Overblog
Segui questo blog Administration + Create my blog
signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

educazione

Narrare e leggere "belle storie"

14 Settembre 2018 , Scritto da Laura Nuti Con tag #laura nuti, #cultura, #educazione, #miti e leggende

 

 

 

 

Poiché non si può parlare di lettura senza parlare di libri, inizierò col raccontare qualcosa che ha a che fare con uno dei miei autori preferiti, Robert Louis Stevenson... Come è noto, nel 1889, a trentanove anni, Stevenson si trasferisce con la famiglia nelle isole Samoa, dove rimarrà fino al termine della sua breve e intensa vita. In questi anni di permanenza, Stevenson si meriterà dagli indigeni il nome di “Tusitala”, cioè “colui che racconta belle storie”, in particolare quelle della tradizione della Scozia, di cui era originaria la sua famiglia. Scrive Stevenson nel suo libro-diario “Nei mari del Sud”:

 

Quando volevo cercare qualche particolare di un costume selvaggio o di una credenza superstiziosa, frugavo indietro nella storia dei miei padri e ripescavo qualche tratto di eguale barbarie: Michael Scott, la testa di Derwentwater, la seconda vista, lo Spirito delle acque, ciascuno di questi ho trovato che funzionava come esca; la testa del toro nero di Sterling mi ha procurato la leggenda di Rahero; e ciò che sapevo dei Cluny Macpherson o degli Appin Stewart mi permise di conoscere i Tevas di Tahiti e mi aiutò a capirli. L’indigeno non si vergognava più, il suo senso di fratellanza cresceva e le sue labbra si aprivano”. (1)

 

Stevenson è orgoglioso di saper comunicare con queste persone con questi “ascoltatori e  narratori di storie”,(2) come egli li chiama. Così descrive una serata di veglia trascorsa in compagnia di uno straordinario narratore delle isole Paumotu: “Stretti intorno alla lampada serale, col sottofondo della risacca, pendevamo dalle sue labbra, emozionati” (3). Un intero capitolo di “Nei mari del Sud” è dedicato alla “storie cimiteriali” raccontate da costui, storie che venivano narrate durante le veglie funebri per esorcizzare la paura della morte e per consolare.(4)

Il 3 dicembre 1894, Robert Louis Stevenson si spegneva all’improvviso, colpito da emorragia cerebrale. Il suo biografo, Graham Balfour, racconta puntualmente la solenne cerimonia funebre: i capi indigeni, grati allo scrittore per essersi opposto alla colonizzazione americana e tedesca delle Samoa, aprirono in poche ore una strada nella foresta perché Stevenson, com’era suo desiderio, potesse essere sepolto sulla cima del monte Vea, “alto sui litorali bianco e celesti dell’isola di Upolu”, ai piedi del quale aveva costruito la sua casa, “una casa grande, e con un  grande e inutile caminetto di pietra, e un’ampia veranda affacciata sul panorama” (5)

Certo, Stevenson si guadagnò la riconoscenza degli indigeni per essersi opposto alla colonizzazione tedesca ed americana delle isole Samoa, ma si può di certo pensare, e mi piace pensare, che è anche al fascino delle storie da lui raccontate che deve gli onori che gli indigeni gli tributarono seppellendolo in cima a quel monte. Non sappiamo quanto le sue storie fossero comprese nel loro profondo significato, se la loro struttura fosse evidente, se i personaggi fossero individuati nelle loro caratteristiche, e francamente questo non è  affatto importante; ciò che conta è il fascino che quelle storie emanavano, la suggestione, la magia: sono questi i fili invisibili che hanno incatenato gli abitanti delle Samoa, così diversi per cultura, lingua, tradizioni, visione del mondo, ad un grande scrittore dalla strana vita proveniente dall’altro capo del mondo, e lui a loro; e ciò che ha reso possibile questo legame è stata proprio la narrazione, l’incanto della parola, della voce umana.

Stevenson quindi, fornisce “indicazioni didattiche” molto utili a chi vuol sperimentare nuovi modi per motivare alla lettura: un ambiente caratterizzato dalla piacevolezza, dall’intimità e dalla presenza della voce umana, la gratuità del raccontare, l’amore che il narratore nutre per le sue storie, la narrazione che veicola la letteratura e in genere l’insegnamento...

Queste indicazioni le ritroviamo anche in Daniel Pennac, autore contemporaneo di romanzi per adulti come Il paradiso degli orchi, La fata carabina, La prosivendola e di Signori bambini. Pennac, in Come un romanzo, un saggio piacevolissimo e molto stimolante che appunto si legge  come un racconto, affronta il problema della disaffezione alla lettura nei giovani e indaga sul perché il libro si stia sempre di più trasformando in una “muraglia” che ci separa dai nostri figli e dai nostri allievi.

Nel saggio Pennac parte dalla sua esperienza di genitore di un ragazzo che non ama leggere e ripercorre all’indietro le tappe che hanno portato il figlio a questa disaffezione, un “male” che colpisce anche gli alunni del liceo parigino dove l’autore insegna francese. Così inizia il suo libro:

 

“Il verbo leggere non sopporta l’imperativo, avversione che condivide con alcuni altri verbi: il verbo “amare”... il verbo “sognare”... Naturalmente si può sempre provare. Dai, forza: “Amami!”, “Sogna!” “Leggi!”... Risultato? Niente.”(6)

 

Questa avversione alla lettura, continua Pennac, diventa una muraglia perché è veramente inconcepibile per noi, soprattutto “...se apparteniamo a una generazione, a un’epoca, a un ambiente, a una famiglia dove la tendenza era piuttosto quella di impedirci di leggere. ‘Ma smettila di leggere, insomma, ti rovinerai gli occhi!... Spegni la luce! E’ tardi!... Leggere a quei tempi era un atto sovversivo. Alla scoperta del romanzo si univa l’eccitazione di disobbedire alla famiglia. Duplice incanto! Oh, il ricordo di quelle ore di lettura rubate sotto le coperte alla luce di una torcia elettrica!”(7). Dopo aver riflettuto su se stesso bambino, Pennac riflette su se stesso genitore:

 

“Siamo giusti: non abbiamo pensato subito di imporgli la lettura come dovere. All’inizio abbiamo pensato subito al suo piacere. I suoi primi anni ci hanno messo in uno stato di grazia e l’assoluto stupore dinanzi a questa nuova vita ci ha conferito una sorta di genialità. Per lui siamo diventati narratori. Dal primo sbocciare in lui del linguaggio abbiamo incominciato a raccontargli delle storie. Era un talento che ignoravamo di avere... Se invece non abbiamo avuto questo talento, se gli abbiamo raccontato le storie di altri, e anche piuttosto male, cercando le parole, storpiando i nomi propri, confondendo gli episodi... poco importa. E se anche non abbiamo raccontato affatto, se ci siamo limitati a leggere a voce alta, eravamo il suo romanziere, il narratore unico grazie al quale ogni sera lui si infilava nel pigiama del sogno prima di scomparire sotto le lenzuola della notte. O meglio, eravamo il Libro. Ricordatevi di quell’intimità così ineguagliabile. Come ci piaceva spaventarlo per il puro piacere di consolarlo! E lui, come chiedeva quello spavento! Già così poco credulone, eppure tutto tremante di paura. Un vero lettore, insomma... Che pedagoghi eravamo, quando non ci curavamo della pedagogia!” (8)

 

Anche Pennac, quindi, ci invita a creare ambienti “caldi”, leggere per il piacere di farlo, e soprattutto a narrare, legando quindi strettamente lettura e narrazione.

La narrazione, infatti, “è una delle forme di discorso più diffuse e più potenti della comunicazione umana”(9) Fra le sue straordinarie caratteristiche ha quella di ordinare in sequenza gli eventi, di renderli lineari, di collegarli logicamente, ma anche di elaborare ciò che esula dalla norma, “l’elemento insolito”, e quindi di dargli significato. La curiosità del bambino verso il nuovo, l’inusuale, il divergente, che diventa nell’adulto desiderio di conoscenza, amore per la ricerca e la scoperta, potrebbe avere qui le sue radici. La narrazione infatti investe fin dall’inizio la vita dell’uomo: i concetti di bene e di male, i valori, i comportamenti, i canoni estetici ecc., vengono trasmessi al bambino attraverso racconti ed egli, a sua volta, per rapportarsi al mondo, impara a raccontare attraverso suoni, gesti, parole, frasi che l’adulto trasforma in storie, in comunicazione. Il meccanismo della narrazione è così connaturato all’uomo che i bambini comprendono le storie ancora prima di aver appreso a parlare ed avanza l’ipotesi che “la struttura della grammatica umana potrebbe aver avuto origine da una pulsione protolinguistica a narrare.”(10)

Narrare quindi, e narrare belle storie” a casa e a scuola, creando ambienti gradevoli dove il clima sia quello descritto da un altro dei miei autori preferiti, Italo Calvino, nella prefazione al suo libro “Se una notte d’inverno un viaggiatore”:Mettetevi comodi...”

La lentezza, la piacevolezza, la gratuità: modi di essere spesso sconosciuti a scuola. Ci sono i programmi da finire, le verifiche da fare, e poi le aule sono disadorne, i banchi rotti, la luce fredda... Chi di noi, anche se appassionato lettore, amerebbe immergersi nel suo libro in un ambiente simile? Allora, per prima cosa, creiamo con i ragazzi un luogo nuovo, “nostro”, dove stare bene. Se nella scuola c’è uno spazio che nessuno utilizza, si può trasformare in un luogo magico, dove perdersi nelle storie (“Siate maghe!” raccomanda Pennac alle bibliotecarie, e l’invito potrebbe di certo estendersi a tutte le insegnanti, “e i libri voleranno direttamente dagli scaffali alle mani del lettore”) (11). Si può trasformare, ad esempio, in una sala oscurabile, quasi buia, dove gli alunni stanno seduti su tappeti o stuoie; si chiede loro di rilassarsi come desiderano; l’insegnante legge in modo lento ed espressivo, illuminata da un faretto; al termine della lettura si rimane per un poco in silenzio (Pennac suggerisce di non uscire bruscamente dalle storie...), poi l’insegnante invita gli alunni a sedersi in cerchio, all’indiana, e, senza accendere la luce, chiede loro come sono stati, se sono riusciti a concentrarsi, se c’è un’immagine che li ha particolarmente colpiti, se questa immagine suscita in loro ricordi personali o di altre storie; nelle risposte si segue l’ordine del cerchio, ma nessuno è obbligato a parlare... Se lo spazio non c’è, si può trasformare la propria classe: ognuno porta da casa un cuscino, da conservare insieme a quelli dei compagni dentro un grande sacco “parcheggiato” in un angolo della classe insieme ad una stuoia o ad un tappeto, e quando è il momento opportuno, si stendono stuoie e tappeti, il sacco si apre, le finestre si chiudono un poco, l’insegnante si siede in mezzo ai ragazzi, apre il libro e... comincia il viaggio nelle storie!

Come avrete notato in questi piacevoli luoghi si legge ad alta voce. Insieme alla narrazione, questo tipo di lettura è un altro “mezzo magico” troppo spesso trascurato. “Il leggere con forte motivazione e partecipazione emotiva, e quindi con gioia e gratificazione personale, è la vera decisiva pratica che deve mirare a promuovere una valida educazione alla lettura” (12), e la lettura ad alta voce, contrariamente a quanto spesso si ritiene, stimola il desiderio di leggere attraverso il suono, il ritmo ed anche la gestualità. Questi preziosi strumenti della comunicazione, che non vengono utilizzati nella lettura, facilitano la comprensione del testo e lo rendono più piacevole arricchendolo di quella “teatralità” che rende tanto accattivanti i mass-media:

La narrazione non può essere senza voce”, scrive Bruner.(13)

Infatti “...leggere significa stabilire una relazione attraverso il tatto, la vista, l’udito (le stesse parole risuonano). Si legge con tutto il corpo... Le parole, il modo in cui si succedono, le ripetizioni, la loro musica, il loro corpo affascinano. E il piacere viene leggendo, inspiegabile e desiderabile” (14); e nella lettura, “la voce della madre, del padre (del maestro, del professore) ha una funzione insostituibile... per la promozione del libro da mero oggetto di carta stampata a ‘medium’ affettuoso, a momento della vita” (15)

James Joyce a chi lo accusava di scrivere opere troppo complesse, rispondeva che tutti sarebbero stati in grado di capirle se fossero state lette ad alta voce.

Quindi, attrezzare luoghi “caldi” dove narrare e leggere ad alta voce “Belle Storie”. Ma che cosa s’intende per “belle storie”? Quali racconti, quali libri possono essere definiti tali e quindi proposti perché possano catturare alla lettura?

