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Intervista a Paolo Di Paolo

15 Novembre 2014 , Scritto da Sergio Vivaldi Con tag #sergio vivaldi, #interviste

Intervista  a Paolo Di Paolo

Nel fine settimana del 25 e 26 ottobre a Nemi, famosissimo borgo nella zona dei castelli romani, si è tenuto il BiblioUp Festival, la prima edizione di un evento organizzato dalle biblioteche dei vari comuni della zona e Andrea Camilleri a fare da testimonial che, non potendo essere presente, ha voluto comunque mandare un video di saluto. Trovandomi a Roma, mi sono trasformato in un blogger d'assalto, armato di un pericolosissimo smartphone, con il preciso intento di infastidire intervistare ogni scrittore che mi capitasse a tiro. Tra i vari ospiti c'era Paolo Di Paolo, con il quale sono riuscito a chiacchierare davanti a un caffè. Di Paolo era a Nemi per parlare di Mandami tanta vita, romanzo finalista al Premio Strega 2013, ispirato dalla figura di Piero Gobetti. Il risultato di questa chiacchierata lo trovate nelle righe qui sotto. (Sergio Vivaldi)

Sergio Vivaldi: Il romanzo è nato intorno al personaggio di Piero Gobetti. È un personaggio insolito, durante la presentazione spiegavi come sia stato sempre in secondo piano rispetto a Giacomo Matteotti, il cui omicidio ha segnato un punto di svolta del periodo fascista. Che valore vorresti dare al recupero della figura di un intellettuale antifascista degli anni '20 nel 2014, o 2013, anno di pubblicazione del romanzo?

Paolo Di Paolo: Tutti i personaggi storici finiscono in un pantheon, e anche Gobetti ne fa parte: quando studiavo alla Sapienza, quasi ogni mattina passavo da quella via che si chiama Piero Gobetti, è come se quasi tutte le mattine l'avessi avuto un po' nella testa. Ma non mi sono avvicinato a Gobetti a scuola né all'università, perché è una figura, non direi minore ma sicuramente più laterale, soprattutto perché muore molto giovane, e lo immagini solo come il nome di una via, come qualcosa di impolverato, di solenne. Allora lo sforzo doveva essere quello di riportarlo dentro una dimensione più affabile, più narrativa, per far capire che non sta su un piedistallo ma era un ragazzo di vent'anni. L'unico modo era non fare il saggio, perché sarebbe stato una cosa rivolta soltanto a chi già lo conosceva, ma un racconto. Questo racconto non doveva essere un romanzo biografico, perché ciò presupponeva seguire una diacronia, una biografia per intero, io invece volevo che ci fosse uno sguardo che portava il lettore a osservare quel personaggio, e lo sguardo doveva essere la mediazione narrativa. Lo sguardo, nello specifico, doveva essere quello di Moraldo, cioè di un anonimo, che guarda, che incrocia casualmente questa figura storica. In quel modo la avvicina, perché la vede, così, a un passo, come parliamo io e te.

SV: Spiegavi di non volevi fare un romanzo puramente biografico, e col non aver mai usato il suo nome hai tolto un importante elemento legato all'aspetto biografico, però la vita di Gobetti non poteva essere cambiata troppo. Ne consegue che solo Moraldo rende questo romanzo non interamente biografico.

PDP: Sì, l'immissione, dentro una storia calcata più o meno sulla realtà biografica, di un personaggio di finzione fa deflagrare l'impianto del romanzo biografico tradizionale, anche se c'è sempre un margine di invenzione. Immettere un protagonista, che è importante ai miei occhi tanto quanto quello storico, cambia completamente la prospettiva e anche il segmento di vita che scelgo è il segmento di vita dell'altro personaggio. Quindi tutti e due vengono raccontati su un piano di parallelismo, anche se a un certo punto si sfiorano, e tutta questa orchestrazione rompe l'equilibrio del romanzo biografico tradizionale, infatti dal romanzo, per esempio della nascita di Piero o dei primi anni, non sappiamo nulla, se non quello che appare qua e là perché viene recuperato in un flashback, ma è qualcosa di molto, molto meno massiccio di quello che sarebbe stato se avessi seguito una linea biografica.

SV: Il romanzo si muove su un piano storico, che è conseguenza dell'ambientazione, perché gli eventi che sono parte di quell'epoca hanno un'influenza enorme, e perché Gobetti è perseguitato dal fascismo. Ma tu durante la presentazione hai parlato di un'analisi anche psicologica dei personaggi, dicevi di volerli guardare da dentro la loro testa. È questo l'unico motivo per cui hai usato il flusso di coscienza o avevi anche qualche altra motivazione?

PDP: No, è esattamente questo. Ho usato molto il flusso di coscienza, perché mi interessava cogliere i pensieri di questi personaggi nel momento in cui si formavano quindi volevo dare proprio uno spessore psicologico. Questo è un romanzo di pensieri più che di azioni, un romanzo di idee e sentimenti, quindi credo che il modo di raccontare un po' fluido, liquido, dove conta tantissimo quello che il personaggio sta pensando, molto più di quello che fa, dava la percezione al lettore che fosse un'immersione nelle psicologie dei pensieri dei personaggi. Ma c'è anche un altro aspetto, legato al clima letterario di quegli anni. Ho voluto fare un gioco sfruttando l'impianto del romanzo modernista, sullo stile di Virginia Woolf, che esattamente in quegli anni emerge. Ho ambientato il libro tra il 1924 e il 1926, con il '26 come centro della narrazione, e Mrs Dalloway esce nel '24, Gita al faro nel '25: siamo proprio in quegli anni e volevo simulare stilisticamente certe attitudini del romanzo modernista proprio nel periodo in cui il romanzo modernista stava emergendo. Il flusso di coscienza che ho usato è molto Woolf-iano, e voleva essere un omaggio implicito a una narratrice che io amo molto e che proprio in quegli anni stava dando i suoi frutti più interessanti.

SV: Inserire il flusso di coscienza in un romanzo con una connotazione storica così forte è anche un elemento di dissonanza, perché è una contrapposizione.

PDP: Certo. Come ti ho detto prima, io non amavo molto l'idea di fare un romanzo storico tradizionale, con la solita terza persona, il solito sviluppo del fondale, mi sembrava un po' asfittica. Il romanzo doveva essere più breve rispetto al tradizionale romanzo storico, molto più intenso, molto più velocizzato, perché è una corsa contro la morte, quindi il monologo interiore aiutava ad accelerare. Era necessario dare questa accelerata forte che stringeva i tempi, li chiudeva, e questo, il flusso di coscienza aiuta a farlo.

SV: È stato definito da parecchie persone un romanzo per i giovani, anche durante la presentazione. La figura di Gobetti l'hai scelta perché era interessante, per tutti i motivi che hai detto prima, oppure perché speravi potesse anche diventare una sorta di ispirazione per le nuove generazioni?

PDP: Ho presentato tantissimo questo libro nelle scuole. Naturalmente non è semplice portare nelle scuole un romanzo che comunque ha a che fare con un tempo storico così lontano, però quando gli studenti hanno davanti una figura come quella di Gobetti, come un personaggio letterario e allo stesso tempo come personaggio storico, uno che ha l'età loro, in fondo, e fa questa quantità infinita di cose, secondo me funziona, li suggestiona. Se non lo si pone come la lezione sul personaggio storico, quindi qualcosa che, già di per sé, mette gli studenti nella condizione di pensare che non stiamo facendo un approfondimento del loro programma scolastico, allora si cominciano a chiedere come abbia fatto a diciassette anni a fondare una rivista. Questo attivismo, questo slancio, questa energia, comunque affascinano, così come quell'epigrafe che ho messo, che è di Dylan Thomas e recita «Vado avanti quanto dura il sempre», da una poesia che si chiama Ventiquattro anni, perché secondo me anche in una giovinezza che può apparire a tratti inerte, disincantata, ci sono sacche di resistenza e di volontà e un personaggio così, che sulla volontà basa tutto e sente che le cose si cambiano soltanto quando uno veramente vuole cambiarle, riesce ad avere ancora un'attrattiva. L'impegno non significa fare gli ammaestratori, però ho cercato di avvicinare una figura che secondo me ha un valore al di là della sua fine così drammatica. Non è tanto la sua condizione di esiliato o di vittima del fascismo, ma vedere come in un tempo che è ben più cupo del nostro è riuscito a scavarsi uno spazio di manovra. Allora nel momento in cui si dice, nel 2014, che non si ottiene niente, che in Italia fa tutto schifo e va tutto male, proviamo a pensare che cosa significava vivere nell'Italia del '24 con il questurino che veniva a casa e ti dava la diffida dal pubblicare qualunque articolo e ti bruciavano la tipografia. Fino a prova contraria siamo in un paese ancora libero, no? Poi le difficoltà sono oggettive, le esperienze all'estero sono formative e a volte anche necessarie, ma non mi piace questa idea per cui chi resta è inferiore. Sembra proprio che chi rimane è un perdente, ma non è così, bisogna anche ribellarsi a questa idea che chi resta è vittima di un paese senza speranza, non voglio fare politica però...

SV: Sì, e questa cosa non nasce soltanto da quelli che vanno all'estero e dicono che è meglio, nasce anche da chi rimane. Il concetto stesso di “fuga dei cervelli”, implica che se hai un cervello vai fuori...

PDP: E invece quelli che restano sono senza cervello...

SV: Esatto...

PDP: È allucinante, non è così, intanto perché le cose non sono così semplici neanche fuori, e poi il più delle volte ti accorgi che i nostri coetanei stanno fuori e lavano i piatti, allora se si vogliono lavare i piatti a Londra, benissimo, però li si poteva lavare pure a Nemi. Un conto è avere un orizzonte di vita in cui è possibile affermarsi, o esiste una necessità, per esempio per ragioni di studio, o in certi ambiti tecnico scientifici dove esistono più opportunità all'estero, però se si parte con una serie di ambizioni un po' confuse, perché si pensa che tanto in Italia non si ottiene nulla e lì si lavora come commesso o lavapiatti, non ho nulla contro questo, però non mi piace neanche che poi si dia la lezione a chi è rimasto. Allora mi sembra che questa figura ti dimostra che, fino a che le condizioni non sono quelle della negazione della libertà, a qualunque latitudine se si vuole veramente qualcosa si riesce a farla, il punto è quanta volontà hai. Poi questo non nasconde le difficoltà, che ci sono, e quando fai questi ragionamenti arriva subito chi ti dice che le difficoltà ci sono: è vero, ma c'erano anche allora le difficoltà, e molto maggiori.

