Il teatro Goldoni
Il teatro Goldoni di Livorno nasce nella prima metà dell'ottocento, durante il governo dei Lorena. L'architetto che lo idea, Giuseppe Cappellini, è improntato allo stile neoclassico. Occorrono quattro anni di lavori e il primo nome che viene imposto è "Imperiale e Regio Teatro Leopoldo" in onore del granduca Pietro Leopoldo II°. Ha una cupola luminosa in cristallo che permette anche spettacoli diurni e persino circensi, cupola che si colloca nella storia dell'architettura in vetro e ferro. L'opera viene inaugurata il 24 luglio 1847.
Gli inizi non sono facili perché la concorrenza è troppa da parte del teatro Avvalorati, del San Marco, del Rossini e poi del Politeama. Nel corso degli anni la struttura conosce alti e bassi, degradi e rinascite, nonché alcuni passaggi di proprietà. Solo nel 1860 assume il nome definitivo di "Regio Teatro Goldoni". Nel 1890 tocca il suo apice con la rappresentazione di Cavalleria Rusticana di Mascagni che attira molte personalità dell'epoca.
Durante la seconda guerra mondiale è requisito dagli alleati per organizzarvi rappresentazioni, fra le quali la più famosa è quella che vede protagonista Frank Sinatra.
Sopravvissuto ai bombardamenti, è poi dichiarato inagibile a metà degli anni ottanta e infine espropriato nel 90. Ora è patrimonio del Comune e custodisce al suo interno anche alcuni cimeli di Mascagni.
Il Goldoni ha ospitato, e continua a ospitare, grandi cantanti, compositori e attori delle migliori compagnie: Galliano Masini, Pietro Mascagni, Enrico Caruso, Beniamino Gigli, Mario del Monaco, Eleonora Duse, Ermete Zacconi, Paolo Stoppa, Enrico Maria Salerno, Giulio Bosetti. Vi sono state rappresentate opere di Verdi e di Puccini: Macbeth, la Boheme, Manon Lescaut, Tosca, Madame Butterfly. Ha accolto anche le prime proiezioni cinematografiche.
Nel 1920/21 è stato sede del congresso socialista da cui si è staccata la minoranza che, abbandonando il Goldoni per il teatro San Marco, ha poi dato vita al partito comunista.
Reportage: Yucatan, un viaggio nel mondo dei Maya e a Cancun che non è solo uno splendido mare. Parte prima
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UN VIAGGIO IN MESSICO NON MERITA SOLO NUOTATE NEL MARE CRISTALLINO, MA UN’IMMERSIONE IN UNA CULTURA E UNA RICCHEZZA RISCONTRABILE NEI SUOI SITI ARCHEOLOGICI, NELLE CITTÀ COLONIALI E NELLA SAPORITA CUCINA.
Arrivarono gli spagnoli e, fattisi prendere dall’ingordigia dell’oro dei Maya, distrussero una civiltà – per molti versi a noi ancora sconosciuta – che, per fortuna, ci ha lasciato testimonianze dell’antico splendore di un paese e di una popolazione gentile che è sopravvissuta al genocidio.
Ed eccolo il Messico, un insieme di colori, di suoni, di odori con gli spettacolari monumenti in pietra ma anche con i pittoreschi paesini e cittadine dove sia gli Indios (gli antichi discendenti dei Maya) che i messicani di origine spagnola, comprano e vendono con la stessa secolare pazienza.
Un paese affascinante, e per noi europei ancora un po’ sconosciuto, ricco di un passato pieno di leggende.
Un paese antico e moderno contemporaneamente, dalle molteplici e incredibili sfaccettature.
Le origini del popolo messicano sono tuttora in parte sconosciute. Probabilmente i primi Indios arrivarono 25 mila anni fa dall’Asia ed erano per la maggior parte pastori. Una volta che si stabilirono nel paese, da nomadi divennero stanziali e diedero vita a numerose e superbe civiltà, che ancora oggi meravigliano il mondo.
La prima impressione che si ha, appena si arriva nel paese, cattura la vista e il cuore. Il Messico brilla di vita propria, ricca com’è delle sue bellezze naturali. Il mare cristallino, la sabbia bianca, la flora esuberante, la cortesia degli abitanti, le Haciendas, le coltivazioni di agave per ricavarne la juta e la tequila, una vegetazione lussureggiate e una flora anche autoctona.
Di volta in volta, il paese mostrerà le sue tante facce: quella coloniale, quella Maya e Atzeca, quella moderna con i grandi alberghi delle città marine e le ingegnose attività istituite allo scopo di divertire il turista e lasciare un’impronta indelebile nella sua mente.
CANCUN, MARE MA ANCHE TANTO ALTRO…
Iniziamo da questa città balneare che ha un po’ un’impronta americana per i grandi alberghi costruiti nei pressi del lungomare. Begli alberghi che offrono al turista tutto ciò di cui necessità.
Dai tanti ristoranti alle originali piscine, dalle larghe e candide spiagge a stanze confortevoli. Non manca l’animazione, sempre più gradita ad ogni turista, ma proposta in modo soft così da non infastidire chi cerca solo il relax, così come non manca la discoteca per chi ama trascorrere le serate ascoltando musica o ballando.
Anche a Cancun molti alberghi hanno adottato la formula “All Inclusive”, e gli ospiti possono bere ogni bevanda ad ogni ora del giorno e quando lo desiderano. Ormai è diventato d’obbligo avere all’interno una SPA, e la maggior parte degli hotel ne ha con personale professionale così come le palestre attrezzatissime.
Da Cancun, per chi non ama stare sempre a prendere il sole sulla bianchissima spiaggia o nuotare nel mare di un azzurro dalle tante gradazioni, è possibile effettuare escursioni e allora come non trascorrere una mezza giornata a bordo di una barca che porta i turisti ad effettuare lo snorkeling o il diving sulla bella barriera corallina ricca di pesci coloratissimi e di un museo sottomarino unico al mondo?
E’ AquaWorld, un centro acquatico dove è possibile divertirsi con ogni tipo di sport marino come il Flyboard, l’Hoverboard e lo Waverunners, lo Skyrider, la pesca d’altura o fare il bagno in mezzo ai delfini.
Ma non è finita, ci sono anche l’Underwater Scooter, il Jungle tour, il Paradise Reef Adventure che, per mezzo di un sottomarino con i vetri, permette di osservare il coloratissimo reef.
Ma torniamo al Musa, l’Underwater Museum of Art, dove è possibile vedere più di 400 sculture poste sott’acqua allo scopo anche di incrementare la nascita dei pesci che qui possono trovare un ambiente protetto. AquaWorld è adatto sia per gli adulti che per i bambini.
E poi… cos’altro fare a Cancun, oltre alla vita classica di mare? Sicuramente, stando nello Yucatan, non può mancare una visita ad uno dei “cenotes”, perché è solo qui che si possono trovare. Fra i più importanti c’è “Los Cenotes de Cuzama”. Ma cosa sono i cenotes e perché si trovano solo in questa parte del Messico?
Sono realmente dei grandi pozzi carsici che in origine erano delle grandi cisterne d’acqua, utilissime ai Maya in quanto i cenotes costituirono l’unica possibilità di approvvigionamento di acqua dolce tanto da diventare spesso luoghi di culto delle divinità sotterranee.
