Overblog
Segui questo blog Administration + Create my blog
signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

Palazzeschi e i Pancaldi

11 Luglio 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia

Palazzeschi e i Pancaldi

Aldo Palazzeschi (1885 – 1974) ha dedicato ai bagni Pancaldi un pezzo memorabile, pubblicato in Stampe dell'Ottocento, F.lli Treves, Milano, 1936

È davvero una stampa la sua, descritta con gli occhi stupiti di un bambino che, il primo d’Agosto, in una giornata torrida, sudato fradicio, viaggiando in carrozza e in vagone ferroviario insieme ai genitori e alla donna di servizio, giunge alla “porta a mare” di Livorno, dove vede per la prima volta la distesa azzurra, spumeggiante, le creste bianche delle onde.

Durante il viaggio sua madre ha chiacchierato tutto il tempo con una dama vistosa, la quale ha descritto nei minimi particolari la vita che si svolgerà sullo stabilimento mondano e lussuoso, luogo “di tutte le delizie e le primizie”, spettegolando sulle signore che lo frequentano, sul numero dei vestiti, delle scarpe e dei cappelli di questa e quella.

Non è difficile immaginare l’aria calda e salmastra, il sole rovente dal quale le signore si proteggevano con l’ombrellino, le tende gonfie di vento dello stabilimento balneare, le marchese, le contesse, le attrici, le cantanti ingioiellate che, passeggiando, sfoggiavano ogni giorno una toelette nuova - in primis una principessa che arrivava addirittura con ventotto bauli, cento vestiti e duecento paia di scarpe. All’alba si facevano duelli segreti e, dopo, se ne parlava con un brivido d’emozione.

Oltre e sopra tutto, indifferente, il mare.

Il mare era calmissimo, profondamente azzurro, e pareva adagiato vittoriosamente dopo una gara col cielo a chi lo fosse di più; nel cielo non era che il sole e riempiva tutto col suo calore, e nel mare un gruppettino di vele bianche in fondo, cinque o sei, e certe spumettine candide verso la riva, fiocchetti di cotone, che apparivano e sparivano come dalle fessure di una veste.”

Mostra altro

Reportage: I Parchi della Tanzania, un preziosissimo patrimonio da proteggere

10 Luglio 2015 , Scritto da Liliana Comandè Con tag #liliana comandè, #luoghi da conoscere

Reportage: I Parchi della Tanzania, un preziosissimo patrimonio da proteggere
IL SERENGETI, LAKE MANYARA, NGORONGORO, IL PARADISO DEGLI ANIMALI È QUI…E NOI SIAMO DENTRO “QUARK”

Esiste veramente il mal d’Africa? Certo che esiste e sono tante le motivazioni di questo “male” che io definirei anche malessere. Ma in cosa consiste, in realtà, questo “Mal d’Africa” e quali sono i sintomi che ne denotano la sofferenza? A mio avviso è quel senso di struggente nostalgia che ti assale ogni volta che vedi anche un africano nella tua città. E’ la voglia di ritornare in quel continente che riesce a suscitare, anche solo pensandolo, emozioni tanto forti e uniche. E’ quel senso di meraviglia e di felicità che si prova ogniqualvolta si riesce ad osservare la straordinaria natura e i numerosi animali non rinchiusi in una gabbia, ma liberi nel loro habitat naturale.
E’ quel desiderio di non tornare piu’ nella tua città, che ti “ingoia” nella sua vita frenetica e ti fa dimenticare che noi non siamo nati con questo stress o con questa voglia di possedere sempre di piu’ ogni cosa. E’ quel comprendere che certe popolazioni hanno come sola ricchezza il loro territorio, eppure sanno accontentarsi di ciò che questo gli regala (anche se poco). E’ il ricordo di tanti vestiti variopinti, di mercati, di capanne nei piccoli villaggi e di palazzi nelle grandi città.

