Pasqualo tacque per un po'. Si sgarganellava il suo Tavernello. Terminato un cartone, s'attaccava al successivo. Andò a finire che in breve tempo aveva depredata l'intera prestigiosa riserva di casa De Dominiccis-Squanquaronzio.
La sua aria serena sembrava certificare una raggiunta riappacificazione con l'intero mondo. I De Dominiccis, da parte loro, lo fissavano a bocca aperta, come si osserva una bestia rara.
Dopo un po' che snasava tutto in giro, cominciò a incuriosirsi: «Mmm... Ma dite un po', pure voi, cari, avvertite questo pungente fetore?»
E Natale: «Mmm, seee... A dire ò vero sò juòrni e juòrni che ovunque vàco sento 'sta puzza...»
Pasqualo ci meditò un po' su, dopo di che si permise una domandina: «Mm, mm... Ma... sicuro sicuro che la doccia ti piaccia?...»
Poi venne il tempo della requie postprandiale, quando - ci insegna Galeno – gli umori che sottendono ai temperamenti, come da dei vasi comunicanti, si scambiano di tra loro quantità, proporzioni e corrispondenze e, una volta che, ormai sazi, da quella doppia specie di mangiativo e bibendum cui si è attinto nella loro iniziale pienezza metafisica, si trapassa, bocconcino bocconcino, in primis al bolo, in sequela al chilo, e da lì alla peristalsi colta nei suoi rotismi strada facendo sempre più raffinatori, sofisticati e, da ultimo, suscettivi di un aeriforme saluto finale che, abbandonando il corpo per l'uscita inferiore, altro non fa che esporre al mondo, nella sua sonora allegria, la felice conclusione del processo digestivo, le cervella, or non più gravate, in quel loro monistico viluppo, dalle necessità dell'area esofageo-stomacal-intestinale, infine son libere di perdersi dietro ad altri imperativi biologici, magari un po' meno urgenti quanto all'autopreservazione dell'individuo, ma non per questo meno salubri al fine di un'ottimale tenuta psicofisica.
In parole povere, dopo quella che il Belli nomava bravamente «l'ora der cazzaccio», sta a dire: la controra, il leggero abbiocco, o cecagna, ovvero pennica (o pseudo-tale) che coglie di regola il soggetto che si sia forse troppo precedentemente abboffato, indotta dai fumi e dai fluori di un'assimilazione quantomai macchinosa, ebbene, cassato quel naturale obnubilamento e riavuta appieno la forza di volontà che altrimenti l'assisteva, nella testa di Pasqualo presero a gemmare, concrescere e vorticare onninamente e tutto d'un colpo certe stuzzicanti ideuzze che fino a un attimo prima nemmanco era in grado di fantasticare.
Il sangue, or non più ingaggiato dal sistema vegetativo, ricominciava a defluire e scorrere altrove, lungo sedi periferiche la cui capacità di arrecare soddisfazioni si annunciava non meno promettente. Fu così che la signora De Dominiccis iniziò a sentirsi oggetto delle occhiatine sempre meno dissimulate, con cui da dieci minuti a quella parte il presidente, nonché proprietario unico, della Del Grosso Bitumini & Similia aveva preso a dardeggiarla.
E perfettamente rassomigliante a come le maree s'alzino e s'abbassino sotto l'influsso del satellite e della stella a noi più prossimi, rispondendo esse pure a quella forza di gravitazione universale che pretende che due qualsiasi corpi si attraggano secondo una reciprocità proporzionata alla distanza che li separa, anche il sangue di Annunziata, come per simpatia, come per una foscoliana corrispondenza d'amorosi sensi, andava agitandosi tal quale a quello che scorreva nelle vene e nelle arterie del suo sempre più incistato osservatore. Sobbolliva anzi, comm'ò ragù che stèva tutt'a nuttàt'a fà plòp plòp 'ncopp'a fiamma, rint'ò buio ra cucina 'e màmmesa. Mancava poco che quel sangue le si trasmutasse in lava, sotto lo sguardo levantino e provocante dell'importante invitato.
«E io tra di voi se non parlo mai capisco già tutto quanto,» avrebbe ben potuto duettare De Dominiccis Natale, insieme ad Aznavour, durante quell'amaro frangente. Tanto che, constatando la fulminea intesa instauratasi tra consorte e principale, si fece un po' da parte, lui e i figli - l'espressione da cane battuto che rivaleggiava alla pari con quella presente negli occhioni umidi di Maradona IV, che scodinzolava stancamente appresso alla tavola, nella vana attesa che qualcheduno gli riempisse la ciotola – e con un filo di voce, e la morte nel cuore, fece infine a Pasqualo: «Dottò, à camera da letto nostra sta di là. Nun è à stanza 'è Napuliòne, vabbuò, ma si vulìte favorire, se ve vulìte cuccà 'nu poco, nun facìte i complimentazzioni...»
«Venite, dottò. Vaa mostro je à camera da liètto...» Approfittò immantinente di quell'assist à mugghièra, che, disvelando un tantino il non disprezzabile décolleté, e sculettando ancora meglio di Maradona IV, lo chapperonò sin là dentro, anticipandolo di qualche passo e gettandogli durante il tragitto qualche golosa guardatina da sopra la spalla scoperta. Pasqualo la seguì tacco tacco come la Santa Pasqua segue la Quaresima.
Passò un niente e dalla stanzetta attigua provennero certi cigolii, certi lamenti, certe imprecazioni dalla sospetta escalation (il cui equivalente ginnasiale risulta peraltro essere climax).
«Macché, mammà sta male?» si informava il piccolo Ciro.
«No, no. Che te vai a penzà? Sta tutt'a pòst! Ce sta mamma là dìnt' che va chiedendo un aumento di stipendio all'Ingegnèro,» lo rassicurò papà suo.
Lo scambio secretivo en privé tra il Del Grosso e Nunziatella portò via non più di cinque minuti mal contati.
Per tutto quel periodo di tempo, il concertino di molle sotto sforzo e gemiti flegreo-trasteverini a go-go fu contrappuntato, con disciplina impeccabile, dalle lamentazioni del piccolo Ciro, piantato a una spanna dalla porta che sigillava la camera da letto: «Mammà, tiengo suonno. Pozzò tràsere? Fammi entrare, ché vado a dormire dentro ò cassettone mio,» implorava Ciruzzo.
A un bel momento però la soglia gli si spalancò innanzi: gli occhi gli si empirono della trama a righine sottili della canottiera indossata da Pasqualo, zona-panza. Se ne distolse arrampicandoli pian piano su per il busto, poi il torace, il collo taurino, quindi gli occhi del Del Grosso, ficcati di rimando avverso lui, che si potevano notare percorsi in contemporanea da un'aria di goduria per la refezione fisica da poco conclusa e, per altro verso, da un certo tono di disappunto: «Allora, regazzì, l'hai finita de scassà er cazzo?» gli domandò, senza troppi preamboli.