Alcuni si sono formati in seguito al crollo della volta di una galleria sotterranea, altri, invece, poiché il terreno è calcareo, è franato e le falde acquifere li hanno invasi formando una specie di piccolo lago dove è possibile fare il bagno. Alcuni hanno le acque trasparenti e di colore blu, con i pipistrelli che volteggiano in alto sotto la volta.
Quelli totalmente scoperti si prestano a dei tuffi da effettuare aggrappandosi ad una appiglio di ferro che scorre su una fune d’acciaio. E’ divertente farlo e poi nuotare oppure osservare bambini e adulti che si divertono veramente tanto.
E sempre in tema di divertimento, vicino Cancun è possibile trascorrere una serata in allegria, mangiando e ballando su barche molto particolari.
E’ Xoximilco Park, una intelligente attrazione per i turisti e per gli stessi messicani che vogliono trascorrere una allegra serata messicana a bordo di colorate, illuminate e pittoresche barche che scivolano dolcemente in mezzo ai canali accompagnati dalle musiche e canti dei Mariaci e altre musiche tradizionali.
La cena è a base di cibi tipicamente locali, accompagnati da tequila e altre bevande.
Un’autentica immersione nella contagiosa vivacità e gaiezza dell’anima messicana.
Ma per chi ama avventurarsi in qualcosa di più “emozionante”, la Selvatica è il luogo ideale. Qui, un luogo in cui la naturalezza la fa da padrona, l’adrenalina è pura, così come il divertimento diventa eccitazione praticando lo Zip Line in mezzo alla foresta.
Non si può non provare la sensazione di “volare” sopra la jungla, imbragati in totale sicurezza, e osservare gli alti alberi che sono sotto di noi.
Tre ore di grande divertimento andando da un punto all’altro tramite un sistema di cavi d’acciaio e piattaforme che servono a far andare sempre più in alto e a consentire di fare un minimo di sosta dopo aver raggiunto uno dei tanti punti di arrivo.
Le cosiddette linee sono di varie lunghezze e altezze e si può stare in varie posizioni: da quella seduta a quella sdraiata per finire con quella, a mio avviso più divertente, a testa in giù. In questa specie di oasi, gli amanti dell’avventura potranno anche avere un’immersione nella natura rigogliosa del luogo.
UXMAL, CHE MERAVIGLIA!
I Maya, indiscussi protagonisti della più splendida civiltà precolombiana, furono fra le ultime popolazioni indigene ad essere sottomesse agli spagnoli. Fra il settimo e il nono secolo della nostra era, fiorirono i grandi centri che ancora oggi ammiriamo. Erano città superbe con un’architettura grandiosa ed hanno resistito al tempo giungendo a noi in ottime condizioni.
Se dovessimo giudicare dai resti dobbiamo dire che i Maya avevano uno spiccato senso estetico che resiste tutt’oggi nella pittura e nella scultura.
La vita religiosa era molto importante e pur essendo politeistica e molto legata ai fenomeni del mondo fisico, ammetteva l’esistenza di un essere superiore, dal quale derivavano le altre divinità. I Maya ci hanno lasciato un ricco tesoro di capolavori, di grande suggestione, che non mancano mai di suscitare ammirazione. Le rovine sono disseminate un po’ ovunque, e bisognerebbe tornare in Messico più volte per poterle vedere tutte. Ancora oggi, così come accade per le piramidi di Giza, in Egitto, è ancora un mistero come riuscissero a trasportare blocchi pesanti anche quaranta tonnellate.
Uxmal aveva venticinquemila abitanti ed era estesa in un territorio di 37,5 chilometri quadrati. Poiché non avevano molta acqua, costruirono molte cisterne (chutunes) e le loro costruzioni sono nel classico stile Puuc.
Molti dei monumenti che è possibile visitare ancora oggi, li dobbiamo alla “megalomania” del più celebre sovrano di Uxmal, Chaac, eretti nel periodo in cui la città era il principale centro politico yucateco. Poi, il predominio passò a Chichen Itzà, che si sviluppò maggiormente nei secoli successivi.
Uxmal è stata sotto la vegetazione per 500 anni fino a quando, nel 1842, un americano di nome Katerwood, la scoprì e fece i primi disegni dei templi. All’epoca si vedevano ancora i colori e gli intonaci che sono poi scomparsi.
Il principio di costruzione dei Maya era l’arco finto, che si regge su un architrave, e ad Uxmal si può notare e ammirare perché rimasto ancora intatto. La città è stata costruita 3 volte e, nonostante sia stato dichiarata dall’Unesco “Patrimonio dell’umanità”, il suo sito non è frequentatissimo come Chichen Itzà, nonostante sia uno dei più bei siti ancora esistenti.
Nelle costruzioni Puuc, il muro è sempre basso e liscio, senza decorazioni, ma le costruzioni hanno fregi, decorazioni e anche sculture a tutto tondo. Le porte sono sempre dispari e quella centrale è la più grande per dare simmetria ai palazzi. Ovunque, però, si trovano le maschere, che sono 260 giorni, che corrispondevano ai giorni dell’anno con 20 giorni al mese.
In mezzo alla vegetazione emergono le costruzioni, le larghe e alte scalinate e tante piccole iguane che qui hanno trovato il loro habitat ideale. Ci sono quattro complessi architettonici principali e il principale è senz’altro la Piramide dell’Indovino, alta circa 40 metri e dagli angoli stranamente arrotondati è sicuramente la più inconsueta nel panorama architettonico mesoamericano.
Sulle piramidi e sui palazzi ci sono fregi che si riferiscono ai miti della creazione e alla regalità.
Uno degli edifici più importanti è il Quadrangolo delle Monache dove c’è una rappresentazione del serpente piumato, che rappresentava il patrono divino dei governi postclassici yucatechi, e poi il Palazzo del Governatore e la grande Piramide.
Ci sarebbe tanto altro da dire su Uxmal, ma sarebbe riduttivo e, non vedendo ciò che resta, anche le descrizioni sminuirebbero la bellezza del posto. Uxmal è sicuramente fra i siti più belli e più importanti dello Yucatan e merita una visita accurata per apprezzarne la particolarità.
MERIDA, LA CAPITALE DELLO YUCATAN
Capitale dello Yucatan, Merida è una bella città coloniale dalle case basse e colorate. Fu chiamata “la città bianca” per via del calcare e della calce bianca che venne usata per costruire le case.
Fondata nel 1542 dallo spagnolo Francisco de Montejo de Leon, a lui è dedicato un bel museo. Il centro è costituito dalla Plaza Grande dove si trova la grande Cattedrale, dal palazzo del Gobierno, ricco di bellissimi affreschi che raccontano la storia dei Maya. Uno dei più belli rappresenta un uomo che esce da una pannocchia di mais, che viene usato tantissimo nella cucina messicana, e che un tempo era considerato sacro.
Inoltre, dal Palacio del Governador e da un grande giardino (Santa Lucia) che si trova proprio al centro di questi bei palazzi coloniali. Numerosi negozi di artigianato, bar e ristoranti si trovano al di sotto dei palazzi e sono un’attrazione particolare per chi ama fare lo shopping.