SV: Grazie del tuo tempo.

PDP: È stato un piacere.

Piero Gobetti

Piero Gobetti

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Intervista ad Aurelio Picca

13 Novembre 2014 , Scritto da Sergio Vivaldi Con tag #sergio vivaldi, #interviste

Intervista ad Aurelio Picca

Nel fine settimana del 25 e 26 ottobre a Nemi, famosissimo borgo nella zona dei castelli romani, si è tenuto il BiblioUp Festival, la prima edizione di un evento organizzato dalle biblioteche dei vari comuni della zona e Andrea Camilleri a fare da testimonial che, non potendo essere presente, ha voluto comunque mandare un video di saluto. Trovandomi a Roma, mi sono trasformato in un blogger d'assalto, armato di un pericolosissimo smartphone, con il preciso intento di infastidire intervistare ogni scrittore che mi capitasse a tiro.

L'ultimo ospite nella mia lista è Aurelio Picca, che si trova a Nemi per presentare il suo Un giorno di gioia, pubblicato nel 2014 per i tipi di Bompiani. Il tempo è poco, la sala serve per uno spettacolo musicale e l'organizzazione provvede ad accordare gli strumenti, non le condizioni migliori per un'intervista. È sera, il vento imperversa e sarebbe freddo anche senza, l'idea di spostarci fuori non è entusiasmante. Prima che le condizioni audio impediscano qualsiasi conversazione si riesce comunque a scambiare qualche battuta.

Il romanzo:

Dopo la scomparsa del padre il giovane Jean vive con la madre Tilda nel “castello”, la residenza di famiglia che la Tilda ha ereditato dai genitori. La famiglia materna è un concentrato di anomalie, tramandate ai molti figli. I privilegiati sono Tilda e Attila, il più piccolo, ma gli altri fratelli, capitanati dall'avido primogenito Marcello, per non impugnare un testamento che li taglia fuori dalla proprietà della sontuosa dimore di famiglia, ottengono da Tilda la promessa di un rimborso, che le costa caro e cambia radicalmente la sua vita. Tilda infatti entra in un altro mondo, quello della malavita. Una follia, la sua, che si manifesta anche nel modo che ha educato il figlio, vestendolo e truccandolo come una femmina, come una maschera. Il piccolo Jean assiste alle imprese della madre, comprendendo solo in parte ciò che avviene. La sua visione del mondo è parziale e infantile, deformata dai miti familiari di lusso, ricchezza, perfezione. Lui ama i profumi, i fiori, i colori. Ma quando i crimini di Tilda cominciano a venire a galla, la situazione precipita sul giovane, imponendo una sequenza allucinata in cui la realtà si impone con tutta la sua forza.

L'intervista:

Sergio Vivaldi: Ciò che mi ha colpito maggiormente è il castello, sembra un personaggio a sé stante, quasi a formare un triangolo con la madre e il figlio.

Aurelio Picca: Sì, è vero. Diciamo che il castello rappresenta la mia casa dei miei sogni, ma è anche una casa che ho abitato da bambino, una casa enorme e disabitata, sfondata, abbandonata, antica, che io ho fatto crescere e lievitare in un castello. Abitare questa grande dimora abbandonata è una delle mie ossessioni felici, una ossessione un po' ricorrente, perché anche in Tutte stelle il bambino protagonista abitava in una casa enorme all'ultimo piano, dove entrava vento, luce, le rondini. Il castello è un protagonista, così come altre volte è successo lo stesso con i paesaggi, in altri miei lavori.

SV: E poi diventa un modo per ritrovare una patria, come dicevi durante la presentazione, che manca, perché ci si sente sradicati quando non si ha un luogo da chiamare casa.

AP: È un luogo protetto, un nido, dove c'è il sogno, dove si può ricordare, dove si può mangiare, si può vivere, si può essere amati.

SV: Interessante anche il rapporto tra madre e figlio. Riprendendo l'idea del triangolo, il castello è la terza punta, perché la madre vuole conquistare il castello, lo vuole tutto per sé, e lo trasforma in un ostacolo nel loro rapporto.

AP: No, diciamo che è un po' una conseguenza del desiderio della madre, è un processo inevitabile, fisiologico. Per averlo lei deve combattere, quindi sembra che il figlio sia vittima, però poi nello stesso castello lui trova la forza per riappropriarsi di sua madre, vendicandola, di viverlo, di trovare il suo maestro, e poi di abbandonarlo quando è un uomo libero..

SV: Infatti lui, dopo che lo hanno riconquistato, riesce a emanciparsi dalla madre...

AP: Esattamente, quindi era necessario.

SV: E in questo luogo lui trova delle figure genitoriali che prima non aveva.

AP: Sì, trova anche Teresa dentro il castello, trova il suo futuro, non è di ostacolo. Apparentemente il castello diventa il prezzo da pagare per la sua crescita, la sua emancipazione e la sua libertà. Perché da una parte è gabbia ma dall'altra è libertà.

SV: Lui è adulto quando racconta questa storia...

AP: No lui è bambino!

SV: Scusa, intendo che lui la racconta quando è cresciuto, ma dal punto di vista del bambino. Però il fatto che lui lo racconti attraverso gli stilemi della fiaba dà l'idea che questa esperienza da bambino non sia stata completamente superata.

AP: Non è la fiaba, qui non c'è fiaba, attenzione. All'andatura sembra una favola, perché il bambino ingigantisce o rimpicciolisce come i bambini fanno. Ha una ipersensibilità, di conseguenza restringe o dilata, è quello che dà il favolistico.

SV: Quindi non è in sé una fiaba ma è la visione del bambino che la rende fiabesca...

AP: Esattamente. Favola, proprio favola. Favola nera, perché poi accadono cose molto difficili...

SV: Infatti. Una cosa sull'ambientazione: è stata definita noir, ma durante la presentazione citavi la famosa frase di Chanel quando dice: «Alcune persone pensano che il lusso sia l'opposto della povertà. Non lo è. È l'opposto della volgarità». L'ambientazione noir, unita a questo lusso, questi luccichii che mostri...

AP: Lusso perché il lusso è anche sinonimo di gioia, e sono elementi estremi rispetto alla ricchezza e alla felicità, è quello il gioco.

SV: Di solito questo tipo di associazione viene fatta quando si vuole raccontare qualcosa di decadente, tu invece fai l'opposto, quindi rovesci determinati canoni, fai crescere il protagonista anziché farlo perdere.

AP: Assolutamente, non c'è decadentismo. Ho scelto di arrivare fino al kitsch per esasperare questa atmosfera, usando anche i colori, le lacche, gli smalti... È un'idea estrema, che tocca anche il modernismo, il kitsch.

SV: Ultima domanda: c'è questo tema ricorrente del bambino, del rapporto della madre con il figlio, hai citato Tutte stelle ma è presente anche in altri, quanto c'è di autobiografico in questo romanzo?

AP: L'interiorità è tutta vera, l'emotività, il resto è tutto inventato, quindi è tutto vero e tutto falso.

SV: Grazie per il tuo tempo.

AP: Figurati, è stato un piacere.

Intervista ad Aurelio Picca
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AA.VV., "Amori d'Amare"

27 Agosto 2014 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #interviste

AA.VV., "Amori d'Amare"

AA. VV.

Amori d’Amare

Antologia di racconti a cura di Cinzia Demi

2 Volumi – Pag. 440 – Euro 12,90

Minerva Edizioni

Una bella iniziativa legata al mare e all’amore, pensata per aiutare la ricerca contro il cancro, raccoglie un gruppo di scrittori sotto l’egida della Minerva Edizioni che festeggia il traguardo dei 25 anni di attività. Racconti che narrano amori di personaggi famosi, letterati, scrittori, pittori, musicisti, ma anche amori comuni, uniti da uno stile poetico e da un’accurata ricerca linguistica. Gli scrittori che hanno partecipato all’iniziativa: Antonella Antonelli, Alessandra Bertocci, Fabio Canessa, Paolo Carnevali, Maria Gisella Catuogno, Rosalba De Filippis, Cinzia Demi, Silvia Fornasari, Rosa Elisa Giangoia, Gordiano Lupi, Dante Maffia, Chiara Maranzani, Gabriella Mecucci, Alessandra Merico, Gabriella Montanari, Vincenzo Montuori, Ivano Mugnaini, Rita Pacilio, Sabrina Paravicini, Sergio Pasquandrea, Marina Ripa di Meana (Volume 1); Giacomo Battara, Stefano Biondi, Roberta De Santis, Liliana Eritrei, Marco Fornasari, Toni Iavarone, Alessandro Mischi, Giuliano Musi, Valeria Roncuzzi, Mauro Roversi Monaco, Marco Rufini, Adriana Sabbatini, Andrea Samaritani, Francesco Vidotto (Volume 2). Un dipinto a tema realizzato da Maurizio Caruso impreziosisce il volume, dotato d’una suggestiva foto d’epoca che ritrae in copertina la spiaggia di Rimini nel 1952. Abbiamo avvicinato la curatrice, Cinzia Demi, per farle alcune domande.

Come nasce l’idea di un’antologia di racconti legati all'amore, al mare e alle vite di personaggi famosi?

L’editore Roberto Mugavero mi propose di lavorare intorno al tema dell’amore al mare per una raccolta che potesse essere presentata in estate, a Cesenatico, nell’ambito degli eventi che di solito organizza in collaborazione con lo stesso comune. L’occasione era la voglia di festeggiare i 25 anni di attività della Casa Editrice Minerva insieme ai tanti autori che avessero avuto voglia di dare il loro contributo. Pensai così ad una raccolta di racconti ambientati al mare dove il sentimento dell’amore fosse amplificato – soprattutto per l’interesse del grande pubblico - dal fatto di appartenere ad un personaggio famoso, conosciuto, magari partendo anche da qualche fatto realmente avvenuto. Molti autori da me contattati hanno aderito all’iniziativa, altri hanno omesso questa terza opzione, limitandosi a scrivere storie d’amore immaginarie. Per questo alla fine, volendo comunque pubblicarli tutti, si è pensato ad una sorta di cofanetto di due volumi ognuno dei quali contenenti le due tipologie di storie. Il valore aggiunto di questo libro sta nel fatto che i proventi delle vendite sono destinati all’Istituto Romagnolo per la lotta contro i tumori.