E’ il rammentare con rimpianto i grandi, scuri e dolci occhi dei bambini, il sorriso delle loro madri e i paesaggi magici che ti lasciano senza respiro. E’ la serenità che si prova davanti a sterminati territori dove regna la tranquillità piu’ assoluta e dove l’unico “rumore” che si avverte è il verso degli animali che ci vivono in completa libertà.
E’ quella voglia di “mollare” la cosiddetta civiltà per rifugiarsi in un mondo che assomiglia a quello dei nostri antenati di tanti milioni di anni fa…ma ci sono ancora tante altre motivazioni!

IL VIAGGIO

La cima innevata del Kilimanjaro ci annuncia che siamo quasi arrivati. Sotto di noi, alle prime luci dell’alba, il paesaggio è tipicamente africano o, perlomeno, è ciò che noi immaginiamo sia tipico dell’Africa: spazi aperti e assolati, immense distese di terra disabitata.
Finalmente siamo in Tanzania, il più vasto paese dell’Africa Orientale ed uno dei meno visitati dagli italiani. L’aeroporto di Kilimanjiaro è piccolo e gli impiegati dello scalo ci accolgono con un cordialissimo “Karibu” e “Jambo” (benvenuti e salve).
Queste due parole, accompagnate da sinceri sorrisi, ci verranno dette molto spesso dai locali nel corso del viaggio.
Terminate le formalità d’ingresso, ci imbarchiamo su un Cessna da 10 posti che ci condurrà nel Parco del Serengeti.
A pochi minuti dal decollo ci rendiamo conto di iniziare un viaggio nel quale il lato emotivo e fisico saranno coinvolti in maniera molto palese e forte.
Subito dopo l’atterraggio, con nostra grande sorpresa, improvvisamente ci sentiamo catapultati nel bel mezzo di un documentario di “Quark”, ma al posto di Piero o Alberto Angela, a vivere in prima persona questa indimenticabile esperienza, ci siamo noi.
È tangibile che non saremo solo spettatori, ma saremo, di volta in volta, protagonisti e attenti osservator
i.

Gli autisti-guide ci attendono con le loro jeep in una savana nella quale “pascolano” indisturbati centinaia di gnu e zebre. Lo spazio tutto intorno è immenso e silenzioso. L’impatto emotivo è forte. I nostri sensi sono allertati dagli odori e rumori presenti nel luogo.

Sono quelli della terra, delle piante e degli animali.
L’Africa è palpabile nell’aria e l’Italia è così tanto distant
e…
I palazzi, le automobili e il rumore del traffico sono già lontani dai nostri pensieri. Qui tutto è primordiale e la bellezza selvaggia dei paesaggi, con gli spazi infiniti dove a malapena si riesce a distinguere l’orizzonte, ci fanno riscoprire un senso di genuinità animalesca – che in città non pensiamo di possedere – rendendoci coscienti di quanto ormai ci siamo staccati da madre natura.
Di questo santuario della natura, di questo mondo remoto e affascinante, all’improvviso ci sentiamo parte integrante. Non proviamo neppure sentimenti di paura ma, istintivamente, prevale in noi un senso di rispetto e protezione per questo habitat selvaggio ma non nemico.