In Messico sono numerose le feste dedicate ai Santi e le città e i paesi si trasformano in tanti luoghi dove trascorrere piacevolmente il tempo a contatto con la popolazione. Ma per gustare totalmente il vero sapore di ogni nazione, non bisogna mai dimenticare di visitare il mercato, urbano o rurale che sia.
I colori dei vestiti delle donne si mischiano con quelli della prodotti che vendono e la socievolezza del popolo messicano sono un invito a comprare e ad assaggiare quei frutti che noi non abbiamo.
Il mercato è sempre un godimento per gli occhi, l’olfatto e per lo spirito anche perché si può apprezzare il loro modo di vivere, che non significa andare di fretta. La fretta è riservata alle auto e basta. Neppure ai taxi molto particolari che somigliano a dei risciò coperti.
In alcune strade “ricche” della città, bellissimi palazzi a due piani fanno da contorno a strade pulite il cui traffico è per noi quasi inesistente. Da visitare, inoltre, il Gran Museo del Mondo Maya e il Museo di Antropologia.
Merida, infine, costituisce il giusto punto di partenza per visitare sia Uxmal sia Chichen Itzà e la Riserva naturale di Celestùn.
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Reportage: Yucatan, un viaggio nel mondo dei Maya e a Cancun che non è solo uno splendido mare
di Liliana Comandè. Un viaggio in Messico non merita solo nuotate nel mare cristallino, ma un'immersione in una cultura e una ricchezza riscontrabile nei suoi siti archeologici, nelle città ...
Angela Caccia, "Il tocco abarico del dubbio"

Il tocco abarico del dubbio
Angela Caccia
FaraEditore
pp 93
10,00
Non aver paura delle emozioni, dei sentimenti e della bellezza è una buona cosa, troppo spesso considerata fuori moda.
“Il tocco abarico del dubbio” è una silloge di Angela Caccia che riesce ancora a commuoverci. Il titolo si rifà a quel punto - il punto abarico - a gravità zero, dove l’attrazione della terra e della luna si annullano. Lì risiede il dubbio, che ci permette l’indagine, la quale, a sua volta, istrada verso il sé, verso un esserci nel mondo, un Dasein di heideggeriana memoria.
Queste poesie, divise in sezioni e precedute da brevi introduzioni in prosa lirica, toccano argomenti universali che ci accomunano tutti.
La morte, in primis. “Gli occhi di una lapide mettono sempre malinconia: non guardano più nessuno”, “il sangue resta tiepido dei tanti sogni interrotti.” Da una parte essa ci limita, dall’altra, come in Heidegger, ci rende più liberi, permettendo di ripensare la nostra vita e sceglierne una più autentica.
Altro tema è il rapporto filiale, inteso come distacco dal genitore defunto, memoria dolce inasprita dall’assenza, ma anche continuazione di sé nei figli, progetto. Ma i figli, scopriamo, sono altro da noi, sono alterità e futuro, pur portandosi dietro i geni e il ricordo delle generazioni passate. Un ulteriore motivo è la nostalgia di tutto ciò che era e che non torna.
“Nei tuoi occhi
i resti di una assenza
che tu ignori e
io non perdono
-non l’ho pianta né sepolta
È lì in una leggenda
E annotta oltre le mie croci.”
Grande spazio è dato alla poesia stessa, all’atto del poetare vissuto come imprescindibile, come sfogo ma anche ricerca, genesi difficile di ogni parola: distillata, irrinunciabile, capace d’incarnare un singolo pensiero e solo quello.
“- Non serve lavorare in sottrazione –
incedono chiari i versi
si prendono per mano
le parole esatte”
“bisognerà che scavi
nelle consonanti
tra le vocali
associare al suono
odori canto immagini”
Ma la parola è comunque insufficiente (“parola che non sani”).
Le poesie nascono da riflessioni, osservazioni, quadri, accadimenti: una vita che si spezza, un funerale, una bambina che non ha conosciuto il nonno, un giorno in ospedale, lo sbarco dei migranti a Lampedusa, un cane morente, una rimpatriata con i compagni di scuola. Eventi spiccioli che diventano ispirazione poetica per un animo sensibile. La Caccia non si accontenta di viverli, ma vuole analizzare le emozioni che essi suscitano, esperirle, ricrearle con fine gnoseologico. Le poesie arginano l’emozione, la incanalano, fenomenologicamente avvalorano l’esistente perché sono scorciatoie intuitive.
“Uno solo
il vocabolo giusto che
aderisce all’attimo
e trova il bandolo
di un groviglio lanoso
in petto”
Una parte non minore ha la ricerca religiosa, il bisogno di superare la morte nella fede.
“C’è poi una storia antica che parla di vita oltre, di resurrezione, di eternità. Racconta che nessuno riposa nella morte, ma procede imperterrito nel suo slancio vitale, più vivo che mai. A volte questa è la risposta più adeguata.”
Concludiamo riportando una poesia, semplice e molto bella, dove l’autrice, più che trasfigurare gli eventi, è capace, attraverso la sua sensibilità, di coglierne l’aspetto poetico e la non scontata commozione.
Per i tuoi occhi
Resisti Nina
resisti da sola
così curva
in questa pozza di dolore
ci fosse un dio dei cani…
Non ho parole sacre
per i tuoi occhi
stelle senza capanna
sullo stesso meridiano dell’umano:
privilegio di chi vive
è la morte!
Laghi castani
appannati da un fondale
che la sabbia sconvolge
atolli
dove il mio amarti
ha perso le chiavi
Claudio Fiorentini, "Grido"
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La Silloge di Claudio Fiorentini "Grido", pubblicata da Rupe Mutevole intriga già nel titolo. Conoscendo l'Autore, infatti, si conosce la sua attitudine a non alzare mai il tono della voce, a esprimere anche i sentimenti negativi con toni che oserei definire più inglesi che italiani.
La sua Opera mi ha indotto a riflettere sul moto ondoso che ribolle sotto tanta calma. La splendida prefazione del Professor Nazario Pardini allude proprio a una forma di 'sdoppiamento'. L'interiorità dell'Autore si potrebbe definire con la metafora del mare: s'infrange contro gli scogli del quotidiano con voce nutrita di sdegno e rabbia e, sulla cresta dei versi, ruggisce verso la pochezza, verso le miserie, verso la rassegnazione, lanciando un 'grido' di amarezza, di sfida e di speranza.
Non si tratta di una Raccolta di poesie imperniata sui sentimenti inflazionati. I testi sono privi di titolo e danno al lettore l'impressione di un romanzo in versi. L'altro uomo che Claudio porta in sé, nascosto dalla valva di un'educazione rigida, che non gli consente di svuotarsi in entusiasmi facili, é libero e vola:
"Giuro e rigiuro: vivrò fino alla fine
senza che un solo attimo si sprechi!
fino alla fine in me, con me, di me,
così come son fatto
cercando l'altro Me, finché con Lui
ritornerò completo, e sarò Uomo"
La mia attenzione é stata rapita dalla forza espressiva dei versi, dal progetto che raccontano, dalla musica che li contraddistingue, ma anche dall'uso delle maiuscole per connotare l'altro se stesso. V'é in Claudio, forse, una sorta di slancio verso il lido dell'anima libera dalle catene dei giorni, alienati da sterili alluvioni di parole e dalla rassegnazione, che induce a camminare a testa bassa come greggi di pecore. Il 'Me', il 'Lui' che l'Autore insegue, è l’uomo che ha il coraggio di vivere in stormo, di volare!