«Dovete scusarlo, dottò: à criatùra tiene suonno,» provò a giustificarlo Natale, dal limitare del tinello.
«Ennò Natale mio, così nun va. Nun te devi intenerì. Se te fai vedè troppo bbono er marmocchio s'approfitta. Duro devi da èsse. Mò te lo imparo io com'è che se raddrìzzeno li discoli!» Neppure aveva terminato la frase che Ciro già s'era trovato adagiato a panciarotta, contro il proprio volere, sopra il ginocchio dello sconosciuto, che a sua volta s'era accomodato sullo strapuntino più alla portata a beneficio dell'operazione in fieri.
Le chiappette smagrite di Ciro sbandieravano al vento, ma ci pensò presto Pasqualo a riscaldarle con una sequela di sculacciate a pieno palmo. Ciruzzo chiagnèva, ma Pasqualo, forte dello gnomico ammaestramento che andava impartendo al giovane sottoposto, non si fece commuovere. Anzi, tanto che bersagliava quel popò dalle nuance ormai color pervinca, ribadiva al genitore legittimo: «Nun te lo scordare mai, ah Natale mio: li fìi sò come li tappeti, si nun li batti se raggrìnzeno!»
«Ma pecché, dottò, vùje quanti figli tenìte?»
«Io? Macché so scemo? Manca ancora che me metto a fà dei rompicojoni che me gìreno peccàsa...»
Serafino preposto al coraggio

Gli angeli si diplomano al Conservatorio Astronomico perché studiano la musica che le sfere celesti producono ruotando. Fanno l’analisi armonica degli accordi supremi che, una volta, anche gli uomini eletti (Pitagora, ad esempio) avevano la forza e il diritto di ascoltare.
Gli esami sono molti, però che gran soddisfazione ultimare i corsi e ottenere infine (lode al Signore!) il permesso d’insegnare.
I miei studi sono a buon punto e fra poco l’esame conclusivo mi darà il titolo che sogno tanto: quello di Maestro!
Nel frattempo, grazie alle mie doti vocali, già occupo la carica di tenore-capo nella gerarchia lirica del Conservatorio: sono forse il più bravo, tra gli allievi di “Esercitazione corale”. E poi, dirlo mi riempie di gioia, lavoro come assistente di un angelo cherubino che scende ogni giorno in Terra, posandosi delicato sulla quercia di un bosco dolce e campagnolo, per educare gli uccellini al canto. Li abitua a portare il cinguettio in maschera e a sorreggerlo con il diaframma; non tutti riescono subito, anzi nessuno: perciò hanno bisogno di me, “serafino preposto al coraggio” che deve esortarli a ignorare la delusione.
Mi capita, spesso, di calmare i picchi, tanto irascibili da abbandonarsi a voli isterici e rabbiosi, dopo un acuto sbagliato. Per sfogare il rammarico dell’errore, percuotono il becco addosso agli alberi, facendosi (io credo) un male diavolo!
Allora intervengo: abbraccio con la mano grande il loro corpicino scosso dai nervi, accarezzo piano la testolina invasata di furore e fischietto per loro qualche melodia celeste; così, lentamente, l’ira si placa. L’agitazione, tachicardia dei nervi, torna ad essere tranquillità.
Una lezione dura da mattina a sera e in fondo non è pesante: diverse pause concedono sollievo alla stanchezza. Io mi apparto, negli intervalli, su di un ramo nascosto e mi svago a pensare. Se un’aria d’opera comincia a formarsi nella mia immaginazione, la scrivo per appunti sulle foglie pentagrammate che gli uccelli usano a mo’ di spartito e, magari, cerco di farla somigliare a quelle dei compositori più illustri. No, non Rossini o Mozart, come ritengono gli uomini, bensì Giove, Saturno e Urano, come noi angeli sappiamo benissimo!
Quando mi annoio, tento un’occhiata verso l’orizzonte e sempre vedo qualcosa d’interessante che mi convince a osservare il paesaggio. Ho una vista incantevole dagli occhi panoramici che possiedo in volto: gli avvenimenti fanno tappa nel mio sguardo, e nulla viene considerato con poca attenzione.
D’altronde come può sfuggirmi una persona bizzarra simile a quel prete in tonaca di gala, che si avvicina lungo il sentiero mostrando, allegro, un giglio all’occhiello. Ah no! Si tratta di un monaco elegante, che sfoggia un saio a coda di rondine… Macché! Ora lo scorgo chiaramente: è di sicuro un Beato, assorto nel compito di farsi propaganda (distribuisce infatti santini da visita a cacciatori e spaccalegna: “Casomai vi servisse una grazia…”).
Anche Satana gradisce, talvolta, un giro nei boschi: sale dall’Inferno e va a rintanarsi nel buio intricato delle macchie più fitte. Nella tenebra contorta dei rami bassi, in quella notte artificiale, trova l’ispirazione per musiche blasfeme: con spirito malvagio architetta note sacrileghe, bestemmie sinfoniche, allucinazioni sonore da far eseguire alla sua orchestra d’orchi.
Però i concerti non sono mai un granché ed anzi, in Paradiso, gli angeli ironizzano inventando dialoghetti briosi. È facile sentirli scherzare: “Ho fatto una volata all’Inferno per assistere a un’esibizione dell’orchestra d’orchi.”, “Ah sì? E chi suonava? Il primo violino?”, “No, il primo venuto: sai, era una cosa improvvisata…”.
Sorrido fra me per le battute ingenue dei colleghi alati, mentre la mia curiosità continua a sorvegliare la vita intorno. E mi accorgo di un simpatico ragazzo, seduto ai piedi d’una betulla, intento a deliziarsi del tepore e della luce. Sembra davvero uno scrittore, forse perché si è poggiato accanto uno strato di fogli che non smette di compilare, mano mano, a penna.
Affido agli occhi uno sguardo più pronto, per leggere le parole di quel ragazzo… ecco, finalmente capisco: è impegnato a buttar giù la recensione di un libro, che s’intitola Il Silenzio Stonato. Ha scelto la natura come ufficio di lavoro, quel ragazzo, e il suo inchiostro afferma, tutto disinvolto: “Rob Demàtt introduce la fantasia dei lettori all’uso narrativo dei ricordi, costruendo uno sfogo romanzato (dal linguaggio brillante e volitivo) che ha per contenuto un messaggio autobiografico: il sesto senso è quello di colpa. È il rimorso d’aver sprecato gli anni e la vita per dedicarci a illusioni che prima incantavano e che, adesso, ci deridono. Allora un’esclamazione prende in noi a gridare: “Temo il cielo e la terra; il tempo mi sta lasciando solo: entra nelle ossa la paura, il respiro non ha più forza nei polmoni e tutto mi incita alla morte!”.
