I fratelli Grimm
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Jacob Ludwig Karl Grimm (1785 - 1863) e Wilhelm Karl Grimm (1786 – 1859) erano fratelli, legatissimi al punto che, quando uno dei due si fece una famiglia, prese l’altro a vivere con sé. Le numerose delusioni li portarono poi a chiudersi in un loro mondo fantastico, un po’ come capitò a Tolkien nell’ultima parte della vita. Nati ad Hanau, vicino a Francoforte, furono linguisti e filologi, padri fondatori della germanistica, autori di un importantissimo dizionario che venne completato postumo solo negli anni sessanta. Jakob è anche famoso in glottologia per la celebre legge che da lui prende nome: la prima rotazione consonantica (Erste Lautverschiebung).
Nel mondo, però, sono conosciuti soprattutto per aver raccolto e rielaborato le fiabe della tradizione popolare tedesca in Fiabe (Kinder- und Hausmärchen, 1812-1822) e Saghe germaniche (Deutsche Sagen, 1816-1818). Pubblicarono, tuttavia, anche fiabe francesi e di altri paesi.
Il loro operato fa parte del movimento ottocentesco di riscoperta e rivalutazione del folklore popolare. In un periodo in cui la crescente alfabetizzazione portava alla scomparsa della tradizione orale, influenzati dal romanticismo di Clemens Brentano e da von Arnim, i Grimm compirono le loro ricerche col preciso intento di recuperare, non tanto favole per bambini, quanto racconti che contenessero lo spirito di un intero popolo, favorendo la nascita di una identità germanica.
“Era forse giunta l’ora di riunire queste fiabe, dato che coloro che le devono conservare sono sempre di meno…”
La stessa azione compì Elias Lönrot nel 1835 in Finlandia con il Kalevala.
Le fiabe che riproposero erano in versione originale non destinate a un pubblico infantile. Quello che è giunto fino a noi è un adattamento edulcorato, depurato dei particolari più cruenti, risalente alle traduzioni inglesi del 1857. Le due sorellastre di Cenerentola, ad esempio, nella versione originale si tagliano calcagno e alluce nel tentativo di entrare nella famosa scarpetta. Sembra, però, che una certa censura sia stata condotta anche dai Grimm per quanto riguarda contenuti sessualmente espliciti.
Le stesure nel corso degli anni furono molteplici, i Grimm modificarono le storie per venire incontro ai gusti della nuova borghesia tedesca e perché s’imbatterono continuamente in versioni diverse. Si sforzarono, comunque, di rendere i racconti così come li avevano ascoltati, in uno stile semplice, mimetico del linguaggio popolare, senza abbellimenti e persino un po’ scarno. Molto diverse le due trasposizioni di Cenerentola, quella barocca, aristocratica, di Perrault e quella brulla, sanguinosa, dei Grimm. Dobbiamo, infatti, precisare che l’opera dei Grimm era stata preceduta nel seicento da quella del nostrano Gianbattista Basile (con Lo cunto de li cunti 1643 – 46) e da quella dal francese Perrault.
Le storie hanno un’ambientazione cupa, oscura, fatta di orchi, streghe che mangiano bambini, genitori che li abbandonano nel bosco, madri (e non matrigne!) che pretendono il cuore delle figlie, lupi che divorano. È un mondo di case nella foresta, di animali parlanti, di arcolai, di fusi che addormentano, di paglia che diventa oro, di specchi magici, di mele avvelenate. I protagonisti sono esponenti del popolo o dell’aristocrazia, l’intento è edificante, con il lieto fine che premia sempre il comportamento retto e onesto.
Se Vladimir Propp ne ha analizzato la struttura ricorrente, se non è impossibile ricollegarle alle teorie degli archetipi e dell’inconscio collettivo di Jung, è ormai famosissima l’interpretazione freudiana che ne ha dato Bruno Bettelheim. Certo è che le fiabe – tutte, non solo quelle dei Grimm - assolvono un compito consolatorio per i bambini.
Attraverso la narrazione i piccoli superano le paure, oggettivandole, acquistando fiducia in un lieto fine, risolvendo conflitti edipici, rivalità fraterne, sensi di colpa latenti, primi turbamenti sessuali inconsci, timore dell’abbandono, riti di passaggio all’età adulta e alla maturità psicofisica. Imparano altresì a distinguere ciò che è bene da ciò che è male, a schierarsi dalla parte dell’eroe positivo, a fidarsi dell’aiuto esterno, a non demoralizzarsi di fronte a difficoltà e a sentimenti d’inadeguatezza, ad accettare l’esistenza del male, considerandolo superabile. Nelle favole dei Grimm chi non è degno, chi non si comporta come dovrebbe, va incontro a una brutta fine, e l’apparente mancanza di pietà nella punizione è soltanto giustizia agli occhi dei piccoli.
Il bambino trae molta più consolazione e giovamento dall’ascolto di una fiaba che da un ragionamento logico. Attraverso le immagini fantastiche e la narrazione, rielabora in modo subliminale e istintivo i precetti, assimilandoli senza sforzo.
Anche nelle fiabe attuali, quelle dei libriccini cartonati in vendita negli scaffali degli autogrill, ahimè sempre più zuccherati ed attenuati, la parola più ricorrente è PAURA. Esorcizzare i terrori infantili, e vincere l’ansia da prestazione dei bambini, sembra essere lo scopo principale del mondo fiabesco.
Per concludere, ricordiamo che un’operazione simile a quella dei fratelli Grimm è stata compiuta dal nostro Italo Calvino nel 1956 con le fiabe della tradizione popolare italiana.
Milly Dandolo, "Il dono dell'Innocente"
Il dono dell'innnocente
di Milly Dandolo
Treves, Milano 1926
Se non fosse che il libro è ingiallito, picchiettato, slabbrato, se non fosse che l’edizione (Garzanti 1942) è una ristampa dell’originale per i tipi di Treves del 1926, direi che lo stile de Il dono dell’innocente, di MillY Dandolo, è simile a quello di molti autori contemporanei, sorprendentemente moderno per l’epoca, seppur influenzato dal clima decadente. Non è un caso se la Dandolo, oltre ad essere scrittrice per ragazzi - collaboratrice già a quattordici anni de Il giornalino, insieme al Vamba di Gian Burrasca - è stata anche traduttrice di capolavori stranieri. Si devono a lei versioni italiane e riadattamenti di Dickens, Maupassant, Katherine Mansfield, Bernardin de Saint Pierre, D. H. Lawrence e Barrie.