UN PATRIMONIO DA SALVAGUARDARE

In Tanzania la natura è stata veramente generosa e i suoi abitanti ne sono coscienti, un quarto del loro territorio, infatti, è stato protetto. Parchi e riserve naturali sono l’immenso patrimonio che il paese sta proteggendo per la conservazione del suo ecosistema.
Ed è in queste riserve che si possono osservare i cosiddetti “big five”, ossia i cinque grandi animali selvaggi che sono l’elefante, il bufalo, il leone, il rinoceronte e il leopardo.
Noi abbiamo avuto la fortuna di incontrarli tutti ed è difficile descrivere l’emozione che si prova nel trovarsi a pochi metri da loro. È anche inusuale la nostra condizione di uomini – “ingabbiati” nelle Land Rover – che osservano gli animali, liberi e unici padroni del territorio. In questo mondo primitivo tutt’intorno è silenzio. Le uniche “voci” che si odono sono quelle degli animali che si chiamano, che lottano fra di loro o che, semplicemente infastiditi dalla nostra presenza, reclamano un po’ di intimità.
Il viaggio ci ha portati nel circuito che comprende 3 Parchi: il Serengeti, lo Ngorongoro e il Lake Manyara.
In una settimana abbiamo attraversato sentieri creati dalle Jeep, unici mezzi adatti a percorrere piste spesso simili a quelle dove si svolgono i Rally.
Abbiamo incontrato tutte le principali specie animali africane: zebre, giraffe, gnu, aironi, fenicotteri rosa, ippopotami, gazzelle, struzzi, impala, sciacalli, facoceri, licaoni, babbuini, coccodrilli, leopardi, leoni e uccelli tra i più belli del mondo, come il superb glossy starling. Abbiamo osservato gazzelle, impala, zebre e gnu mentre cercavano un po’ d’ombra e refrigerio ai piedi delle acacie.

Abbiamo visto alberi così carichi di uccelli e scimmie che sembravano “soffocare”. Ci siamo riempiti gli occhi delle immense distese di fiori bianchi che sembravano candida neve caduta sui campi. Abbiamo guardato con curiosità i numerosi ippopotami che sguazzavano nei fiumi, facendo un grande baccano, e i licaoni che si abbeveravano in una pozza d’acqua.

Abbiamo ammirato i pigri leoni, a non più di quattro metri di distanza da noi, che sembravano indifferenti alla nostra presenza e sbadigliavano mostrando i loro pericolosi denti, e le elefantesse con i loro teneri “piccoli” che si nutrivano delle foglie di un albero stando proprio sotto il grosso e protettivo corpo delle madri. Abbiamo avvicinato branchi di babbuini, con la prole aggrappata al loro corpo, intenti alla pulizia reciproca e al gioco.
Abbiamo quasi contemplato a bocca aperta le centinaia di fenicotteri rosa che passeggiavano e volteggiavano sulle rive di un lago e, infine, abbiamo assistito allo straordinario spettacolo del pasto di due leonesse con i loro cuccioli intenti a mangiare uno gnu sfortunatamente caduto dopo un’estenuante corsa in cerca della salvezza.
Quante volte abbiamo potuto osservare questa immagine nei documentari televisivi? Credo talmente tante volte da sapere a memoria tutti i meccanismi che precedono l’abbattimento degli erbivori: dall’appostamento alla corsa frenetica, dall’assalto al colpo di grazia con l’affondo dei denti nel collo della vittima predestinata, niente ci è più sconosciuto di questa legge della natura che fa morire il più debole.
Ma essere lì, a non più di cinque metri dall’evento, è proprio tutta un’altra cosa. È come se ci si sentisse predatori come la leonessa e i piccoli, che stanno “rosicando” le corna dello gnu, sembrano dei grossi gatti. È strano, ma la morte dello gnu non suscita in noi alcun sentimento di pietà. Lì, nella savana, è normale che sia così perché i predatori sono in numero realmente esiguo rispetto alle prede. La sopravvivenza dei leoni non intacca minimamente la specie degli gnu, delle zebre o di qualsiasi altro animale.

I RANGERS

I rangers, figure essenziali per visitare i parchi, perché conoscono i luoghi dove si trovano le varie specie degli animali, vigilano affinché nessuno turista crei danni all’ambiente e si occupano di bruciare in modo controllato l’erba affinché gli animali ne abbiano sempre di fresca. Molti di loro sono anche gli autisti che guidano i fuoristrada durante i safari e la loro presenza è molto importante perché riescono a trasmettere ai visitatori un senso di grande rispetto e di amore per quei territori così ricchi di fauna.