Ma quando i cicli d’angoscia termineranno e la sofferenza non sarà che uno stimolo di guarigione, scopriremo sollievo anche nel dolore e, nel sollievo, amore”.
“Realizzerai i miei desideri?”, domanda l’uomo.
“Aspetta e spira…”, ribatte il destino.
Chissà per quale motivo, la recensione mi ha suscitato in mente questo lugubre giochetto di parole… Certo dev’essere triste per gli uomini ritrovarsi in mezzo alle ore, sempre minacciati da pene e afflizioni. Un giorno, però, avranno soltanto gioia e serenità, perché noi angeli provvederemo a convertire il destino!
Per il momento, io e il Maestro cherubino salutiamo gli uccelli agitando le ali (è sera, la lezione è finita) e torniamo lassù, nel Conservatorio Astronomico, a riascoltar le stelle.
Racconto di Natale: parte seconda

«Addò v'àggia purtà, dottò?» cacagliava il De Dominiccis alla guida della sua sfiatata Ford Ka, mentre tentava di manovrare il riluttante sistema di tergicristalli per levarsi dagli occhi almeno un po' del nevischio che si andava addensando sul parabris scheggiato.
«Il più lontano possibile da tutta questa infernale ingratitudine, caro,» gli rispose Del Grosso di getto, massaggiandosi le lussazioni sparse e sbirciando ogni tre per due alle terga, oltre il lunotto posteriore, per sincerarsi di non essere tallonato da Equitalia né da alcuna altra banda di parassiti saprofaghi.
Una volta che l'immane parallelepipedo che costituiva l'impianto-madre della ditta Del Grosso disparve anche dallo specchietto retrovisore, man mano che al panorama grigiastro della zona industriale si sostituiva quello begiolino del centro-città prima, dunque quello marrone-putredine del quartiere-dormitorio in cui era di stanza la famiglia De Dominiccis-Squanquaronzio, la tensione, nel corpo nerboruto e ancora tutto sommato in forze di Pasqualo, andava velocemente stemperandosi. Anzi, più si sentiva lontano da quella masnada di scocciatori, più gli sembrava che addirittura un po' del buonumore d'un tempo tornasse ad assisterlo. Si rilasciò contro il sedile scoppiato della postazione passeggero e incominciò a guardarsi oziosamente intorno per quell'angusto abitacolo. Natale, per intanto, proseguiva dritto al naso come un pilota automatico, senza che ancora gli fosse stata specificata la meta.
«Ah ah ah,» attaccò a sganasciarsi crassamente il Del Grosso, a un certo punto, «E chi se l'immaginava che esistessero ancora gli abbassafinestrini a manovella! Ma che d'è, un pezzo da museo 'sto qua. Tièttelo stretto, ah coso, che tra 'n po' te vale più der Colisèo... E dimme, Deddomminniccis, er volante te ce l'hanno rifilato aggràtise o era 'n opscionàl pure quello? Chissà come che te sei svenato pe' fattelo... Oh oh oh...»
Lo sguardo aggrondatissimo di Natale puntava la strada, mentre un lieve senso di pentimento per quel soccorso prestato cominciava a salirgli dai precordi. Deglutì con difficoltà e poi: «Allora dottò, dove ve pòzzo purtà?»
A Pasqualo si smorzò il sorriso. Si fece perplesso, subito dopo meditativo. «Mah!» esalò dopo un bel pezzo, «Natalì, amico mio, te posso fa 'na confidenza?» - non attese risposta - «Vedi, sò anni che me sdrumo a fà 'na vitaccia che t'aricomànno... sì, 'nzomma... tra pranzi di lavoro, galà, stravizi, grandi alberghi, troiai extralux, yacht, tennis club e cojonàte der genere, sempre sotto i riflettori, sempre in bocca alla tivvì e a li peggio rotocalchi... Nun posso nemanco famme 'na pippatina o stà in giro co' 'na sorca bell'e nova che... zàcchete! Ecchìme sparato sull'articolo d'apertura de Novella 3000. Me capisci, amico mio?» Natale faceva segno che sì, con la grossa testa a cucurbita. «Se posso essere franco, beh, me piacerebbe infrattàmme pe' 'na vorta, sì, come a dì, nascondermi in santa pace, un posto tranquillo, lontano dai ficcanaso. Fino a che l'acque nun se càrmeno, se ce capìmo... Tu che sei òmo de mònno, che, ne conosci de posti così?»
Natale era rimasto quasi quasi ipnotizzato dalla tiritera del datore di lavoro. Solo allorquando quegli aveva posto quell'ultima domanda, si rese finalmente conto di aver portato la vettura fin sotto casa, praticamente in automatica.
Un po' basito, visto com'erano andate le cose, fissò un attimo appena lo Squalo, il cui dopobarba al pino silvestre gli aveva completamente intasato l'interno della Ka, sinché, di conseguenza, gli scappò detto: «Ehmbe', mò che ci ritroviamo proprio sotto ò domicilio mio, che v'àggia a dìcere... Siete invitato a tràsere rint'a casa mia, commendatò... e c'àmma fà...»
Pasqualo salutò l'invito con entusiasmo: «Salisco volentieri, ammìco mio. Tra l'artro 'un so mai stato drento 'na topaia de queste e te devo confessà sinceramente che zò curioso.» Concluse l'affermazione fioccando tra le scapole graciline del vicino una manata che parve cagionargli lì per lì una scogliosi fulminante.
«Ecco! Proprio quel che mi ci voleva! Una vita misera... infame quasi, ma... verace!» commentò trionfalmente il Del Grosso passando l'uscio de la maison De Dominiccis-Squanquaronzio.
Appena dentro, il padrone di casa si era precipitato sulle pattine lacere per non sentirsi risuonare dentro le orecchie i ripetitivi rimbrotti della moglie, ma non aveva fatto in tempo ad avvertire l'ospite che, di fatti, s'era già avventurato sulle pianelle in graniglia del corridoietto d'entrata, lordandolo mezzo con le sue scarpacce inzaccherate di fanghiglia e che altro, mentre respirava a pieni polmoni l'aria ambiente.
«Ah, che terribile puzza di cavoli e bietole lesse!» giubilava, «Ah, che vomitevole odoraccio di cane bagnato e di vomito di bambino mischiati insieme! Sai, Natale, dopo averci passato tutta una vita in mezzo, beh, la diffusione automatica di essenza di calicanto attraverso l'aerazione domestica comincia a venirti a noia, puoi anche credermi...»