'Gioia' é il termine che troviamo più volte nella Silloge. Non felicità. Claudio è senz'altro consapevole che la felicità esiste solo in forma frammentaria, é formata da attimi, da emozioni, da momenti di follia... La gioia ha altra accezione: di piena e viva soddisfazione, di allegria, di letizia. Non a caso l'Autore é amante della musica classica e l'Inno alla gioia composto dal poeta e drammaturgo tedesco Schiller, e divenuto famoso in tutto il mondo per essere stato usato da Ludwig van Beethoven nel finale del quarto movimento della sua Nona Sinfonia, sembra il sottofondo ideale al suo Canto.
"Gioia,
se vera, anche nell'abisso vive
e dovunque vada lascia il suo seme"
Si potrebbe dire che Claudio é teso ad arco verso questo seme, difficile da piantare, tant'è che i suoi versi martellano convulsamente sulle pareti dell'anima, non esitando a sfidare 'il bozzolo che la protegge'...
La poesia, pur mantenendo carattere di narrazione, non ha uno sviluppo logico, com'é giusto che sia. Il poeta tenta e ritenta inizi che poi non svolge. Questa serie di approcci all'inesprimibile, di piccole minute non occultate, costituisce il coagulo testuale definitivo del testo.
Egli, infatti, passa, con funambole capacità liriche, dall'inno alla gioia, al sentimento panico dell'esistenza.
L'io narrante é uomo innamorato; è figlio di un oscuro ventre materno, descritto, forse inconsapevolmente, con il 'taglio che incide in rosso sangue' in cui egli 'si trastulla... in attesa di trascendere una vita / che più non lo contiene/ e lo rigetta"; è, soprattutto, essere umano pronto a sfidare l'impossibile per realizzare il sogno.
Tema ricorrente quello del sogno anche nelle Opere di narrativa di Claudio. Novello Lancillotto, pronto a mettersi in gioco ‘mille volte’ pur di avvertire sull'anima nuda, il soffio del sogno.
"Vivi, voce che ancora non è
ma che vorrebbe essere.
Vivi senza pietà, non una mille volte
e con te porta il destino
a tessere nuovi momenti
a far di me futuro e sogno"
La poesia é il filo teso tra l'oggi incerto, la paura, la solitudine, le valve dell'ostrica e il mondo.
"Con tenacia bovina
e forza tellurica
io amo"
E in questi tre versi diviene inevitabile andare con il pensiero a Neruda. Il Poeta cileno che leggeva le liriche 'con voce strangolante di boa' e faceva l'amore con i versi e con il filo spinato. Cattedrale tonante' venne definita la sua voce ... 'la forza tellurica' di Claudio echeggia gli scenari selvaggi e composti di linee essenziali, che caratterizzarono le "Odi" del grande Pablo. E il suo grido silenzioso e inafferrabile, rende la Silloge un'opera imbevuta di originale e inconfondibile magia.
Maria Rizzi
Lamartine a Livorno
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“Perché balzate sulla spiaggia spumeggiante,
Onde in cui nessun vento ha scavato solchi?
Perché agitate la vostra schiuma fumante
In leggeri turbinii?
Perché dondolate le vostre fronti che l’alba asciuga,
Foreste, che stormite prima dell’ora del risveglio?
Perché dai vostri rami spargete come pioggia
Quelle lacrime silenziose di cui vi bagnarono la notte?
Perché rialzate, oh fiori, i vostri calici pieni,
come fronte chinata che l’amore risolleva?
Perché nell’ombra umida esalare questi primi
Profumi che il giorno respira?”
Alphonse de Lamartine (1790 – 1869), scrittore, storico e politico francese, autore tra l’altro de Le meditazioni poetiche, aveva dei cugini a Livorno e venne a visitarli. Ancora una volta è Pietro Vigo a riportarci le sue parole.
“Abitavo presso Livorno nella villa Palmieri sulla strada di Montenero; a sinistra vedevo le cime selvose dei Monti di Limone, a dritta il mare, di faccia Montenero. Sulla sommità di questo capo, addossato allo scoglio ed a verdi querce s'innalza una chiesa come un tempio greco in vista del mare, ed è un pellegrinaggio pei naufraghi scampati dalle procelle pei voti innalzati alla stella del mare. Mi piaceva tanto questo luogo che vi ascendevo sovente. Sulla strada è la villa, un tempo splendida, allora deserta dove Lord Byron si trattenne una o due estati qualche tempo prima della mia dimora in Livorno.
Ero solito fermarmi col cavallo dinanzi alla porta del suo giardino, come per cercarvi l'assente figura del gran poeta che in certo modo consacrò quella solitudine. Poco più oltre lasciavo la strada guidando i cavalli verso la locanda di Montenero per inoltrarmi solo nei boschi d'onde scorgesi il mare. Là passavo intere giornate in compagnia dei miei pensieri, con un libro in mano, nel cui margine, andava scrivendo le poesie ispiratemi dal cielo e dal mare. I cespugli a piè delle verdeggianti querce di Montenero conservarono per qualche tempo le pagine strappate dai libri e dagli album, dove mi provai a notare alcuni canti, spesse volte interrotti dal sonno, dal capriccio, e dal tramonto del dì, e che lasciava in brani sull'erba o sulla sabbia in ludibrio del vento ».
Vigo afferma che tre dei componimenti delle “Armonie poetiche e religiose” siano stati scritti nei nostri boschi. Pare che una folata di tramontana abbia fatto volare gli appunti de L’Inno al mattino, al punto che il poeta li aveva ormai dati per persi. La mattina dopo, però, una bambina scalza, figlia di un arsellaio, glieli riconsegnò inzuppati d’acqua di mare. Sembra che il padre li abbia ripescati e fatti leggere a dei frati Cappuccini che gli consigliarono di riportarli all’autore francese. Come ricompensa, Lamartine offrì all’uomo tanti scudi quante erano le pagine e comprò alla bimba un vestito nuovo.
Riferimenti
Pietro Vigo, Montenero www.infolio.it
Ida Verrei, "Arràssusìa"
Arràssusìa
Ida Verrei
Fabio Croce Edizioni, 2015
pp. 166
15,00
“Lei è ancora con noi, Santino. Nei profumi e nelle voci del tuo vicolo antico, nelle crepe dei muri di tufo della tua casa, nel canto della risacca sugli scogli di Mergellina, nel colore del glicine scordato. Nel riso di figli non suoi.” (pag 166)
Se Napoli oggi ha un cantore, è Ida Verrei, un’autrice che s’identifica con la sua città, anzi, è la sua città.