Fra i dieci diritti del lettore elencati da Pennac nel suo già citato saggio, c’è anche quello di “leggere qualsiasi cosa” (16), sia i “buoni” che i “cattivi” romanzi, perché, come quelle del Signore, le vie della lettura sono infinite ed alla fine, se non si è stati demonizzati e repressi, arriva il momento in cui “al romanzo chiediamo qualcosa di più della soddisfazione immediata ed esclusiva delle nostre sensazioni”, e le buone letture  hanno la meglio sulla letteratura “usa e getta” che “si limita a riprodurre all’infinito gli stessi tipi di racconti, che fabbrica stereotipi a catena, fa commercio di buoni sentimenti e sensazioni forti, prende al volo tutti i pretesti offerti dall’attualità per sfornare una narrativa di circostanza...” (17)

Se questo è vero, esistono comunque “belle storie”, più capaci di altre di affascinare e quindi di motivare alla lettura? Italo Calvino aveva un’opinione in proposito. Nel suo libro “Perché leggere i classici” (il titolo è da leggersi come un’affermazione, e non come un interrogativo...) egli dà 14 definizioni di che cosa è un classico; ve ne propongo alcune fra quelle più significative per me:

“i classici sono libri che esercitano un’influenza particolare sia quando s’impongono come indimenticabili sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale...

... i classici sono libri che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti...

... il classico è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire...

... il TUO classico è quello che non può esserti indifferente e che ti serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui...

... si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati...

...le letture in gioventù possono essere poco proficue, per impazienza, distrazione, inesperienza delle istruzioni per l’uso, inesperienza della vita. Possono essere (magari nello stesso tempo) formative nel senso che danno una forma alle esperienze future, fornendo modelli, contenitori, termini di paragone, schemi di classificazione, scale di valori, paradigmi di bellezza: tutte cose che continuano a operare anche se del libro letto in gioventù ci si ricorda poco o nulla. Rileggendo il libro in età matura, accade di ritrovare queste costanti che ormai fanno parte dei nostri meccanismi interiori e di cui avevamo dimenticato l’origine. C’è una particolare forza nell’opera che riesce a farsi dimenticare in quanto tale, ma che lascia il suo seme... Naturalmente  questo avviene quando un classico “funziona” come tale, cioè stabilisce un rapporto personale con chi legge. Se la scintilla non scocca, niente da fare: non si leggono i classici per dovere o per rispetto, ma solo per amore. Tranne a scuola: la scuola deve farti conoscere bene o male un certo numero di classici tra i quali (o in riferimento ai quali) tu potrai in seguito riconoscere i “tuoi” classici. La scuola è tenuta a darti degli strumenti per esercitare una scelta...” (18)

Forse, tenendo conto di tutto questo, la classicità, la lettura dei classici, come elemento di identità culturale ma anche di apertura alle altre culture, come motivazione al leggere, chiave di accesso allo scrivere, stimolo al narrare, come contributo alla formazione della persona, potrebbe essere un elemento di continuità della scuola dell’obbligo. Se lavorare in continuità nella scuola significa soprattutto eliminare i “disturbi” che impediscono la progressiva formazione e crescita culturale e personale dell’alunno, quale disturbo più grande ci può essere della disaffezione alla lettura? Per tutte le caratteristiche che Calvino ci ha elencato, i classici possono essere considerati fra gli “apprendimenti significativi”, cioè quegli apprendimenti che rimangono nella memoria, sui quali è possibile saldare altre conoscenze e che motivano ad altri apprendimenti.

Scrive Pennac: “In argot (19) francese leggere si dice ‘ligoter’, che vuole anche dire ‘incatenare’. Nel linguaggio figurato un grosso libro è un ‘mattone’. Sciogliete quelle catene e il mattone diventerà una nuvola.”

La lettura dei classici, "facilitando” la riconciliazione fra i nostri ragazzi ed i libri, può contribuire forse a tale magia.

Ma quali classici si devono privilegiare nella scuola dell'obbligo? A mio parere, i racconti tradizionali, cioè le fiabe, le favole, i miti, le saghe e le leggende epiche, devono avere un ruolo fondamentale. Perché? Perché sono storie che “hanno una storia”, che vengono da lontano, che “hanno viaggiato attraverso il mondo e si sono colorate qua e là di sfumature, riferimenti, chiaroscuri attinti cammin facendo” (20); sono storie nate dalla narrazione, dalla tradizione orale (perciò si prestano ad essere narrate, raccontate) e sono divenute poi letteratura (perciò si prestano ad essere lette, indagate nella loro struttura, “ricalcate” per dar vita ad altre storie).

Questi racconti sono anche patrimonio della nostra cultura ed una identità culturale forte è importante proprio nel momento in cui ci si apre all’Europa e si incontrano, cosa che sarà sempre più frequente, altre culture. Non dimentichiamo fra l’altro che oggi le trame ed i motivi di questi classici sono conosciute dai ragazzi attraverso il cinema e la televisione. Ciò rappresenta un vantaggio per l’insegnante che può contare, contrariamente a quanto avviene quando si affrontano altri generi, su un repertorio a cui può fare riferimento.

Oltre a motivare, i racconti tradizionali servono a “leggere la realtà”: il linguaggio della pubblicità, dei giornali, dei mass-media in genere fa continuo riferimento ai classici (l’Odissea dei profughi, il governo è in un dedalo, è fra Scilla e Cariddi, quel ministro è più ricco di Mida, il delitto della Circe della Versilia ecc.); come pure la pittura e l’arte di tutti i paesi ed in particolare del nostro Rinascimento.

Spesso i grandi classici giungono nelle mani dei ragazzi attraverso riscritture e riduzioni. Molti si chiedono: è opportuna questa procedura? Non è forse lesiva della personalità dell’autore? Non è fuorviante per il lettore che crede di leggere il testo di un autore mentre in realtà legge l’interpretazione che di quel testo ha dato un altro?

A questi interrogativi, alcuni rispondono di sì, e si schierano nettamente contro le riduzioni e le riscritture; altri sostengono che dipende: dalla riduzione, dalla riscrittura, dal testo “trattato”. Ci sono storie che i bambini amano, che possono accendere in loro immaginazione e fare “da esca”, come diceva Stevenson, ad altre storie. I miti della classicità e le leggende epiche ne sono un esempio. Ma per un alunno della scuola dell’obbligo leggere in versione integrale le Metamorfosi di Ovidio, l’Asino d’oro di Apuleio, la Saga dei Nibelunghi, la Canzone di Orlando, il Cantare del Cid è impossibile e penso rappresenterebbe un deterrente infallibile verso qualsiasi desiderio futuro a proseguire nella conoscenza. Però queste storie ai ragazzi piacciono, e molto. Allora ben vengano le riduzioni e le riscritture, fondate però su una profonda conoscenza dei testi che permetta di rispettare le caratteristiche dell’opera e di raccontarla con un linguaggio capace di suscitare emozioni e di stimolare l’immaginazione.

Accanto a tanti denigratori delle riscritture, mi piace citare un autorevolissimo difensore dei classici a misura di bambino, Elia Canetti, che, a proposito delle sue prime esperienze di lettore, racconta:

 

Andavo già a scuola da qualche mese, quando accadde una cosa solenne ed eccitante che determinò tutta la mia successiva esistenza. Mio padre mi portò un libro. Mi accompagnò da solo nella stanza sul retro dove dormivamo noi bambini e me lo spiegò. Era le ‘Mille e una notte’ in un’edizione adatta alla mia età... Lui stesso mi lesse ad alta voce una storia: altrettanto belle sarebbero state tutte le altre. Dovevo cercare di leggerle da solo e poi la sera raccontargliele. Quando avessi finito quel libro, me ne avrebbe portato un altro... Mi gettai subito su quel libro meraviglioso e ogni sera avevo qualcosa da raccontargli. Lui mantenne la promessa, ogni volta c’era un libro nuovo... Era una collana di libri per bambini... Che collana stupenda e impareggiabile! Non ce n’è mai stata un’altra simile. I titoli li ricordo tutti. Dopo Le Mille e una notte vennero le fiabe dei Grimm, Robinson Crusoe, i viaggi di Gulliver, i racconti tratti da Shakespeare, Don Chisciotte, Dante, Guglielmo Tell. Mi domando come fosse possibile ridurre il poema per renderlo adatto ai bambini. Ogni volume aveva parecchie illustrazioni a colori che però non mi piacevano, erano molto più belle le storie (ecco un prezioso suggerimento per chi produce testi, antologie ecc troppo carichi di immagini e abbellimenti in genere...); non so se nemmeno oggi sarei in grado di riconoscere quelle figure. Sarebbe facile dimostrare che quasi tutto ciò di cui più tardi si è nutrita la mia esistenza era già contenuto in quei libri, i libri che io lessi per amore di mio padre nel mio settimo anno di vita. Dei personaggi che poi non mi avrebbero più abbandonato mancava soltanto Ulisse”(21)

Buone riduzioni, unite all’intimità ed alla voce paterna, hanno guidato questo bambino verso altissime mete; forse possiamo sperare in qualcosa di positivo anche per i nostri ragazzi.... Da Canetti ci viene anche un altro prezioso suggerimento: è bene ripensare a che cosa ci ha spinto ad essere lettori appassionati e poi, nel nostro caso, insegnanti appassionati perché questi due aspetti non possono essere disgiunti: 1989 “l’insegnante ... trasmette, per vie soprattutto indirette, il piacere da lui vissuto di leggere, ...‘contagia’ l’alunno  col suo amore della lettura” (22)

Un ultimo accenno alle rivisitazioni dei testi. Italo Calvino, per “giustificare” i suoi interventi sulle fiabe da lui raccolte, racconta di essersi fatto forte di un proverbio toscano: “la novella nun è bella se sopra nun ci si rappella”, cioè “la novella vale per quel che su di essa tesse e ritesse ogni volta chi la racconta, per quel tanto di nuovo che ci s’aggiunge di bocca in bocca” (23). Credo che questo possa valere per gli altri racconti tradizionali anch’essi figli della tradizione orale. Infatti è passando di bocca in bocca, di generazione in generazione, che i racconti tradizionali si sono sviluppati e arricchiti, sono mutati nei particolari perché cambiavano gli interessi e le caratteristiche di chi ascoltava; i temi centrali invece, i messaggi universali che questi racconti volevano trasmettere sono rimasti costanti nel tempo e sono giunti fino a noi. Rileggendo e raccontando con voce nuova antiche storie non si fa altro che camminare nella strada che esse percorrono da millenni e continuarne la trasformazione, per contribuire alla continua rinascita del mondo dell’immaginario.

 

 

(1)R.L.Stevenson, Nei mari del Sud, Mondadori, 1994

(2)R.L.Stevenson, Op.cit.

(3)R.L.Stevenson, Op.cit.

(4)La funzione “terapeutica” della narrazione viene utilizzata anche da Tilde Giani Gallino in Il fascino dell’immaginario, SEI, 1988, un libro che insegna ad usare l’immaginazione per dialogare con il proprio inconscio.

(5) R. L. Stevenson, Lettera al dottor Hyde, a cura di A.Bigongiali, Sellerio 1994

(6) D.Pennac, Come un romanzo, Garzanti, 1992

(7) D.Pennac, Op.cit.

(8) D.pennac, Op.cit.

(9) J.Bruner,“La ricerca del significato”, Boringhieri 1992

(10) J.Bruner, Op.cit.

(11) D.Pennac, Op.cit.

(12) F.Cambi-G.Cives, Il bambino e la lettura, ETS, 1997

(13) J.Bruner, Op.cit.

(14) Lionel Bellenger, Saper leggere, Editori Riuniti, 1980

(15) G.Rodari, Nove modi per insegnare ai ragazzi a odiare la lettura, in Scuola e fantasia, Editori Riuniti, 1992.

(16) D.Pennac, Op.cit.

(17) R.Valentino Merletti, Leggere ad alta voce, Mondadori, 1996

(18) I.Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori,1991

(19) argot: è il gergo dei malviventi parigini

(20) D.Demetrio, Agenda interculturale, Meltemi, 1990

(21) E.Canetti, La lingua salvata, Adelphi, 1991

(22) Maria Luisa Altieri Biagi, in  R. Cardarello- A. Chiantera (a cura di), Leggere prima di leggere. Infanzia e cultura scritta, La Nuova Italia, 1989

(23) I.Calvino, Fiabe italiane, Einaudi, 1988

 

 

 

 

Mostra altro

Giocagiò

15 Agosto 2018 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #come eravamo, #televisione, #educazione

 

 

 

 

Il tempo è smisurato da bambini. In particolare non finivano mai i quindici minuti che intercorrevano dalle 16,45 alle fatidiche 17, quando incominciavano i programmi Rai, inaugurati dall’immagine dell’antenna che saliva lentamente, immersa in una musica solenne.