Mentre Pasqualo doveva ancora concludere la bella serie di complimenti, dallo sbriga-cucina spuntò una testolina arruffata, pedicellosa, ipertricotica, mal slavacciata, che subito subito l'entrepeneur scambiò per una tsantsa da selvaggi equadoregni. Poi però, con sua enorme sorpresa, la tsantsa parlò: «E 'stu puzzone chi cazz'è?»
Solo quando Natale le si rivolse con le premure che si riservano a un nostro confratello in Cristo, Pasqualo s'insospettì che si dovesse trattare della femmina De Dominiccis (anzi, per la precisione, come avrebbe appurato entro breve: Squanquaronzio Annunziata in De Dominiccis).
«Zitta, Nunziaté, ché chist'è ò mammasantissima...» provò a sussurrare Natale a mezza voce, rivolto alla regina della casa.
«Chi cazz'è 'stu strunz'?» lo rincalzò, soavissima, la dolce metà, facendo tremare per arco riflesso le ossute ginocchia del marito.
Fu allora che le corse incontro Del Grosso a mano in avanti, il polso che si allungava oltre i gemelli diamantati: «Del Grosso Pasqualo, ingegnere, proprietario unico della Del Grosso Bitumini & Similia, qui per servirla, signora!»
Ma la coniugata De Dominiccis, prima di porgere la mano, rimasta inguantata dalla recente risciacquatura di piatti, volle dare postremo sfogo alla sua naturale indole blasé: «E che cazz' buò 'stu scassamarazz' 'e merd'?» chiosò quindi, sempre con le pupille nelle pupille del marito.
«Fusse venut' a magnà coccòsa vicin'a nnùje...» provò a spiegarle Natale.
«Comm' comm'? Forze nun àggio capisciut' bbuono...»
«Vedi Nunziatè, steva solo solo, steva triste, nun àggio tenuto ò curàgg' di lasciarlo lì, accussì...»
«Ma tu lo sai ca nun tenìmme manc' da cucinà pe' tutt'i figli tuoi? Piuttosto, dimmi, al qui presènto commendatòro ingegnèro Delgruòss' ce li hai poi chiesti i stipendi che t'avanzano da cinq' mesi a chesta parte?»
«Stavo per...» provò a giustificarsi Natale, ma già aveva addosso la mogliera, che, con furia da Erinni, gli rimaneva attaccata ai radi capelli che gli facevano il giro del cranio con ambo le mani, mentre coi piedini impantofolati scalciava nell'aria, mandando a segno più e più carcagnate ai danni delle sembianti del marito, nonché spesse volte pur'anche int'i cugghiùni.
Pasqualo, abbandonando i due al loro tubante quadretto coniugale, aveva intanto intrapreso un accurato viaggio di perlustrazione per gli ariosi spazi del bilocale, che lo aveva infine portato a inoltrare il naso sin dentro la cucinetta, laddove sorprese un trio di mocciosi, accompagnati a una rognosa compresenza canina, che andavano già da un po' specchiando i loro visetti malinconici dentro i piatti vuoti, in attesa che babbo rincasasse munito del necessario per il cenone della Vigilia.
«E questi che sarebbero? Delle scimmiette di mare?» si perplimeva Pasqualo a quella vista.
«No, no. Song' i figli miei,» si affrettò a chiarire Natale, che gli era nel frattempo apparso da dietro le spalle, un tantino più malconcio di poco prima, un occhio gonfio e un incisivo inferiore spaccato.
«Ah, la prole! Felicitazioni allora! Quattro bei giovanottoni! Complimenti vivissimi!»
«No, uno è ò cane,» tenne a precisare Natale.
Radioblog: Serena Rossi ed Elena Brilly, due blogger per Natale

Amici di signoradeifiltri che piaccia o non piaccia il Natale è alle porte anche quest’anno e in qualche modo anche noi di Radioblog vogliamo dare il nostro contributo con una puntata dedicata ai regali da mettere sotto l’albero.
Fatevi travolgere allora dall’entusiasmo e dalla bravura delle blogger Serena Rossi ed Elena Brilly che vi coinvolgeranno con i loro suggerimenti di lettura e vi daranno ottimi spunti per i libri da regalare a Natale.
Spazieremo dalla narrativa, ai classici, agli autori emergenti e le nostre ospiti ci parleranno anche delle loro attività culturali che da anni portano avanti sulla rete e non solo!
Serena Rossi gestisce il Blog “Quando la Sere legge” ed Elena Brilly , oltre al blog personale “Crazy Alice in Wonderland”, si occupa della rivista letteraria “Writers”.
Trovate tutti i link alle loro pagine in fondo all’articolo.
Accompagnerà la nostra intervista una deliziosa illustrazione della mia collaboratrice Eva Pratesi che, come sempre, con i suoi disegni ci diverte e ci fa sognare.
Bene allora, mettetevi comodi e godetevi questa nuova puntata natalizia di Radioblog.
Buon ascolto!
www.crazyaliceinwonderland.com
www.writersezine.wordpress.com
Per contattarci:
radioblog2017@gmail.com
Musica di Kevin MacLeod - www.incompetech.com
Il sito della nostra illustratrice Eva Pratesi è : www.geographicnovel.com
Racconto di Natale: parte prima

Il capitano d'industria Del Grosso P. versava in grosse difficoltà e, combinazione voleva, proprio a ridosso delle più liete feste che la Cristianità avesse saputo concepire in un paio di millenni di storia.
In azienda si era ormai in odore di chiusura annuale, tempo di consuntivi, di partite doppie, di dichiarazioni dei redditi e degli inevitabili esami di coscienza che le fredde comunicazioni di bilancio paradossalmente comportano.
Del Grosso guardava attorno a sé con aria desolata, con sguardo volto a un accigliamento che presagisce il pianto. Altro non vedeva che lande desertiche: la terra bruciata che s'era fatto dattorno. Com'era successo? Venire a patti con le manchevolezze e i mea culpa di tutta una vita pareva esercizio troppo gravoso per le poche forze che ancora assistevano il suo animo, che era stato sino a poc'anzi animo battagliero di leone, come tutti quanti, fans e detrattori, non avevano mai fatto a meno di riconoscergli unanimemente, ma che ora – provato ed eroso dalle avverse fortune - si riduceva ormai allo spirito vitale d'una mammoletta.
Si abbandonò prostrato alla poltrona ergonomica in pelle di alligatore che troneggiava nel suo ufficio ormai semi-vuoto. Fissò per qualche tempo l'acquario davanti a lui, dentro il quale pinneggiava placidamente uno splendido esemplare di Chiloscyllium Plagiosum. Del Grosso fissava il pesce nell'acqua e sospirava. Il pesce, di rimando, lanciava qualche occhiatina di sfuggita su Del Grosso e boccheggiava, senza però voler conferire a quell'azione alcun tipo di valenza psichica.