Non è la Napoli di Gomorra, la sua, ma nemmeno quella delle cartoline illustrate col pino, il Vesuvio e Pulcinella, è una città sotterranea, cimiteriale, scavata nel tufo. È una città che, anche in superficie, conserva lo stesso mistero, lo stesso collegamento arcano fra vita e morte. È, semmai, la Napoli del rione Sanità di Antonio De Curtis, e, soprattutto, di “Questi fantasmi” di Eduardo de Filippo, fatta di palazzi bellissimi e fatiscenti, di nobiltà decaduta, di collegi, di porticati, di meravigliosi scaloni opera dell’architetto Sanfelice, di parati scoloriti, di stucchi, di librerie raffinate, polverose e blasè, frequentate da vecchie glorie letterarie. Anche di popolo, però, di bassi affacciati su strade che costituiscono un ecosistema aparte, una cultura nella cultura. Una Napoli che c’era prima e ci sarà anche dopo Scampia e Gomorra, perché fatta di radici, di sangue, di archetipi culturali, “il nutrimento, ‘o sanghe, Manù, il sangue.”
Il collegamento fra la vita e la morte è il filo conduttore del libro. La morte non fa paura ai napoletani, anzi, ha una funzione consolatoria. Come avviene per Maruzzella, la coprotagonista, e le sue visite al cimitero delle Fontanelle, luogo incredibile, straordinaria cava di tufo con le sue cataste di teschi vittime della peste, oggetto di devozione e cura da parte dei cittadini di ieri e di oggi. Come avviene anche per Manù e la sua amicizia con il fantasma del piccolo Oreste, che appare nei momenti di passaggio, di trasformazione, di perdita, pronto a confortare e rincuorare.
Il protagonista è Vittorio Emanuele, detto appunto Manù, un ragazzo degli anni settanta. Ma la storia rimane al margine, le contestazioni studentesche sono vissute dal giovane con una sorta di isolamento scontroso. Inutile cercare nel testo la resa di una Napoli proletaria e problematica, sarebbe una forzatura ideologica. Manù appartiene, piuttosto, a una Napoli astorica, accettata così com’è senza giudizio e senza riserve, fatta non di accadimenti ma di emozioni: la paura del distacco e della perdita, l’amore filiale, l’amicizia, il perdono, la passione, i turbamenti del cuore e del corpo.
Altro tema è la nostalgia. Il tempo fugge, rotola via, lo si capisce anche dagli sbalzi temporali dati nei capitoli, ci trasforma fino a quando non ci voltiamo indietro e ci accorgiamo di quanta vita sia passata, di come le cose siano cambiate senza che nemmeno ce ne rendessimo conto. Il passato appare pieno di fascino e daremmo tutto pur di tornare indietro. È ciò che accade a Manù quando ripensa alla vita in collegio, dura, difficile, ma pur sempre collegata alla giovinezza, a tutto quello che non può riavere.
“Molti progetti del passato avevano perso d’un tratto il loro fascino. Il loro posto pareva essere stato preso dal desiderio che il tempo si fermasse, che non corresse troppo, dalla paura che qualcosa potesse andare perso, senza che lui avesse avuto il tempo di assaporarne il gusto fino in fondo” (pag 145)
Quello della Verrei è uno stile connotato, poetico, che indulge nell’aggettivazione, che non ha paura dei sentimenti e della bellezza, che unisce parole e cose, alto e basso, sublime e plebeo. C’è un uso nobile della lingua napoletana.
“Arràssusìa è’ na parola napulitana bella assaje, vuol dire “lontano sia”, “non sia mai” o anche “caso mai”. E ha origini antiche. Vedi, Manù, i dialetti sono la storia dei popoli, il loro passato, non bisogna mai dimenticarli. E il nostro, in particolare, ha dentro tutto il bene e il male della terra partenopea. L’arte di arrangiarsi, per esempio, o la necessità del risparmio. Visto che simmo tutti puverielle, tutti poveri, noi facimme economia pure e ‘nu scioscio, anche di un soffio. Un solo vocabolo ci basta per raccontare un mondo, e una lettera, ‘na vocale ha il vigore di un’orazione. Impara bene la lingua italiana, sissignore, guagliò, ma pienza e suonna c’o napulitano, pensa e sogna in napoletano”. (pag 31)
Un libro ricco di fascino e di atmosfera, che ha un sapore antico, che riconcilia con la lettura e fa ritrovare quel gusto raro e quasi dimenticato di perdersi nei luoghi e nella trama di un racconto, di accarezzare personaggi ai quali voler bene come a una parte di noi stessi, come alle povere anime “pezzentelle” del rione Sanità.
“Anime sante, anime purganti
Io sono sola e voi siete tanti.
Andate avanti al mio Signore
E raccontategli il mio dolore.
Prima che oscuri questa santa giornata,
da vuje e da dio voglio essere cunzulata.”
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Fabio Croce Edizioni, 2015 Se Napoli oggi ha un cantore, è Ida Verrei, (di cui Michele Rainone ha già recensito "Le primavere di Vesna") un'autrice che s'identifica con la sua città, anzi, è la...
http://www.criticaletteraria.org/2015/06/ida-verrei-arrassusia.html
“SUIS ITALIA MILITIBUS”.
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Dedico questo racconto al mio conterraneo Alfredo Bacchelli, soldato nel 2 reggimento Genio, compagnia 179, nato a Casalecchio nel 1884, residente a Casalecchio di Reno (Ceretolo), morto per enterite in prigionia a Sigmundsherberg il 18 dicembre 1917 e sepolto nel cimitero di Sigmundsherberg.
“SUIS ITALIA MILITIBUS”.
In questo periodo si parla tanto di commemorazione però non tutti i caduti della prima guerra mondiale vengono ricordati in modo dignitoso. Vi è un cimitero di guerra in cui sono custodite le salme di 2398 soldati italiani. È il cimitero del campo di prigionia di Sigmundsherberg che si trova a Waldviertel in Austria. Il campo era stato costruito verso la fine del 1914 per ospitare i prigionieri russi, ma in seguito, specialmente dopo la disfatta di Caporetto, divenne un luogo di detenzione di soli prigionieri italiani. Il centro era progettato per 40.000 uomini, ma ne ospitò sempre un numero maggiore fino a contarne oltre centomila. Gli internati, proprio per evitare l'affollamento, venivano inviati al lavoro esterno e alloggiati in centri di raccolta fuori dal campo, in uno di questi erano rinchiusi gli ufficiali italiani. Sigmundsherberg era servito da una buona rete ferroviaria, cosicchè divenne ben presto un punto di smistamento per la posta diretta non solo ai detenuti del campo ma a tutti i prigionieri dell'Austria-Ungheria, arrivando a selezionare migliaia di pacchi e di lettere ogni giorno, all'interno dell'ufficio postale stesso erano impiegati oltre 500 prigionieri. Altri erano adibiti, come detto, al lavoro esterno, molti (50.000 circa) furono destinati alla costruzione della ferrovia sopraelevata di Vienna, altri vennero inviati presso famiglie delle campagne austriache al fine di sostituire nei lavori dei campi gli uomini impegnati al fronte, altri ancora furono addetti al lavoro in officine, costruite nelle baracche del campo, ove venivano portati gli aerei abbattuti per recuperarne pezzi di ricambio. La vita dei prigionieri era garantita dal rispetto delle norme internazionali: il vitto era assicurato e sufficiente, almeno all'inizio, e vi erano ore dedicate allo svago, allo studio e al riposo, la sanità era curata da quattro medici austriaci coadiuvati da medici e infermieri italiani, (scelti sempre fra i prigionieri) comandati dal colonnello Ettore Castoldi. Il momento più critico si ebbe quando dopo lo sfondamento del fronte italiano a Caporetto furono condotti al campo migliaia di soldati feriti o stremati dalla vita di trincea, poiché coincise con l'aumentare delle restrizioni sia alimentari che di igiene, dovute alla crisi degli ultimi mesi di guerra che colpiva anche la popolazione civile austriaca. Fu in quel periodo che il numero dei decessi aumentò notevolmente. Il comandante cercò di impiantare una coltivazione di prodotti della terra per cercare di soddisfare il fabbisogno interno, purtroppo con scarsi risultati, dato il notevole numero di prigionieri e di soldati addetti alla custodia. Mancava la legna da ardere, mancavano cibo e medicine e in quel periodo la vita dei soldati italiani detenuti divenne davvero dura. Il cimitero costruito dagli stessi prigionieri si riempì e alcune opere funerarie, che si possono ancora oggi vedere all'interno della cappella che affianca il camposanto, furono eseguite da prigionieri che poi non sopravvissero e il loro nome compare oggi nell'elenco dei caduti.