Come anticipo sulla Tv dei ragazzi - beati tempi in cui nel pomeriggio criminologi dalle labbra gonfiate e direttori di riviste gialle ancora non disquisivano su delitti e donne fatte a pezzi - c’era un programma, andato in onda dal 1966 al ‘69, intitolato Giocagiò.

I conduttori più famosi erano Lucia Scalera e Nino Fuscagni (già, chi affiancare a una “Lucia” se non il mitico "Renzo" de I promessi Sposi, trasmessi nel 1967?)

Io ero una bambina curiosa e solitaria, mi piacevano le cose da ragazzi ma anche quelle per adulti, seguivo tutti gli sceneggiati tv senza perderne una parola, e forse è proprio così, fra fiabe, pupazzi animati e opere letterarie imperiture, che si è formata la mia fantasia. 

Giocagiò era dedicato “ai più piccini” ed era una sorta di Art attack ante litteram. Scopo del programma era insegnare, in modo divertente e leggero, a costruire oggetti e prendersi cura di piante e animali. In quegli anni là non si dimenticavano mai l’intento didattico e l’indirizzo etico del fanciullo.

Certe cose, per la loro semplicità, riuscivano persino a me che sono negata dal punto di vista manuale. Ad esempio mi piaceva costruire un igloo, disegnando col pennarello mattoni di ghiaccio su un guscio d’uovo aperto a metà. Chissà se i bambini di oggi sanno cos’era un igloo? Chissà se lo sanno almeno i bimbi eschimesi? (O devo dire Inuit, ora che le cose si offendono quando vengono chiamate col loro nome?)

La televisione era in bianco e nero, allora, gli sfondi erano pezzi di cartone dipinto, ma bastavano pochi oggetti - un tavolo, una sedia, la gabbietta di un uccellino - per scatenare la fantasia dei più piccoli, ricostruendo la casa immaginaria in cui era ambientato il programma, così come quando, nelle Fiabe sonore dei Fratelli Fabbri, bastava il suono dell’arpa per segnare il passaggio del tempo. Potente è la fantasia dei bambini, e potente quella del lettore se solo lo scrittore sapesse toccare i tasti giusti.

I due presentatori ebbero un gran successo perché erano educati, gentili, giovani e sorridenti. La Scalera era il prototipo della maestra che tutti avremmo voluto avere, bella e materna, dolce e allegra. Ma erano anche sobri, eleganti, formali. Lei aveva un casco scuro di capelli cotonati e lui l'immancabile giacca e cravatta. Erano anni in cui la forma contava ma non si sostituiva, tuttavia, alla sostanza.

Come vorrei che, all’improvviso, dalle mie mani scomparisse il telecomando e vi si materializzasse, invece, una tazza di tè caldo. Le cinque di un pomeriggio d’inverno… Mia madre e mia nonna sedute sul divano che è il mio letto, nel bel salotto nuovo della mia casa di via San Carlo, con le poltrone di sky marrone e le tende a rete gialla. La scrivania di mio padre in un angolo, ché lui lavora di giorno e studia di sera per diplomarsi. Io, accoccolata davanti al basso tavolinetto di marmo che per me rappresenta tutto: comodino, scrittoio, ripiano da gioco. Inzuppo biscotti al Plasmon che si sfanno nel tè, e ho nel naso un odore salato di raffreddore. Una lucina accesa brilla accanto all'apparecchio, perché “se no fa male agli occhi”, i bagliori bianchi e neri illuminano la stanza e, sullo schermo, Nino e Lucia sorridono: belli e giovani come non saranno mai più.

Non so se, fra schiuma party e feste di compleanno settimanali, i nostri bambini inondati di regali, imbambolati davanti al tablet, inchiodati al cellulare di papà, hanno mai provato una gioia del genere?

Mostra altro

Sull’educazione dei bambini: il meccanismo dell’imitazione

30 Marzo 2017 , Scritto da Federica Cabras Con tag #federica cabras, #educazione, #psicologia

 

 

Avete dei bambini? Quale tattica usate per farvi ascoltare?

Io non ho figli, ma ho una sorella più piccola alla quale ho sempre urlato molto, moltissimo. Nemmeno so contare le volte che mi sono ritirata in stanza con un gran mal di gola, senza nemmeno aver raggiunto quello che era il mio scopo originario.

Ora lei è una bellissima piccola donna che si prepara – fra pochi mesi, ahimè, prenderà il volo – alla prima superiore, ma quando era piccola si comportava, appunto, da piccola. E come biasimarla? Io però, nel frattempo, entravo in quel periodo della vita dove le energie sono a mille ma la pazienza scarseggia. Più lei ballava e cantava mentre io studiavo, più cercavo – con quelle che erano urla spacca timpani – di convincerla ad andare in un’altra stanza, eventualmente, per provare quelle coreografie degne di Amici e quegli acuti che sembravano quelli di Adele. Non ho mai capito – ora miriadi di studi chiariscono la questione – che urlare non serviva. Nemmeno un po’.

È bene che mi segni questa regola fondamentale, nel caso di eventuali figli: i bambini sono spugne, fanno tutto ciò che ci vedono fare. Ecco perché quelle urla erano sbagliate, dannose. Le hanno insegnato, probabilmente, ad urlare a sua volta.

La frase da usare?

“Fai come me.”

Possiamo usare questa frase ogni volta che vogliamo che il bambino in questione imiti il nostro comportamento.

Prendi come me la forchetta; leggi come sto facendo io; disegna come me.

È proprio tramite l’imitazione degli adulti che stanno loro accanto – dicono gli psicologi – che il bambino inizia quello che è il suo personale processo di crescita.

Per prima cosa, impariamo a modulare il tono. Deve essere deciso, sì, ma non troppo severo. Non si deve essere duri, occorre solo cercare di esortare il bambino a seguire con attenzione ciò che abbiamo da dirgli.

Poi, seconda cosa, i gesti: no a nervosismo o chiusura; sì a gioco, amorevolezza, dolcezza.

Serve tatto, affetto. Dobbiamo apparire disponibili.

Per i bambini, il processo di imitazione inizia presto: già intorno ai due mesi di vita – tramite il meccanismo pianto/riso – sembrano interessarsi alle nostre reazioni, poi affinano la tecnica. Si sentono grandi, quando cercano di emulare i comportamenti degli adulti.

Per far raccontare la loro giornata, quale modo migliore del raccontare noi la nostra?

Mostra altro

Il Cuore di tutti noi

20 Marzo 2016 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #educazione, #come eravamo

Cuore

Edmondo De Amicis

Garzanti, 1968

Oggi primo giorno di scuola. Passarono come un sogno quei tre mesi di vacanza in campagna! Mia madre mi condusse questa mattina alla sezione Baretti a farmi iscrivere per la terza elementare: io pensavo alla campagna, e andavo di malavoglia. Tutte le strade brulicavano di ragazzi; le due botteghe di libraio erano affollate di padri e di madri che compravano zaini, cartelle e quaderni, e davanti alla scuola s’accalcava tanta gente, che il bidello e la guardia civica faticavano a tener sgombra la porta.”

No, non siamo in Diagon Alley. No, non ci sono Harry, Ron e Hermione che, frettolosamente, fanno gli ultimi acquisti di bacchette e scope magiche prima di prendere il treno per Hogwarts.

Eppure la sensazione è la stessa: il formicolante inizio di un nuovo anno scolastico che sarà pieno di novità, di promesse, ma anche di difficoltà. Enrico Bottini non è Harry Potter e Torino non è Londra ma anche lui, per crescere, dovrà scontrarsi con una realtà non sempre piacevole, non sempre corrispondente a quelli che sono i sogni di un bambino.

E il successo di questo romanzo, almeno in Italia, fu paragonabile a quello della saga inglese.

Libro Cuore, dunque, non solo Cuore, “il libro” per antonomasia, capace di rimanere nell’immaginario collettivo come emblema della didattica morale.

Pubblicato nel 1886 dalla casa editrice milanese Treves, Cuore di Edmondo De Amicis (1846 - 1908) racconta, sotto forma di diario, l’anno scolastico di una terza elementare torinese, con il protagonista Enrico Bottini, i compagni di scuola di quest’ultimo, più altri caratteri di contorno. Chi non ricorda il buon Garrone e il perfido Franti, il muratorino muso di lepre, il gobbino Nelli, il superbo Nobis, il maestro Perboni - solitario e dabbene - la maestrina dalla penna rossa? Alcune figure sono diventate tipiche, come Derossi, sinonimo ormai di primo della classe.

“Quella classe diventa la finestra da cui si guarda l’Italia dell’ultimo ottocento”, afferma il Cappuccio. Oltre agli alunni, ai bidelli e agli insegnanti, si affacciano nella storia le famiglie, con le loro diverse appartenenze sociali, con i loro mestieri, le loro miserie e nobiltà. Vi è rappresentata Torino, con le strade, le piazze, il circo, i soldati che sfilano, ma vi è raccontata anche l’Italia postunitaria o, almeno, vi è l’intento d’inventarla attraverso un’operazione di amalgama, di fusione.

L’aula è una zona franca interclassista, nella quale convivono piccolo e alto borghesi, operai e sottoproletari. Il maestro Perboni, i genitori, cercano di stabilire e inculcare un codice comune di valori da condividere, basati sul trittico Dio, Patria, Famiglia. Un faticoso tentativo di accordo in un’Italia appena fatta che, purtroppo, resterà disuguale e disunita ancora troppo a lungo.

Ricordatevi bene di quello che vi dico. Perché questo fatto potesse accadere, che un ragazzo calabrese fosse come in casa sua a Torino, e che un ragazzo di Torino fosse come a casa propria a Reggio di Calabria, il nostro paese lottò per cinquant’anni, e trentamila italiani morirono. Voi dovete rispettarvi, amarvi tutti fra voi; ma chi di voi offendesse questo compagno, perché non è nato nella nostra provincia, si renderebbe indegno di alzare mai più gli occhi da terra quando passa una bandiera tricolore.”

L’intento educativo è debordante in ognuno degli episodi ma, soprattutto, nei famosissimi racconti mensili a carattere risorgimentale, patriottico, edificante. Arcinoti La piccola vedetta lombarda, Dagli Appennini alle Ande, Il piccolo scrivano fiorentino, etc, letti e riletti dai bambini di ogni epoca, ancora capaci di strappare una lacrima a nonni e nipoti. E, tuttavia, questi stessi racconti dall’intento moralistico e didattico gettano un occhio alla questione sociale, occupandosi della vita militare, della condizione degli insegnanti elementari, dell’emigrazione.

La critica ascrive Cuore al manzonismo minore, lo considera un autore mediocre per la prosa piana e discorsiva, l’intento troppo scoperto di elevazione morale, il “corto respiro” della narrazione. Se ne sono fatte decine di parodie, Umberto Eco ha addirittura ribaltato la prospettiva nel suo “elogio di Franti”, dove il cattivo è eletto a unico baluardo sovversivo contro una società mediocre che svilupperà il fascismo. Eppure il librone, almeno per quelli delle passate generazioni, restava una pietra miliare, da tenere sulle ginocchia e leggere insieme a mamme e nonne, commuovendosi per certi eroismi che sfociavano sempre nell’estremo sacrificio di sé, in quel clima funebre che doveva essere comune in un’epoca nella quale la mortalità infantile era alta e le infezioni abbassavano la speranza di vita dei cittadini. Un clima che era, tuttavia, anche di grande fiducia nel futuro, nel progresso, nel miglioramento al quale sembrava inevitabile andare incontro, grazie soprattutto alla diffusione della cultura e dell’alfabetizzazione.

Immagina questo vastissimo formicolio di ragazzi di cento popoli, questo movimento immenso di cui fai parte, e pensa: - Se questo movimento cessasse, l’umanità ricadrebbe nella barbarie; questo movimento è il progresso, la speranza, la gloria del mondo. - Coraggio dunque, piccolo soldato dell’immenso esercito. I tuoi libri sono le tue armi, la tua classe è la tua squadra, il campo di battaglia è la terra intera, è la vittoria è la civiltà umana. Non essere un soldato codardo, Enrico mio.”

C’è da chiedersi, in questi giorni bui, dove siano finiti certi ideali.

Mostra altro

La cultura dell’educazione in una società complessa di B.O.Severini presentato da Adriana Pedicini

10 Maggio 2013 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #saggi, #educazione, #biagio osvaldo severini

La cultura dell’educazione in una società complessa
JEROME BRUNER

Epoca rivoluzionaria. Disagio degli attori educativi. Antinomie e complessità. Cultura rivoluzionaria. Dialogo e istruzione estensibili a tutti. Metodologia della ricerca e mente proattiva. I giovani e i problemi cruciali. Identità narrativa e alterità. Mente interpretativa. Comunicazione ed educazione. Colpa degli insegnanti e degli intellettuali la rovina della scuola e della cultura?