Si trattava di uno squaletto di piccola taglia, anche detto squalo bambù maculato. Gli era stato regalato natali prima dalla commissione per ricordargli il soprannome con cui Del Grosso era da tutti conosciuto nel settore, che era appunto “Squalo” (anche se il suo nome completo all'anagrafe era Pasqualo).
Inutile starci a girare tanto attorno: i conglomerati bituminosi non tiravano più come un tempo. Poco da farci.
L'impero che il padre di Del Grosso Pasqualo, e ancor prima il padre di suo padre, e prima ancora il padre del padre del padre, e più in generale tutta l'infilata filogenetica delgrossiana che aveva esordito a far su ghiaia a secchiate dal greto dei fiumi e si era poi impratichita nei tratturi in terra battuta e giù giù, attraverso i selciati, i basolati, i lastrici, i macadam, era poi approdata alla pavimentazione delle superstrade e delle arterie viarie a percorrenza veloce, beh, insomma, tutta quella elefantiaca intrapresa si andava inesorabilmente sgretolando, sotto gli occhi torpidi e inattivi dell'ultimo rampollo, con una rapidità solo comparabile a quella con cui si liquefacevano, si spaccavano, si sfarinavano già al primissimo e pur timido contatto con gli elementi naturali gli asfalti e i cementi della Del Grosso Snc.
Pasqualo era interdetto, ma al contempo paralizzato dal corso degli eventi. «Qua ci vuole un sano rinnovamento! Ripensare la Del Grosso Bitumini & Similia di sana pianta!» aveva più volte tentato di scrollarlo il direttore unico preposto all'ufficio-gare. Ma non c'era stato verso. Quegli sproni risuonavano alle orecchie ormai brucianti di Del Grosso Pasqualo quale indicazione d'un cimento senza meno irraggiungibile. Rinnovare? Non capiva nemmeno bene che si intendesse con un tale infinito verbale. Macchinari nuovi? Mezzi nuovi? Prodotti nuovi? Impasti nuovi per impiantiti stradali? E con quali investimenti? Con quali ingegni? Con quale coraggio?
Pasqualo, poveretto, aveva sempre trovato la pappa pronta. Mica l'aveva inventata lui la ditta, mica se l'era mai studiato a fondo il mestiere, mica ci capiva più di tanto. Lui s'era limitato a sperperare le risorse che generazioni precedenti avevano accumulato e risposto in sicuri caveau. Aveva fatto un punto d'onore personale nello scialare il patrimonio ereditato in tutte le sfaccettature immaginabili di quella che viene correntemente chiamata “bella vita”, ritenuta nel suo significato più dozzinale e divulgato.
Quanto al lavoro, il suo titolo padronale gli tornava utile giusto giusto per darsi un tono in società. Per il resto, s'era barcamenato sino ad allora alla bell'e meglio, vivendo di rendita e “asfaltando” – mai gerundio sarebbe più azzeccato che in un caso del genere - l'intera concorrenza, che aveva praticamente annichilito grazie a amicizie ed entrature ancora risalenti all'epoca del babbo. Poi le amministrazioni erano cambiate, le richieste di mazzette s'erano fatte via via più esose, nuove ditte più competitive erano apparse all'orizzonte e tutto era repentinamente precipitato, con la stessa brusca verticalità che assumeva la caduta di quei suoi operai che talora scivolavano inavvertitamente giù dai carrelli delle gru, dalle torrette o da certe impalcature un po' volanti, come a voler simpaticamente interpretare di persona gli esperimenti galileani circa i gravi e le loro accelerazioni.
Del Grosso stava là, nell'ufficio semibuio, a sospirare dai polmoni costipati e a poppare penosamente dal lungo sigaro a siluro, faccia a faccia con lo squaletto bambù maculato, che di nome faceva Xanax, per via del carattere piuttosto docile.
Del Grosso il corruttore, Del Grosso l'insolvente, Del Grosso il noto puttaniere, Del Grosso il frodatore del fisco, Del Grosso l'amante del bondage estremo ora avevano lasciato tutti il posto a Del Grosso il disperato.
In quelle poche ore Del Grosso Pasqualo era stato visitato dai tre fantasmi di Natale. Nell'ordine: la guardia di finanza, i creditori, i pignoratori. Quando sentì rintoccare nuovamente il cicalino del citofono contro quegli spazi vuoti e, approssimandosi titubante alla cornetta per accertarsi dell'identità dei due signori nei loro completi blu da saldi di discount che comparivano nell'immagine tremolante del monitorino a bassa risoluzione, allorché si sentì nasalizzare da uno dei due, via microfono: «Equitalia!» capì ch'era giunta l'ora di portar via i coglioni.
Impossibilitato a infilare l'uscita principale, uscì sul cornicione, nel rigore frizzantino di quel tardo pomeriggio che sembrava annunciare una nevicata incantevole di lì a non molto. Messo al ripiede, in una vertiginosa periclitazione sopra quella risicata porzione di centimetri sospesi sopra il baratro del sesto piano, alla fine di una lunga oscillazione riuscì ad aggrapparsi alla grondaia cigolante poco sopra la sua testa, da cui penzolò per cinque minuti buoni come un caciocavallo fresco dalla trave del solaio ammuffito nelle case dei bifolchi. Avvertiva gli avambracci dolergli prima, indolenzirsi poi, infine non assisterlo più. Mentre cascava giù per quella ventina di metri, con una velocità tale che se ne udiva il fischio fendere la santa notte silente, fu allora che fece appena in tempo a capire tutta l'inutilità di pagarsi la tessera Platino presso la palestra meglio attrezzata della città, se poi, al posto di pensare a rafforzare bicipiti e deltoidi, trascorreva tutto il tempo al bar interno, a sgargarozzarsi Negroni doppi e a tampinare le camerierine bielorusse, seppur abbigliato in tuta in poliestere e sneakers.
L'operaio specializzato Natale De Dominiccis stava facendo mesto ritorno alla propria Ford Ka di quarta mano, usato sicuro, color verde bile, confidando che almeno stavolta si accendesse senza dover scongiurare qualche passante non troppo malmesso di dargli una spintarella.
Natale De Dominiccis aveva una piva che gli toccava terra. Era abbattuto e triste, quattro rompipalle di figliuoli a carico, una moglie bisbetica, debiti dal pizzicagnolo, debiti dal gommista, debiti dalla parrucchiera della consorte: “Madame Pinuccia Butìch”. Un conto corrente talmente in rosso e da talmente tanto tempo che tendeva ormai all'ultravioletto.