Lo stile di molti racconti (penso a Battara) rasenta la prosa poetica. Si tratta di una precisa scelta editoriale, oppure è il tema che ha condotto su tali binari narrativi?

L’amore è da sempre un tema che rasenta, nelle sue modalità espressive, il sentimento più raccontabile attraverso una forma poetica. Trovo normale, quindi, che molti autori si siano cimentati nella modalità della prosa poetica, vicina alla poesia, per raccontare la propria storia. C’è da aggiungere che tra gli scrittori ci sono anche diversi poeti (penso a Maffia, Pacilio, Carnevali, De Filippis, Mugnaini, Montanari, Pasquandrea, Giangoia ad esempio) ed è inevitabile che la contaminazione tra i generi avvenga – specie pensando sempre alla tematica -. Trovo altrettanto belli i lavori che sono stati scritti però da mani abituate a trattare saggistica, narrativa, fatti di cronaca, soggetti teatrali… la raccolta è in questo senso davvero eterogenea, varia nelle voci e nelle forme espressive. Insomma può davvero accontentare tutti i palati.

Una tua poesia d’amore funge da elemento introduttivo. Perché?

Inizialmente si era pensato ad una raccolta poetica che parlasse d’amore ma, in concomitanza, stava uscendo una analoga raccolta “L’amore dalla A alla Z” curata dallo splendido autore Vincenzo Guarracino per Puntoacapo e non si voleva creare un doppione. L’idea dei racconti pareva sostituire degnamente l’originaria versione ma io ho voluto dare comunque un segno di questa volontà, aprendo il libro con questa mia breve lirica – riportata anche in quarta di copertina – che rappresenta la sintesi dello spirito, del cuore pulsante di tutto il lavoro.

Come ti sei trovata nelle vesti di curatrice di una raccolta di racconti?

La scrittura è l’elemento più significativo della mia vita. Da sempre mi accompagna e da sempre ho desiderato scrivere in ogni forma: poesia, racconto, saggio. Curare i lavori di altri è al tempo stesso un impegno e un valore aggiunto di confronto e quindi di crescita. Questo si equivale sia per le collane di poesia che curo che per questa raccolta di racconti: ogni volta è una scommessa nuova, un traguardo da raggiungere con se stessi e con gli altri, con gli autori che ti danno fiducia e con i pubblico che ti giudica.

Quali criteri hai seguito nella scelta degli autori?

Gli autori sono stati scelti sulla base delle conoscenze personali mie e dell’editore. Ho chiesto a chi pensavo potesse avere interesse a scrivere qualcosa di questo genere e a trovarsi coinvolto in un’antologia con tante voci diverse. Qui, devo dire – e me accorgo adesso – che lo zampino poetico ce l’ho messo io: conoscendo molti più poeti che autori di narrativa, ho chiesto a loro di partecipare più che ad altri. Chi ha raccolto il mio invito si è trovato contento e mi ha ringraziato per il bel lavoro fatto insieme.

Quali sono i personaggi famosi protagonisti delle storie?

I personaggi sono tanti e diversi. Tutti contenuti nel primo volume della raccolta. In pratica una ventina. Si va dallo scrittore al cantante, dallo sportivo all’attore, dal poeta al musicista, dal personaggio noto per fatti di cronaca a quello noto per essere scampato ai campi di concentramento. Non vorrei rivelare i nomi anche perché alcuni sono mimetizzati da uno pseudonimo per motivi di privacy – fatto che rende più intrigante la lettura del libro perché induce a ricercare di identificar il personaggio semi nascosto. Posso affermare in tutta sincerità che ogni autore ha voluto solo rendere un omaggio al proprio protagonista, utilizzato per passione o desiderio di veridicità nei suoi confronti.

Come promuoverete l’antologia?

L’antologia verrà promossa soprattutto attraverso le presentazioni: ne sono già state fatte due, una a Cesenatico e una a Portoferraio. Ogni autore, in pratica, oltre all’editore e alla sottoscritta curatrice, si è impegnato volontariamente a organizzarne una nel proprio luogo di residenza. In pratica – essendo gli autori provenienti da varie città italiane, dal nord al sud - il libro verrà raccontato in buona parte dell’Italia.

Un buon libro di brevi - ma intensi - spaccati di letteratura dedicati all’amore, prosa poetica, momenti di vita, incontri fugaci, storie di personaggi famosi come non li abbiamo mai conosciuti sui banchi di scuola. Un libro da leggere come un romanzo a puntate, dove ogni episodio è una nuova lettera d’amore, un nuovo capitolo d’una storia infinita. Quando comprerete la vostra copia pensate che - oltre ad aver nutrito la mente di buona letteratura - avrete aiutato la ricerca scientifica, perché il ricavato sarà destinato all’Istituto Scientifico Romagnolo per lo Studio e la Cura dei Tumori.

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

AA.VV., "Amori d'Amare"
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Marco Miele e il giallo in vernacolo

2 Giugno 2014 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #interviste

Marco Miele e il giallo in vernacolo

Marco Miele è uno scrittore di Piombino, terra ricca di tradizioni in provincia di Livorno - quasi Grosseto - un promontorio che si affaccia sull’Isola d’Elba, posto a me caro, ci sono nato e ci ho ambientato l’ultimo romanzo (Calcio e acciaio - Dimenticare Piombino, Acar). Nato nel 1963, pubblica dal 2011, ha al suo attivo due romanzi: L’umore del caffè (Multistampa srl, 2011 - ristampato da Govane Holden), Un pesce da aprire (Giovane Holden, 2013) e un paio di racconti lunghi usciti in antologie edite dal mio Foglio Letterario: Raccontare Piombino (2013) e Piombino in Giallo (2014).

Marco Miele usa il giallo per raccontare la vita quotidiana della provincia maremmana, impiegando al meglio un personaggio seriale: il commissario Franco Danzi, detto il Nero, che torna da Roma a Piombino dopo un matrimonio fallito, rivede i vecchi amici e riscopre i sapori della vita passata. Nel primo libro il Nero deve risolvere un mistero d’annata, un omicidio sulla spiaggia le cui indagini vengono riaperte e conducono a un’imprevista soluzione. Nel secondo romanzo - più maturo e anche ben realizzato a livello editoriale - deve risolvere un omicidio contemporaneo e scagionare un vecchio amico da un’accusa infamante. I due romanzi sono ambientati in una perfetta scenografia maremmana, scritti ricorrendo al dialogo, dosando pittoresche espressioni vernacolari e inserendo piccanti situazioni erotiche. I due romanzi tecnicamente sono definibili come gialli, perché c’è un mistero da risolvere, tra l’altro appassionante, ben mimetizzato tra indizi contraddittori, ma sono anche racconti ironici, frizzanti e scorrevoli, scritti in modo appassionato e divertente. Il Nero ritrova una banda di amici dei vecchi tempi, ricorda la giovinezza, preti sporcaccioni, amiche disponibili ed esperte nell’arte amatoria, compagni d’avventura dai nomignoli strani (L’Ora, Legno, Zero…); con quel gruppo trascorre serate sul mare davanti a un tramonto e in locali del centro bevendo birra e consumando patatine fitte. Ginepre è una minuscola Piombino, un paese di fantasia localizzabile nei pressi di Populonia Stazione, tra San Vincenzo e Baratti, un luogo popolato da mille anime, ma che possiede la sua Scuola Magistrale, piena zeppa di femmine da tampinare. Molto camilleriana come scelta, anche perché nel racconto convivono location realistiche (Piombino, Cecina, Isola d’Elba…) e il paese fantastico ideato dall’autore. Il Nero, paradossalmente, è il personaggio meno tratteggiato psicologicamente rispetto al gruppo, ma nel secondo volume resta memorabile uno scontro generazionale tra padre e figlio che si conclude con una cena a base di stoccafisso. Abbiamo avvicinato Marco Miele - senza grande difficoltà perché entrambi piombinesi - per avere qualche informazione di prima mano sulla sua attività di giallista.

Perché il giallo?

Il giallo, oltre a essere un appassionato, mi ha dato l’opportunità di raccontare storie che con il genere hanno poco da spartire. L’amicizia e la vita reale, sono temi che mi sono più cari. Il giallo è un pretesto.

Ti trovi bene a gestire un personaggio seriale?

Il protagonista dei due racconti, Franco Danzi detto il Nero, è suo malgrado il carattere descritto meno, viene intuito dai comportamenti, suoi e dei suoi amici, comprimari, coprotagonisti. Il protagonista seriale si muove in diversi spazi temporali, e mi è piaciuto tratteggiarne i cambiamenti nel tempo, suoi, degli amici e del territorio che li circonda.

La scenografia dei luoghi conosciuti (Piombino e Val di Cornia) quanto è importante nei tuoi romanzi?

Ginepre è un luogo di fantasia, ma tutto quello che c’è intorno è reale. Il territorio della Maremma è il protagonista silenzioso. I luoghi dove si ambientano gli eventi salienti di entrambi i racconti, sono verificabili, passo dopo passo, i luoghi veri e reali, e soprattutto indispensabili e insostituibili.

Perché l'uso del vernacolo toscano?

Ho cercato di trasferire la lingua parlata nella realtà, specie in certe fasce d’età, per rendere ancora più realistici i protagonisti. poi diciamo la verità noi toscani in generale, i maremmani in particolare, anche i più ostinati non riusciamo a togliere del tutto il “nostro” vernacolo.

Progetti per il futuro…

Quest’estate, partecipo alla raccolta Piombino in Giallo, spero di pubblicare prima della fine del 2014, dopo i primi due, il terzo e conclusivo episodio di quella trilogia da me definita del Caffè. Poi si vedrà quel che sarà…

Marco Miele è un talento naturale, imbastisce storie avvincenti, le ambienta con naturalezza in location conosciute, rende a dovere la suspense ricorrendo a trucchi del mestiere, racconta lo scorrere del tempo, il cambiamento di luoghi e situazioni. In una parola fa letteratura, con la elle minuscola, certo, ma letteratura…

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

Marco Miele e il giallo in vernacolo
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Stefano Simone: il regista che gioca a scacchi con il cinema

28 Maggio 2014 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #cinema, #interviste

Stefano Simone: il regista che gioca a scacchi con il cinema

Stefano Simone (1986) è un giovane regista nativo di Manfredonia (FG), che scrive sceneggiature e gira cortometraggi sin da adolescente (il primo all’età di 13 anni), dopo gli studi liceali si trasferisce a Torino per studiare cinema all’istituto Fellini e ottiene il diploma di Operatore della Comunicazione Visiva. Nel 2009 gira a Manfredonia il suo lungometraggio d’esordio Una vita nel mistero (2010), un film ispirato agli eventi soprannaturali che hanno segnato la vita di un devoto di Padre Pio. Prima c’era stato il promettente corto fantastico - splatter Cappuccetto Rosso, ispirato a una controfiaba di Gianni Rodari e a un racconto contemporaneo, girato nei boschi piemontesi. L’attività del regista prosegue febbrile. Ricordiamo lo sperimentale Unfacebook (2011) - ancora inedito - cinema fantastico sui danni che può produrre un eccesso di comunicazione a base di social-network. Sophia (2012) è un cortometraggio interessante girato in Svizzera per conto della Scuola Media Acquarossa, interpretato da attori giovanissimi. Weekend tra amici (2013) è il suo ultimo lavoro, il più maturo, minimalista ma dal taglio splatter e crudele, finalmente distribuito da un circuito televisivo.