Milly Dandolo (1885 – 1946) nacque a Milano ma visse prevalentemente in Veneto, ambientando spesso i suoi romanzi a Venezia. Scrisse poesie, racconti per ragazzi e narrativa per adulti. Di natura inquieta e sensibile, i temi ricorrenti dei suoi scritti sono il dolore, collegato, come in questo caso, all’innocenza dei bambini, e il ruolo fondamentale della maternità per la donna. Sull’onda di un cattolicesimo ortodosso e manicheo, e di un imperativo fascista che voleva le donne mogli e fattrici, viene esaltato il sacrificio materno. La donna vive una condizione di sofferenza, di subalternità, che riesce a sopportare solo attraverso la dedizione e l’amore per i figli. De Amicis trascolora in ideologia.
Le donne della Dandolo non sono eroine ma vittime, incontrano uomini che le stuprano oppure le sposano senza amarle a sufficienza, senza comprenderne l’unicità, la sensibilità, il talento. Sviliscono la loro natura, le rendono sottilmente infelici, rassegnate, rinunciatarie, incapaci di trovare conforto nella fede. I loro compagni sono la fonte dalla loro sofferenza ma non vengono caratterizzati, restano incolori.
La Dandolo fa un passo indietro rispetto alla letteratura rosa di Liala e della Delly, si rifà al tardo ottocento, ad Ada Negri, ma, forse, anche a certe atmosfere irredente della Deledda, a certi crepuscolarismi alla Fogazzaro.
“La primavera aveva portato la gioia a tutte le creature del giardino e della campagna, anche alle più meschine. L’erba dei prati era spuntata, lucida e uguale, come una bella seta verde, ma anche i ciuffetti verdi tra le pietre dell’aia si drizzavano lietamente a bagnarsi nella stessa gioia di sole. Le piccole gocce di rugiada tremolavano sulle foglie dei gelsi, e poi cadevano sulle piccole erbe che hanno un nome solo per gli scienziati, e un sapore buono per le giovani galline che correvano qua e là, un po’ pazze e un po’ stupite.”
Lo stile de Il dono dell’innocente non è banale e sbrigativo, ci sembra che il narrare abbia un piglio attuale, una fretta moderna - come se Ada Negri avesse assunto l’ipersensibilità di Katherine Mansfield – e, allo stesso tempo, delle pause di un languore decadente, senza bagliori dannunziani, bensì con un afflato di ricerca spirituale che non trova pace nella religione ma è, piuttosto, scavo interiore.
La storia è semplice. Maria sposa Enrico, che può assicurarle un affetto tiepido, una passione trattenuta perché quasi considerata sconveniente, e una vita all’insegna del benessere. Va a vivere nella grande casa dove si aggira l’ombra burbera ma bonaria della vecchia zia di lui. Ha un figlio, Fausto, bambino dolce che la ricompensa della mancata gioia coniugale. Un giorno, però, incontra un vecchio amore, ora suonatore girovago, e si abbandona ad una serie di convegni clandestini notturni nel giardino della villa. Questi appuntamenti amorosi la appagano, non tanto dal punto di vista del sentimento, quanto di un rinnovato slancio vitale, di un rifiorire del corpo e dell’anima che stavano appassendo. Non è un caso se grande risalto è dato al contatto con la natura, all’impatto che essa ha sulla protagonista.
“Ad un tratto si accorse che i rami d’abete diventavano nitidi e sottili, quasi fragili, e che una luce bianca passava tra di loro, e bagnava l’aria e la terra, come una rugiada splendente. S’accorse che i grilli cantavano, con sommessa melodia, fitti e vicini, e qualche uccello invisibile rispondeva, ugualmente sommesso. Si sentì avvolgere da un odore misto, con bizzarra dolcezza, di spigo e di resina, di menta e di fieno.”
Viene il momento, però, che, come Anna Karenina, Maria è posta di fronte alla necessità di scegliere: l’amante le chiede di fuggire con lui. Lei non lo fa, troppo debole per affrontare una vita di stenti, troppo legata al figlio per abbandonarlo. Deluso, l’amante le promette che morirà per lei e, infatti, si lascia uccidere in una rissa fra ubriachi.
Il senso di colpa sommerge Maria, la porta al limite della follia. Per placarlo, confessa tutto al marito, sperando nel suo perdono. L’uomo reagisce con crudeltà, allontanando il bambino dalla madre, e comportandosi con lei con freddezza spietata.
“Forse”, pensa Maria, “se lui fosse meno buono saprebbe capirmi.” Ma Enrico “è buono”, e si arroga il diritto di punire e giudicare, è imbevuto di moralismo e sani principi, non sa perdonare e teme l’influenza della donna perduta sul figlio.
Quando Natale è alle porte, il piccolo Fausto, relegato presso una zia, non sopporta più la lontananza dalla madre. Fugge di nascosto per portarle in dono una rosa, il dono, appunto, dell’innocente.
Il bambino viene ritrovato febbricitante, il romanzo si chiude con i genitori al suo capezzale. Forse si salverà, forse no, non c’è dato sapere, l’importante è che il sacrificio umano sia compiuto. Solo l’innocenza monda dai peccati, solo “l’agnello” incolpevole riconcilia e purifica.
“Il piccolo Gesù era venuto, anche se nessuno aveva acceso la candelina rosea sul ramo d’abete. E nessuno di quelli che vegliavano il bambino malato, nessuno aveva mai sentito Gesù come in quella notte. Pareva anzi che lo vegliassero tutti insieme, e che udissero il suo respiro.”
Tinte forti d’inizio secolo, certamente, in questo romanzo dimenticato, ma anche un’ incredibile finezza psicologica a rappresentare turbamenti, sensi di colpa, mutamenti dell’animo.
Come eravamo: i fotoromanzi Lancio
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In principio fu il feuilleton, il taglio basso dei giornali ottocenteschi, romanzo popolare a puntate, destinato ad aumentare le vendite dei giornali. Poi, nel 1947, un certo Stefano Reda va in giro per le case editrici proponendo l’idea pazza e innovativa di un fumetto che abbia foto al posto dei disegni. Solo la piccola casa editrice Novissima, consociata con la Rizzoli, accetta. Esce Sogno, un giornale di sedici pagine. I soggetti sono di Reda e di Luciana Peverelli, scrittrice di romanzi rosa. Dopo poco anche Arnoldo Mondadori pubblica un albo di fotoromanzi dal titolo Bolero (film). A questi due va aggiunto il precedente Grand Hotel, i cui romanzi, però, erano solo disegnati.