Un'altra festività da vivere senza mezzi, masticava amaro il De Dominiccis, raggiungendo passo passo l'utilitaria parcheggiata chissà dove. Era cinque mesi tutti che non vedeva stipendio, e quella volta lì gli saltava pure la tredicesima, mannaggia a chi t'è muort'. Stava giusto uscendo dalla vertenza sindacale indetta da dipendenti e quadro congiunti della Del Grosso Bitumini & Similia, anche se manco a quell'incontro si era addivenuti a un granché. Non si era neppure riusciti a decidere se, come contromosse alla latitanza dirigenziale, fosse meglio bucare le ruote della Bentley del principale oppure rigargli le portiere nottetempo con un chiodo.
Ma quando finalmente rintracciò il proprio macinino... meraviglia delle meraviglie! Lo riconobbe subito. Infatti, chi era andato ad atterrare precipitosamente, alla conclusione di un volo di sei piani più relativi mezzanini, sopra il tettuccio della Ka? O, per meglio dire, sopra il materasso semi-sfondato a una piazza che Natale ci aveva caricato su il mattino, legato a fil di spago, regalo di zia Cettina, che se n'era appena disfatta per quello nuovo in lattice? Proprio lui!
Quello che tra la colleganza, durante gli scioperi a oltranza, negli incontri carbonari per decidere come rivalersi contro il padronato boia e affamatore, tuttora appellavano “lo Squalo” (più come onore delle armi che per effettiva tenuta del nome di battaglia all'attuale stato dei fatti).
Non poteva credere ai suoi occhi blefaritici: lo Squalo stava là, atterrato sul morbido, la capotte della Ford Ka ripiegata sotto quella notevole aggiunta ponderale, un lieve soffocato lamento che sembrava uscire da qualche parte di quel corpo mal rischiarato e goffamente accartocciato su se stesso.
«Marònn' ro Carm'n'!» esclamò per prima cosa Natale, constatando lo stato del materasso dopo l'impatto: «Povero Giggetto: tengo paura c'addà durmì 'ncopp'ò pavimento ancora assai...»
Anche Del Grosso Pasqualo riconobbe il dipendente al primo colpo. Non che fosse tipo da conoscere la propria manovalanza parcellizzandola in singoli individui. Ma, per ironia della sorte, proprio un paio di giorni prima l'ufficio-personale gli aveva sottoposto la lista completa dei lavoratori da sfrondare quanto più recisamente, in vista dell'anno entrante. Pasqualo aveva aperto il faldone con riluttanza, non per ritrosia ai licenziamenti, ma piuttosto perché refrattario a occuparsi delle vite tristanzuole di quella massa di perdigiorno. Aveva girato i curricula con schifiltà, trattenendone gli angoli con la punta dei polpastrelli di indice e pollice. Al quarto o quinto foglio s'era soffermato e, puntando il dito sulla brutta faccia sei per sei che si ritrovava sotto il naso, aveva quasi urlato: «Questo è il primo ad andarsene, con 'sta cartola da portasfiga che c'ha, con 'sto nome da scemo che c'ha! Cacciatelo via a pedate!» È forse superfluo aggiungere che il nome del futuro cassintegrato risultava essere Natale De Dominiccis. Nome che riecheggiò anche quella sera, quando Pasqualo, alzando appena appena il capo dal sofferente giaciglio, riconobbe a colpo d'occhio quel viso storto, colpito dalla luce zenitale del lampione.
Natale si era ripromesso che, se avesse mai incontrato il padrone uòcchie rinte l'uòcchie, ci avesse sfrantato à uàllara a pugni e calci, calci e pugni, eppoi sputazze ognidove, insulti, pèrete sott'o naso. E invece... a vederselo lì davanti, dolorante, ciancicato, supplichevole, tutta la rabbia che aveva immagazzinata nei mesi e negli anni svaporò all'istante, come per incanto.
Sarà stata pietà cristiana, sarà stata commiserazione, sarà stato il dolce suono che facevano le sue generalità pronunciate da chi aveva sempre immaginato neanche fosse a conoscenza del suo esistere, sarà quel che sarà - cinguettava la brunetta dei Ricchi & Poveri - ma comunque non ce la fece ad ingiuriare e accanirsi ancor più su un uomo già tanto mal piazzato.
«Natale De Dominiccis, caro! Vie' qua! Soccòrime!»
E lo sventurato rispose…
Continua
Cena di Natale

Dalla raccolta "I luoghi della memoria e altri racconti". Il Foglio 2016
Il camino ardeva in cucina scoppiettando. I bambini correvano e giocavano a nascondino nelle fredde stanze dell’ampia casa per tenere a freno i gorgoglii dello stomaco, a mala pena riscaldato al mattino con pizzette con le alici e frittelle di cavolfiore. Il digiuno doveva essere rispettato anche dai più piccoli, in compenso la cena di Natale sarebbe stata più gradita e più apprezzata. Cena di magro, anche quella. Baccalà in bianco, condito con olive, pezzetti di peperoni sottaceto, prezzemolo, aglio e abbondante olio. Una vera e propria prelibatezza il baccalà fritto in abbondante olio bollente, croccante fuori e morbidissimo e gustosissimo dentro. Ancora peperoni imbottiti di mollica di pane, prezzemolo, alici o in alternativa con mollica di pane imbevuta di mosto per chi non adorava le alici. Gli spaghetti col sugo di vongole, pezzi di anguilla al forno o arrostita chiudevano la prima parte della cena. Le seconde mense era tutto un brulicare sulla tavola di castagne secche e morbide, noci, mandorle, confettini colorati, torroni e torroncini morbidi, duri fino a spaccare i denti, croccante e mandorle pralinate: una vera cuccagna per i piccoli, anche per riempire lo stomaco spesso riluttante verso le pietanze dei grandi.
Stranamente il cielo era di un intenso azzurro che si confondeva col biancore dei monti lontani. Nei prati qualche rada macchia bianca di neve recente. Faceva freddo, ma il sole pungeva gli occhi, insolito segno di primavera.
I piccoli decisero di andare alla chiesa, la piccola chiesa del paese. In fondo il gran presepe. Poggiati alla balaustra due freddolosi pastori nelle ampie giacche di bianchi velli, ansimanti alle cornamuse. Suono dolce che tenne estasiati i bambini per qualche minuto. Poi via a sistemare i pastorelli in bilico su monti di sughero e muschio. Alla luce rossastra delle candeline, nella capanna di cartone sorrideva il biondo Bambino e all’entrata gli zampognari con le labbra attaccate alle cornamuse mute. Nel cielo blu di carta velina il tremolare delle stelline di latta d’argento.
L’ora cominciò a farsi tarda. Una nebbia sottile incominciò ad avvolgere la massa nera degli alberi accanto alla sagoma grigia della chiesa senza lume. Tenebre sempre più nere coprivano le case del paesello e dalle finestre lontane vibravano lumicini come stelle in una notte cupa. Si intuivano voci dolci, tenui, accorate, di uomini e donne protesi nel mistero.