Incontriamo Stefano Simone sul set del nuovo film: Gli scacchi della vita, un dramma fantastico ispirato a Il settimo sigillo e a Il posto delle fragole di Ingmar Bergman. Siamo andati a fargli visita per porre alcune domande.

Stefano Simone è un regista di genere o un autore? Come ti presenteresti a un pubblico che vuole conoscere la tua attività?

Non mi considero né un regista di genere, né tantomeno un autore: credo che molto spesso si usi questa parola in maniera impropria. Diciamo che sono un filmmaker a cui piace raccontare storie che, in qualche modo, parlano sempre della condizione di un essere umano. Non ho un genere di riferimento, cerco sempre di spaziare il più possibile, adattandomi al tipo di film che sto girando.

Qual è il tuo metodo di realizzazione di un film?

Preciso subito che realizzo i miei film nella più totale indipendenza. La troupe è composta da pochissime persone e sono sempre io - tranne rarissimi casi - a occuparmi sia della fotografia che delle riprese. Ho sempre il film in testa e, quando la sceneggiatura definitiva è pronta, scrivo lo shooting script, con tutte le inquadrature, i movimenti di macchina, ecc. Posso affermare che i miei film sono montati ancor prima di girarli. Chiaro che, alcune volte, modifico un po’ la scena in base alla location, senza comunque variare il linguaggio e, di conseguenza, ciò che si vuol comunicare in quel momento.

Come dirigi gli attori?

Non ho un metodo preciso, dipende dal film. In linea di massima, fornisco delle indicazioni base sui rispettivi personaggi e sul relativo cambiamento - se c’è - poi, scena per scena, mi limito a dare istruzioni del tipo “fai una pausa di qualche secondo”, oppure “dì la battuta più veloce”. Insomma, sul set, lavoro sul tono di recitazione.

Uno dei tuoi primi lavori è un horror - splatter fantastico, un corto intitolato Cappuccetto Rosso. Ce ne vuoi parlare?

Si tratta di una favola horror - splatter tratta da un racconto contemporaneo che omaggia il cinema di genere italiano, in particolare il gotico anni Sessanta: Mario Bava, Riccardo Freda, Antonio Margheriti. Ci sono comunque anche contaminazioni di Lucio Fulci e Joe D’Amato.

Il primo lungometraggio, Una vita nel mistero, è un mix di suggestioni autoriali e cinema fantastico.

Si, ma preferisco dire che si tratta semplicemente di un film mistico-religioso che racconta la vera storia di un devoto di Padre Pio a cui sono successi eventi straordinari. Ho comunque cercato di mantenere un certo distacco e di raccontare la storia in maniera neutrale, in modo che ogni spettatore possa interpretare gli eventi in maniera soggettiva.

Il tuo film più riuscito resta Weekend tra amici, un lavoro complesso, minimalista e filosofico, ma ricco di eccessi gore e splatter. Un lavoro che ha ottenuto consensi critici e anche una minima distribuzione.

Si, è il mio miglior lavoro sotto tutti i punti di vista. La critica ne ha parlato generalmente in maniera positiva e il film otterrà una distribuzione in tv, dvd e home video grazie a Running Tv International. Direi che posso ritenermi molto soddisfatto del risultato raggiunto fino a questo momento.

Altri lavori minori sono Sophia e Unfacebok

Sophia è un corto di stampo thriller-fantasy girato in Svizzera per la Scuola Media Acquarossa: è stata una bellissima esperienza lavorare con ragazzi di 13-14 anni pieni di volontà. La storia rievoca certe atmosfere di Howard Phillips Lovecraft, anche se il tono del film è decisamente più soft. Unfacebook è il mio secondo lungo, sicuramente il meno riuscito della breve filmografia.

Stai preparando un progetto interessante, un vero e proprio omaggio al cinema di Ingmar Bergman. Dicci qualcosa di più...

Si tratta di una storia drammatica di formazione. Una partita a scacchi che il protagonista gioca - forse - con se stesso, una competizione interiore per superare cattivi ricordi adolescenziali. Direi che ho detto abbastanza...

Abbiamo l’impressione che sentiremo ancora parlare di questo giovane filmmaker pieno di speranze, talento e grande buona volontà. Se il suo maestro è Ingmar Bergman, può essere il giovane Lars von Trier del cinema italiano.

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

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Marino Magliani, "Soggiorno a Zeewijk"

18 Aprile 2014 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #interviste

Marino Magliani, "Soggiorno a Zeewijk"

Marino Magliani

Soggiorno a Zeewijk

Amos Edizioni – Pag. 175 – Euro 14

www.amosedizioni.it

La saudade non è tipica dei portoghesi e dei brasiliani, anche se il termine l’hanno inventato loro, forse anche i liguri e gli olandesi soffrono di una malattia che conosco per averla provata ogni volta che mi sono trovato lontano dal mio scoglio affacciato sull’Elba. Persino Napoleone soffriva di saudade, recluso nell’esilio dorato di Portoferraio, ma forse la sua era soltanto saudade del potere, non della Francia. Marino Magliani è uno scrittore ligure giramondo, traduce autori spagnoli e latinoamericani, ha vissuto in Argentina, lavora in Olanda, nel quartiere di Zeewijk che si affaccia sul Mar del Nord. Alcuni anni fa ha dedicato un libro ad Amsterdam, e adesso ne ha scritto uno per il luogo dove è solito abbandonarsi ai lunghi silenzi invernali e a meditare per scrivere. Conosco Marino da anni, grazie alla Fiera del Libro di Imperia, luogo d’incontro di culture, dove lo vedo passeggiare con incedere tranquillo da vecchio ligure, ultimo libro in mano, un amico per scambiare ricordi, qualche autore da presentare. E mi fa bene la sua presenza, mi ricorda che il tempo scorre, lasciandosi indietro la riga delle candele spente (scusa, Kavafis!), ma che il futuro ci attende. Nonostante tutto, nonostante gli anni.

Il suo libro olandese si sviluppa come un compassato dialogo poetico con Piet Van Biert, sulla trasformazione delle dune nel corso del tempo, sulla costruzione di un canale, sul tempo che scorre in un luogo che vive “lo smarrimento dell’amputazione”. Zeewijk è il luogo dove l’autore vive, quartiere costruito sulla sabbia, terra strappata al mare e alle dune, un luogo che era soltanto vento ed erba, mare e sassi. Magliani ricorda solo per un istante quando è approdato in Olanda per fare lo scaricatore di porto, si lascia andare al flusso del tempo malinconicamente, costruisce un racconto tra le dune, impalpabile come la sabbia, ma profondo come il mare. Il desiderio dell’autore è soltanto quello di scrivere, finché sarà possibile, quindi vorrebbe ritornare - a tempo debito - nella terra natia immutabile, fatta di olivi e scogliere, per osservare lo spettacolo della natura da una finestra. Nel frattempo vive in un luogo dove tutto cambia e si trasforma, giorno dopo giorno. Un libro che mette in primo piano la scrittura, l’amore per le parole, l’ossessione per il grande narratore ligure Francesco Biamonti, ma anche l’incontro con Anneke, una ragazza olandese, conosciuta traducendo Pablo d’Ors. Lo stile del libro è lirico, compassato, meditabondo, intenso. Una lettura da centellinare, capitolo dopo capitolo, come una buona raccolta di poesie, scritte vagando tra la Liguria e l’Olanda.

Abbiamo avvicinato Marino Magliani per porre alcune domande.

Perché un libro olandese? (anche se non è il primo...)

Perché ogni tanto si accumulano idee olandesi, e perché raccontare la Liguria col tempo diventa una cosa meccanica, uno rischia di ripetersi, non di scrivere sempre lo stesso libro, che non sarebbe male, ma ripetersi.

Il luogo dove si lavora, da emigrante, può diventare un luogo del cuore?

Basta che lo sia per la testa, se lo diventa anche per il cuore è pericoloso, a volte i luoghi basta che siano compensazioni.

Che cosa può avere in comune un porto olandese con gli olivi liguri e quel lembo di terra stretta tra la montagna e il mare?

Entrambi i popoli hanno strappato la terra a qualcosa, alle pietre o all’acqua, questo senso di eterna emergenza e di attesa accomuna i due sensi di vita. Ultimamente nei giardini olandesi, nelle aiuole, nei parchi, si trovano ceppaie di olivi, alberelli rachitici, bruciati dal vento e dal salino. Si chiedeva la stessa cosa Edmondo De Amicis, il primo vero narratore che - tra l’altro nato nella mia città ligure - ha raccontato l’Olanda. Manca la verticalità, le montagne, per avere qualcosa in comune, anche se il vento di per sé è la vera montagna olandese.

In Olanda senti nostalgia della tua Liguria? E viceversa?

Quando è un po’ che sono in un posto o nell’altro, allora sì, una o l’altra mi mancano. Di solito mi manca l’Olanda quando ad agosto sono in Liguria e sogno la pace delle dune olandesi. I luoghi dove potere parlare da solo.

La tua narrativa è condizionata da questa natura da emigrante?

Certo, è la narrativa dell’esule, del personaggio o dell’io narrante che non sa mai se sia il caso di integrarsi e accettare il solco o alimentarlo e vivere in quella specie di nostalgia del nostos.