Siamo nel secondo dopoguerra, le storie sono semplici e sentimentali, tante ragazze sognano e imparano a leggere. Le prime narrazioni sono sequenze di film famosi o adattamenti di romanzi della letteratura “alta”, come I Promessi Sposi di Manzoni, I miserabili di Victor Hugò, o, addirittura, della Bibbia. Col passare del tempo, i soggetti si moltiplicano e, a interpretare i fotoromanzi, sono chiamati personaggi dello spettacolo, come Raffaella Carrà, Giuliano Gemma, Sofia Loren.
Ma sarà la casa Lancio, dopo aver rilevato Sogno, a dare l’impulso maggiore al genere. Negli anni sessanta nascono le più importanti testate di questa editrice che diventa sinonimo di fotoromanzo: a Sogno si aggiungono Letizia, Charme, Marina, Kolossal e molte altre.
Il decennio di massimo splendore è quello degli anni 70. Si vendono cinque milioni di fotoromanzi il mese, quindici milioni di persone li leggono dal parrucchiere, nelle sale d’attesa dei medici, aspettando l’uscita in edicola o il prestito di un’amica.
Seppur lettura transgenerazionale, la categoria che più viene catturata è quella delle tredicenni. Inesperte di sentimenti e di sesso, tutte noi avevamo un’amica appena più smaliziata che ci passava pacchi di fotoromanzi usati, con le pagine arricciate, con i cuori disegnati a penna sulle foto degli attori più belli. Li accoglievamo a braccia tese come un bene prezioso, li tenevano nascosti nelle nostre camerette, perché madri e nonne storcevano il naso di fronte a quelle foto dove un uomo e una donna non sposati comparivano in un letto, distesi l’uno accanto all’altro, con un lenzuolo a coprirli fino alla gola. Ma l’immagine lasciava intuire - e sognare - più di tante esplicite e prolungate scene di sesso nelle nostre fiction odierne, naturale evoluzione del genere.
Espressione della narrativa popolare, sogno allo stato cartaceo e fotografico, i fotoromanzi avevano trame coinvolgenti, avventurose e ricche di sentimenti facili. Le protagoniste erano eroine belle, gentili, con le quali potevano identificarsi ragazze comuni. La loro felicità era insidiata da rivali cattive, dall'eleganza accigliata, sempre predilette da future suocere intriganti. Tutto si risolveva, il lieto fine era assicurato, i cattivi venivano puniti, gli innamorati si sposavano.
Ma, soprattutto, quelli che ci facevano impazzire erano i protagonisti maschili, attori di cui tutte noi appendevamo il poster alla parete. Primo fra tutti lui, l’icona, il bellissimo, la quintessenza della virilità: Franco Gasparri. Occhi verdi, capelli neri, spalle poderose, il fotoromanzo della sua vita s’interromperà a trentadue anni, per una caduta dalla moto che lo costringerà su una sedia a rotelle fino alla morte, avvenuta nel 99.
Gli anni settanta, dicevamo, segnano il boom del fotoromanzo, creando miti adorati dalle adolescenti italiane: Katiuscia, Michela Roc, Franco Dani, Paola Pitti, le sorelle Claudia e Francesca Rivelli (Ornella Muti).
Dal nostro paese, il genere del fotoromanzo si diffonde in tutto il mondo, fino all’America Latina e l’India.
Ma dopo l’apice, la decadenza. La lettura dei fotoromanzi scema nella seconda metà degli anni ottanta, soppiantata da altre forme d’intrattenimento popolare, dalle telenovelas alle fiction, e sono questi nuovi generi, da allora in poi, a dirci cosa e come dobbiamo sognare.
Henry Rider Haggard, ovvero chi viene prima di Wilbur Smith?

Le miniere di re Salomone
di Henry Rider Haggard
Donzelli editore, 2004
1^ edizione: 1985
pp. 230
€ 21, 80
Sappiamo tutti che Henry Rider Haggard (1856 – 1925) è considerato a pieno titolo, grazie al ciclo di Ayesha - in particolare al best seller She, ma anche a racconti gotico avventurosi come La signora di Blossome - il precursore del fantasy e della letteratura d’immaginazione, alla stregua di Lovecraft>, Poe, Verne e Stevenson.
Ma ci siamo mai chiesti chi c’era prima di Wilbur Smith, delle cacce, delle savane infuocate, delle lotte tribali fra zulu, del romanzo d’avventura per eccellenza? Ancora lui, Henry Rider Haggard, con la sua famosissima opera Le miniere di re Salomone, e il personaggio leggendario di Allan Quatermain.
Sia in She, che ne Le miniere di re Salomone, l’avventura trova il suo nucleo centrale nel rapporto con la natura selvaggia, incontaminata e vergine ma, soprattutto, nell’esplorazione e nella scoperta di mondi nascosti, “perduti”, in gran voga nel periodo vittoriano, ripresa da Kipling, Conan Doyle, Rice Burroughs, e amplificata in seguito da Hollywood (si pensi a film come Il mondo perduto: Jurassic Park). In Haggard si tratta di caverne, contenenti segreti e misteri rimasti sconosciuti ai più (come non pensare alle miniere di Moria?) fin troppo ovvi simboli di discesa nell’inconscio. Non stupisce che il ciclo di Ayesha abbia attirato l’attenzione di Freud e Jung.
I tòpoi della letteratura fantastica sono molti, come l’invecchiamento improvviso di Ayesha in She, che ci ricorda quello di Morgana in Excalibur, o lo Spirito della Fiamma che ci riporta alla scena finale di Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta. Anche qui è l’abuso di magia che corrompe e distrugge invece di vivificare e rafforzare. Altro topos è l’agnizione, con il riconoscimento di Umbopa /Ignosi come legittimo re dei Kukuana ne Le miniere di re Salomone.
Henry Rider Haggard nasce nei pressi di Norfolk, dove trascorre un‘infanzia poco felice a causa della salute malferma e delle difficoltà di apprendimento. Frequenta circoli parapsicologici e si convince di essere egli stesso dotato di facoltà straordinarie. Parte per il Natal dove verrà catturato dal fascino dell’Africa meridionale. Scrive Le miniere di re Salomone per dimostrare di saper inventare una storia alla pari con L’isola del tesoro di Stevenson, dopo che alcune sue novelle non hanno incontrato il successo da lui sperato. Il romanzo è dell’85 e diventa subito un best seller, seguito da She, nell’87.
Rider Haggard viaggia per il mondo, visita l’Egitto, come Wilbur Smith, e il Messico, traendo spunti per nuovi libri e imparando a confezionare velocemente romanzi d’intrattenimento e di successo. Il personaggio di Quatermain dà vita ad altre narrazioni, per la maggior parte inedite in italiano.