Ci troviamo a vivere un momento di radicale trasformazione delle istituzioni educative che sono o preposte esplicitamente ai processi formativi, o ne sono implicate indirettamente.

Società, famiglia, scuola, gruppo dei pari e mass media sono attraversate da cambiamenti veloci e diversi che le trasformano e le fanno cadere , a volte, in conflitto di competenze e di interessi.

Un’attenzione peculiare viene rivolto alla scuola e all'educazione, ma non si mancherà di accennare ad altre aree tematiche rilevanti nel campo della sociologia dell'educazione.

La scelta cade sulla scuola, perché in essa confluiscono e interagiscono, formalmente o informalmente, le diverse componenti della vita comunitaria.

E anche perché, come sottolinea Vincenzo Cesareo ( "Elementi di sociologia dell'educazione", Carocci editore, Roma, 2004), il sistema formativo è sempre e comunque radicato in una realtà sociale definita, per cui, se quest'ultima è coinvolta in processi di modificazione profonda, è impossibile che esso vi rimanga estraneo a lungo, nonostante eventuali resistenze.

Il disorientamento delle istituzioni educative genera un clima di crisi e di sfiducia, in cui si trovano a disagio sia i genitori, sia gli educatori in genere, sia gli alunni di ogni ordine e grado.

Per cercare di dare un contributo al chiarimento della questione, si può partire dalle riflessioni dello studioso nordamericano Jerome Bruner, esposte nell'interessante lavoro "La cultura dell'educazione".

A questo fine rivolgo al professore - in una intervista immaginaria - alcune domande su specifiche problematiche educative e non solo.

Egregio professore, mi permetta di ricordare che Hegel amava sostenere che, quando bisogna iniziare un discorso, è importante cominciare dal “cominciamento”. Perciò, soffermerò la sua attenzione su una questione preliminare di carattere, diciamo così, terminologico.

Il processo formativo deve essere inteso etimologicamente come attività di “educare”, ossia guidare, o come “educere”, ossia “tirar fuori”?

Il modello da tenere presente deve essere quello di Pitagora, che pretendeva dai suoi allievi l’obbedienza assoluta, secondo il principio dell’ “Ipse dixit”; o viceversa quello di Socrate, secondo il metodo della “maieutica”, dell’aiutare l’allievo a “partorire” la verità, ad arrivare alla conoscenza, impegnando le proprie forze?

Da questa prima problematica scaturiscono, di conseguenza, altri interrogativi.

Nel processo educativo deve, dunque, assumere importanza: il magistrocentrismo (il maestro è il centro), o il puerocentrismo ( il bambino è il centro); l’insegnamento ( “in-signare”, per cui il docente porta dentro la mente del bambino i segni della conoscenza), o l’apprendimento ( “ad-prehendo”, per cui l’allievo con la sua mente si muove per afferrare gli elementi della conoscenza); l’eteroeducazione (per cui si riceve la conoscenza dall’esterno), o l’autoeducazione, per cui ci si educa da soli); la socializzazione ( per cui è l’adulto che sottopone il bambino al processo di acquisizione di comportamenti sociali), o lo sviluppo sociale ( per cui il bambino possiede in sé le spinte a vivere con gli altri)?

Porre l’accento sull’insegnante o sull’alunno comporta una serie di cambiamenti di prospettiva nel processo educativo, negli obiettivi educativi, nell’orientamento scolastico.

Ma comporta anche una visione diversa della concezione della società: la centralità spetta allo Stato o al cittadino, all’autorità o alla libertà, al dogmatismo o al problematicismo?

In sintesi: credere, obbedire e combattere per uno Stato etico assolutistico? O criticare, decidere, dialogare in uno Stato di diritto democratico?

Non sono problemi di poco conto, com’è facile capire.

Certo. Per trovare una soluzione, dobbiamo riflettere sul fatto che in epoche rivoluzionarie la società è sempre dominata dalle contraddizioni. E la nostra è un’epoca rivoluzionaria. Perciò, essa è dominata dalle contraddizioni, dalle antinomie…

…Scusi, nella mia mente subito affiorano i ricordi legati alle famose antinomie della ragione di cui parla Kant, nelle quali l’antitesi sostiene il contrario della tesi; come esempio,cito l’antinomia del mondo: il mondo ha un’origine nel tempo ed è limitato nello spazio (tesi); il mondo non ha origine nel tempo, né nello spazio (antitesi). Secondo la logica formale le antinomie sono un paradosso, perché due proposizioni riferite allo stesso oggetto nello stesso momento non possono essere vere entrambe: il principio del terzo escluso non lo ammette: A o è B o è non-B ( “tertium non datur”).

Anche l’educazione è travagliata dalle contraddizioni.

Infatti, lei elenca tre antinomie del campo pedagogico. Con il suo permesso, le sintetizzo.

La prima riguarda l’individuo e la società. Tesi: l’educazione deve mirare a realizzare le potenzialità dell’individuo; antitesi: l’educazione deve mirare a riprodurre, consevare la cultura della società attuale.

La seconda si riferisce allo sviluppo intrapsichico o allo sviluppo interpersonale. Tesi: l’apprendimento è intrapsichico, allora è centrale l’alunno con le sue doti naturali e bisogna coltivare la mente dei migliori; antitesi: lo sviluppo mentale è interpersonale, allora è importante che l’insegnante fornisca a tutti gli alunni gli attrezzi simbolici con cui sviluppare le doti naturali.

La terza è relativa alla conoscenza locale o alla storia universale. Tesi: la conoscenza locale è valida di per sé e non ha bisogno di una teoria universale per essere convalidata (questa tesi appare nei movimenti estremistici localistici); antitesi: esiste una storia universale che si manifesta nei fatti locali in tempi, luoghi e circostanze precise e ci sono personaggi che si autoproclamano portatori di valori universali.

Come si risolvono queste antinomie?

La soluzione delle antinomie non può essere trovata nel campo della logica formale, ma solo in quello della pragmatica.

Voglio dire che nel campo dell'educazione, per valutare quello che vogliamo insegnare o vogliamo far apprendere, e per sapere in che direzione ci vogliamo muovere, dobbiamo tenere in debito conto queste antinomie. Quindi, capire che la giusta misura non sta nella scelta della tesi o dell'antitesi, ma nel considerare i vari aspetti presenti in una società complessa come la nostra.

Come concepire, allora, il processo e gli obietti educativi?

L'educazione deve essere concepita come un processo anch'esso complesso, intrinsecamente antinomico e interdipendente, in cui confluiscono sviluppo e formazione, auto ed eteroeducazione.

Anche gli obiettivi educativi diventano, di conseguenza, complessi: bisogna tendere a realizzare le potenzialità individuali, ma salvaguardando la società; riconoscere le differenze dei talenti naturali, ma fornendo a tutti gli strumenti della cultura; rispettare le identità locali, ma difendendo anche la coesione come popolo, per evitare sia la torre di Babele dei localismi, sia l'omologazione della globalizzazione.

Quale deve essere, allora, la caratteristica generale della scuola?

Una risposta di carattere generale mi porta ad affermare che la scuola deve essere una comunità propositiva, collaborativa, solidaristica, promotrice di una cultura rivoluzionaria, soprattutto in una situazione di deprivazione.

Per capire meglio, vuole scendere nell’analisi della sua affermazione?

Bene. Alcuni esperimenti psicologici su animali e su bambini hanno dimostrato che essi, se allevati in situazioni di deprivazione sensoriale affettiva e culturale, rivelavano deficienze, quando venivano sottoposti a test relativi a normali compiti di apprendimento e di soluzione di problemi.

Questi esperimenti ci fanno capire, in sintesi, che gli esseri umani, in particolare, presentano le caratteristiche di essere non solo "reattivi", ma anche "proattivi".

Gli uomini, in sostanza, non solo necessitano delle stimolazioni, ma le cercano, soprattutto vogliono interagire con gli altri, vogliono essere aiutati a sviluppare le loro capacità.

La scuola, allora, deve intraprendere un'azione positiva nel senso di spingere gli alunni a vivere in una comunità scolastica propositiva, per permettere loro di costruire le proprie competenze e di sviluppare un effettivo senso di appartenenza ad una comunità collaborativa.

La comunità scolastica deve, quindi, strutturarsi come un ambiente, in cui si elabora un progetto legato agli interessi degli alunni e che essi stessi contribuiscono ad organizzare con le loro idee.

Solo così operando, si può sperare di contrastare l'alienazione, l'impotenza e la mancanza di scopi della società più ampia.

La scuola deve diventare, in concreto, un luogo dove sperimentare: come usare la mente; come trattare con gli altri; come trattare con l'autorità; come formarsi l'autostima; come mettere in pratica i principi etici, che la società esterna non sempre applica.

Lei afferma che la scuola deve diventare promotrice di una cultura rivoluzionaria. Quando una cultura diventa rivoluzionaria?

La cultura diventa rivoluzionaria, semplicemente quando è coerente con i principi dichiarati nelle "Carte dei diritti dell'uomo" e quando diventa dialogica, narrativa, interpretativa.

Narrazione significa, infatti, vedere le cose da un altro punto di vista, significa rompere gli schematismi tradizionali totalizzanti, considerati, dopo millenni, di origine divina o naturale e, perciò, immodificabili.

La scuola deve applicare, inoltre, nella pratica quotidiana i diritti dell'uomo e permettere all'alunno di farlo, sperimentando le proprie capacità e i propri limiti.

Se la scuola non realizza questa pratica educativa, spingerà l'alunno a cimentarsi nel campo della "crimininalità spicciola" o nei comportamenti anomali (bullismo, antisocialità, ribellismo, ed altro).

Si sa che le società nazionali e la società mondiale stanno attraversando un periodo di trasformazioni e di crisi profonde, che investono stili abitativi, modelli di famiglia, consapevolezza etnica, opportunità socioeconomiche.

Si sa anche che i poveri diventano sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi, con in mezzo la classe demografica media che sta scendendo al di sotto della soglia della povertà.

Allora, cambia anche la percezione della scuola?

Senza dubbio. La classe sociale dei ricchi manderà i propri figli nelle scuole dove si formano i dirigenti. La classe media considererà la scuola e la cultura come il migliore investimento. Gli ultimi della scala socioeconomica non avranno più fiducia nella scuola, perché non la considereranno più come una via d’uscita dalla povertà e l’abbandoneranno.

In questa situazione di tensioni e di conflitti, in una società in trasformazione la scuola deve assumere, quindi, funzioni nuove?

Le scuole dovrebbero diventare luoghi dove venga praticata la reciprocità culturale, dove gli alunni siano messi in grado di acquisire la consapevolezza di quello che fanno, di come lo fanno, del perché lo fanno.

La scuola, quindi, non dovrebbe semplicemente rinnovare le abilità tradizionali - quelle che rendono un paese competitivo sui mercati mondiali - , facendole acquisire per imitazione, ma dovrebbe rinnovare soprattutto l'apprendimento, nel senso di farlo diventare più partecipativo, più proattivo, più collaborativo, più costruttivo di significati.

L'istruzione, in sostanza, dovrebbe uscire dai limiti angusti della prospettiva utilitaristica e strumentale, tipica di una società acquisitiva ed efficientistica, e diventare disinteressata, bene in sé e diritto estendibile a tutti.

Questo nuovo modo di concepire "l'apprendimento come collaborazione nel produrre senso", dovrebbe significare non imporre ai più deboli la versione dei più forti; quindi, dovrebbe portare al riconoscimento delle minoranze e alla sconfitta della visione unilaterale della soluzione dei problemi, alla eliminazione dell'egemonia e dell'unanimismo, con la conseguente creazione di un mondo più solidaristico e più democratico.

Per sperare di realizzare queste finalità, si dovrebbe cambiare anche il rapporto tra docenti e alunni?

Certamente. In classe, ad esempio, si dovrebbe privilegiare il "dialogo", perché esso rappresenta la forma di conversazione che, aprendo alla problematicità, favorisce la possibilità di arricchimento e di perfezionamento dei contenuti.

In questa prospettiva andrebbe cambiata anche la concezione della cultura!

La cultura, infatti, dovrebbe essere intesa come l'acquisizione di tecniche e procedure per gestire e capire il mondo e, in questo senso, vanno apprese le nuove tecnologie (CD-rom, ipertesti, strutture ramificate, ed altre) che ci permettono di controllare e dominare i mezzi di comunicazione di massa e di non esserne schiavi.

La tecnologia è essenziale per la cultura, ma non ne rappresenta certo il punto centrale. Il punto centrale della cultura è la metodologia di ricerca e di uso della "mente proattiva".

Cosa fare per interessare i giovani alla istruzione e alla cultura?