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Sacha Naspini, "Il gran diavolo"

23 Marzo 2014 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #interviste

Sacha Naspini, "Il gran diavolo"

Sacha Naspini

IL GRAN DIAVOLO
Giovanni dalle Bande Nere, l’ultimo capitano di ventu
ra

Rizzoli (collana Rizzoli Max)

I Signori della Guerra - Pag. 368 – € 12,90

Sacha Naspini spicca il volo verso la grande editoria confermando tutte le mie previsioni. Ogni tanto sono buon profeta, anche se non ho mai frequentato scuole di scrittura. Non mi è mai passato per la mente neppure l’idea di aprirne una, chiaro. Non penso di avere niente da insegnare. Luigi Bernardi - un uomo che ci manca molto - è stato il suo mentore (Naspini - che non è ingrato - gli dedica il libro), portandolo dal Foglio Letterario a Perdisa, consigliandolo a Elliot e infine proponendolo a Rizzoli.

Il suo nuovo lavoro è un romanzo storico e ci stupisce per la novità tematica, ma non più di tanto, perché Naspini ha un chiaro talento da sceneggiatore e ha sempre mostrato capacità di scrittura sugli argomenti più disparati. L’ingrato (Il Foglio) era una novella classica maremmana, I sassi (Il Foglio) un noir internazionale, I Cariolanti (Elliot) un lavoro vicino ad atmosfere horror, Le nostre assenze (Elliot) un doloroso romanzo di formazione, Cento per cento (PerdisaPop) un libro intervista sulla vita di un pugile, Noir Desire (PerdisaPop) un saggio narrativo sul famoso gruppo rock… Questo per dire che Sacha Naspini non è uno scrittore occasionale, non ha bisogno della molla che faccia scatenare il meccanismo narrativo, ma è capace di imbastire romanzi caratterizzati per scrittura asciutta e dura, operando come un vero e proprio contaminatore dei generi. Naspini fa letteratura usando i generi, cosa non facile, descrive caratteri ed emozioni, angosce umane e dubbi atroci, raccontando storie.

Vediamo Il Gran Diavolo, partendo dalla sinossi Rizzoli.

“I colpi d’artiglieria sovrastano il fracasso del metallo delle armature e le grida dei soldati all’attacco. Della guerra e della morte, però, non ha paura Giovanni: lui è un Medici, nelle sue vene scorre sangue nobile, ma combattivo e fiero, e ogni giorno affronta il nemico alla testa delle più feroci truppe mercenarie d’Italia, le Bande Nere. Il campo di battaglia è grigio, freddo, immerso nella nebbia, eppure i suoi uomini lo seguirebbero anche all’inferno. Tra questi marcia Niccolò, un giovane soprannominato il Serparo per l’inquietante abitudine di tenere tre o quattro serpenti avvolti intorno al braccio. Custode di una sapienza antica, si affida loro per conoscere il futuro. Perciò gli altri soldati lo tengono a distanza, ma presto conquisterà la fiducia del Capitano, riuscendo a penetrarne lo sguardo severo. E dove Giovanni lo avesse posato, là Niccolò si sarebbe fatto trovare, al suo fianco, in mezzo alla mischia. Sempre”. In questo romanzo storico, Sacha Naspini, con una lingua affilata che si misura con il dolore, il male, la morte, racconta di un’amicizia e di quello scorcio di Cinquecento che fu uno tra i momenti più tumultuosi della Storia d’Italia, quando ogni cosa stava cambiando, e tutti tradivano tutti. E lo fa attraverso un personaggio che incarna perfettamente il suo tempo, quel Gran Diavolo disposto a tutto per dominare la sorte e gli uomini. E continuare a combattere. Un esempio di stile: “Niccolò Durante aveva appena visto entrare suo padre nella chiesa. Adesso guardava la gente in adorazione e pensava al giorno in cui sarebbe toccato a lui immergersi in quella folla come un condottiero. Dalla cappella i canti arrivavano forti. Poi ecco che la calca si mosse davvero, spostando le persone come un’ondata. La statua di san Domenico apparve sulla soglia, sorretta a spalla da quattro uomini. E ricoperta da un immane nodo di serpenti luccicanti”.

Abbiamo avvicinato Sacha Naspini per due brevi domande.

Perché un romanzo storico?

È una mia passione, e da qualche parte doveva prima o poi trovare sfogo. Il “richiamo storico”, se così si può dire, permea quasi tutta la mia produzione - penso a I Cariolanti, Le nostre assenze, I sassi, L’ingrato… Raccontare la storia di Giovanni delle Bande Nere è stata comunque un’altra cosa. Ci spostiamo nel 1500, senza ganci con il presente. Una prova, soprattutto a livello di voce. Insomma, dovevo trovare la mia intonazione, sul narrato. E poi i dialoghi. Far parlare personaggi di cinque secoli fa rendendoli credibili e senza che risultino affettati, non è così semplice. Spero di esserci riuscito. Come spero che il romanzo di ambientazione storica resti nelle mie produzioni future – sembrerà strano, ma contribuisce a rendere più esatto il percorso che sento, come autore, sotto vari punti di vista.

Come ti senti dopo il grande salto con Rizzoli?

Sono curioso. È sicuramente un’occasione importante per raggiungere una nuova fascia di lettori. Per il momento, stiamo organizzando la promozione. Mi preparo a viaggiare un po’. E cerco di trovare il tempo per chiudere i romanzi nuovi.

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

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MULTIFORMITA’ DELLA VITA SESSUALE Barbagli, Dalla Zuanna, Garelli

26 Febbraio 2014 , Scritto da Biagio Osvaldo Severini Con tag #biagio osvaldo severini, #cultura, #interviste

MULTIFORMITA’ DELLA VITA SESSUALE

Barbagli, Dalla Zuanna, Garelli

A cura di Biagio Osvaldo Severini

Caratteristiche e orientamenti dell’attività sessuale. La doppia morale. Le credenze. La sessualità della donna prima e dopo il Settecento. L’orgasmo femminile nei secoli. Le posizioni della chiesa cattolica. I comunisti e la sessualità. Inizio storico dei cambiamenti e loro diffusione. Il tradimento.

La verginità. Gli orientamenti più diffusi.

Molti studiosi di diverse discipline, quali storici, sociologi, demografi, antropologi, politologi ed economisti hanno cercato di spiegare i molteplici cambiamenti di idee, valori, aspettative e comportamenti verificatisi in Italia nel corso del Novecento e nei primi anni del Duemila.

Le ricerche e gli argomenti affrontati sono stati tanto numerosi, che non si riesce più a contarli.

Un argomento, però, è stato quasi completamente ignorato: quello della sessualità.

Ignorato in Italia, ma non negli altri paesi occidentali.

Questa lacuna viene, ora, colmata dallo studio “La sessualità degli Italiani”, curato dai professori Marzio Barbagli (Università di Bologna), Gianpiero Della Zuanna (Università di Pavia) e Franco Garelli ( Università di Torino), che hanno svolto indagini, con metodi e tecniche diverse, su campioni significativi della popolazione italiana compresa tra i 18 e i 70 anni.

Essi si sono imposti due obiettivi.

Primo, fornire una dettagliata descrizione dei sentimenti, dei comportamenti e delle identità sessuali degli Italiani.

Secondo, ricostruire e spiegare i mutamenti che, nel corso del Novecento, si sono verificati nella cultura sessuale del nostro Paese.

Ho pensato di riportare in sintesi i risultati di queste ricerche, rivolgendo delle domande al professore Barbagli, quale coordinatore della pubblicazione.

Professore Barbagli, voi tre sostenete che le dimensioni più significative della cultura sessuale dominante sono tre.

Vuole spiegare le loro caratteristiche?

La prima è data dal significato attribuito all’attività sessuale. La seconda è costituita dai copioni di comportamento previsti per gli uomini e per le donne, cioè quelle regole che indicano con chi e in quali occasioni possono avere rapporti sessuali. Della terza fanno parte le credenze sulla natura, le cause e conseguenze delle varie forme di attività erotica.

Per quanto riguarda il significato attribuito al sesso, voi distinguete quattro principali orientamenti: ascetico, procreativo, affettivo, edonistico. Qual è il comportamento dell’orientamento ascetico?

Ascetico è l’orientamento di chi rinuncia volontariamente alla sessualità, scegliendo la strada dell’astinenza, della castità, della verginità e del celibato. Originariamente si basava su una concezione della vita che disprezzava il corpo come la morte dell’anima… Oggi è spesso giustificato come sacrificio in nome di una fede più grande di noi. Questo orientamento ha assunto particolare importanza nei paesi di tradizione cattolica, come il nostro, diventando la linea di demarcazione fra il clero e i laici.

E dell’orientamento procreativo?

Per l’orientamento procreativo il fine esclusivo dell’attività sessuale è mettere al mondo figli all’interno del matrimonio. Essa può avere dunque luogo solo fra persone di sesso diverso, dopo le nozze, e può realizzarsi solo nella penetrazione vaginale e solo nei momenti in cui il concepimento è possibile. Le relazioni sessuali prematrimoniali, extraconiugali, l’omosessualità, la masturbazione, le pratiche erotiche orali e anali, così come i metodi anticoncezionali, sono condannati moralmente, perché rivolti al piacere e non alla procreazione.

E dell’orientamento affettivo?

Per l’orientamento affettivo l’attività sessuale è espressione reciproca di amore fra due partner e serve al tempo stesso a consolidare il legame esistente fra loro. I rapporti sessuali dovrebbero aver luogo solo quando vi sono una forte intesa psicologica e un completo coinvolgimento emotivo ed affettivo fra un uomo e una donna… Ogni pratica sessuale è ammessa quando è desiderata da entrambi… Sono consentiti i rapporti sessuali prematrimoniali, ma non quelli extramatrimoniali, perché rappresentano un tradimento del coniuge. Se il coinvolgimento e l’intesa vengono meno, anche il rapporto di coppia può finire, con la separazione o il divorzio.

E, infine, dell’orientamento edonistico?

Nell’orientamento edonistico lo scopo principale dell’attività sessuale è raggiungere il piacere fisico. Esso è rivolto verso il corpo, ammirato ed esaltato più di ogni altra cosa. L’orgasmo, profondo, prolungato, ripetuto, è la forma di piacere fisico a cui si attribuisce maggiore importanza e, dunque, qualunque pratica che permetta di raggiungerlo è considerata positivamente, anche se fra i partner non vi è alcun coinvolgimento emotivo ed affettivo. E’ lecito, quindi, avere rapporti sessuali anche con persone appena conosciute, delle quali non si sa nulla o verso le quali si prova solo attrazione fisica, avere contemporaneamente più partner o praticare lo scambio di coppia.