Quatermain, detto “Macumazahn”, colui che scruta nella notte, è il modello de “il grande cacciatore bianco”, non anticolonialista ma comunque giusto e buono con gli indigeni. Predatore infallibile ma non sanguinario, si definisce sempre “un uomo mite”, addirittura “un po’ vile”, e trova l’eccesso di massacro vagamente “nauseante.”
Haggard è un colonialista convinto, sente la supremazia bianca come indiscutibile e sono sgraditi per il nostro palato moderno certi suoi atteggiamenti di superiorità verso gli indigeni e certe scene di caccia che hanno la spietatezza di quelle di Hemingway senza averne la bellezza ma, almeno, senza il compiacimento cruento dell’autore di Verdi colline d’Africa.
Avventura, poca sottigliezza psicologica, nessun conflitto interiore, grandi scene di caccia e di guerra come si addice alla più tipica letteratura d’evasione. E, tuttavia, a tratti, è presente un’insolita riflessione filosofica sull’uomo, sul suo posto nel ciclo della vita e sulla sua caducità.
“Eppure l’uomo non muore finché il mondo, allo stesso tempo sua madre e sua tomba, resta. Il suo nome è certo dimenticato, ma il suo respiro agita ancora le cime dei pini sulle montagne, il suono delle sue parole riecheggia ancora nell’aria; i pensieri nati dalla sua mente li ereditiamo oggi; le sue passioni sono la nostra ragione di vita; le sue gioie e i suoi dolori sono nostri amici… la fine, dalla quale fuggiva atterrito, sarà di certo anche la nostra! Certo l’universo è pieno di spiriti, non velati spettri da cimitero, bensì gli inestinguibili e immortali elementi della vita, che, nati una volta, non possono mai morire.” (pag 143)
Da ricordare che il nostro Emilio Salgari pubblicò con lo pseudonimo di Enrico Bartolini un adattamento del romanzo, dal titolo Le caverne dei diamanti nel 1899. Memorabile anche il film del 1950 con Stewart Granger nei panni di Quatermain, e Debora Kerr, sebbene, a detta dello stesso narratore, “non c’è una sola sottana in tutta la storia.”
Come eravamo: il manuale delle giovani marmotte
Chi era bambino a cavallo fra gli anni sessanta e settanta non aveva Wikipedia o Google per informarsi. Imparava sui libri di scuola, che allora si chiamavano sussidiari, ascoltava le fiabe sonore, sfogliava I Quindici, leggeva i best seller nei compendi di Selezione da Reader’s Digest, e faceva ricerche scolastiche sulle enciclopedie a fascicoli (La Motta, Le Muse, Galileo) debitamente rilegate e in bella mostra nella libreria di ogni famiglia che intendesse elevarsi dal magma dell’ignoranza.
Ma c’era anche un’altra fonte d’informazione spicciola, piena di spunti originali, di fascino e di avventura: il mitico Manuale delle Giovani Marmotte, nell’edizione del 1969.
La Arnoldo Mondadori ha pubblicato dal 69 all’89 otto volumi, a cura di Elisa Penna (fumettista inventrice di Paperinik) e Mario Gentilini, con le illustrazioni di Giovan Battista Carpi. Nel 91 è uscito anche un Maxi Manuale con il meglio dei sei volumi.
Le giovani Marmotte, in inglese Junior Woodchucks, sono un gruppo scoutistico immaginato dalla Disney, di stanza a Paperopoli. Ne fanno parte i nipotini di Paperino e di zio Paperone, Qui, Quo e Qua (con i loro berretti alla Davy Crockett) e il capo denominato Gran Mogol.
Se il Manuale di Nonna Papera era pensato per le bambine e presentava gustose ricette, indimenticabile e universalmente apprezzato da maschi e femmine resta il manuale delle Giovani Marmotte. Nella finzione, esso era il compendio di tutto lo scibile conservato nella biblioteca di Alessandria, giunto fino a noi attraverso numerose peripezie che ne avevano arricchito il contenuto. Vi si trovavano nozioni di storia, geografia, sopravvivenza: dalla costruzione di un ponte, all’accensione di un fuoco, alle traduzioni in varie lingue di una stessa frase. Detto confidenzialmente l’Infallibile, era in dotazione, in formato tascabile, alle giovani marmotte che lo usavano per risolvere casi intricati.
Il manuale effettivo, quello stampato dalla Mondadori nel 69, aveva come protagonisti i personaggi della Disney e costituiva un aiuto pratico per ogni bambino. Possedeva un suo fascino didattico, fra codici segreti (come il leggendario Dada Urka), informazioni su come costruire un aquilone o un fischietto, spiegazioni sull’alfabeto Morse e sui principali nodi. Conteneva, però, anche suggerimenti concreti, con intento morale tipico dell’epoca, su come presentare la pagella ai genitori o non abusare del telefono. Era pensato per la vita all’aria aperta e insegnava il rispetto per la natura e gli animali.
Ci faceva sognare avventure più grandi di noi, parlando di civiltà scomparse, geroglifici e luoghi lontani, insegnava come fare cose con le mani (un po’ come il mitico volume numero 9 de I Quindici) suggerendo che, se ci fossimo trovati in difficoltà, abbandonati a noi stessi senza la presenza di un adulto – magari sperduti in un bosco privi di orientamento - avremmo avuto un sostegno nel libriccino, pronto e tascabile, capace di spiegare come risolvere da soli i problemi, trovando in noi stessi le risorse, attivando le nostre energie nascoste. Quelle stesse energie che altro non erano se non la forza per crescere e diventare, nel bene e nel male, ciò che siamo oggi.
In giro per il Molise con le fotografie di Flaviano Testa: Ferrazzano
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Inizierò a raccontare di Ferrazzano parlando del suo più illustre cittadino d’oltremare: Robert De Niro. Già perché è certificato che il luogo dal quale partirono i nonni paterni Giovanni Di Niro e Angiolina Mercurio alla fine del XIX secolo è proprio questo paese del Molise che ha assegnato all’attore la cittadinanza onoraria e lui ne è stato così grato da aver richiesto l’iscrizione nelle liste elettorali del Comune. Durante una puntata di “Domenica in”, qualche anno or sono, gli furono consegnate le chiavi del paese e, vedendo le fotografie dei luoghi, non poté nascondere una grande commozione. Il legame con le sue origini è così saldo che, scrivono i biografi, De Niro scambia la lingua italiana con il dialetto di Ferrazzano che sentiva parlare in casa sua dai nonni. In origine il cognome della famiglia era Di Niro, ma a causa di un errore di trascrizione dovuta probabilmente al fatto che in inglese la "e" si pronuncia "i", il cognome fu trasformato in De Niro.L’ associazione “C’era una volta Ferrazzano”, che ha sede in paese, ospita una rassegna di film dedicata all'attore che ogni anno viene invitato ma che non è mai riuscito a partecipare. Ha acconsentito però a registrare come protagonista un cortometraggio ispirato alle emigrazioni, girato a Ellis island, l’isolotto di New York che è stato per decenni il punto di approdo degli immigrati che, sbarcati negli Stati Uniti, vi venivano inviati in quarantena.