Per operare un cambiamento della nostra cultura e della nostra scuola, bisognerebbe scegliere prima di tutto i problemi cruciali, quelli che gli alunni vivono ogni giorno e a cui sono sensibili, come, ad esempio, il degrado ambientale, le violenze a scuola, la droga, il fumo, gli omicidi nella società locale, lo sfaldamento della famiglia.

I giovani, infatti, vivono dentro queste stesse contraddizioni e cercano con il gruppo dei pari di realizzare un'esperienza vitale accanto all'esperienza familiare, di mediare il rapporto con gli adulti, di riempire il vuoto creato dalla distanza psicologica con gli interlocutori adulti, genitori e docenti in particolare.

Spesso i comportamenti devianti nascono proprio dalla necessità di "rendersi visibili" alla società degli adulti, come sottolinea Palmonari (citato in "Elementi di sociologia dell'educazione", a cura di Elena Besozzi).

La scuola con funzioni nuove deve significare che essa dovrebbe raccordarsi, appunto, con le esigenze dei giovani, con il desiderio di acquistare una identità e sviluppare una personalità autonoma.

Una identità che, come dice il filosofo Paul Ricoeur, deve essere concepita come "identità narrativa, dinamica" che fa pensare ad una continua dialettica di accordo e disaccordo tra azione e agente, tra sé e l'altro, mantenendo sempre presente il legame con la responsabilità.

Alla luce di questa teoria narrativa e processuale dell'identità, e quindi dal riconoscimento dell'alterità e della differenza e al contempo della responsabilità del soggetto, è possibile procedere ad una ricostruzione del legame sociale e all'attenuazione dei problemi della devianza.

Quando si è sottolineato l'importanza del "dialogo" nella scuola, si voleva proprio chiarire il principio fondamentale di una scuola con funzioni nuove, in cui possano convivere autonomia e reciprocità, in una continua approssimazione verso l'altro, in cui si impara a leggere il modo in cui l'altro legge il mondo; dove le diversità non vanno ridotte al silenzio; dove c'è una continua dialettica tra libertà individuale e legame sociale verso le istituzioni.

Per quale ragione insiste sulla forma dialogica?

La forma dialogica si rende necessaria, anche perché adeguata alla nuova visione della mente umana.

Oggi, gli psicopedagogisti fanno notare che la mente solitaria probabilmente è stata la proiezione della nostra ideologia occidentale.

La mente non è più una semplice "tabula rasa", né una rete di relazioni logiche, ma è una mente orientata ai problemi, interpretativa, diretta verso gli scopi, alla ricerca di rapporti con altre menti attive, con gli altri e con i loro punti di vista.

La mente, poi, costruisce i discorsi, servendosi delle idee acquisite, concatenandole tra loro secondo regole grammaticali e sintattiche, per giungere ad una conclusione e alla comunicazione strutturata.

A proposito di comunicazione, che rapporto esiste tra essa e l’educazione?

Voglio sottolineare che ogni educazione è sempre comunicazione; pertanto, non ci può essere contrapposizione tra educazione e comunicazione. Come il pensiero è sempre pensiero di qualcosa, anche la comunicazione è sempre processo dialettico e interattivo e, quindi, avviene all'interno di legami mediati, "inter-mediati", nel senso che c'è sempre un termine intermedio di confronto all'interno dei flussi comunicativi.

Come si struttura la personalità di un ragazzo?

Quando abbiamo accennato alla concezione dell'identità narrativa, abbiamo voluto evidenziare che la personalità di ciascun alunno si struttura proprio nella conversazione con se stesso e con gli altri, nello sperimentare l'altro come differenza, nel prestare attenzione all'altro che genera in noi tensione, ciò che giustifica l'impegno e la fatica di crescere.

Questa finalità della scuola comunicativa si può realizzare, se, come abbiamo detto, i problemi cruciali e le procedure per riflettere su di essi entrano a far parte della scuola e del lavoro che si svolge in classe.

Se, invece, lasciamo fuori dell'aula, per convenienza o per delicatezza, gli argomenti scottanti, la scuola comincia a presentare un aspetto così estraneo e così lontano dal mondo, che molti ragazzi potrebbero non sentirsi più a loro agio e a non trovare più posto al suo interno per se stessi e per i loro amici.

I ragazzi potrebbero chiedersi: che cosa ci faccio in una istituzione che lascia fuori della porta i problemi della vita reale, della strada, della paura di vivere in quartieri degradati?

E sono soprattutto i ragazzi delle classi più povere a non amare la scuola, perché la sentono troppo astratta e separata dalla vita reale, come già detto.

Sono d’accordo con le sue affermazioni e ne traggo la conclusione che in tal modo si può dare una spiegazione – ma non è la sola – dell’ origine del fenomeno della dispersione scolastica.

Prima di terminare, vorrei conoscere il suo pensiero sull’accusa che viene rivola agli insegnanti americani di essere i colpevoli del disastro dell’educazione nazionale.

Non sono stati gli insegnanti e le scuole a creare le condizioni che hanno reso così difficile la situazione educativa americana. Non hanno creato loro una classe sociale inferiore. E non avrebbero mai potuto compromettere la missione di ricerca e di sviluppo di un'industria competitiva quale l'americana come hanno fatto gli avventurieri che negli anni Ottanta hanno dato la scalata alle imprese investendo in azioni-spazzatura. Né hanno creato, come hanno fatto gli speculatori di borsa e gli speculatori immobiliari, un mondo di senzatetto da una parte e di consumisti dall'altra, che oggi affliggono la nostra economia e minano la nostra determinazione. Non sono loro i responsabili del problema della droga, che adesso Washington propone ironicamente di risolvere affidandone il compito di prevenzione alle scuole, invece di bloccare l'afflusso di stupefacenti nel nostro paese o di distruggere i cartelli nostrani della droga.

Come ben riflettono e descrivono anche la nostra situazione italiana queste osservazioni critiche!

Per migliorare il sistema educativo e renderlo idoneo a guidare il futuro, diventa necessario, allora, avere idee chiare su dove vogliamo andare e su quale tipo di umanità vogliamo essere.

Per Bruner l'obiettivo non deve essere quello di formare una società-azienda competitiva sui mercati mondiali, ma di formare una nazione "nella quale e per la quale valga la pena di vivere".

Certo, non bisogna negare l'importanza di avere lavoratori con una solida preparazione scientifica e matematica, in grado di competere ora con i Giapponesi, i Cinesi e gli Indiani.

Non dimentichiamo, però, che i "cambiamenti rivoluzionari", quelli che aprono nuovi orizzonti culturali, sono stati portati avanti non da avventurieri, da speculatori di borsa o immobiliari, da spacciatori di droga, bensì da poeti, commediografi, musicisti, filosofi.

E’ per questo - Bruner conclude - che "che in un regime di tirannia i primi ad andare in prigione sono i romanzieri , i poeti, i filosofi, i pensatori. E' per questo che io li voglio in una classe democratica: perché ci aiutino a vedere ancora, in modo nuovo".

E come dargli torto?

( Intervista realizzata sulla base dell’opera di J. Bruner: “La cultura dell’educazione”, Feltrinelli, Milano, 2000)

Mostra altro

Ida Verrei: Quel giorno, in una scuola

12 Aprile 2013 , Scritto da Ida Verrei Con tag #ida verrei, #educazione

Erano molti anni che non vivevo l’emozione di entrare in un’aula scolastica, di incontrare una classe; era tanto tempo che i giovani erano diventati per me solo una “categoria” lontana, un mondo di cui leggevo, sentivo parlare, ma che non rappresentava più per me una realtà viva, reale, palpitante. Stavo perdendo tanto, stavo perdendo il contatto con la parte più vitale della nostra società.

In un giorno ho recuperato anni di isolamento generazionale, in poche ore ho ritrovato gli entusiasmi di un confronto che mi ha fatto crescere, e non solo come persona. Chi ha l’ambizione di scrivere storie, di narrare eventi e persone, di fare letteratura, deve avere la capacità di dialogare anche con le generazioni più giovani: io ho scoperto di saperlo ancora fare.

L’incontro con gli alunni della IIH del Liceo Machiavelli di Roma, nell’attesa, mi ha creato ansia più di tutte le presentazioni o interviste fatte in precedenza: sapevo che sarei stata studiata, osservata, analizzata, indagata da occhi che possono diventare spietati, proprio perché giovani e onesti. Ed è stato così, l’ho avvertito dal primo momento, ma, diversamente da quello che temevo, non c’è stato disagio, anzi, una piacevole sensazione di calore, un feeling immediato.

Prima ancora di ascoltarli li ho guardati, sono belli, giovani, pieni di energia, sono il futuro migliore.

Il dialogo è iniziato subito, piacevole, simpatico, anche per la mediazione intelligente di una giovane insegnante colta e motivata.

Mi è stato subito chiarito che, pur se l’accostamento ai miei romanzi è avvenuto nell’ambito di un progetto didattico che prevedeva la ricerca dei fondamenti e delle conseguenze storiche e culturali della democrazia, i ragazzi sono stati liberi di interpretare le storie dei mie libri, senza chiavi di lettura precostituite, e di soffermarsi, ciascuno, su aspetti e tematiche che maggiormente hanno ritenuto di sottolineare.

Ne è scaturito un dibattito e uno scambio di opinioni ricco di spunti di riflessione. Non mi dilungherò sui vari aspetti trattati, sono stati i più vari: dalla condizione femminile, ieri e oggi, alle conquiste di libertà e democrazia ottenute attraverso le lotte negli anni 60/70; dalle conseguenze di una guerra, all’importanza della memoria storica; dai problemi dell’adolescenza, universali nel tempo e nello spazio, alle ferite indelebili dovute a lacerazioni familiari. .

Né sono mancate domande più tecniche, sul rapporto tra autobiografia e fantasia; tra verità e verosimiglianza; sulla nascita dell’Idea nello scrittore.

Curiosità, acutezza e capacità di analisi, queste le caratteristiche di un gruppo di giovanissimi.

E se loro mi hanno ringraziato al termine dell’incontro, io sento di dover fare altrettanto.

Grazie, ragazzi. Mi avete riportato ad una dimensione più autentica, che rischiavo di dimenticare;

Grazie per avermi ridato entusiasmo e voglia di scrivere ancora.

Ida Verrei

Mostra altro

Ida Verrei: Il bambino difficile

9 Aprile 2013 , Scritto da Ida Verrei Con tag #ida verrei, #educazione

 

 

 

DIVERSO, ATIPICO, O PREGIUDIZIALE  PEDAGOGICA?

(ritrovato tra le mie antiche carte, quando, noi maestre della vecchia guardia, credevamo ancora nella scuola, come agenzia di educazione permanente per tutti)

 

Bambino difficile, individualità frammentata e problematica che mobilita angosce e scatena difese negli educatori: è il bambino che manifesta rifiuto sistematico di partecipazione, mancanza di abilità operative, difficoltà relazionali, condotte sempre inquietanti che lo fanno percepire come diverso, atipico.

Si individua subito il bambino difficile nelle sue molteplici connotazioni: egli possiede una propria fisicità, gestualità e modalità comunicative riconoscibili ma che vengono riportate a stereotipi che conducono a definirlo passivo, incapace, irrecuperabile, ineducabile.

Quel bambino non corrisponde all’immagine ottimale di alunno scelta dagli insegnanti: gli ostacoli a tale corrispondenza sono insormontabili; le aspettative non si concretizzano; vengono meno le certezze; l’attesa di gratificazione dell’adulto-educatore e di autorealizzazione viene delusa e il ruolo-guida del docente entra in crisi.

 Si è precostituito ottimisticamente un esito in cui si crede per cultura e formazione e ci si viene a trovare di fronte al problema, non solo di accettazione o rifiuto, ma di analisi critica di se stessi.

 La reazione emotiva che ne deriva è di opposizione, sfiducia, intolleranza; e le motivazioni di ordine socioculturale poggiano sulla convinzione che la subcultura o le culture altre, nelle quali di solito si colloca il bambino difficile, non possano elevarsi verso la cultura dominante, dove tutto è valutato in termini di produttività; la posizione di tipo mentale, infine, è di cieca fiducia nella logica adultistica, non conforme a quella del bambino e di quel bambino in particolare.

E lui, il caso difficile, come vive l’impatto con l’adulto in crisi? Egli è carente sul piano logico-cognitivo, non possiede risorse emotive, né strumenti comunicativi, si esprime attraverso codici che vengono respinti, ed allora fugge, rifiuta, aggredisce ma inconsapevolmente trasmette messaggi, richieste, bisogni.

E allora è il pregiudizio pedagogico che andrebbe rimosso. Andrebbe elaborato un diverso modello educativo che non si riferisca soltanto alla progressiva costruzione di strutture e alla sollecitazione scientifica dei processi di apprendimento e di tutti gli altri dinamismi psichici, ma che, riferendosi alla complessità di ogni persona, consideri il significato più umano dell’incontro IO-TU.