Passiamo ai copioni, alle regole di comportamento degli uomini e delle donne e alla “doppia morale” che ha avuto grande importanza nel corso dei secoli. Che cosa significa e comporta questa doppia morale?

Bene. La “doppia morale” prevede regole diverse per gli uomini e le donne relativamente alla castità prematrimoniale e alla fedeltà coniugale. Mentre giudica severamente una donna che non giunge vergine al matrimonio, si aspetta che un uomo vi arrivi dopo aver fatto qualche esperienza sessuale con una prostituta, una serva o una donna più anziana. Analogamente, mentre non consente in alcun modo che la moglie tradisca il marito, considera molto benevolmente le scappatelle di quest’ultimo. E’ per questo motivo che in molti paesi europei è stato a lungo considerato un valido motivo di divorzio l’adulterio della moglie ma non quello del marito. E’ per questo motivo che, in questi paesi, la prostituzione, ben lungi dall’essere punita, è stata regolarizzata e gestita dalle autorità civili almeno dal Trecento in poi.

Su quali concetti si basa la doppia morale nell’attività sessuale?

Essa si fonda su due idee. La prima sostiene che dalla castità della donna dipende tutta la proprietà del mondo. La seconda sostiene che le donne siano proprietà sessuale degli uomini e che il suo valore diminuisca se ha rapporti con qualcuno che non ne è il legittimo proprietario.

Con quale orientamento è connessa la doppia morale?

Essa è intimamente connessa con l’orientamento procreativo. E’ invece molto più raramente seguita dagli uomini e dalle donne che ne hanno uno affettivo o edonistico.

Come si caratterizzano questi due ultimi comportamenti?

I seguaci dell’orientamento affettivo o edonistico si rifanno più spesso ad una concezione egualitaria che, pur avendo assunto finora forme diverse, considera leciti per entrambi i partner i rapporti prematrimoniali, illeciti quelli extraconiugali e attribuisce grande importanza al raggiungimento del piacere sessuale reciproco.

C’è da aggiungere che sono molte le “credenze” collegate a questi argomenti. Vogliamo per prima cosa descrivere le credenze che riguardano il corpo degli uomini e quello delle donne e le conseguenze dei diversi atti erotici?

Diciamo, a esempio, che l’orientamento procreativo non si è limitato a condannare moralmente la masturbazione perché rivolta esclusivamente al piacere, ma per lungo tempo si è basato sulla credenza che questa pratica fosse molto dannosa per la salute, che provocasse la tubercolosi, l’epilessia, la cecità, la pazzia, oltre a innumerevoli altri disturbi fisici e mentali.

E riguardo alle credenze relative alle differenze tra la sessualità maschile e quella femminile nell’Europa cristiana?

Per molto tempo si è ritenuto che le donne avessero desideri erotici più forti e inappagabili degli uomini o, come si diceva, una maggiore concupiscenza e una maggiore lussuria e fossero più carnali, più voraci, più aggressive e più insaziabili.

Ma poi c’è stato un cambiamento!

Sì, a poco a poco essa ha perso rilievo e, negli ultimi anni del Settecento, fu sostituita da una diametralmente opposta… Si iniziò a pensare che le donne fossero tenere, affettuose, disinteressate, materne, generose, altruiste, ma prive di bisogni sessuali, insensibili alla passione erotica, fredde, quando non frigide: ideali per mettere al mondo figli e per allevarli, per dare piacere al marito e per restargli fedele. In varie forme, questa credenza è rimasta in vita nei paesi occidentali per buona parte del Novecento.

Da che cosa fu provocato questo rovesciamento di prospettiva?

In parte fu provocato da un profondo mutamento della concezione del corpo e dell’orgasmo maschile e femminile, che risale alla fine del Settecento.

Nel libro affermate che prima della scoperta scientifica del meccanismo di fecondazione, in Europa si contrapposero due idee nate entrambe nella Grecia antica e riprese da diverse correnti culturali cristiane!

Sì, è così.

Come si caratterizza la prima idea?

La prima, risalente a Ippocrate e a Galeno, sosteneva che affinché avvenisse il concepimento era necessario che sia l’uomo che la donna raggiungessero l’orgasmo. Si riteneva che, durante il coito, entrambi provassero un piacere violento… ed emettessero una qualche sostanza che provocava la fecondazione. Questa tesi venne ripresentata con forza straordinaria dal gesuita spagnolo Tomàs Sànchez, in un testo del 1605, citato dai moralisti cattolici fino a tutto il Novecento.

E la seconda idea sul concepimento?

Risale ad Aristotele che sosteneva che l’anatomia e la fisiologia maschile e femminile fossero profondamente diverse, che le donne non eiaculassero, che la sostanza attiva nel processo di generazione fosse unicamente lo sperma. Questa tesi trovò nuova fortuna verso la fine del Settecento, quando si cessò di considerare l’orgasmo femminile rilevante per il concepimento e per l’amplesso coniugale. Così, dopo essere stato considerato per secoli una condizione necessaria e indispensabile della riproduzione, l’orgasmo femminile divenne un aspetto marginale della fisiologia, un fatto fortuito, secondario, superfluo.

Quali orientamenti ha sostenuto la chiesa cattolica?

Per secoli, la chiesa cattolica ha sostenuto l’orientamento ascetico e quello procreativo, il primo per il clero, il secondo per i fedeli laici.

Ci sono stati mutamenti nelle posizioni della chiesa cattolica?

Certo. Nel 1951… Pio XII dichiarava ammissibile il piacere sessuale, pur raccomandando la disciplina dei sensi. Implicitamente poi si consentiva ai fedeli il ricorso ai metodi naturali di controllo delle nascite. Dieci anni dopo, il Concilio Vaticano II, pur ribadendo che l’idea che l’amore coniugale è ordinato alla procreazione e all’educazione della prole, ammetteva che la fecondità non è il solo fine del matrimonio, e che tutti gli atti con i quali i coniugi si uniscono in intimità sono onorabili e degni e fanno parte dell’espressione dell’amore autentico… La chiesa ha inoltre cercato di aggiornare l’analisi del fenomeno dell’omosessualità e delle sue cause… Ma nel complesso essa è rimasta ferma sulle sue posizioni di principio e ha continuato a condannare la masturbazione, l’omosessualità, l’aborto, il divorzio e tutte le pratiche sessuali rivolte esclusivamente al piacere.

E il popolo comunista cosa pensava della sessualità e dell’omosessualità?

Almeno negli anni Cinquanta e Sessanta, anche la cultura sessuale del popolo comunista e delle organizzazioni e dei partiti che lo rappresentavano non si allontanava molto da quella dominante. Accettava la doppia morale e giustificava l’infedeltà maschile in nome di esigenze fisiologiche insopprimibili. Era diffidente, quando non apertamente ostile, nei confronti del mondo omosessuale, degli uomini attratti da altri uomini, che venivano chiamati “finocchi”, “checche”, “froci” o “recchioni”.

Parliamo anche dello Stato italiano. Quale orientamento ha privilegiato nel corso della sua ancor breve vita?

Anche alcune norme statali si ispiravano all’orientamento procreativo e alla doppia morale. Ai coniugi infelici esse non hanno reso possibile, fino al 1970, il divorzio, ma solo la separazione legale. Il codice penale e le leggi di Pubblica Sicurezza proibivano la propaganda a favore di pratiche contro la procreazione e a favore dell’aborto. Lo stesso codice penale considerava con la massima indulgenza l’uxoricidio per onore… Nell’ultimo trentennio del Novecento queste norme e leggi sono state abrogate, cambiate o sostituite con altre. Per la prima volta è stato riconosciuto il diritto di divorziare e di abortire. Quanto agli omosessuali, lo stato italiano sarà probabilmente uno degli ultimi a riconoscere dei diritti alle coppie gay e lesbiche.

Ricordo, infatti, che la legge sul divorzio è del 1970, sui consultori familiari del 1975 e sull’aborto del 1978. Ma quando sono iniziati questi cambiamenti?

Molti studiosi pensano al Sessantotto… Gli studenti che, negli Stati Uniti e in Europa, occuparono le università si ribellavano infatti non solo contro l’autoritarismo, la scuola di classe, la guerra in Vietnam e il colonialismo, ma anche contro la famiglia borghese e la morale sessuale tradizionale, come testimoniano i numerosi slogan che essi lanciarono: “Fate l’amore non fate la guerra”, “ il personale è politico” , il “corpo è mio e lo gestisco io”.

Si capisce chiaramente da queste osservazioni che non è proprio così. Perché?

Nella letteratura scientifica non tutti gli studiosi condividono questa tesi. Vi è chi ritiene che questi cambiamenti siano avvenuti già durante la seconda guerra mondiale… Altri sono convinti che grandi trasformazioni in questo campo iniziarono ancora prima, negli anni Venti, almeno negli Stati Uniti, in Germania e in Russia, dove gruppi di intellettuali influenzati dalle teorie di Marx e di Freud introdussero il concetto di “rivoluzione sessuale”. Altri studiosi ancora pensano che, in molti paesi dell’Europa occidentale vi sia stata una rivoluzione sessuale negli ultimi decenni del Settecento, quando crebbe notevolmente la frequenza dei rapporti prematrimoniali dei giovani proletari che si spostavano dalle campagne.

A questo punto, mi viene da chiedere: in quali ceti sociali iniziano i grandi mutamenti della sessualità degli Italiani?

Questi grandi mutamenti sessuali degli ultimi due secoli sono iniziati nei ceti sociali più alti, nei quali hanno preso l’avvio altre grandi trasformazioni sociali. Poi, queste innovazioni si sono lentamente diffuse negli altri strati della popolazione.

L’inizio è avvenuto prima al nord o al sud?

Questi cambiamenti sono iniziati nella borghesia intellettuale delle regioni settentrionali. Sono le coppie di questo ceto che per prime hanno cominciato, in diversi momenti del Novecento, ad abbandonare la “doppia morale” e la credenza che la masturbazione fosse nociva alla salute, a seguire un orientamento affettivo o edonistico, a dare grande importanza al piacere e alla sperimentazione, ad avere rapporti sessuali prematrimoniali, a fare uso della “fellatio”, del “cunnilingus” e dei rapporti anali, a provare sentimenti omoerotici e ad interpretarli… con la dicotomia omosessuale/eterosessuale.