Negli ultimi anni si accostano nella rassegna cinematografica del “Ferrazzano Festival” anche i film del grande Totò, poiché anche lui vantava un’appartenenza ai luoghi. Il castello della famiglia Carafa, situato al centro del borgo, sarebbe stato in passato di proprietà dell’aristocratica famiglia De Curtis e l’attore rivendicava fra i suoi blasoni uno stemma situato appunto all’interno del castello.
Ora che abbiamo fatto un po’ di gossip, tanto di moda, passiamo a parlare di Ferrazzano, ridente paesino, di circa 3400 abitanti, che sorge in provincia di Campobasso. Borgo medievale costruito su una roccia, la pietra bianca è la caratteristica di tutti gli edifici, si è conservato architettonicamente quasi intatto per secoli con le case attaccate l'una all'altra, fra numerosi vicoli e tortuosi saliscendi.
Per la sua posizione dominante sulla vallata circostante è chiamato “la sentinella del Molise” o, più confidenzialmente, “lo spione”, poiché sembra guardare, scrutare, vigilare tutto il territorio, in realtà era punto di riferimento sicuro e preciso per il viandante.
Situato a pochi chilometri dal capoluogo, si affaccia su un’altura circondata da una fresca pineta da cui si gode un panorama che spazia dalla catena delle Mainarde a quella del Matese, fino alla Maiella, oltre che sulla città di Campobasso e, più o meno dalla stessa altitudine, (superiamo gli 800 metri sul livello del mare), guarda il castello Monforte, il monumento che domina il capoluogo molisano dal suo centro storico. Le due località sono collegate da una panoramica pista pedonale, un percorso “della salute” frequentato da tutti i cittadini.
Nella parte antica di Ferrazzano, dove diversi sono i portali con incisi stemmi, date e motti latini, si segnala la chiesa di Santa Maria Assunta, pare ricostruita nel XIII secolo su un preesistente edificio di culto risalente al 1005 e poi radicalmente trasformato nel XVIII secolo; alla seconda fase costruttiva si attribuiscono il notevole portale romanico, la lunetta sul battistero e lo splendido ambone all’interno, dove si può ammirare anche un pulpito del 1200 di scuola pugliese.
Altro edificio di pregio è il quattrocentesco castello summenzionato, appartenente alla famiglia Carafa, che presenta evidenti tracce di successivi interventi. Nell’Antiquarium sono conservati, fra gli altri, sculture e frammenti architettonici, antiche testimonianze della storia ferrazanese e del suo territorio.
Al termine della salita che porta al centro del paese vi è un magnifico belvedere da cui si gode uno splendido panorama e da cui si affacciava Luigi Antonio Trofa, poeta e narratore molisano, che già nel 1928 pubblicò RIME ALLEGRE, "Scorribanda scapigliata nella politica, nell'arte e nelle varie manifestazioni di vita locale".
Ferrazzano è un paese ricco di antiche tradizioni, non ultima quella dei suonatori di mandolino, della lavorazione del tombolo, un pizzo fatto a mano con il sapiente intreccio di appositi ferri, in paese vi è una scuola permanente che insegna a conservare questa antica tradizione. Inoltre è presente da qualche anno l’ Associazione folcloristica “lu Passarielle” che, con costumi d’epoca, canti e balli tipici, porta a conoscenza del pubblico molisano, e non solo, i balli e i canti di antica tradizione, come “il ballo dell’aia”, una specie di saltarello che riscuote grande successo di pubblico e di adesioni ai corsi.
Ferrazzano ospita uno dei più piccoli e bei teatri italiani, il teatro del Loto (libero opificio teatrale occidentale) il cui direttore artistico e fondatore è Stefano Sabelli, attore molisano che lasciò la sua terra a 18 anni per frequentare l’accademia di arte drammatica. Ritornando nel suo paese si è proposto come scopo, attraverso il teatro, la missione di far approdare nella incantevole cornice ferrazzanese culture di tutto il mondo e di offrire ai giovani una nuova possibilità di crescita con la scuola propedeutica di arte scenica.
La campagna circostante è ricca di zone rurali e gli abitanti amano conservare la loro identità culturale. L’economia di un paese costruito con testardaggine su una roccia, pietra su pietra, non poteva essere che l’agricoltura alla cui quotidiana fatica ha dedicato intere esistenze di generazione in generazione.
È attiva sul territorio l’associazione “Arca Sannita” che si adopera per recuperare il patrimonio arboreo autoctono del Molise e, un po’ come l’arca di Noè, ha salvato dall’estinzione semi di piante oramai quasi scomparse, di frutti, legumi e cereali: antiche piante di fico e ulivo, peri e meli. In Molise oggi, grazie a questa attività, ci sono 70 tipi diversi di pere e 90 di mele.
Ricca di sapori conseguentemente è la gastronomia di Ferrazzano, da ricordare la produzione di insaccati, più famosa la soppressata, di latticini, con caseifici che lavorano latte di produzione del luogo e la cui specialità è la pasta filata, quindi mozzarella e cacio cavallo. Piatti tipici sono pizza e minestra, alimento molto povero, fondamentale nell’antichità, a base di granturco, fagioli con le cotiche, pasta e ceci rigorosamente cucinati con pasta fatta in casa. Sugo con le tracchiole (costolette di maiale) per condire i famosi cavatelli molisani. La colazione dei contadini era la ciambotta a base di peperoni, pomodori e salsiccia, trippa cace e ova, cipolle arracanate, che sono cipolle gratinate con mollica di pane, rustico a base di formaggio “lu caciatiello”, e poi i dolci come le famose ferratelle, le pastarelle, i pepatelli e le zeppole, il tutto bagnato da un buon vino locale la tintilia di uva nera.
Franca Poli
Chiara De Luca, "Alfabeto dell'invisibile"
Chiara De Luca
Alfabeto dell’invisibile
Samuele Editore – Pag. 150 - Euro 12
www.samueleeditore.it – info@samueleeditore.it
Chiara De Luca è traduttrice, poetessa, scrittrice, manda avanti una casa editrice di traduzioni letterarie come Kolibris, l’ottima rivista Iris, su traduzione poetica, bilinguismo e letteratura di migrazione. Tutti argomenti che mi sono cari, visto il mio rapporto ventennale con la letteratura cubana della diaspora (e non solo).