I PARCHI: SERENGETI, NGORONGORO, LAKE MANYARA

La pianura del Serengeti è adibita in gran parte a Parco Nazionale. Paradiso degli animali, rigidamente custodito, si estende su una superficie di 14.500 Kmq. Senza questi provvedimenti, leoni, elefanti ed ogni altra specie di animali sarebbero condannati all’estinzione. Cacciatori e mercanti d’avorio avrebbero annientato ogni forma di vita nella savana. Gli uomini, infatti, hanno sempre fatto stragi enormi di animali. Qui, invece, l’uomo li protegge dagli altri uomini e possono vivere in completa libertà nell’ambiente che è loro congeniale.
In questo luogo l’unica “arma” consentita è la macchina fotografica o la videocamera. È senza dubbio il parco più visitato della Tanzania per la varietà di specie di animali e perché ospita la più grande concentrazione di erbivori del mondo. Il suo nome in lingua Masai significa “spazio esteso” e nel periodo che va da maggio a dicembre è più ricco di fauna in quanto gli animali vi migrano alla ricerca di nuovi pascoli e di acqua. Le varie stagioni: la più secca da giugno a novembre, la più piovosa, da dicembre a maggio, definiscono gli spostamenti degli animali e osservare queste migrazioni è realmente uno spettacolo indimenticabile.
Fra il Serengeti e lo Ngorongoro si trovano le Gole di Olduvai, nelle quali l’antropologo Leakey scoprì i più antichi resti umanoidi risalenti a 3 milioni e mezzo di anni fa. L’altopiano del Serengeti riserva spettacoli naturali, come l’alba e il tramonto, che qui acquistano una raro fascino.
Come non rimanere emozionati, infatti, nell’osservare il sole che si alza lentamente sulla savana e incomincia a colorare i prati e il cielo e, poi, va a riflettersi – dorandoli – negli specchi d’acqua?
Oppure, come non restare affascinati dallo spettacolo del tramonto nella savana. Trovarsi lì, proprio quando il sole inizia a cambiare colore, incomincia a scendere e si nasconde dietro i rami di un’acacia, albero-simbolo dell’Africa, è una grande fortuna. In quel momento il cielo si tinge di rosso, gli animali si nascondono e tutt’intorno si crea un’atmosfera di grande suggestione. Ci si sente in un’altra dimensione, più vera e più magica!
Ma la Tanzania riserva ovunque grandi emozioni e riesce ad imprimere negli occhi e nella mente di chi la visita ricordi indelebili.
Un altro spettacolo pieno di fascino, anzi mozzafiato, è la vista del cratere Ngorongoro, definito dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità.
Posto a 2286 metri sopra il livello del mare, con un diametro di oltre 16 Km, ha le pareti alte oltre 600 metri dalla base del cratere. Anche questo è per gli animali un Eden dall’ecosistema chiuso.
Se il Serengeti si presenta come una pianura quasi brulla, il Parco Ngorongoro stupisce per la ricchezza della vegetazione e per i paesaggi spettacolari che si susseguono.
Vaste foreste, torrenti, terreni fertili, cascate e piccoli laghi sono il superbo dono che la natura ha regalato a questo luogo quasi idilliaco.
Si percorrono chilometri e chilometri provando un continuo senso di meraviglia e di soggezione di fronte ai grandi spettacoli naturali che si alternano.
Gli abitanti di un così straordinario territorio sono i Masai, popolo orgoglioso e fiero che ha mantenuto una forte identità tribale.
La stessa gente del villaggio ci racconta che ancora oggi i ragazzi di 18/19 anni, per la loro iniziazione, devono uccidere un leone armati solo di una lancia.
I ragazzi accerchiano il leone, lo prendono per la coda e poi lo uccidono.
Il finale della caccia, purtroppo, non va sempre così perché talvolta c’è un morto o un ferito grave tra loro. Ma, narrano ancora i Masai, per fortuna i leoni hanno ormai imparato a conoscere l’odore dei giovani guerrieri e ne stanno prudentemente alla larga!
Meno conosciuto degli altri due, ma non per questo meno interessante da visitare, è il Parco Nazionale del Lago Manyara. Situato nella nota Rift Valley, profonda linea di frattura della crosta terrestre che si estende per oltre 5.000 km dal Mozambico al lago di Baikal nell’Ucraina, è caratterizzato da una rigogliosa vegetazione, da prati e paludi.
Oltre 350 specie di uccelli sono presenti nel Parco ed è anche possibile ammirare leopardi e leoni mollemente adagiati sui rami delle grandi acacie. In questo splendido habitat per gli animali, abbondano bufali, elefanti, impala ed ippopotami.
Nella parte sud del parco, inoltre, sono presenti sorgenti di acqua calda sulfurea.
I luoghi, come tutte le cose, hanno un odore caratteristico. Lake Manyara, forse perché eravamo lì in un giorno di pioggia, profumava di terra bagnata e di vegetazione lussureggiante.
Non abbiamo mai avvertito niente di sgradevole neppure quando eravamo molto vicini agli animali. Chissà, invece, quale tipo di odore avevamo noi uomini per loro!.