Nel 1922 ebbe inizio il recupero del cimitero per offrire dignità e decoro a quei ragazzi morti lontano da casa e il cippo su cui era stata incisa la scritta “SUIS ITALIA MILITIBUS” fu trasportato all'interno della cappella, con lo scopo di ovviare al degrado dovuto al tempo e alle intemperie. Ai piedi del corpo marmoreo si può vedere che sono state portate due corone, entrambe con la bandiera austriaca, nessuna ghirlanda recante il tricolore invece è stata deposta in quel luogo sacro alla Patria. Lo stato italiano dimentica i suoi caduti anche nel centenario della commemorazione e non c'è da meravigliarsene vista la cura che si prende dei suoi cittadini vivi e vegeti.
Questo mio scritto vuole essere un fiore posato sulle tombe di Sigmundsherberg, un modesto omaggio in ricordo dei nostri soldati dimenticati.
Massimiliano Nuzzolo, "La felicità è facile"
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La felicità è facile
Massimiliano Nuzzolo
Italic Pequod
pp 115
14,00
Un bravo scrittore è come un attore, interpreta, non ti dà per forza la sua visione, s’immedesima nei personaggi anche quando la pensano in modo opposto. E Massimiliano Nuzzolo è un bravo scrittore, le sue novelle hanno una lingua precisa e studiata, “sorvegliata” come si usa dire, di grande effetto, ed hanno anche una buona impalcatura e degli argomenti originali. “La felicità è facile” è una raccolta che riconcilia con il genere del racconto breve, accantonato negli ultimi anni, oppure usato come espediente da chi non riesce a esprimersi con un respiro più ampio. Qui, invece, ci sono contenuti - persino messaggi convogliati in modo subliminale - c’è sviluppo strutturato e armonico della trama, c’è, infine, uno stile caustico e divertente ma anche lirico.
“una rugiada sottile pronta a fissarsi alle ossa e a raschiar via una notte anonima come mille altre, in graduali variazioni di luminosità e colore che, avvicinandosi senza alcuna fretta al mattino, sembravano seguire l’incerto cammino di Gio, impegnato a tornare a casa dopo una notte a dir poco bianca.” (pag 13)
“Quando sto là da solo, cioè praticamente trecentocinquantasei giorni netti quest’anno, tolta la settimana a Cuba, guardo il muro del cimitero, le lucine che scintillano nella notte e penso a quanti cazzo di morti ci stanno in un cimitero, a quanta gente è morta in tutti questi anni, da quando hanno fatto il cimitero di Mestre ad oggi, a quando quelle tombe fatiscenti e semi sprofondate erano nuove e pronte per l’inaugurazione, penso a quanti cadaveri e resti umani più o meno grandi possa contenere un metro cubo di terra grassa, a quanti milioni di vermi scivolino lenti e bonari alla ricerca di carne fresca… Poi arriva Marika e mi fa un pompino. Grazie a Dio” (pag 32)
I motivi ricorrenti in questi racconti sono vari, spiccano tra gli altri l’emarginazione del diverso, la malattia e la morte. La morte è un tema che percorre tutta la narrativa contemporanea e anche la poesia. Mai come adesso i giovani la sentono vicina, con l’incremento dei tumori e degli incidenti stiamo tornando alle aspettative di vita dell’ottocento e la fine ridiventa compagna. La morte è scelta ne “Il volo”, è pensiero inquietante ne “Il parcheggio accanto al cimitero”, è assenza straziante in “Economia di parola”, è riflessione in “Ma e pa sdraiati sepolti morti”
“cosa può avere un senso qui? Parlare con il Nulla? Parlare a una foto? A una pietra? Forse ha più senso dire qualcosa all’erbetta o ai fiori”. (pag 40)
Il messaggio, l’ideologia, il contenuto sono spalmati su tutte le storie e lasciati emergere per contrasto. La situazione stessa fa scaturire le idee, l’etica e le emozioni. Ecco quindi la ragazza che si suicida per non diventare come gli adulti che disprezza, per non venire assimilata al sistema. Ecco il down, il tossico e lo psicolabile che ci mostrano la realtà dalla loro angolazione, capace di far apparire la nostra “normalità”, persino la nostra religione, come distorta.
“Poi mi sono seduto davanti all’altare insieme agli altri bambini e a metà funzione ho ricevuto il corpo di Cristo per la prima volta. Era una cosa bianca sottile che mi si è appiccicata al palato e io ho pensato ma come è fatto Cristo di carta?” (pag 51)
Alcuni racconti sono molto belli, come "Siamo tutti uguali davanti a dio (basta pagare il canone), dove una apparentemente insignificante nota d’ambiente – la televisione accesa su una televendita – fa risaltare due situazioni sociali opposte.
I contenuti risentono del bagaglio culturale dell’autore, dei suoi gusti letterari, musicali, cinematografici. Nei racconti si parla di film come “Alien” ed “E.T.”, ma anche di musica elettronica, di Pavese, Wilde, Baudelaire, Camus, Hemingway, e queste forme d’arte servono per discettare, in accostamenti virtuosistici, di amore, campi di concentramento, pregiudizi, emarginazione.
Le parole di Nuzzolo non sono mai casuali, sono scelte con una pazienza che ripaga di ogni sforzo e regala un’impressione di scorrevolezza. Ma, dietro, intuiamo tutto il certosino lavoro di lima e ricerca. Si noti, ad esempio, la mancanza di punteggiatura in “Mestre tossica”, a mimare la confusione mentale e il ritardo motorio del personaggio imbottito di droga. L’alcol bevuto per dimenticare le assenze, la droga che stordisce e ottunde, gli antidepressivi del racconto finale, rappresentano l’unica possibilità di sfuggire ad una facile, facilissima, infelicità costante e diffusa.
Il puro raccontare comunque prevale, com’è giusto che sia in narrativa, la riflessione è lasciata al lettore, l’autore si limita a mostrare, e anche a divertirsi un po’ alle nostre spalle, sempre, però, con una partecipazione emotiva tenuta a freno, sottesa e tuttavia imprescindibile. Viva il raccontare, dunque, viva la narrativa.