Alfabeto dell’invisibile è una raccolta divisa in quattro sezioni così diverse tra loro da farle apparire come libri autonomi: Ritorno, Stazioni, Volti e Mare. Filo conduttore è il ripercorrere le antiche strade, tornare sui propri passi che ti ha già visto ad occhi bassi, - come canta Guccini -, immergersi nella nostalgia proustiana del tempo perduto. Temi a me carissimi, ci ho scritto due romanzi su questa cosa del tempo che passa e nasconde i sapori (Calcio e acciaio e Miracolo a Piombino), va da sé che tocchi le corde della mia sensibilità trovare identiche ispirazioni nelle liriche di Chiara De Luca.
La poesia - quando è vera poesia, non una serie di frasi con degli a capo messi a casaccio - è il modo migliore per trasmettere sensazioni ed emozioni, scava nelle ferite della vita, non ha bisogno d’inventarsi trame per raggiungere lo scopo. Leggi i versi di Chiara De Luca e ti cali nei panni della donna che rivede con nostalgia le strade della città natale dopo aver vagato a lungo per il mondo. Ferrara, piovosa e nebbiosa, malinconica come il cuore del poeta - perché piove sulla città come piove nel suo cuore -, è specchio di ogni nostalgia e di ogni ritorno. Viene a mente L’ora di Barga di pascoliana memoria e quel cantuccio d’ombra romita dove piangere sulla mia vita, leggendo tutta la prima parte, composta di poesie musicali, costruite con rime classiche.
Tra i temi portanti non solo il ritorno, ma anche l’incomunicabilità, la solitudine, la difficoltà ad accettare la realtà dopo troppi sogni, la difficile vita di un artista alle prese con il quotidiano. Aver bisogno di un amico che ti chiami, o di uno sconosciuto che ti venga a cercare, non perché ha bisogno di te ma soltanto per amore. E poi ricordi di volti sofferenti, di uomini e donne che non ci sono più, di malattie atroci, di nonne che tornano dal passato, di una madre onnipresente. Chiara chiude con il mare, così lontano dalla sua Ferrara, ma così vicino a un cuore di poetessa innamorata di versi e silenzi, di rime e assonanze. Non siamo nati per avere sempre/ le stesse foglie ampie sulle spalle,/ ma per spiovere l’acqua dei giorni/ in tempeste che scemano ricordi. Ricordi e rimpianti. Si cambia, dice il poeta in uno dei suoi versi più felici, ma se vivere di ricordi fa morire in fretta, vivere con i ricordi è bellissimo, ti fa fremere il cuore d’una struggente nostalgia.
Termino estasiato la lettura di un libro che d’ora in poi terrò in biblioteca tra le cose più care, perché quando incontri la vera poesia non puoi abbandonarla. Volo, Moccia, Mazzantini, le scrittrici erotiche a caccia di successo a base d’improbabili sfumature e tutta l’inutile letteratura italiana smerciata nei supermercati la cedo in blocco ai recensori paludati che pontificano dalle tribune di Rai Tre. Preferisco pensare e meditare la profondità di liriche struggenti. E per invitarvi a condividere vi lascio con un assaggio poetico.
NIDO
Tu che hai sempre avuto il cielo
della tua città natale a raccontarti
se solo alzavi gli occhi per guardarti
ti chiedi perché mai ho smesso di viaggiare
– oppure di collezionare case e strade,
stanze, assenze, piazze e conoscenze
e il futuro bianco di non avere un forse
questo è il posto giusto per planare –
ti pare certo sia rinuncia al volo
stringermi attorno le ali per restare,
se è vero che mi mancano le storie
raccolte sul muretto alla stazione,
i posti che un istante ho nominato
miei quando già erano sgusciati
fuori dall’oblò del finestrino
mentre il regionale proseguiva
incerto la sua corsa verso la deriva,
perfino quelle notti sui binari
contando e ricontando i passi per tenermi
dall’impietrire solitaria nella neve - - -
Ma vedi anche gli uccelli migratori
se volano è per fame o per cercare
un nido sconosciuto cui tornare;
io qui ho portato la paglia dei miei giorni
il fango delle fughe, le foglie degli affanni,
uno dopo l’altro i ramoscelli dei ricordi
piume rapprese dall’acqua degli sguardi
Donne eterni dei
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“È scabroso le donne sfidar, se vogliamo sappiamo come far noi sapremo trionfar. Donne donne eterni dei li sapremo umiliar, li vedremo arrivar, sulle ginocchia strisciar, il perdono pregar e la colpa scontar e ciascuno di loro ammetter dovrà che ciascuna di noi è una divinità.”
Da sempre sono sensibile ai problemi che riguardano il nostro mondo e la condizione femminile in generale. Al termine parità dei sessi, preferisco la parola rispetto della donna, la parità intesa come diritti è stata raggiunta in tutti i paesi moderni, almeno sulla carta, anche se permangono evidenti discriminazioni in campo lavorativo e nell’ambito familiare. La donna non è ancora libera e men che meno è rispettata per la sua femminilità, oggi come ieri rimane schiava dell’uomo e dei miti che lo condizionano e, spesso, ne è vittima proprio per la sua specificità di genere. Solo in apparenza dunque il secolo appena concluso ha portato un maggiore riguardo alla figura femminile: alla donna sono state riconosciute l’anima e il diritto di voto, almeno nel mondo occidentale, ma a ben guardare, nel corso dei secoli la storia dell’appartenenza al mondo femminile ha avuto la tendenza inversa allo sviluppo di tutti gli altri argomenti.
Anticamente, si evince dai ritrovamenti archeologici del periodo paleolitico, e dagli affreschi delle civiltà cretese ed egiziana, vi era maggiore considerazione per le forme e le funzioni della donna di quanta ve ne sia stata successivamente. In seguito si passò a un rifiuto o disconoscimento del corpo femminile che l’Islam, ancora oggi, vuole occultato dal burqa, essendo solo un oggetto da vendere, comprare o ereditare, e che la civiltà occidentale, al contrario, tende a sfruttare e mercificare a fini commerciali o pornografici. Nelle società più antiche la donna godeva di una grande considerazione proprio per la sua facoltà di procreare, si pensi al mito della Grande Madre, divinità femminile primordiale, rappresentativa della fecondità. E non vi era una significativa differenza tra maschio e femmina. Nelle prime grandi civiltà urbane dei sumeri e dei babilonesi la donna poteva disporre dei propri beni, stipulare contratti, fare testamento e anche la prostituzione era considerata sacra. Nella civiltà romana, in età imperiale, le donne di condizione elevata usufruivano di una certa indipendenza, ma fu con l’avvento del Cristianesimo, nel tardo impero, che le matrone romane persero definitivamente i diritti di cui ancora godevano. Il cristianesimo, con il Vecchio Testamento inserito nella Bibbia, conservò e applicò le sue radici ebraiche che prevedevano per le donne un ruolo esclusivamente subalterno e sottomesso all’uomo, conseguentemente anche alle cristiane non venne mai riconosciuta una dignità tale da conferire loro autorità e autonomia.