Occorre che si rifletta sulla vera dimensione della natura individuale, la quale, pur essendo conoscibile, è spesso misteriosa e fragile, comunque sempre irripetibile.

Un modello educativo, quindi, che muova dalla capacità di accostarsi a qualunque bambino, anche al più difficile, con l’attenzione e il rispetto alla unicità della sua natura.

 È da qui che può prendere inizio un itinerario da percorrere insieme, maestro ed alunno, verso un comune decondizionamento.

In ciò sta un duplice riscatto: quello dell’adulto, dall’eccessiva ansietà per l’esito produttivo e visibile, quello che in termini quantitativi si dice rendimento scolastico; l’altro, del bambino, che trova in un rapporto rinnovato la possibilità per comprender-si e recuperare valore, equilibrio e definizione alle proprie espansioni vitali frustrate.

 

                                                                                                     Ida Verrei

 

 

 

Mostra altro

Adriana Pedicini LA CULTURA DELL'EDUCAZIONE IN UNA SOCIETA' COMPLESSA di Biagio Osvaldo Severini

5 Aprile 2013 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #educazione, #saggi, #biagio osvaldo severini

Biagio Osvaldo Severini

 

La cultura dell’educazione in una società complessa
JEROME BRUNER
Epoca rivoluzionaria. Disagio degli attori educativi. Antinomie e complessità. Cultura rivoluzionaria. Dialogo e istruzione estensibili a tutti. Metodologia della ricerca e mente proattiva. I giovani e i problemi cruciali. Identità narrativa e alterità. Mente interpretativa. Comunicazione ed educazione. Colpa degli insegnanti e degli intellettuali la rovina della scuola e della cultura?

Ci troviamo a vivere un momento di radicale trasformazione delle istituzioni educative che sono o preposte esplicitamente ai processi formativi, o ne sono implicate indirettamente.
Società, famiglia, scuola, gruppo dei pari e mass media sono attraversate da cambiamenti veloci e diversi che le trasformano e le fanno cadere , a volte, in conflitto di competenze e di interessi.
Un’attenzione peculiare viene rivolto alla scuola e all'educazione, ma non si mancherà di accennare ad altre aree tematiche rilevanti nel campo della sociologia dell'educazione.
La scelta cade sulla scuola, perché in essa confluiscono e interagiscono, formalmente o informalmente, le diverse componenti della vita comunitaria.
E anche perché, come sottolinea Vincenzo Cesareo ( "Elementi di sociologia dell'educazione", Carocci editore, Roma, 2004), il sistema formativo è sempre e comunque radicato in una realtà sociale definita, per cui, se quest'ultima è coinvolta in processi di modificazione profonda, è impossibile che esso vi rimanga estraneo a lungo, nonostante eventuali resistenze.
Il disorientamento delle istituzioni educative genera un clima di crisi e di sfiducia, in cui si trovano a disagio sia i genitori, sia gli educatori in genere, sia gli alunni di ogni ordine e grado.
Per cercare di dare un contributo al chiarimento della questione, si può partire dalle riflessioni dello studioso nordamericano Jerome Bruner, esposte nell'interessante lavoro "La cultura dell'educazione".
A questo fine rivolgo al professore - in una intervista immaginaria - alcune domande su specifiche problematiche educative e non solo.
Egregio professore, mi permetta di ricordare che Hegel amava sostenere che, quando bisogna iniziare un discorso, è importante cominciare dal “cominciamento”. Perciò, soffermerò la sua attenzione su una questione preliminare di carattere, diciamo così, terminologico.
Il processo formativo deve essere inteso etimologicamente come attività di “educare”, ossia guidare, o come “educere”, ossia “tirar fuori”?
Il modello da tenere presente deve essere quello di Pitagora, che pretendeva dai suoi allievi l’obbedienza assoluta, secondo il principio dell’ “Ipse dixit”; o viceversa quello di Socrate, secondo il metodo della “maieutica”, dell’aiutare l’allievo a “partorire” la verità, ad arrivare alla conoscenza, impegnando le proprie forze?
Da questa prima problematica scaturiscono, di conseguenza, altri interrogativi.
Nel processo educativo deve, dunque, assumere importanza: il magistrocentrismo (il maestro è il centro), o il puerocentrismo ( il bambino è il centro); l’insegnamento ( “in-signare”, per cui il docente porta dentro la mente del bambino i segni della conoscenza), o l’apprendimento ( “ad-prehendo”, per cui l’allievo con la sua mente si muove per afferrare gli elementi della conoscenza); l’eteroeducazione (per cui si riceve la conoscenza dall’esterno), o l’autoeducazione, per cui ci si educa da soli); la socializzazione ( per cui è l’adulto che sottopone il bambino al processo di acquisizione di comportamenti sociali), o lo sviluppo sociale ( per cui il bambino possiede in sé le spinte a vivere con gli altri)?
Porre l’accento sull’insegnante o sull’alunno comporta una serie di cambiamenti di prospettiva nel processo educativo, negli obiettivi educativi, nell’orientamento scolastico.
Ma comporta anche una visione diversa della concezione della società: la centralità spetta allo Stato o al cittadino, all’autorità o alla libertà, al dogmatismo o al problematicismo?
In sintesi: credere, obbedire e combattere per uno Stato etico assolutistico? O criticare, decidere, dialogare in uno Stato di diritto democratico?
Non sono problemi di poco conto, com’è facile capire.
Certo. Per trovare una soluzione, dobbiamo riflettere sul fatto che in epoche rivoluzionarie la società è sempre dominata dalle contraddizioni. E la nostra è un’epoca rivoluzionaria. Perciò, essa è dominata dalle contraddizioni, dalle antinomie…
…Scusi, nella mia mente subito affiorano i ricordi legati alle famose antinomie della ragione di cui parla Kant, nelle quali l’antitesi sostiene il contrario della tesi; come esempio,cito l’antinomia del mondo: il mondo ha un’origine nel tempo ed è limitato nello spazio (tesi); il mondo non ha origine nel tempo, né nello spazio (antitesi). Secondo la logica formale le antinomie sono un paradosso, perché due proposizioni riferite allo stesso oggetto nello stesso momento non possono essere vere entrambe: il principio del terzo escluso non lo ammette: A o è B o è non-B ( “tertium non datur”).
Anche l’educazione è travagliata dalle contraddizioni.
Infatti, lei elenca tre antinomie del campo pedagogico. Con il suo permesso, le sintetizzo.
La prima riguarda l’individuo e la società. Tesi: l’educazione deve mirare a realizzare le potenzialità dell’individuo; antitesi: l’educazione deve mirare a riprodurre, consevare la cultura della società attuale.
La seconda si riferisce allo sviluppo intrapsichico o allo sviluppo interpersonale. Tesi: l’apprendimento è intrapsichico, allora è centrale l’alunno con le sue doti naturali e bisogna coltivare la mente dei migliori; antitesi: lo sviluppo mentale è interpersonale, allora è importante che l’insegnante fornisca a tutti gli alunni gli attrezzi simbolici con cui sviluppare le doti naturali.
La terza è relativa alla conoscenza locale o alla storia universale. Tesi: la conoscenza locale è valida di per sé e non ha bisogno di una teoria universale per essere convalidata (questa tesi appare nei movimenti estremistici localistici); antitesi: esiste una storia universale che si manifesta nei fatti locali in tempi, luoghi e circostanze precise e ci sono personaggi che si autoproclamano portatori di valori universali.
Come si risolvono queste antinomie?
La soluzione delle antinomie non può essere trovata nel campo della logica formale, ma solo in quello della pragmatica.
Voglio dire che nel campo dell'educazione, per valutare quello che vogliamo insegnare o vogliamo far apprendere, e per sapere in che direzione ci vogliamo muovere, dobbiamo tenere in debito conto queste antinomie. Quindi, capire che la giusta misura non sta nella scelta della tesi o dell'antitesi, ma nel considerare i vari aspetti presenti in una società complessa come la nostra.
Come concepire, allora, il processo e gli obietti educativi?
L'educazione deve essere concepita come un processo anch'esso complesso, intrinsecamente antinomico e interdipendente, in cui confluiscono sviluppo e formazione, auto ed eteroeducazione.
Anche gli obiettivi educativi diventano, di conseguenza, complessi: bisogna tendere a realizzare le potenzialità individuali, ma salvaguardando la società; riconoscere le differenze dei talenti naturali, ma fornendo a tutti gli strumenti della cultura; rispettare le identità locali, ma difendendo anche la coesione come popolo, per evitare sia la torre di Babele dei localismi, sia l'omologazione della globalizzazione.
Quale deve essere, allora, la caratteristica generale della scuola?
Una risposta di carattere generale mi porta ad affermare che la scuola deve essere una comunità propositiva, collaborativa, solidaristica, promotrice di una cultura rivoluzionaria, soprattutto in una situazione di deprivazione.
Per capire meglio, vuole scendere nell’analisi della sua affermazione?
Bene. Alcuni esperimenti psicologici su animali e su bambini hanno dimostrato che essi, se allevati in situazioni di deprivazione sensoriale affettiva e culturale, rivelavano deficienze, quando venivano sottoposti a test relativi a normali compiti di apprendimento e di soluzione di problemi.
Questi esperimenti ci fanno capire, in sintesi, che gli esseri umani, in particolare, presentano le caratteristiche di essere non solo "reattivi", ma anche "proattivi".
Gli uomini, in sostanza, non solo necessitano delle stimolazioni, ma le cercano, soprattutto vogliono interagire con gli altri, vogliono essere aiutati a sviluppare le loro capacità.
La scuola, allora, deve intraprendere un'azione positiva nel senso di spingere gli alunni a vivere in una comunità scolastica propositiva, per permettere loro di costruire le proprie competenze e di sviluppare un effettivo senso di appartenenza ad una comunità collaborativa.
La comunità scolastica deve, quindi, strutturarsi come un ambiente, in cui si elabora un progetto legato agli interessi degli alunni e che essi stessi contribuiscono ad organizzare con le loro idee.
Solo così operando, si può sperare di contrastare l'alienazione, l'impotenza e la mancanza di scopi della società più ampia.
La scuola deve diventare, in concreto, un luogo dove sperimentare: come usare la mente; come trattare con gli altri; come trattare con l'autorità; come formarsi l'autostima; come mettere in pratica i principi etici, che la società esterna non sempre applica.
Lei afferma che la scuola deve diventare promotrice di una cultura rivoluzionaria. Quando una cultura diventa rivoluzionaria?
La cultura diventa rivoluzionaria, semplicemente quando è coerente con i principi dichiarati nelle "Carte dei diritti dell'uomo" e quando diventa dialogica, narrativa, interpretativa.
Narrazione significa, infatti, vedere le cose da un altro punto di vista, significa rompere gli schematismi tradizionali totalizzanti, considerati, dopo millenni, di origine divina o naturale e, perciò, immodificabili.
La scuola deve applicare, inoltre, nella pratica quotidiana i diritti dell'uomo e permettere all'alunno di farlo, sperimentando le proprie capacità e i propri limiti.
Se la scuola non realizza questa pratica educativa, spingerà l'alunno a cimentarsi nel campo della "crimininalità spicciola" o nei comportamenti anomali (bullismo, antisocialità, ribellismo, ed altro).
Si sa che le società nazionali e la società mondiale stanno attraversando un periodo di trasformazioni e di crisi profonde, che investono stili abitativi, modelli di famiglia, consapevolezza etnica, opportunità socioeconomiche.
Si sa anche che i poveri diventano sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi, con in mezzo la classe demografica media che sta scendendo al di sotto della soglia della povertà.
Allora, cambia anche la percezione della scuola?
Senza dubbio. La classe sociale dei ricchi manderà i propri figli nelle scuole dove si formano i dirigenti. La classe media considererà la scuola e la cultura come il migliore investimento. Gli ultimi della scala socioeconomica non avranno più fiducia nella scuola, perché non la considereranno più come una via d’uscita dalla povertà e l’abbandoneranno.
In questa situazione di tensioni e di conflitti, in una società in trasformazione la scuola deve assumere, quindi, funzioni nuove?
Le scuole dovrebbero diventare luoghi dove venga praticata la reciprocità culturale, dove gli alunni siano messi in grado di acquisire la consapevolezza di quello che fanno, di come lo fanno, del perché lo fanno.
La scuola, quindi, non dovrebbe semplicemente rinnovare le abilità tradizionali - quelle che rendono un paese competitivo sui mercati mondiali - , facendole acquisire per imitazione, ma dovrebbe rinnovare soprattutto l'apprendimento, nel senso di farlo diventare più partecipativo, più proattivo, più collaborativo, più costruttivo di significati.
L'istruzione, in sostanza, dovrebbe uscire dai limiti angusti della prospettiva utilitaristica e strumentale, tipica di una società acquisitiva ed efficientistica, e diventare disinteressata, bene in sé e diritto estendibile a tutti.
Questo nuovo modo di concepire "l'apprendimento come collaborazione nel produrre senso", dovrebbe significare non imporre ai più deboli la versione dei più forti; quindi, dovrebbe portare al riconoscimento delle minoranze e alla sconfitta della visione unilaterale della soluzione dei problemi, alla eliminazione dell'egemonia e dell'unanimismo, con la conseguente creazione di un mondo più solidaristico e più democratico.
Per sperare di realizzare queste finalità, si dovrebbe cambiare anche il rapporto tra docenti e alunni?
Certamente. In classe, ad esempio, si dovrebbe privilegiare il "dialogo", perché esso rappresenta la forma di conversazione che, aprendo alla problematicità, favorisce la possibilità di arricchimento e di perfezionamento dei contenuti.
In questa prospettiva andrebbe cambiata anche la concezione della cultura!
La cultura, infatti, dovrebbe essere intesa come l'acquisizione di tecniche e procedure per gestire e capire il mondo e, in questo senso, vanno apprese le nuove tecnologie (CD-rom, ipertesti, strutture ramificate, ed altre) che ci permettono di controllare e dominare i mezzi di comunicazione di massa e di non esserne schiavi.
La tecnologia è essenziale per la cultura, ma non ne rappresenta certo il punto centrale. Il punto centrale della cultura è la metodologia di ricerca e di uso della "mente proattiva".
Cosa fare per interessare i giovani alla istruzione e alla cultura?
Per operare un cambiamento della nostra cultura e della nostra scuola, bisognerebbe scegliere prima di tutto i problemi cruciali, quelli che gli alunni vivono ogni giorno e a cui sono sensibili, come, ad esempio, il degrado ambientale, le violenze a scuola, la droga, il fumo, gli omicidi nella società locale, lo sfaldamento della famiglia.
I giovani, infatti, vivono dentro queste stesse contraddizioni e cercano con il gruppo dei pari di realizzare un'esperienza vitale accanto all'esperienza familiare, di mediare il rapporto con gli adulti, di riempire il vuoto creato dalla distanza psicologica con gli interlocutori adulti, genitori e docenti in particolare.
Spesso i comportamenti devianti nascono proprio dalla necessità di "rendersi visibili" alla società degli adulti, come sottolinea Palmonari (citato in "Elementi di sociologia dell'educazione", a cura di Elena Besozzi).
La scuola con funzioni nuove deve significare che essa dovrebbe raccordarsi, appunto, con le esigenze dei giovani, con il desiderio di acquistare una identità e sviluppare una personalità autonoma.
Una identità che, come dice il filosofo Paul Ricoeur, deve essere concepita come "identità narrativa, dinamica" che fa pensare ad una continua dialettica di accordo e disaccordo tra azione e agente, tra sé e l'altro, mantenendo sempre presente il legame con la responsabilità.
Alla luce di questa teoria narrativa e processuale dell'identità, e quindi dal riconoscimento dell'alterità e della differenza e al contempo della responsabilità del soggetto, è possibile procedere ad una ricostruzione del legame sociale e all'attenuazione dei problemi della devianza.
Quando si è sottolineato l'importanza del "dialogo" nella scuola, si voleva proprio chiarire il principio fondamentale di una scuola con funzioni nuove, in cui possano convivere autonomia e reciprocità, in una continua approssimazione verso l'altro, in cui si impara a leggere il modo in cui l'altro legge il mondo; dove le diversità non vanno ridotte al silenzio; dove c'è una continua dialettica tra libertà individuale e legame sociale verso le istituzioni.
Per quale ragione insiste sulla forma dialogica?
La forma dialogica si rende necessaria, anche perché adeguata alla nuova visione della mente umana.
Oggi, gli psicopedagogisti fanno notare che la mente solitaria probabilmente è stata la proiezione della nostra ideologia occidentale.
La mente non è più una semplice "tabula rasa", né una rete di relazioni logiche, ma è una mente orientata ai problemi, interpretativa, diretta verso gli scopi, alla ricerca di rapporti con altre menti attive, con gli altri e con i loro punti di vista.
La mente, poi, costruisce i discorsi, servendosi delle idee acquisite, concatenandole tra loro secondo regole grammaticali e sintattiche, per giungere ad una conclusione e alla comunicazione strutturata.
A proposito di comunicazione, che rapporto esiste tra essa e l’educazione?
Voglio sottolineare che ogni educazione è sempre comunicazione; pertanto, non ci può essere contrapposizione tra educazione e comunicazione. Come il pensiero è sempre pensiero di qualcosa, anche la comunicazione è sempre processo dialettico e interattivo e, quindi, avviene all'interno di legami mediati, "inter-mediati", nel senso che c'è sempre un termine intermedio di confronto all'interno dei flussi comunicativi.
Come si struttura la personalità di un ragazzo?
Quando abbiamo accennato alla concezione dell'identità narrativa, abbiamo voluto evidenziare che la personalità di ciascun alunno si struttura proprio nella conversazione con se stesso e con gli altri, nello sperimentare l'altro come differenza, nel prestare attenzione all'altro che genera in noi tensione, ciò che giustifica l'impegno e la fatica di crescere.
Questa finalità della scuola comunicativa si può realizzare, se, come abbiamo detto, i problemi cruciali e le procedure per riflettere su di essi entrano a far parte della scuola e del lavoro che si svolge in classe.
Se, invece, lasciamo fuori dell'aula, per convenienza o per delicatezza, gli argomenti scottanti, la scuola comincia a presentare un aspetto così estraneo e così lontano dal mondo, che molti ragazzi potrebbero non sentirsi più a loro agio e a non trovare più posto al suo interno per se stessi e per i loro amici.
I ragazzi potrebbero chiedersi: che cosa ci faccio in una istituzione che lascia fuori della porta i problemi della vita reale, della strada, della paura di vivere in quartieri degradati?
E sono soprattutto i ragazzi delle classi più povere a non amare la scuola, perché la sentono troppo astratta e separata dalla vita reale, come già detto.
Sono d’accordo con le sue affermazioni e ne traggo la conclusione che in tal modo si può dare una spiegazione – ma non è la sola – dell’ origine del fenomeno della dispersione scolastica.
Prima di terminare, vorrei conoscere il suo pensiero sull’accusa che viene rivola agli insegnanti americani di essere i colpevoli del disastro dell’educazione nazionale.
Non sono stati gli insegnanti e le scuole a creare le condizioni che hanno reso così difficile la situazione educativa americana. Non hanno creato loro una classe sociale inferiore. E non avrebbero mai potuto compromettere la missione di ricerca e di sviluppo di un'industria competitiva quale l'americana come hanno fatto gli avventurieri che negli anni Ottanta hanno dato la scalata alle imprese investendo in azioni-spazzatura. Né hanno creato, come hanno fatto gli speculatori di borsa e gli speculatori immobiliari, un mondo di senzatetto da una parte e di consumisti dall'altra, che oggi affliggono la nostra economia e minano la nostra determinazione. Non sono loro i responsabili del problema della droga, che adesso Washington propone ironicamente di risolvere affidandone il compito di prevenzione alle scuole, invece di bloccare l'afflusso di stupefacenti nel nostro paese o di distruggere i cartelli nostrani della droga.
Come ben riflettono e descrivono anche la nostra situazione italiana queste osservazioni critiche!
Per migliorare il sistema educativo e renderlo idoneo a guidare il futuro, diventa necessario, allora, avere idee chiare su dove vogliamo andare e su quale tipo di umanità vogliamo essere.
Per Bruner l'obiettivo non deve essere quello di formare una società-azienda competitiva sui mercati mondiali, ma di formare una nazione "nella quale e per la quale valga la pena di vivere".
Certo, non bisogna negare l'importanza di avere lavoratori con una solida preparazione scientifica e matematica, in grado di competere ora con i Giapponesi, i Cinesi e gli Indiani.
Non dimentichiamo, però, che i "cambiamenti rivoluzionari", quelli che aprono nuovi orizzonti culturali, sono stati portati avanti non da avventurieri, da speculatori di borsa o immobiliari, da spacciatori di droga, bensì da poeti, commediografi, musicisti, filosofi.
E’ per questo - Bruner conclude - che "che in un regime di tirannia i primi ad andare in prigione sono i romanzieri , i poeti, i filosofi, i pensatori. E' per questo che io li voglio in una classe democratica: perché ci aiutino a vedere ancora, in modo nuovo".
E come dargli torto?