Una spiegazione riguardante la dicotomia omosessuale/eterosessuale, però, è d’obbligo!

Certo. Questa formula serve a far capire che nell’ultimo trentennio del Novecento si è affermato il sistema di classificazione, secondo il quale coloro che si sentono attratti da persone dello stesso sesso non sono né invertiti, né attivi, né passivi, ma possono avere una nuova identità che comporta la formazione di rapporti non asimmetrici con i partner. E’ grazie all’affermazione di quest’ultimo sistema e delle nuove identità che è aumentato il numero degli italiani che si definiscono omosessuali o bisessuali.

E queste trasformazioni si sono verificate prima in Italia o in Europa?

Le trasformazioni della cultura sessuale ricordate sono avvenute prima nell’Europa centrosettentrionale (Svezia, Danimarca, Gran Bretagna, Francia e Germania) e poi in Italia.

Voi affermate che alcune pratiche sessuali si sono verificate, però, prima in Italia. Quali sono?

La prima è l’uso dei rapporti anali nelle coppie eterosessuali… La seconda è l’utilizzo di metodi contraccettivi a prima vista meno “avanzati” (il coito interrotto e il preservativo).

Come mai?

Ciò dipende dalle disuguaglianze di genere che sono in Italia più forti che negli Stati Uniti o negli altri paesi dell’Europa centrosettentrionale. Le donne italiane fanno minor uso della masturbazione di quelle di altri paesi e accettano i rapporti anali più di loro, perché hanno una minor forza di negoziazione nei rapporti intimi.

Ci sono altre disuguaglianze di genere riguardo alla sessualità?

Certamente. Nel nostro paese – più al sud che al centro nord – gli uomini, ad esempio, raggiungono l’orgasmo molto più spesso delle donne, mentre una parte significativa di queste finge talvolta di provarlo.

Ma negli ultimi anni soprattutto i comportamenti delle donne sono cambiati!

In effetti è così. Le donne si sono avvicinate notevolmente agli uomini per l’età del primo rapporto, il numero di partner avuti nel corso della vita, l’uso delle pratiche non riproduttive rivolte esclusivamente al piacere: la masturbazione, i rapporti orali, e così via. Le differenze di genere sono completamente scomparse riguardo ai rapporti prematrimoniali e alla frequenza con cui gli italiani si sentono attratti da una persona delle stesso sesso.

Qualche dato?

Fra i credenti convinti e attivi delle ultime generazioni, ad esempio, l’80% giudica positivamente i rapporti prematrimoniali e oltre il 70% ha avuto rapporti orali. Essi hanno tuttavia di solito un orientamento affettivo, mentre i loro coetanei senza religione si rifanno più spesso di loro a quello edonistico.

Nelle ultime generazioni italiane, inoltre, è diminuita l’età mediana del primo coito delle donne. Si è ridotta la percentuale di chi non ha mai avuto rapporti sessuali.

Inoltre, la diffusione dei comportamenti sessuali è disuguale: i rapporti sessuali prematrimoniali sono ormai universali; i rapporti orali riguardano la stragrande maggioranza delle coppie; i rapporti anali solo la metà.

Per quanto riguarda la fedeltà di coppia?

L’85% degli italiani condanna il tradimento… anche se poi una parte non piccola non è coerente… In un terzo delle relazioni di coppia lunghe (con o senza il matrimonio) almeno un partner tradisce l’altro.

Con quale orientamento è collegato questa trasgressione?

Soprattutto con l’orientamento edonistico, che consente anche di avere rapporti sessuali con sconosciuti o di tradire il partner, quando questo serva all’appagamento personale.

Parliamo di un argomento tabù per secoli nell’Europa occidentale, ma ancora tale in alcune regioni e villaggi italiani, e in molti paesi extraeuropei: la verginità delle donne. Da alcune osservazioni empiriche e dalla lettura di riviste molto popolari dedicate all’adolescenza, ci si forma la convinzione che essa non sia più un valore. Voi che cosa avete accertato scientificamente?

Prima di tutto che è cresciuta la quota della popolazione maschile e femminile che perde la verginità prima di aver compiuto 16 anni.

L’ideale della verginità femminile, poi, è condivisa oggi, in Europa, da una piccola minoranza di uomini, ma ha perso gran parte della sua importanza fra le donne. Anzi, per molte giovani italiane, la castità, ben lungi dal rappresentare un valore e un tesoro da proteggere, costituisce un ostacolo alla piena realizzazione di sé nei rapporti con i possibili partner… Così, quasi tutte le donne delle ultime generazioni hanno avuto rapporti sessuali prematrimoniali o con il futuro marito o, più frequentemente, con un precedente partner, voltando le spalle alla doppia morale.

Da tutto ciò che è stato detto si possono trarre alcune conclusioni, alle quali ci conducono gli stessi autori.

Il professore Barbagli le sintetizza per tutti.

Oggi, nel nostro paese, convivono concezioni della sessualità profondamente diverse.

Alcuni italiani con un orientamento prevalentemente procreativo continuano a condannare moralmente ogni attività erotica rivolta esclusivamente al piacere. Una parte di loro si rifà ancora alla doppia morale, per cui ritiene che la donna debba arrivare vergine al matrimonio, mentre l’uomo possa fare qualche esperienza sessuale prima; inoltre, giudica molto severamente il tradimento della moglie, ma non quello del marito.

Altri hanno mantenuto un orientamento ascetico, scegliendo la strada della verginità, rinunciando al piacere sessuale e agli affetti coniugali: il personale religioso, i sacerdoti che scelgono il celibato, o i frati, i monaci e le suore che fanno voto di castità; e anche laici che intendono consacrare la loro vita a Dio, pur restando nel mondo.

Nella popolazione più ampia si sono largamente affermati l’orientamento affettivo – che è quello più diffuso - e quello edonistico.

Molti uomini e anche qualche donna seguono l’orientamento edonistico prima della formazione di una coppia stabile, per poi lasciarsi guidare da quello affettivo.

Personalmente ritengo questa pubblicazione piacevole e al tempo stesso utile. Sì, questa volta posso usare proprio la categoria “utile”!

Mi spiego.

L’approccio alla vita sessuale da parte dei preadolescenti, adolescenti e giovani avviene quasi sempre in maniera istintuale, selvaggia, rudimentale, approssimativa.

L’istruzione relativa i ragazzi e le ragazze la ricevono in modo particolare tramite i film e le riviste porno, o i film e le riviste pseudoromantiche o dai più esperti tra loro.

Difficilmente le istituzioni educative, formali e informali, e i genitori si dedicano a questo complesso compito. E, quando lo fanno, nei loro discorsi ci sono spesso pregiudizi, reticenze, deformazioni derivanti dalla cultura sessuale a loro volta ricevuta direttamente o indirettamente da fonti non adeguate.

E ciò vale anche per le ultime generazioni di genitori e figli, che dovrebbero essere – in teoria - più aggiornate e laiche in tali argomenti!

Queste deformazioni, questi silenzi, questi rinvii ( “la riproduzione delle piante”, “oggi non è il momento”) portano, nei casi estremi, i ragazzi a pensare al corpo della donna senza organo genitale (“come le bambole tradizionali”) e che si spaventano quando vedono una ragazza nuda; o a ragazze che temono di rimanere incinte solo baciando un maschio, o ritengono vergognoso il rapporto sessuale, e così via.

Deformazioni che possono diventare anche causa di fallimento di alcuni matrimoni!

La lettura di quest’opera originale e scientifica – lo ribadisco – può aiutare tutti, docenti e discenti diretti o indiretti, a formarsi una sensibilità fine e deliziosa nei confronti di un argomento ancora, per molti aspetti, avvolto dalle ombre dell’ignoranza o dell’ipocrisia.

( Marzio Barbagli, Gianpiero Dalla Zuanna, Franco Garelli, La sessualità degli italiani, Il Mulino, 2010)

Nota esplicativa

- Cunnilingus o cunnilingtus: termine latino che indica la carezza boccale della regione vulvo--

clitoridea (Henri Piéron, Dizionario di psicologia, La Nuova Italia, 1973).

- Fellatio: voce pseudolatina che indica la carezza boccale del pene ( Dizionario di Italiano, La Biblioteca di Repubblica, 2004).

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quindici anni di foglio Letterario

5 Gennaio 2014 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #interviste

Riporto qui il link ad un'intervista a Gordiano Lupi editore de Il foglio letterario

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I POVERI E LE CLASSI SOCIALI IN USA di Biagio Osvaldo Severini

14 Dicembre 2013 , Scritto da Biagio Osvaldo Severini Con tag #biagio osvaldo severini, #saggi, #interviste

Franco Ferrarotti

Gli USA dopo 500 anni. New York e la povertà. Dai 600 mila ai 3 milioni di poveri per la statistica sono invisibili. Le cause. L’etica protestante e le massime evangeliche. Il cattolicesimo francescano. Le classi sociali. I ghetti al centro delle città. La questione sociale psicologizzata dai governanti reazionari. La responsabilità delle amministrazioni pubbliche nazionali e internazionali. Bill De Blasio sindaco democratico di New York.

A più di cinquecento anni dalla conquista dell’America da parte di Colombo, diventa interessante apprendere notizie su alcuni aspetti della vita negli USA direttamente da chi l’ha visitata diverse volte come ricercatore di sociologia. Questo ci permette di sottoporre ad esame critico l’immagine che di quel paese si è formata nella nostra immaginazione, attraverso i film, i documentari, i rotocalchi, i giornali, la musica, la letteratura, la filosofia, la psicologia, l’astronautica.

A tale scopo intervisto il professore Franco Ferrarotti che dal 1971, con cadenza quasi annuale, si è recato negli USA per motivi di studio.

Professore Ferrarotti, si sente dire che quella è la terra della ricchezza, dell’abbondanza, del dollaro che apre tutte le strade e risolve tutti i problemi. In questo paradiso terrestre esistono i poveri?

Guardi che io condussi una ricerca proprio sui poveri di New York, e precisamente di Manhattan nel gennaio del 1971. Ebbi modo, quindi, di vivere a lungo in quei luoghi e di osservare sul campo la situazione. Allora si incontravano gli “homeless”( i senza tetto), i barboni classici, gli intellettuali, e poi le “beg-ladies”, ossia signore cariche di sacchetti di plastica, che dormivano accucciate nelle cabine telefoniche o nella sala d’aspetto della Gran Central Station. I poveri c’erano, ma erano, come dire, poco visibili. Bisognava cercarli, attenderli al passaggio, sorprenderli nei loro rifugi. All’epoca a New York, la città più ricca del mondo, la città con la più forte accumulazione di capitale, si riscontravano almeno 2 milioni di persone miserabili, letteralmente alla deriva.