L’ossessione su valori morali come la castità, il candore, la pudicizia e la condanna di comportamenti giudicati corrotti e degeneri, relegarono la donna nel chiuso della casa, all’esclusivo ruolo di figlia, moglie e madre, sotto l’oppressivo controllo del padre prima e del marito poi. In generale, dunque, nella storia le donne hanno subito in crescendo la condizione di inferiorità rispetto agli uomini e per questo sono state oggetto di violenza, umiliazioni e soprusi. Il corpo della donna visto come una tentazione continua del demonio portò a una vera persecuzione, “la caccia alle streghe”, nel medio Evo e i padri della Chiesa da Sant’Agostino a Tommaso d’Aquino bollarono definitivamente l’atto di concedersi fuori dal sacro vincolo del matrimonio come il più immondo dei peccati. Nel corso di tutta la storia della Chiesa, le donne sono state considerate esseri inferiori per natura e per legge.
La femminilità, cioè quell’insieme di caratteristiche fisiche e psichiche che distinguono la donna dall’uomo, è stata condizionata dalla storia e, di conseguenza, i comportamenti sono stati giudicati secondo il metro prestabilito da una specifica civiltà. Ogni cultura ha determinato ruoli, stereotipi e pregiudizi. Le donne dunque collocate sempre ai margini hanno spesso dovuto o voluto usare la loro femminilità per emergere, per ottenere favori. Per sopravvivere, per avere ciò che volevano, o semplicemente per esprimere la propria femminilità, le donne hanno imparato a “pro statuere”, a “mettere in mostra” ciò che l’uomo da sempre desidera, cioè a prostituirsi nel senso pieno del significato che oggi noi diamo al termine.
In una considerazione finale si può affermare che, nonostante le battaglie e le vittorie del cosiddetto femminismo, la sessualità, l’erotismo, continuino a essere quelli degli uomini. Il desiderio maschile è scoperto, naturale, spontaneo, quasi ingenuo, mentre il desiderio femminile, quello, è valutato in ogni sua espressione, continua a essere sottoposto a controllo e a giudizio e non si esibisce. Siamo ancora molto lontani dal rispetto vero nei confronti del corpo femminile, che dovrebbe essere vissuto e considerato con tutta la naturalezza che esso richiede e per cui è predisposto.
Roberto Cortelli, "Scusate ... se usa e consuma"
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Scusate
… se “usa e consuma”
Roberto Cortelli
Libro autoprodotto, 2015
pp 135
14,50
Questo saggio non ha titolo, si fa riconoscere attraverso un codice isbn. È parte conclusiva di una trilogia, che comprende anche Il mio continuo divenire e Omniverso, e che l’autore stesso definisce “una trilogia di pensieri, considerazioni, opinioni, confronti, speranze, opportunità”.
Il mio commento, scritto da persona che egli definirebbe “il solito mentecatto”, non vuole e non può entrare nel merito dell’esattezza delle teorie divulgate, può solo cercare di riassumerle. La parte con la quale anch’io concordo, perché rispecchia la mia stessa filosofia, è che non conta il singolo, e nemmeno la specie, quanto, piuttosto, LA VITA in sé, che si rinnova e non finisce mai. Cortelli ci aggiunge una forza aggregante, cioè L’AMORE, capace di unire e produrre cooperazione.
In un’utopica società futura verrebbero a cadere gli egoismi e il senso distorto del sé, in favore della collaborazione fra cellule per la salute dell’organismo intero, definito “sistema di Complessitudine.” Non esisterebbero più nazioni, confini, proprietà e le risorse sarebbero a disposizione di tutti, senza più guerre, inquinamenti, malattie. Affinché questo possa avvenire, però, ognuno deve fare la sua parte in prima persona, è solo attraverso la consapevolezza, e il comportamento retto del singolo, che può innescarsi il cambiamento planetario di cui dovranno farsi carico soprattutto le generazioni future. E il primo passo è l’astensione volontaria individuale dall’acquisto di prodotti commercializzati da chi non ha a cuore la salute dell’ambiente ma solo il proprio profitto economico.
“Fate quella scelta individuale che moltiplicata per l’INSIEME di tutti gli individui del pianeta spazza via il sistema del profitto, delle multinazionali, delle lobby, di ricchi e poveri, di padroni ed operai, di regnanti e sudditi. Il pianeta intero è di chi lo abita ed è qui, adesso, da sempre e per sempre per NOI. TUTTI! Il pianeta non ha confini geografici e politici se non sugli atlanti creati dall’uomo.” (pag 65)
Sono le multinazionali del profitto a manipolare le informazioni, ad operare una sorta di ipnosi collettiva per mantenerci in sudditanza. Occorre ritrovare il BUON SENSO.
“BUON SENSO che ogni essere umano possiede in Natura al momento del proprio concepimento. Quel BUON SENSO libero da condizionamenti culturali, religiosi e politici attaccati sempre e comunque a qualsiasi cosa impermalente, quel BUON SENSO che permette alle cellule, TUTTE, di cooperare nella VITA” (pag 66)
Questa la base complessiva del libro, su cui s’innestano informazioni di ogni genere, mescolate in modo poco organico: dal complottismo più tradizionale (sono le case farmaceutiche a provocare le epidemie, gli americani non sono mai stati sulla luna, i vaccini fanno male etc) a un’infinità di dati che Cortelli ha analizzato, letto e assimilato da autodidatta, e poi trasferito senza svilupparli e collegarli, così che, proprio lui che odia i social network, finisce per scrivere un trattato simile ad una sere di post facebookiani, con tanto di citazioni fra le più diffuse in rete. Gli si riconoscono senz’altro un profondo interesse per la materia e molta erudizione in merito, ma il risultato non è omogeneo. Insomma, Cortelli mescola tutto quello che ha letto e studiato, in dieci ridondanti capitoli che somigliano più ad appunti e riflessioni messi l’uno accanto all’altro, che non a un insieme strutturato: una via di mezzo fra il manuale di auto aiuto all’americana, La profezia di Celestino, il saggio di denuncia sul tipo de La casta, e una filosofia personale. L’autore, infatti, dichiaratamente, non si riconosce in nessun sistema di pensiero, né filosofico né religioso, e non vuole esservi ricondotto. I frammenti forse più gradevoli sono le poesie scritte per il figlio. È stata la paternità, infatti, a convincere l’autore del bisogno di fare qualcosa per il futuro del mondo e per le nuove generazioni.