Toni non arrivava. Nessuno sapeva il motivo di tanto ritardo. Aveva fatto sapere tramite cartolina postale dagli Abruzzi che sarebbe arrivato, neve permettendo, nel primo pomeriggio della vigilia di Natale.
Con la voce tremante di pianto represso la nonna radunò i piccoli intorno a sé e avvio la recitazione di antiche giaculatorie per propiziare l’arrivo del caro figlio. Il più piccolo dei nipotini, come un convolvolo su vecchio muro coperto di muschio oscuro, affondò il minuscolo viso tra le pieghe disfatte sul grembo della vecchia come a cercare il molle tepore di un seno. Col viso quasi esangue, i capelli bianchi fuori dal fazzolettone che le copriva il capo, la donna si chinò a pronunciare nel soffio lievissimo d’un bacio la parola più dolce: figlio mio! Il piccolo subito si aggrappò con la manina sottile al suo dito, la guardò in volto, vide che non era quello della mamma sua e subito ritrasse la manina, mentre già il caldo umidore delle lacrime aveva bagnato il ricamo di venuzze azzurre sul piccolo pugno. Gli occhi del piccolo divennero allora per il pianto come lembi di cielo gonfi di pioggia scrosciante e come un fiordaliso sferzato dal vento si dilegua lieve nell’azzurro del cielo, così il bimbo riparò di corsa dalla mamma.
Sospiri frammezzati a singhiozzi, tristezza sui volti, parole accorate era tutto quello che preludiava a una serata tristissima. Il capo ricciuto dei bimbi più piccoli già ciondolava dal sonno, inutilmente le mamme tentavano di tenerli desti con il gioco della tombola o con la promessa dell’arrivo a notte fonda del buon vecchietto che in cambio di castagne e fichi secchi avrebbe lasciato qualche dono.
Con quanta ansia tutti a casa avevano atteso la sera e quanto a lungo lo sguardo di Toni aveva errato in cielo per la lunga distanza.
Solo il fremito delle stelle gli aveva tenuto compagnia e il desiderio rimasto nel cuore, dischiusosi ormai alla speranza, di giungere in tempo per celebrare il Natale. Mancavano solo pochi chilometri e si sarebbe tuffato tra i suoi con la passione di un amante troppo a lungo tenuto lontano dalla donna amata. Tutto quello che la vita gli aveva dato sotto forma di dolore l’avrebbe tuffato nella nebbia opaca della malinconia e del ricordo. Ormai dal suo cuore zampillava gioia pura come una vena limpida dalla nascosta roccia. E nella sua voce rotta tra i sassi e affogata tra l’erba, vi era il riso della gioia anche se nel fondo muto dell’animo i lineamenti scomposti del volto dei compagni caduti grondavano il pianto di un sogno ormai morto.
L’ombra cupa del fogliame sembrava tremolare di voci conosciute. Il silenzio pauroso ed infinito del lungo viaggio era diventato dolce poesia, ora che la sua casa appariva piccina in lontananza, nel cielo ovattato di nebbia, al tremulo canto di rari uccelli notturni. Man mano, passo dopo passo, sempre più grande la casa allo sguardo e sempre più gonfio il cuore di gioia. Non gli mancò la voglia di scherzare. Girava carponi intorno alla casa, lo seguiva pian piano stupito, da un salto all’altro, dalla finestra il viso di un bimbetto il quale corse ad avvisare che era arrivato il vecchietto dei doni. Tutti accorsero al portone: urla, grida di gioia, lacrime, abbracci. Toni era finalmente arrivato. Il vecchietto sarebbe arrivato più tardi con i doni. Intanto ebbe inizio la cena.
Malinconia di Natale e dies natalis

Malinconia di Natale
Un alito di speranza
Una lingua di fumo del focolare
una spina di malinconia
un sussulto nel cuore
le mamme sole
tra i pianti di non graditi balocchi
ché in quelli non avuti
vive il desiderio
e il pungente profumo di visi
sbarbati e gelidi al calore
di tenera pudica carezza
in attesa di puntuali mense da re.
A sera un filo di strada alla grotta
e lacrime ghiacce di solitudine
deposte sul giaciglio a ghirlanda
del capo del divino bambino
incoronato di spine in un futuro
nemmeno troppo lontano.
Dies natalis
Quando nasce la Vita come a Betlemme
palpita d’immenso il cuore
stupefatto di nuvole rosa
e di germogli di pesco
di luci di stelle e mormorio di vento.
Cadono d’un tratto le paure
e le angosce del limite estremo
e come pane di lievito il cuore si slarga
l’animo empie le gote di spirito sacro
e profumo di viole conduce alla stalla
a rimirare il miracolo antico che nuove
sparge speranze e virtù e ogni volta
il male purifica in bene a chi
a guisa di umile servo accoglie
del regale Bambino il segno del Tempo
nei fuggevoli tempi dell’uomo
nei giorni precari di vite consunte
in animi sordi alla buona novella.
L’Infinito è in un attimo
al santo vagìto ci guida
la stella cometa
da lontano nell’aria
suoni di ciaramelle.
AA.VV, "L'amore non crolla: storie di Natale"

Leggere racconti è una mia vecchia abitudine legata all'infanzia che soprattutto a Natale mi piace rispolverare. Così ho scelto di parlarvi oggi di questa antologia di racconti che si rivolge a un pubblico ampio, dai più giovani ai meno, in cui emergono diversi elementi e dal sapore davvero speziato.
Primo tra tutti la speranza. Questa bella aspirazione viene sviscerata non solo legandola al Natale ma agli affetti e alle cose importanti della vita come i sogni, i ricordi, la famiglia e la grande forza che riesce a tramettere se usata come motrice energetica.
Secondo l'emozione. L'intero libro è permeato di uno stato affettivo puro, intenso e autentico quasi da esondare dalle pagine e attaccarsi al lettore (a me per lo meno è accaduto con il fazzoletto alla mano, le mie emozioni hanno preso il sopravvento sulla lucidità risvegliando empatia per le storie narrate).
L'ultimo a chiudere il trio vincente: l'amore. Amore inteso nel suo senso più lato, come forza motrice capace di mitigare il dolore, avvicinare le persone, abbattere le frontiere. Lo dice in effetti già il titolo: L'amore non crolla. Al giorno d'oggi almeno questa è una piccola certezza, dove c'è amore c'è sempre quel barlume di speranza che aiuta a sopravvivere. Perché qui entra in gioco il quarto elemento: la beneficenza.
L'intero ricavato del libro, in entrambi i formati cartaceo e digitale, viene devoluto alla Croce Rossa del Centro Italia per sostenere i fabbisogni dei terremotati.