Alessandro Alberti, "Radio alternative. La destra che comunicava via etere"
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RADIO ALTERNATIVE
LA DESTRA CHE COMUNICAVA VIA ETERE
ALESSANDRO ALBERTI
ECLETTICA EDIZIONI
EURO 16,00
A cura di Franca Poli e Giacinto Reale.
Un libro ben scritto, con stile chiaro e scorrevole, ricco di notizie davvero interessanti e sconosciute ai più, esposizione circostanziata, un libro che mancava insomma, e del quale si sentiva l’esigenza. Si tratta del primo lavoro di Alessandro Alberti, che inizia la sua carriera di scrittore, con un esordio davvero buono, cercando di dar voce a quella parte di giovani che vissero esperienze ignorate dalla cultura ufficiale. Non è solo cronaca, né tanto meno cronaca limitata ad una iniziativa di quella giovane Destra che negli anni settanta e ottanta, pur tra mille difficoltà ed ostilità, seppe ricavarsi un suo spazio. E’ la narrazione di un pezzo del costume italiano, degli “anni di piombo” e di quell’impazzimento generale che costò tante giovani vite. Storia di cultura e militanza, nella quale compaiono nomi di politici destinati a un brillante futuro e di volenterosi giovanotti destinati a restare nell’anonimato.
Tutto cominciò con le due sentenze della Corte Costituzionale che nel ’74 stabilirono la “libertà di antenna”: bastavano pochi mezzi e tanta buona volontà per mettere su una “radio libera” (come allora si chiamavano), un mixer, due piastre, un revox, con impianto di diffusione e antenna e si poteva partire ... il pubblico non mancava. Un tentativo di abbattere il muro di gomma della comunicazione gestita fino ad allora esclusivamente dalla rete pubblica. Il vero problema, piuttosto, era trovare una frequenza che non fosse già occupata, nell’affollamento che subito si ebbe nell’etere, e innescò - come è stato detto - “un fenomeno che ha avuto conseguenze straordinarie sulle tecniche di comunicazione, sul costume, sulla politica del nostro Paese”.
La prima, a destra, fu Radio University di Milano (dicembre ’75), che, fin dall’inizio, individuò i canoni ai quali poi tutte le altre si sarebbero attenute: alternanza di parlato e brani musicali, professionalità dei responsabili dei due settori, libertà massima nella interpretazione delle notizie e nella scelta dei brani musicali. Rispetto alle radio “commerciali” preesistenti, l’ascoltatore che si fosse sintonizzato per caso avrebbe notato subito una differenza: lì c’era una ripartizione dei programmi che vedeva prevalere il “musicale” (65%) sul “parlato” (35%), qui predominavano le voci, le notizie, i commenti, le segnalazioni di libri ed iniziative e la partecipazione diretta degli ascoltatori ai dibattiti, ai programmi culturali. Queste furono le caratteristiche distintive delle radio “alternative”, più delle loro dirimpettaie “di sinistra”, dove i vincoli ideologico-settari erano molto forti, ed anche le selezioni musicali erano condizionate da precise scelte fatte “a monte”. Il tutto, però, senza trascurare una funzione essenziale – in tempi di ghettizzazione - voluta dagli organizzatori, ma reclamata a gran voce dall’utenza: quella della controinformazione. In un periodo nel quale logiche di “arco costituzionale” volevano relegare nel cattiverio “senza se e senza ma” tutto il mondo della destra, sintonizzarsi sulla radio alternativa della propria città e sentire le notizie voleva dire, per molti, rompere la sensazione di isolamento e sentirsi parte di una comunità. Questo un po’ dovunque, perché radio alternative sorsero dappertutto, nelle città più grandi, come (per citarne solo alcune) Torino, Roma, Bologna dove Radio Alternativa, ubicata in vicolo Posterla,18, provava a rispondere a radio Alice che spopolava in città e che, prima di essere messa sotto sequestro, con l'accusa di aver guidato la guerriglia urbana, il giorno della manifestazione in cui venne ucciso Francesco Lorusso aveva segnalato gli spostamenti delle forze dell'ordine e trasmesso in diretta tutte le telefonate che giungevano in redazione inerenti i disordini in città. Le registrazioni delle ultime fasi, con la concitazione dei momenti dell'arresto dei redattori, furono trasmesse a lungo da molte radio libere sia di destra che di sinistra.
La voce delle radio alternative non toccò solo le grandi città, ma giunse anche in piccoli centri, come, (sempre con una scelta assolutamente casuale) Rieti, Montesarchio, Massa e Viterbo. Non sempre le cose filavano lisce: i tentativi di mettere a tacere queste radio che erano “libere”, ma soprattutto “alternative” non mancarono. A Milano via Mancini, dove Radio University aveva sede (anche se solo pochi sapevano esattamente in quale stabile), era presidiata, nelle giornate “calde” dagli sprangatori della Statale e non solo, che controllavano i documenti ai passanti per identificare i non residenti, i quali avrebbero potuto essere potenziali redattori. A Roma, Radio Alternativa, animata da Teodoro Buontempo, ebbe sede nello stesso stabile di via Sommacampagna, dove c’era il Fronte della Gioventù e, solo per caso, una pentola a pressione imbottita di dinamite, posata sul davanzale di una finestra da mano “ignota” non provocò una strage. Anche a Torino fu la federazione del MSI ad ospitare la sede di Radio Blitz, e così avvenne un po’ dappertutto. Va però detto che, in genere, si trattò di ospitalità e basta, poichè (sia pure con qualche tentativo forse nemmeno troppo convinto) il mezzo sembrava ancora troppo “nuovo” ad un Partito i cui vertici non si distinguevano certo per giovanilistici entusiasmi. Infatti, sia pure in contemporanea con la crisi dell’intero settore, dovuta soprattutto all’emergere del più coinvolgente mondo delle tv “libere”, quasi tutte le Radio chiusero per mancanza di mezzi, non potendo contare, un po' per scelta, un po' per necessità, sul supporto “commerciale” di inserzionisti a pagamento. Finchè trasmisero, comunque, furono strumento divulgatore di idee, cultura, attività per tutto il mondo giovanile di destra, e consentirono l’approdo ai grandi numeri di vendita e notorietà di una musica “alternativa” che, per l’originalità dei testi, l’armonia dei suoni e la personalità degli interpreti avrebbe meritato successo maggiore. Qui la scelta si fa ardua, e non può non risentire dell’esperienza e dei gusti di ognuno: per quel che ci riguarda, di comune accordo, in cima alla classifica abbiamo scelto due complessi: La Compagnia dell’Anello (“Padova, 17 giugno 1974”) e gli Amici del Vento (“Vecchio ribelle”) Poi c’è solo la difficoltà di ricordarli tutti: gli ZPM, gli Janus, il Vento del Sud, e, tra i solisti: Fabrizio Marzi, Michele di Fiò, Francesco Mancinelli, Gabriele Marconi e con particolare affetto ricordiamo l’indimenticato Massimo (“Massimino”) Morselli (“Nostri canti assassini”)…e chiediamo scusa a tutti quelli che abbiamo dimenticato.