Oggi (1992) la situazione è cambiata?

Oggi la situazione è peggiorata. I barboni e i senza tetto si trovano dappertutto: sui mezzi pubblici, nei sotterranei della metropolitana. E non solo uomini, ma anche donne ancora relativamente giovani, con famiglia, bambini addirittura in tenera età.

Ma quanti sono questi poveri, attualmente?

Il fenomeno sfugge a calcoli statistici accurati, nonostante la nota mania degli americani per le statistiche. Il fenomeno non è esaminato con la solita accuratezza quantitativa. Forse è psicologicamente “cancellato”. Sta di fatto che le dimensioni appaiono, anche solo in base alle impressioni, notevoli. Gli “homeless”, i senza tetto, in termini globali per tutti gli USA, potrebbero andare dai 6oo mila ai 3 milioni ed oltre.

Ma come mai non si riesce a “controllarli”?

Gli “homeless” sono privi di automobili e di telefono, non hanno fissa dimora, per cui è difficile inquadrarli, nonostante la pur notevole meticolosità degli statistici.

Allora, essi esistono o no?

Secondo i criteri della classificazione della società “normale” i poveri non esistono. Sono uomini e donne invisibili. Ci sono certamente, poiché si vedono in giro tutti i giorni, ma ufficialmente non contano. Essi finiscono per essere annullati anche dalla consapevolezza comune. Sono ridotti a oggetti, a inerti componenti del paesaggio quotidiano.

Gli abitanti “normali” di New York come si spiegano il fenomeno degli “homeless”, se lo pongono come problema?

La cosa strana è proprio questa. Nessuno sa quanti siano i barboni e i senzatetto a New York, ma tutti hanno la loro spiegazione pronta. E’ una spiegazione tipicamente darwiniana che dovrebbe far gioire i sociologi. Secondo i cittadini “perbene”, gli “homeless” e i barboni è gente alla deriva, perché non vuole lavorare; sono individui dediti al bere e alla droga, schiavi irrecuperabili della bottiglia e della siringa. Può anche essere e, almeno in parte, è vero.

Ma non è estremamente difficile stabilire un così preciso rapporto di causa-effetto, dal momento che questi soggetti non vengono studiati scientificamente ?

Bisognerebbe prendere in considerazione, in ogni caso, anche le generali condizioni sociali ed istituzionali, in cui il fenomeno emerge, prende corpo, occupa uno spazio considerevole nel paesaggio sociale.

Come mai i newyorkesi sono, invece, così sicuri che la causa è da ricercare nella non volontà di lavorare? Si può pensare all’etica protestante molto diffusa tra la popolazione degli USA?

Certamente. E’ la vecchia, profondamente radicata nel sottofondo psicologico di massa, etica protestante, con la sua idea centrale che la “certitudo salutis” è già fin da ora data a chi sia prospero, guadagni bene, abbia un “good standing in the community”. Chi è povero non può sperare nella grazia. Il povero pecca per il solo fatto di essere povero. Il povero è un “percosso da Dio”. La povertà è percepita come giusto castigo per l’individuo che non ha voglia di lavorare, che non sa approfittare dei doni di questa terra, delle opportunità.

E le massime evangeliche?

In America le massime evangeliche sono rovesciate. Alla religione di fratellanza si sostituisce una religione dell’individuo, solo, senza mediazioni, senza la Madonna o Sant’Antonio, di fronte a un Dio severo, crudele, imperscrutabile. Nessuna meraviglia che i senzatetto non siano visti, tanto meno contati. Essi sono una stonatura. Meglio turarsi le orecchie, chiudere gli occhi e non farci caso.

Meglio, quindi, il nostro cattolicesimo francescano?

Senza dubbio. Il cattolicesimo mediterraneo ed in modo particolare lo spirito francescano considerano il povero un fratello privilegiato, perché più vicino al Regno dei cieli. Nei paesi anglosassoni non è così. La povertà come condizione cronica di individui e gruppi trascende il piano economico, diviene condanna morale che non investe solo i falliti, ma tocca anche giovani ai primi passi della carriera.

Negli USA, quindi, non esiste una “questione sociale”, nel senso che la struttura della società è rimasta statica nel tempo, e le classi sociali non si sono mai modificate?

Negli USA le classi sociali, almeno nel senso tradizionale, sono scomparse. L’evoluzione del meccanismo industriale, la robotificazione del lavoro e l’informatizzazione degli uffici hanno creato un processo di omogeneizzazione dei lavoratori in senso genericamente impiegatizio. I ceti medi vanno scomparendo, trasformandosi in una zona sempre più ampia senza un’immagine precisa. Il vertice della società diventa sempre più ristretto.

Alla base della società, adesso, c’è una umanità che non può essere chiamata “classe”, perché non produce, ma costituisce una “sottoclasse”.

Essa vive ai margini, anzi nello scantinato della società, in una zona dove le norme della società regolare non hanno corso, dove la stessa linea di demarcazione fra lecito e illecito, fra legge e crimine si fa incerta, labile, inesistente.

Questa “zona senza legge”può essere chiamata "ghetto”, anche se con un significato diverso dal ghetto del lavoro industriale?

Certo. Il ghetto odierno non è più quello operaio, analizzato da Marx ed Engels e da Charles Dickens. Quelli erano ancora ghetti operai in senso proprio, collegati con la razionalità del lavoro in fabbrica. Gli abitanti dei ghetti dell’Ottocento venivano sfruttati, perché inseriti in un processo produttivo regolare.

Il ghetto di oggi non produce niente. Esso è formato da neri, messicani, chicanos, portoricani e da tutti i tipi ispanici. Da questi ghetti di oggi escono i ragazzotti del lavoro minorile, le donne che lavorano ad ore e la notte spazzano gli uffici, tutta la manodopera precaria che alimenta l’economia detta invisibile, la quale è tale solo per quelli che non hanno occhi per vedere.

Lo sfruttamento di questi abitanti, formicolanti nel buio e nel tanfo dei vicoli privi di luce, ha assunto forme nuove, che aspettano di essere ancora esplorate e scientificamente analizzate.

In quale zona delle metropoli abita questa umanità cosiddetta “invisibile”?

Nei vecchi centri urbani decrepiti, abbandonati dai benestanti che vivono nel suburbio, a sicura distanza dalle aree degradate e dalle baraccopoli, che qui sorgono nel centro e non, come in Europa, nelle periferie.

La ricerca sociologica non fa nulla per studiare questa nuova situazione sociale?

Qui la ricerca sociologica si è, purtroppo, stranamente bloccata. Forse non ha trovato committenti sufficientemente generosi o distratti per commissionare certi studi.

Eppure, la violenta rivolta dei neri di Los Angeles (maggio 1992) ci ha fatto “vedere” persone che vivono ai margini della società, in condizioni miserevoli.

La mentalità media americana, ossia la “élite dominante bianca, anglosassone e protestante”, pensa che i moti e la sollevazione di Los Angeles sono dovute a cattive abitudini che i neri avrebbero contratto negli anni passati, specialmente durante le amministrazioni democratiche, a causa degli enormi benefici di ogni genere e soprattutto a causa delle elargizioni eccessive di denaro che ne hanno fatto dei fannulloni, incapaci di badare a se stessi, pigri, tanto esigenti quanto ignavi e perdigiorno.

La “questione sociale” è stata, dunque, “psicologizzata”, se si può usare questa definizione?

Questo, infatti, è il modo classico usato dai governanti reazionari per reprimere e sopprimere un problema, piuttosto che capirlo e risolverlo. Le differenze materiali, corpose, perfettamente quantificabili in termini di reddito, longevità media, salute, istruzione, tipo di abitazione e di lavoro, sono ridotte a stati d’animo. Le ineguaglianze economiche e culturali non derivano dalle caratteristiche strutturali della società, insomma, ma sono una conseguenza del comportamento degli stessi poveri. I poveri sono, cioè, colpevoli prima perché sono poveri e poi perché è colpa loro se lo sono. Le vittime diventano, in sostanza, carnefici di se stesse.

E’ per questo motivo che i programmi sociali delle amministrazioni democratiche vengono bloccati dalle amministrazioni repubblicane, come sta succedendo oggi, 2013, con la riforma sanitaria ( “Affordable Care Act”, Atto di cura a prezzi accessibili) sostenuta dal presidente democratico Barack Obama ?

E’ così, e di conseguenza la povertà diventa più insopportabile a seconda delle amministrazioni.

Mi permetto di trarre da questa conversazione con il professore Franco Ferrarotti alcune considerazioni.

Prima, che la povertà di massa non è una questione religiosa o di etica personale, tranne casi individuali.

Seconda, quindi, che la povertà dipende strettamente dalla politica economica messa in atto dalle amministrazioni pubbliche locali, nazionali e internazionali.

Terza, che i senza tetto e tutti coloro che vivono sotto la “soglia di povertà” ( 30.000 dollari di reddito per una famiglia di quattro persone), o di “quasi-povertà” ( sotto i 46.000 dollari a nucleo familiare), che all’incirca costituiscono il 48,5 % della popolazione, dovrebbero partecipare attivamente alle votazioni politiche o amministrative, esprimendo le loro preferenze per i candidati progressisti, che negli USA sono chiamati democratici.

Sono questi, infatti, che lottano contro la povertà, contro i privilegi, contro le disuguaglianze e soprattutto che vogliono tassare le grandi ricchezze economiche per realizzare, ad esempio, una riforma sanitaria pubblica, che assicuri le cure necessarie a tutti con costi accessibili; la costruzione di alloggi popolari; una scuola pubblica contro gli istituti privati accessibili solo alle famiglie dei miliardari.

Una dimostrazione della possibilità di rivoluzionare la politica sociale ed economica è stata data dalla popolazione di New York che ha eletto, nel novembre 2013, sindaco il democratico Bill De Blasio che, tra l’altro, appartiene ad una famiglia originaria di Sant’Agata dei Goti di Benevento.

( Franco Ferrarotti, I grattacieli non hanno foglie, Laterza, 1991; Bush e il ghetto invisibile, L’Unità, maggio 1992; Federico Rampini, Il sindaco rosso espugna la New York dei ricchi, la Repubblica, 6-11- 2013)

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