Reportage: I Parchi della Tanzania, un preziosissimo patrimonio da proteggere
Reportage: I Parchi della Tanzania, un preziosissimo patrimonio da proteggere
Reportage: I Parchi della Tanzania, un preziosissimo patrimonio da proteggere
Reportage: I Parchi della Tanzania, un preziosissimo patrimonio da proteggere
Reportage: I Parchi della Tanzania, un preziosissimo patrimonio da proteggere
Reportage: I Parchi della Tanzania, un preziosissimo patrimonio da proteggere
Reportage: I Parchi della Tanzania, un preziosissimo patrimonio da proteggere
Reportage: I Parchi della Tanzania, un preziosissimo patrimonio da proteggere
Mostra altro

Patrizia Poli, "L'uomo del sorriso"

9 Luglio 2015 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #poli patrizia, #recensioni, #luomodelsorriso

Patrizia Poli, "L'uomo del sorriso"

Patrizia Poli

L’uomo del sorriso

Marchetti Editore, pp. 280, € 13,00

Sono livornese, quindi spero di essere credibile se parlo bene di un giovane e intraprendente editore pisano come Marchetti, che decide di puntare sulla qualità – operazione controcorrente, con questi chiari di luna – e di sopperire alle lacune della grande editoria, dedita a spacciare il nulla usando supporti cartacei o digitali. I piccoli editori servono proprio a questo, quando sono onesti e fanno lavoro di scouting, senza badare solo alla situazione del loro estratto conto. Patrizia Poli aveva nel cassetto questo manoscritto inedito, segnalato al XXVI Premio Calvino, ma non riusciva a pubblicarlo per una serie di motivi, non ultimo la difficoltà di incontrare un editore deciso a puntare sulla qualità letteraria, senza porsi altri problemi.

Vediamo la storia, in estrema sintesi. Maria di Migdal non è soltanto la prostituta che gli uomini cercano e le donne fuggono, o la cestaia che intreccia foglie di palma per il mercato sul mar di Galilea; Maria è anche la donna che di notte, in silenzio, di nascosto, prega la dea Ashera, che la madre le ha insegnato a venerare. La Legge del Dio del Tempio non le piace, ma non le piacciono neanche le regole del Dio degli Esseni, sebbene la comunità nascosta nel deserto la affascini. Quando vede il suo amico Giovanni immergere nelle acque del Giordano il figlio di un falegname di Nazareth, Yeshua’ bar Yosef, stenta a credere che quel giovane genuflesso e rapito sia proprio colui che Giovanni attendeva come il messia. L’uomo del sorriso è la storia del loro incontro, di un sacrificio disumano solitario, di una decisione estrema che darà inizio alla voce di una resurrezione. Patrizia Poli rivisita con occhi da laica la storia di Gesù Cristo e al tempo stesso racconta l’esistenza di tanti altri personaggi: Maria di Nazareth, Giovanni (il discepolo più amato), Kefa, Bar Abba, Ponzio Pilato, Bar Kayafa, Yosef il falegname, Giuda Ish Karioth. Una rivisitazione laica ma struggente della materia evangelica, uno studio sulla verità che uccide, sul perché della vita e della sofferenza, sulle domande che tutti ci poniamo senza ottenere risposta. L’uomo del sorriso è la storia di un amore assoluto, più forte della morte stessa.