Mi piace concludere citando un brano che condivido e che mi ha colpito.
“voglio ricordare che per qualsiasi attività riconosciuta da questo tipo di società, autodefinitasi civile, sono necessari degli studi (…), degli esami, delle prove di abilità… … mentre per essere genitori, quindi tutelanti per quelle nuove vita, è sufficiente la capacità biologica riproduttiva. Questa società, questo sistema, dà più importanza al guidare un ciclomotore, un’automobile… … piuttosto che al procreare e educare una nuova vita!” (pag 86)
Per quanto riguarda lo stile, infine, il testo necessiterebbe di un sostanzioso editing, poiché presenta molti errori, un lessico a volte fantasioso ed un utilizzo troppo esclusivo della punteggiatura.
Vecchie glorie
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È domenica e, come ogni domenica, la televisione monopolizzata da mio marito trasmette soltanto partite di calcio che io non disdegno, ma al terzo incontro consecutivo mi arrendo e trovo un libro che parla di vecchie glorie, quindi, restando in tema, mi appassiono alla storia di un campione di altri tempi.
Giuseppe Meazza, a cui oggi è intestato lo stadio di Milano, era un calciatore della nazionale e, con il ruolo di attaccante, vinse due coppe del mondo nel 1934 e nel 1938. Giocò sia nel Milan che nell'Inter e ancora oggi è il quarto marcatore di sempre della serie A con 216 reti al suo attivo.
Un grande calciatore, estroso, con uno stile inconfondibile che lo rese famoso. Il goal alla Meazza era frutto di un'abilità che beffava l'avversario: con uno scatto fulmineo superava i terzini, correva verso la porta costringendo il portiere a uscire e poi lo castigava appena si muoveva e infilava il pallone in un angolo sfiorando il palo.
Giuseppe Meazza era nato a Milano il 23 agosto 1910, soprannominato “Peppin” da amici e parenti, era un ragazzo che veniva dal popolo, orfano di padre caduto al fronte durante la Prima guerra mondiale quando lui aveva solo sette anni, viveva con la madre, fruttivendola al mercato di Milano. Fin da piccolo la sua grande passione era correre dietro a una palla, appena poteva sgattaiolava fuori casa inseguendo un pallone di stracci a piedi nudi perché la mamma, per impedirgli di uscire, gli nascondeva le scarpe. Fu scoperto per caso, proprio mentre giocava coi coetanei negli spiazzi erbosi di porta Vittoria, dallo zio di un compagno che faceva l'osservatore per l'Inter e gli organizzò un provino. Esordì in serie A che non aveva ancora 19 anni, un autentico campione, e a 20 era già un nazionale.
Con la maglia dell'Italia giocò 53 partite, segnando 33 goal. Era nato per giocare a calcio, un talento naturale puro, di quelli che nascono una volta ogni cento anni, un autentico fuoriclasse, che fu ammirato in tutto il mondo, mago del palleggio e della finta. Segnava sempre, di testa, con calcio piazzato, in corsa tirava bolidi imparabili, resta negli annali del calcio la sua rete fatta su rigore mentre durante la rincorsa si reggeva con le mani i pantaloncini cui si era sfilato l'elastico. Vittorio Pozzo, commissario tecnico della nazionale, dopo la partita con l'Austria dove aveva assistito a una straordinaria prestazione del giovane campione disse: “Averlo in squadra significa partire da uno a zero!”
Meazza era anche un ragazzo affascinante, i capelli sempre lucidi di brillantina, fuori dallo stadio era un dongiovanni, continuamente in cerca di avventure, grande ballerino di tango, si presentava con un fiore all'occhiello ed era capace di danzare tutta la notte, passare qualche ora con una ragazza e poi presentarsi allo stadio e segnare due goal. Non aveva propriamente quello che si dice un fisico da atleta, anche perché conduceva una vita sregolata, si perdeva volentieri in serate di divertimento, locali notturni, bordelli di lusso e coltivava vizi: alcool e sigarette, belle macchine e belle donne cambiate con incredibile frequenza, ma aveva anche un grande cuore e coi soldi guadagnati effettuava volentieri donazioni alle opere assistenziali. L'Italia, durante il mondiale del 1938, nei quarti di finale si trovò di fronte la Francia, la gara si disputava a Parigi e i padroni di casa decisero di giocare con la maglia azzurra, così all'Italia non restava che scegliere tra il bianco o il rosso, colore provocatoriamente proposto dai francesi, ma gli azzurri giocarono con la maglia nera e col fascio littorio sul petto.
Orgogliosamente vinsero la partita, disputando uno dei migliori incontri del campionato e liquidando i galletti francesi con un sonoro tre a uno. Passarono in finale battendo il Brasile e si trovarono di fronte l'Ungheria. I magiari dovevano riscattare il pessimo risultato di qualche anno prima, ma il “Balilla”, come lo aveva soprannominato il suo pubblico, era ancora lì, in campo, pronto, con la fascia di capitano al braccio e non lo avrebbe consentito. Fu una partita bellissima ma senza storia: l'Italia alzò la coppa del mondo per la seconda volta consecutiva. Dopo queste due esaltanti vittorie, abbiamo atteso fino al 1982 prima di vincere un'altra volta
Dopo la guerra, Meazza fece l'allenatore, ma non con lo stesso successo professionale, la classe non si può insegnare, il talento non si trasmette dalla panchina e l'unico vero risultato che ebbe quando era il mister dell'Inter fu quello di far firmare il contratto a un giovane ragazzo, anch'egli orfano di padre, che divenne il suo erede nel cuore degli interisti, si chiamava Sandro Mazzola.
Giuseppe Meazza morì per un male incurabile il 21 agosto del 1979, mancavano due giorni e avrebbe compiuto 69 anni. Lasciò orfani milioni di italiani che lo avevano amato, seguito, imitato, perché come disse Bill Shankly, grande campione scozzese, “Alcuni credono che il calcio sia una questione di vita o di morte. Non sono d’accordo. Il calcio è molto, molto di più.”