Insomma una raccolta con 21 racconti diversi tra loro per genere, tipologia di narrazione, per il messaggio che veicolano, che percorrono dentro le strade del cuore e si propongono di trasformare le parole in benzina per i buoni sentimenti, proprio in tema con il Natale. Un libro capace di fare scivolare qualche lacrima e di muovere riflessioni sulla fugacità delle cose, che non fa mai male tenere a mente, tutto l'anno.
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L'amore non crolla: Storie di Natale (Buck e il Terremoto Vol. 3)
Dopo il successo di Buck e il Terremoto e Storie di Gatti, altri 21 racconti... sotto l'albero! C'è chi il Natale lo odia, chi l'aspetta tutto l'anno, chi andrebbe a dormire la Viglia per svegliarsi
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Stefano Valente, "Il barone dell'alba"

Il barone dell’alba
Stefano Valente
Graphopheel, 2016
Una scrittura straordinaria, non ci sono altri termini per definire lo stile di Stefano Valente ne Il barone dell’alba. Non è il contenuto a colpire e affascinare, non è la trama di questo romanzo picaresco ed erudito, ma l’espressione colta, raffinata eppure scorrevole, visiva, narrativa. Ci sono pezzi meravigliosi, come la descrizione raccapricciante dell’autodafè, il rogo dei presunti eretici. Non saprei immaginare un modo migliore per mostrare la scena, per farla vedere, toccare, annusare e, allo stesso tempo, renderla letteraria, dotta, elegante.
Meno attraenti i linguaggi inventati - siciliano, ispanico-partenopeo, tedesco - che di sicuro intrigano il glottologo Valente ma appesantiscono il lettore comune.
Andiamo per ordine: abbiamo l’espediente narrativo del manoscritto ritrovato, con tanto di postille erudite, abbiamo un romanzo d’avventure rocambolesche e frenetiche che a me ricorda il Simplicissimus del Grimmelshausen, Il cimitero di Praga di Eco e anche Memorie d’un bugiardo di Marco Saverio Loperfido. Abbiamo una città immaginaria, Dorantia, che ci riporta alla Venezia del settecento, abbiamo la cerca di un oggetto, il quadro d’una fanciulla vagheggiata dal protagonista, una fanciulla con occhi di aurora, con occhi d’alba, di quel momento inconfondibile fra luce e buio, fra sole e oscurità, fra bene e male. Abbiamo come protagonista il rampollo di una famiglia nobiliare borbonica, il barone Francesco di Santamaria di Caloria, inviato dal padre a fare il gran tour, e un attraente e inquietante coprotagonista, lo sbirro Velasco. Abbiamo una serie di simboli, come ad esempio la freccia, inizio e fine, uroboro - serpente o coccodrillo! - che ci riporta al punto di partenza, abbiamo visioni e suggestioni oniriche. Intorno, luoghi meravigliosi e tenebrosi, deserti e segrete, prigioni e sotterranei, dalla Sicilia a Malta all’Egitto, e un caravanserraglio di personaggi sorprendenti: banditi, cardinali, nani, streghe, inquisitori, monache e pirati, fra culti esoterici e rimandi dotti a non finire.
Nonostante il ricco apparato culturale sotteso al romanzo, la storia riesce ad essere avvincente e lo stile, oltremodo letterario, non difetta di quelle tecniche che rendono appassionante la narrazione. Un romanziere, Stefano Valente, che ha molto da spartire coi grandi classici ed è, a tutti gli effetti, un autentico signore della scrittura.
Qui puoi ascoltare l'intervista a Stefano Valente per la nostra rubrica Radioblog.
Riccardo Moncada, "Eleanor's smile"

Ho letto da poco un romanzo diverso dal solito, Eleanor's smile.
Un romanzo innovativo che racchiude amore e azione nel giusto mix, che mi ha conquistato, da qui l'idea di condividere con voi il turbine di pensieri nato. Non ho potuto fare a meno di emozionarmi leggendolo, e, quando parlo di emozioni, non intendo solo ridere o piangere, ma anche arrossire, sorprendermi, temere... 211 pagine che scorrono veloci e scivolano come un rinfrescante bicchiere d'acqua, riequilibrando, che raccontano una storia d'amore molto distante dai cliché. Perché in Eleanor's smile non abbiamo la solita lei che rincorre un lui, una donna che si strugge per amore o ne subisce umiliazioni e torti, ma una donna indipendente, forte e decisa che sceglie l'uomo con cui dividere la vita e al primo posto metta lei.
Come anticipavo, si tratta di una lettura originale, intrisa di sentimenti elevati all'ennesima potenza. Un amore romantico di quelli che fanno battere il cuore e volare in alto, per poi tornare a terra e fare i conti con la realtà. Una sorte di ode all'amore, in chiave moderna.
Partiamo dai protagonisti:
“Lui è Liuc, scrittore squattrinato e sognatore. Lei è Eleanor, agente segreto perennemente impegnata in missioni pericolose. Sono sposati da 9 anni e hanno due figli, Guglielmo e Beatrice. Liuc è un padre moderno, un cosiddetto mammo. Si occupa dei bambini, della casa e del suo romanzo mai completo. Eleanor, stanca e piena di sensi di colpa, rientra ogni sera alle 22:00, in tempo per cena. Lei non può rivelare nulla del suo lavoro: cosa ha fatto, quali missioni ha svolto, se ha messo a repentaglio la sua vita. Liuc vive con disagio questa condizione. È insoddisfatto per quella vita segreta che lo esclude. È geloso dei colleghi di lei, chi sono, cosa fanno? Ma soprattutto sa che un giorno qualcuno potrebbe bussare alla porta di casa per dirgli che sua moglie non farà più ritorno.”
Una storia che non manca di spunti di riflessione, passione e sentimenti, in cui l'avventura condisce ogni pagina avvincendo. Potete ben immaginare quando non sia mai simile un giorno all'altro per un agente segreto e nemmeno per uno scrittore dalla fervida immaginazione alle prese con la crescita di due figli! Lo ammetto ho riso, ho pianto, ho sussultato, sono arrossita... trascinata dal ritmo e dalle parole dei protagonisti. Mi sono rivista in riflessioni comuni a tutti, in considerazioni che prima o poi ogni essere umano si trova a fare.
Già dal titolo mi aveva incuriosito e fatto ragionare: ELEANOR’S SMILE – Mia moglie è un’agente segreto, ma rientra in tempo per cena. Ma solo leggendolo ho appreso quanto un uomo riesca a vivere appieno un sentimento così totalizzante come l'amore.
Ecco dove sta la bravura dell'autore, oltre alla creazione di un libro dalla trama originale e ben architettata, oltre al ribaltamento dei soliti ruoli famigliari, alle dinamiche amorose lui-lei, anche una rivalutazione dell'uomo in quanto essere maschile e del suo vero apporto alle relazioni interpersonali. Per coloro che se lo chiedono ecco cosa cercano molte donne, un uomo del genere.