Romanzo storico, anche se l’autrice parla di opera di fantasia:

La razionalità mi ha fatto diventare atea – seppure mantenendo un certo anelito verso la trascendenza – ma le mie radici sono cristiane, sono cresciuta con un’educazione praticante e una nonna molto pia, sono andata a messa fino a diciotto anni. Riconosco al Gesù della tradizione cattolica un’aura mitica e favolosa irrinunciabile, e per tale motivo ogni anno faccio il presepe, con la grotta, la stella cometa, il bue e l’asinello, i Magi. Di queste figure piene di fascino mi premeva indagare le enormi potenzialità umane, emotive, ma anche favolose. Così ho scritto un’opera di fantasia, non un vero e proprio romanzo storico”.

Patrizia Poli non ha scritto un romanzo ideologico, non aveva intenzione di negare la divinità di Cristo. Il suo interesse sta tutto nel lato umano della vicenda, da buona narratrice indaga le emozioni dei personaggi, i loro pensieri, le risposte agli eventi che li travolgono. L’uomo del sorriso non è altro che una grande storia d’amore. Leggetelo, non ve ne pentirete!

Gordiano Lupi

Mostra altro

Elisabeth Seton

8 Luglio 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #personaggi da conoscere

La chiesa episcopale statunitense si staccò da quella anglicana durante la rivoluzione americana, quando fu imposto ai dissidenti di giurare fedeltà alla monarchia britannica. A questa confessione apparteneva Elisabeth Anne Bayley (1774 – 1821) una quieta ragazza di ottima famiglia, ricca ed elegante, gentile, mite, paziente, intelligente, che faceva vita ritirata ed era amante della lettura e soprattutto della Bibbia.

Sposò il giovane William Magee Seton, di cui era molto innamorata, e la coppia mise al mondo cinque figli. Furono anni felici, ma durarono poco. Il suocero di Elisabeth morì, lasciando al figlio un’azienda malandata e sette fratellastri di cui occuparsi. La ditta fece bancarotta e William si ammalò di tubercolosi.

Per curare la salute sempre più malferma di William, la famiglia si trasferì in Italia. Nel novembre del 1803 sbarcò a Livorno ma fu subito messa in quarantena a causa della febbre gialla che imperversava in America.

Purtroppo il marito peggiorò fino a morire. Fu sepolto nel cimitero degli inglesi. Il console britannico aiutò la giovane vedova che trovò conforto nell’accettazione della “volontà di Dio” e nella preghiera, frequentando numerose chiese livornesi fra le quali il Santuario di Montenero. Qui Elisabeth, orfana di madre, sentì fortissimo il richiamo della materna figura della Madonna e, durante la celebrazione della messa, ebbe una specie di epifania che la spinse a convertirsi al cattolicesimo.

L’anno successivo tornò in America, dove fu battezzata e cresimata e dove cominciò il suo apostolato in favore dei poveri e soprattutto delle vedove con figli piccoli. Nel 1809 fondò la comunità de “le figlie della carità”, improntata alla spiritualità di San Vincenzo de Paoli, che considera la missione apostolica come un’azione volta anche a risolvere i problemi materiali delle popolazioni sofferenti.

Anche lei affetta da tubercolosi, morì a soli quarantasei anni a Emmitsburg, dove è la casa madre dell’ordine da lei fondato. Nel 1975 fu canonizzata da Paolo VI e divenne la prima santa statunitense.