( Intervista realizzata sulla base dell’opera di J. Bruner: “La cultura dell’educazione”, Feltrinelli, Milano, 2000)

Mostra altro

Come eravamo, I Quindici

4 Marzo 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #educazione

Suonava alla porta il rappresentante de I Quindici, ben vestito e con la valigetta. Erano i primi anni sessanta, le enciclopedie a fascicoli (Motta, Galileo, Le Muse) invadevano le case, segno di un’emancipazione alla portata di tutti, di un progresso sociale tangibile, fatto di cose concrete, come l’automobile, le vacanze, il vino in bottiglia, il frigorifero, la tv dei ragazzi, il maestro Manzi che alfabetizzava l’Italia via cavo. Madri casalinghe e nonni intimiditi lo facevano accomodare nel salotto buono, offrendo caffè e liquori. Pieno di sussiego, apriva la ventiquattrore e mostrava campioni nuovi di stampa dei libri che avrebbero segnato (insieme alle fiabe sonore) un’intera generazione, stimolando curiosità e fantasia, forgiando il gusto di molti di noi.

I Quindici fu diffusa dalla metà degli anni sessanta alla metà dei settanta. Derivava dall’omologa statunitense Childcraft ed era edita in Italia dalla Field educational, con direttore Armando Guidetti e per la parte grafica Filippo Maggi. Altri collaboratori italiani sono stati Aldo Agazzi, Vittoria Belluschi, Dino S. Beretta, Andrea Cavalli Dell'Ara, Jolanda Colombini Monti, Roberto Costa, Giancarlo Masini, Deda Pini, Luigi Santucci, Francesco Valori e Domenico Volpi.

Il genitore o nonno perplesso osava a mala pena far presente che il bambino/la bambina ancora non sapeva leggere ma l'agguerrito rappresentante aveva pronta la foto dell’ippopotamo grande quanto sei vasche da bagno, tratto da La vita intorno a noi, mostrando come i libri fossero ricchi di figure intuitive e d’immediata comprensione.

L’enciclopedia era composta da quattordici volumi tematici, rivolti a ragazzi di massimo 10 anni - ragazzi di allora, che non conoscevano Ipad e playstation ed erano abituati ad andare a letto dopo Carosello - più un volume dedicato ai genitori (Voi e il vostro bambino) che ebbe grande successo data la scarsità di scritti sull’argomento allora disponibili in Italia.

Poesie e rime

Racconti e fiabe

Il mondo e lo spazio

La vita intorno a noi

Feste e costumi

Come le cose cambiano

Come si fanno le cose

Come funzionano le cose

Fare e costruire

Cosa fanno gli uomini

Scienziati e inventori

Pionieri e patrioti

Personaggi da conoscere

Luoghi da conoscere

Voi e il vostro bambino

I libri erano caratterizzati da dorsi multicolori che creavano un arcobaleno inconfondibile e riconoscibile a distanza sugli scaffali domestici, ed è appunto a questa edizione, la prima e mitica, che qui facciamo riferimento, le altre - nero su crema, oro su nero, e, ancora, parzialmente multicolori (2006) - non hanno lo stesso impatto evocativo.

Nessuno può dimenticare il numero nove Fare e Costruire, individuabile dall’orlo superiore slabbrato e sporco per il troppo uso. I bambini lo utilizzavano in continuazione per fabbricare di tutto, dai segnalibri, ai portapenne fatti con le mollette da bucato, ai dolci americani come gli scones, che nessuno sapeva cos’erano ma facevano tanto modernità, laddove moderno, allora, era sinonimo di progredito e giusto. Il volume veniva letto mentre sullo schermo scorrevano le immagini in bianco e nero di “Giocagiò”, il programma preferito dei ragazzi di allora, una sorta di Art Attack ante litteram che, condotto da Lucia Scalera e Nino Fustagni, si avvaleva di autori del calibro di Gianni Rodari.

I quindici coloratissimi volumi coprivano l’arco dello scibile, indirizzando i fruitori verso tutti gli aspetti del mondo circostante. Alcuni aprivano gli occhi sulle meraviglie della scienza e della tecnica (Come funzionano le cose, Il mondo e lo spazio, Come si fanno le cose, Scienziati e inventori, Cosa fanno gli uomini), altri stimolavano l’interesse per la storia (Come le cose cambiano, Pionieri e patrioti, Personaggi da conoscere), la natura (La vita intorno a noi), la geografia (Luoghi da conoscere, Feste e Costumi).