Un’ultima cosa c'è da dire: all’interno di queste radio, nonostante i pericoli e le difficoltà, regnava, incontrastata, un’atmosfera di allegria, di giovanile spensieratezza, che non incideva sull’impegno e la professionalità davanti al microfono e alla consolle. Questo emerge dalle molte testimonianze dei protagonisti riportate nel libro, che hanno conservato un ricordo incancellabile di quella esperienza, dei fatti, delle emozioni, e degli aneddoti. Chiudiamo proprio con uno di questi: tutti hanno ben presente la spiritosa invenzione di Fiorello di “Gnazio”, riferita a La Russa… ebbene pochi sanno - e il libro ce lo racconta - che il futuro Parlamentare di AN fu il primo a ridere della sua accentuata “sicilianità”. A Radio University andava in onda una trasmissione satirica che era una specie di “Alto gradimento”, e al microfono si alternavano vari personaggi che, con voce buffa, commentavano, a modo loro, i fatti del giorno. Uno di questi era “Siculio” il cantastorie stonato e dal marcato accento isolano interpretato - con grande successo, va detto - dal futuro Ministro della Repubblica. Questo lo abbiamo scoperto nel libro di Alberti, ma c’è molto altro….non vi resta che sfogliare la vostra copia.
BOLLETTINO DI GUERRA di Edlef Köppen (1893 -1939)
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Edflen Köppen pubblicò Bollettino di guerra nel 1930, durante la repubblica di Weimar. Fu redattore, scrittore, traduttore, editore. Lavorò in particolare come responsabile delle trasmissioni culturali della prima radio tedesca di Berlino, collaborando tra gli altri con Stefan Zweig e Alfred Döblin. Subì pesanti conseguenze sul piano professionale ed economico per non aver voluto collaborare con il regime nazionalsocialista.
Difficile non scomodare la parola capolavoro per questo romanzo in cui l'autore, artigliere nella Grande Guerra, ripercorre la sua esperienza attraverso il protagonista del libro, Adolf Reisiger, impegnato sul fronte francese e su quello russo. Lo stile è generalmente distaccato; si lascia che l'orrore e le brutture della guerra parlino da sole, senza cadere nella struggente poesia del dolore di un Remarque. Anche se il giovane volontario Reisiger non è un fante ma un artigliere, la descrizione del calvario dei soldati è micidiale. Si passano, ad esempio, dei giorni in piccoli crateri pieni di pantano, senza avere informazioni sulla situazione della battaglia, sperando che i proiettili nemici cadano lontano, dividendosi sigarette e cibo preso da tasche inzaccherate e poi ricominciando a sparare, non appena ci sono elementi sulla posizione delle fanterie proprie e di quelle avversarie.
Lo stile che rende quasi unica l'opera, non è univoco; ci sono passi in cui si usa la terza persona, in altri il giovane artigliere parla in prima persona, evidenziando il proprio travaglio intimo in cui il dovere di obbedire cozza gradualmente col senso di umanità. Ecco come viene presentata la guerra fatta di sanguinosi assalti:
“Il macello moderno: si spingono le bestie in un vicolo, largo all’inizio, poi più stretto, poi alla morte, e nessuno può tornare indietro, perché viene sospinto alle spalle”.
L’aspetto originale è dato da una narrazione spesso intervallata da passi di giornali, dichiarazioni di politici e generali, bollettini di guerra e pubblicità del tempo che offrono un insieme completo dell'epoca in cui si svolgevano i fatti, col contrasto tra fronte interno e "fronte vero" e col montare parossistico delle sofferenze alle quali la propaganda rispondeva con il proprio ricco arsenale. Non manca una certa ironia in alcuni punti in cui la magniloquenza ottimistica dei grandi capi supera il limite del ridicolo.
Un altro lato interessante è quello legato alla tecnica; ci si affida ad armi sempre più potenti nell'ambito di una minuta pianificazione a livello di preparazione degli attacchi. Ecco cosa significa sparare a fuoco rapido per un artigliere:
“Dopo dieci minuti il battito cardiaco dell’uomo è raddoppiato. Il cuore non batte più nel petto ma in gola. Dapprima il battito ha fatto tremare le membra. Poi queste si adeguano a un comando, diventano di ferro ed entrano a far parte della grande macchina: sei cannoni, una batteria”.
L’uomo diventa un ingranaggio della macchina.
Memorabile la descrizione delle fatiche di Reisiger e dei suoi colleghi prima dell'offensiva del luglio 1918 che sarebbe dovuta essere decisiva; giorni e notti insonni spesi nel definire gli obiettivi di ogni singola batteria. Ogni zona nemica doveva essere bersagliata in modo efficace, per spianare la strada alla fanteria. Fatiche inaudite che prostrano gli ufficiali impegnati nel dettagliare gli ordini per le artiglierie, ma anche sforzi non ripagati, dato che il nemico già conosce i piani dell’attacco. Reisiger viene poi mandato avanti in cerca di informazioni sull’esito dell’assalto della fanteria. Con la maschera antigas il giovane attraversa una foresta straziata dai gas, come straziati dai colpi nemici sono molti suoi commilitoni. Una natura che c'era da tanto tempo è stata sfigurata dall'uomo:
“Questo, pensa, è un bosco profanato. Questi sono alberi, betulle, di tre o cinque anni. Che con la guerra non hanno nulla, nulla, nulla a che fare. Che non vogliono scegliere tra francesi e tedeschi. Che non odiano, non uccidono. Che se ne stanno solo lì, e a ogni primavera mettono le foglie, e fioriscono e in autunno perdono la chioma e con grande pazienza se ne stanno a gelare fino alla prossima primavera. Senza fretta ... E ora? - Ora le più grandi bestie che ci sono sulla terra, gli uomini, si sono buttate su queste inoffensive betulle. Un capriccio si è impadronito di questo bosco. Esso muore senza parole, e remissivo, come in nessun'altro omicidio. Certo, c'è un po’ di vento, e per questo gli alberi scrollano ancora un poco il capo. Ma i rami si sono già distesi e piegati. E le foglie starnutiscono, e starnutiscono. E tutto questo non durerà più di ventiquattr'ore, poi ci saranno dei pali nudi. E tutto spoglio, perché così gli uomini hanno desiderato".
Nel giovane qualcosa si spezza per sempre davanti a un simile spettacolo. Reisiger fa in tempo a vedere i primi assalti dei carri armati negli ultimi mesi di lotta in cui la fibra dei soldati sta ormai cedendo.
Si tratta di un libro intenso in cui nel protagonista maturano una lacerazione profonda e una forte ripulsa per la guerra, come capitò all'autore che non ebbe la fama letteraria di Remarque e di Jünger anche per l'ostracismo praticato dalle autorità nazionalsocialiste; tale ostracismo, seppure con aspetti nettamente diversi, proseguì in parte anche nel secondo dopoguerra. Eppure lo stile e l'intensità dell'opera non hanno eguali; da notare, infine, che l'autore, come il protagonista del romanzo, coprì l'intero arco del conflitto, dal 1914 al 1918, passando dalle illusioni iniziali al tracollo finale, vivendo sulla sua pelle e nel proprio spirito, tutta la Via Crucis di un uomo al fronte.