Il sacerdote della parrocchia livornese Anna Seton di piazza Maria Lavagna, è intervenuto nel 2004 con un escavatore nell’antico cimitero degli inglesi, in un terreno che non permette l'ingresso di tali mezzi, ed ha riesumato le spoglie del marito, non cattolico bensì protestante, di Elisabeth, danneggiando gravemente la tomba.

The American episcopal church broke away from the Anglican church during the American revolution, when dissidents were forced to swear allegiance to the British monarchy. To this confession belonged Elisabeth Anne Bayley (1774 - 1821) a quiet girl from an excellent family, rich and elegant, kind, gentle, patient, intelligent, who lived a withdrawn life and was a lover of reading and above all of the Bible.

She married the young William Magee Seton, with whom she was very much in love, and the couple gave birth to five children. Those were happy years, but they didn't last long. Elisabeth's father-in-law died, leaving his son a run-down company and seven half-brothers to take care of. The firm went bankrupt and William fell ill with tuberculosis.

To take care of William's increasingly ill health, the family moved to Italy. In November 1803 she landed in Livorno but was immediately put into quarantine because of the yellow fever that was raging in America.

Unfortunately her husband got worse until he died. He was buried in the English cemetery. The British consul helped the young widow who found comfort in accepting the "will of God" and in prayer, attending numerous churches in Livorno including the Sanctuary of Montenero. Here Elisabeth, motherless, felt very strong the call of the maternal figure of the Madonna and, during the celebration of the mass, she had a kind of epiphany that pushed her to convert to Catholicism.

The following year she returned to America, where she was baptized and confirmed and where she began her apostolate in favor of the poor and especially widows with young children. In 1809 she founded the community of "the daughters of charity", based on the spirituality of Saint Vincent de Paul, who considers the apostolic mission as an action also aimed at solving the material problems of suffering populations.

She also suffered from tuberculosis and died at the age of forty-six in Emmitsburg, where the mother house of the order she founded is. In 1975 she was canonized by Paul VI and became the first American saint.

The priest of the Livornese parish Anna Seton of Piazza Maria Lavagna, intervened in 2004 with an excavator in the ancient English cemetery, in a land that does not allow the entry of such vehicles, and exhumed the remains of her husband, a non-Catholic but Protestant, seriously damaging the tomb.

Mostra altro

Yorick

7 Luglio 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #personaggi da conoscere

Yorick

Quando talor frattanto,

forse, sebben così;

giammai piuttosto alquanto

come perché bensì;

Ecco repente altronde,

quasi eziandio perciò,

anzi, altresì laonde

purtroppo invan però!

Ma se per fin mediante,

quantunque attesoché,

ahi! sempre, nonostante,

conciossiacosaché!

Nel ritratto di Corcos, Pietro Francesco Leopoldo Coccoluto Ferrigni (1836 – 1895), in arte Yorick figlio di Yorick, (con un doppio omaggio prima a Shakespeare e poi a Sterne), ci appare come un uomo massiccio, infagottato in un cappottone, con i baffi folti.

Nato a Livorno, fu un enfant prodige, dalla memoria strepitosa, che a tre anni sapeva leggere e a nemmeno sedici si era già iscritto all’università grazie ad una dispensa granducale. Vicino alle idee liberali di Ricasoli, partecipò alla seconda guerra d’indipendenza e fu poi segretario particolare di Garibaldi, rimanendo ferito a Milazzo.

Scrittore ironico di nonsense, le sue rime più famose furono “Parole per musica” del 1881, che mettevano in ridicolo le melensaggini dei libretti d’opera.

Giornalista di razza, fondatore de Il Fanfulla, ogni giorno su la Nazione pubblicava un articolo, abbastanza ponderoso, denominato “Cronache dai Bagni”, dove raccontava, a chi non poteva godere dei piaceri della Livorno balneare, la vita che si svolgeva negli stabilimenti sul nostro litorale. I suoi pezzi avevano grande riscontro e successo di pubblico e furono anche tradotti in inglese dal Morning Post.