I volumi erano definiti “i libri del come e del perché”, spiegavano concetti complicati in modo semplice e immediato, avevano un intento didattico, didascalico, divulgativo ma anche etico. Spingevano all’eroismo, al patriottismo, alla divisione fra male e bene, com’era nella sensibilità dell’epoca, ci rendevano desiderosi di sapere, di esplorare, di viaggiare, di leggere, di approfondire, suscitavano domande e la voglia di andare oltre a ciò che i sensi mostravano.

Così si presenta ai lettori il primo volume:

I Quindici (…) non è un trattato né un’enciclopedia, né un sillabario, né un manuale scolastico. Tuttavia i vostri bambini e fanciulli troveranno in essa la realtà nei suoi molteplici aspetti e impareranno innumerevoli cose: impareranno, speriamo, a leggere meglio, cioè a raccogliere, con intelligenza, esatte nozioni e buone emozioni”. (Volume 1 pag. 6)

Ecco dichiarato il doppio intento: insegnare ed emozionare, avvicinare alla conoscenza attraverso il coinvolgimento, la commozione, la partecipazione.

E, sempre nell’introduzione, possiamo cogliere la spinta al progresso, all’elevazione sociale e spirituale, che era tipica di quegli anni e che portava gli operai a studiare alle scuole serali per diplomarsi, per innalzarsi al di sopra della massa ignorante.

I bambini desiderano veramente apprendere e capire. Non è forse vitale che essi imparino, come e meglio del papà, della mamma e dei fratelli maggiori, se questo è appena possibile?”

E chissà quanti talenti letterari, quanti orecchi ritmici, non siano stati incoraggiati dalla lettura di Racconti e fiabe e Poesie e Rime, due volumi che insegnavano ad amare le parole, spronando la fantasia, il senso del reale ma anche del magico, del mistico, del fantastico, con poesie tratte dalla cultura di tutto il mondo, con brani di Pascoli, Belli, Wanda Bontà, Cardarelli, Carducci, D’Annunzio, De Amicis, Fucini, Ada Negri, Palazzeschi, Pezzani, Saffo, Ungaretti.

Le poesie erano ridotte e riadattate per i bambini, secondo una moda che tendeva alla condensazione dei classici per l’infanzia, ma anche dei best seller per adulti, sulla scia di Selezione del Reader’s Digest che pubblicava "riassunti" di romanzi della letteratura contemporanea, concentrando in 20/30 pagine l'intera trama, salvando alcune descrizioni e dialoghi dell'originale.

Ciò che la raccolta de I Quindici si proponeva, rispecchiava in pieno l’ideale di un’intera epoca: “creare una generazione migliore, aperta alla bellezza, alla verità, alla bontà”. Quello di bontà è un concetto che ritroviamo anche nel jingle iniziale delle contemporanee fiabe sonore della Fabbri.

Forse perché influenzati dai programmi ministeriali della DC, a loro volta fortemente condizionati dalla chiesa cattolica, non ci si vergognava allora a parlare di bontà e di onestà, a considerarle valori da trasmettere alle generazioni future, fini cui tendere per il miglioramento del singolo individuo e, di conseguenza, della società tutta.

Non sarebbe male se, ogni tanto, qualcuno se ne ricordasse anche oggi.

.

 

The salesman of Childcrafti rang the door, well dressed and with a briefcase. It was the early sixties, the serial instalments invaded the houses, a sign of an emancipation within everyone's reach, of a tangible social progress made up of concrete things, such as cars, holidays, the bottled wine, the refrigerator, the kids' TV. Intimidated housewives and grandparents made him sit in the good living room, offering coffee and spirits. With dignity and refinement, he opened his briefcase and showed new samples of books that would mark an entire generation, stimulating curiosity and imagination, forging the taste of many of us.

Childcraft was widespread from the mid-sixties to the mid-seventies.

The perplexed parent or grandfather barely dared to point out that the boy / girl still could not read but the fierce representative had ready the photo of the hippopotamus as big as six bathtubs, taken from Life around us, showing how the books were full of intuitive figures and immediate understanding.

The encyclopedia was made up of fourteen thematic volumes, aimed at children up to 10 years old - boys of that time, who did not know Ipad and playstation and were used to going to bed after Carosello - plus a volume dedicated to parents (You and your child ) which was very successful given the scarcity of writings on the subject then available.

 

 

The books were characterized by multicolored backs that created an unmistakable and recognizable rainbow from a distance on the home shelves, and it is precisely this edition, the first and mythical, that we refer to here, the others - black on cream, gold on black, and, again, partially multicolored (2006) - they do not have the same evocative impact.

 

Nobody can forget the number nine, which can be identified by the upper edge that is tattered and dirty from too much use. The children used it continuously to make everything from bookmarks to pen holders made with clothespins, to American sweets like scones, that nobody abroad knew what they were but they made so much modernity, whereas modern, then, was synonymous with progress.

The fifteen colorful volumes covered the arch of knowledge, directing the users towards all aspects of the surrounding world. Some opened their eyes to the wonders of science and technology, others stimulated interest in history, nature , geography .

The volumes were called "the books of how and why", they explained complicated concepts in a simple and immediate way, they had a didactic, popular but also ethical purpose. They pushed heroism, patriotism, the division between evil and good, as it was in the sensitivity of the time, made us eager to know, to explore, to travel, to read, to deepen, they aroused questions and the desire to go further to what the senses showed.

 

"Childcraft(...) is not a treatise nor an encyclopedia, nor a syllabary, nor a school manual. However, your children will find reality in its many aspects and will learn countless things: they will hopefully learn to read better, that is, to collect, with intelligence, exact notions and good emotions ".

 

Here is the double intention: to teach and excite, to approach knowledge through involvement, emotion, participation.

And we can grasp the push for progress, for social and spiritual elevation, which was typical of those years and which led the workers to study in the evening schools to graduate, to rise above the ignorant mass.

 

“Children really want to learn and understand. Is it not vital that they learn, s better than dad, mom and older brothers, if this is as soon as possible? "

 

And who knows how many literary talents, how many rhythmic ears, have not been encouraged by the reading of fairy tales and Poems and Rhymes, volumes that taught to love words, spurring the imagination, the sense of reality but also of the magic, of the mystic, of the fantastic, with poems drawn from culture all over the world, with passages by Pascoli, Belli, Wanda Bontà, Cardarelli, Carducci, D'Annunzio, De Amicis, Fucini, Ada Negri, Palazzeschi, Pezzani, Saffo, Ungaretti.

The poems were reduced and adapted for children, according to a fashion that tended to condense the classics for children, but also the best sellers for adults, on the heels of the Reader's Digest Selection that published "summaries" of novels of contemporary literature, concentrating the whole plot in 20/30 pages, saving some descriptions and dialogues of the original.

 

What the collection of Childcrafti proposed, fully reflected the ideal of an entire era: "to create a better generation, open to beauty, truth, goodness".

Perhaps because influenced by the ministerial programs strongly conditioned by the Catholic Church, we were not ashamed then to speak of goodness and honesty, to consider them values ​​to be transmitted to future generations, for the improvement of the individual and consequently of the whole society.

It would not be bad if, occasionally, someone remembered it even today.

Mostra altro

Rai Eri: la televisione da leggere

4 Febbraio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #educazione

Rai Eri: la televisione da leggere

Chi ha una nonna con il grembialetto come armatura e il mestolo brandito a mo’ di spada, si sarà forse accorto che il leggendario Artusi è stato sostituito ormai ai fornelli dai libri de La prova del cuoco, a marchio Eri Rai. Eri è il marchio editoriale con il quale la Rai pubblica libri, riviste e prodotti multimediali connessi con la sua programmazione, sfornando una media di cinquanta testi l’anno e definisce se stessa “La Rai da leggere”.

L’inizio dell’attività editoriale della Rai risale al gennaio del 1925, con la pubblicazione del settimanale “Radio Orario” che riportava i programmi delle stazioni radio italiane ed europee. Nel 1930, “Radio Orario” con l’EIAR divenne il Radiocorriere e nel 1954 il Radiocorriere TV.

Il 15 settembre del 1949 si costituì la società ERI Edizioni Radio Italiana che produsse molte collane. Si spaziava dall’arte alla letteratura, dai libri per ragazzi ai corsi di lingue. Scrissero per la Eri autori del calibro di Emilio Cecchi, Carlo Emilio Gadda, Mario Praz, Folco Quilici, Natalino Sapegno, Giorgio Saviane, Giani Stuparich, Demetrio Volcic. Al Radiocorriere si aggiunsero riviste specializzate fra le quali “L’Approdo letterario” e “L’approdo musicale”.

Dagli anni 90 Eri pubblica i libri delle trasmissioni più importanti e reportage giornalistici a firma Enzo Biagi, Bruno Vespa, Sergio Zavoli, Piero Angela, Antonio Caprarica. Dal 1996 ha ceduto l’attività editoriale alla capogruppo Rai.

In particolare vogliamo riferirci qui a un periodo in cui la Rai ancora assolveva diligentemente il suo compito di funzione pubblica, di alfabetizzazione di massa, di didattica popolare.

Nel 1970 uscì un libro collegato strettamente a una trasmissione molto seguita dagli adulti ma anche da qualche bambino curioso e precoce. Il testo s’intitolava En Français, era una coedizione con Le Monnier, e si legava all’omonimo corso di lingue, basandosi su una serie di film pedagogici prodotti dal Ministero degli Affari Esteri francese per l’insegnamento della lingua nel mondo.

Era un’epoca, quella, in cui il francese ancora contendeva il primato all’inglese come lingua straniera indispensabile, sebbene l’inglese cominciasse ad avere quell’ammiccante bagliore di modernità che tanto ci affascinava, collegato alla swinging London, ai Beatles e alle minigonne di Mary Quant.

Il libro si articolava in due volumi, riportando i dialoghi dei micro film della trasmissione, piccoli sketch ambientati nella Francia tradizionale. C’era un intermezzo in cui veniva illustrato il contenuto lessicale del testo e una parte successiva in cui i vocaboli erano inseriti in un contesto più moderno. Seguivano poi esercizi linguistici e grammaticali.

“Né le trasmissioni, né il libro”, è spiegato nell’introduzione, “hanno lo scopo di insegnare una grammatica. Gli esercizi stessi non sono esercizi grammaticali, ma tendono, attraverso la ripetizione, alla “fixation”delle forme studiate.” (pag. 4)

Pur con molta cautela, possiamo trovare qui il nucleo del moderno insegnamento delle lingue, quello che non si basa più sull’apprendimento di regole grammaticali, bensì sull’immersione con uso contestuale delle formule linguistiche. A nostro avviso, questo metodo, portato poi alle estreme conseguenze, ha creato più danni che benefici, impedendo la destrutturazione delle frasi, l’analisi logica e grammaticale, la distinzione fra soggetto, predicato e complemento, riportando l’apprendimento a un pre-razionale incamerare frasi fatte, valido per chi operi davvero in un contesto di full immersion (o per i bambini molto piccoli dal cervello plastico) ma non nelle poche, sbrigative, ore concesse dal ministero alla didattica delle lingue straniere.

Il corso di francese andava in onda nel primo pomeriggio ed univa adulti e bambini, le mamme lo seguivano rispolverando ricordi di scuola, ai ragazzi piacevano le scenette - fra pecorelle e fiere di paese, fra trattorie campestri e ricette di cucina – guardandole assorbivano parole e modi di dire, affascinati dalle storie ironiche, dalla vita quotidiana, dal ragazzino che nell’intermède girava le caselle del quadro a pannelli mobili.

Non mancavano, alla fine di ogni lezione, pezzi scritti in italiano (per essere ben comprensibili a tutti) sulla Francia contemporanea, volti ad attirare il turismo internazionale, denunciando forse quale fosse, in realtà, il vero scopo della pur lodevole iniziativa. Ma a noi non interessa questo, a noi piace ricordare l’ansia con la quale aspettavamo l’inizio della trasmissione nel dopopranzo, la gioia con la quale prendevamo in mano il librone ad essa collegato – pesante tomo bianco bordato di giallo col profilo della Francia in copertina – la soddisfazione quando riuscivamo a capire tutti i brani che ritrovavamo scritti dopo averli uditi in televisione, arrivando a leggerli, a pronunciarli correttamente, a ricordarli, a farne un patrimonio personale al quale poi avremmo sempre attinto.

Insomma, il corso di francese Eri Rai (Le Monnier) appartiene al quel bagaglio di conoscenze che, una volta acquisite, non ci lasciano più per la vita.

Mostra altro
1 2 > >>