Yorick descriveva una città che d’estate cambiava fisionomia e si riempiva di una folla chiassosa. Ormai non c’erano più le stanzette dei bagni Baretti. Ora i Pancaldi, i Palmieri, Lo Scoglio della Regina e gli altri stabilimenti avevano ampi spazi aperti, dove i frequentatori passeggiavano e s’immergevano nelle acque limpide senza più privacy.

I lettori si divertivano con i pettegolezzi, con le disavventure dei malcapitati fiorentini che “si facevano spennare nei ristoranti”, con gli inglesi che sguazzavano e si tuffavano, con i francesi che muovevano le braccia all’impazzata senza avanzare di un passo nell’acqua. Immaginavano le grazie delle donne che si bagnavano indossando tuniche ampie e mutandoni alla caviglia, mostrando comunque sempre più pelle che non con gli abituali corsetti e crinoline, accendendo la fantasia maschile o rivelando qualche difettuccio di troppo. Le mamme ostentavano le figlie, auspicando di maritarle, e i giovanotti in bolletta speravano in una dote. La talassoterapia era ambita come cura, mentre il sole era bandito ed evitato a ogni costo.

I nostri ospiti riveriti vengono qui per bagnarsi”, dice Yorick, “per ballare, per passeggiare e per discorrere … tutte occupazioni da sfaccendati”.

Yorick
Mostra altro

Andrea Biscaro, "Sangue d'ansonaco"

6 Luglio 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Andrea Biscaro, "Sangue d'ansonaco"

Sangue d’ansonaco

Andrea Biscaro

Edizioni Effegi, 2015

pp 127

12, 00

Rispetto a Il vicino, Sangue d’ansonaco, il nuovo thriller di Andrea Biscaro, manca delle atmosfere progressivamente agghiaccianti, dell’incalzare dell’orrore, della paura che ti stringe alla gola e, nello steso tempo, non ti fa staccare dalla storia, che ci avevano colpito nel precedente romanzo. Qui sembra che l’autore sia indeciso sul taglio da dare alla storia: avventura? Giallo paranormale? Spot pubblicitario per una bellissima isola dell’arcipelago toscano e per la sua produzione vinicola?

Abbiamo uno scrittore di nome Antonio Brando, già protagonista d’un precedente romanzo di Biscaro, che, come accade in molte fiction, film e quant’altro, eredita una casa all’Isola del Giglio da un parente sconosciuto. Qui s’imbatte in una cantina misteriosa, in un vino prodigioso, in avventure terrificanti quanto improbabili. Il finale rimane aperto e non lo sveliamo, ma le interpretazioni possono essere molteplici.

Quello che preme far notare, è che la parte migliore del libro non è la strana vicenda in cui incappa il protagonista, ma l’ambientazione. Ritroviamo tutto il rigoglio dell’isola a primavera, fra rose canine e ginestre in fiore, la Torre a guardia della mezzaluna di sabbia rosata, i tramonti quieti ed infuocati del Campese.

l’arco della baia è molto ampio. Una calda luce arancione fa brillare la grana grossa di granito. Mi chino, afferro una manciata di sabbia e mi soffermo ad osservarne il colore e la brillantezza. Minuscoli quarzi scintillano elettrici in mezzo al granito.” (pag 29)

I primi capitoli scorrono con dolcezza e viene voglia di andare avanti, viene voglia che, su quell’isola, il protagonista non incontri la bizzarra memoria di uno zio pericoloso ma, piuttosto, l’amore e una nuova vita.

All’isola e alla trama è legato l’ansonaco, o ansonico, un vino liquoroso, ad alta gradazione alcolica, prodotto in loco. Forse tutto il romanzo è solo una metafora degli effetti dell’alcol, un invito a non cadere in troppe tentazioni nocive, a gustare la vita a piccoli morsi e a piccoli sorsi.

Il protagonista poi, dobbiamo notare, è uno scrittore in crisi (pure questo un cliché della narrativa di genere e non) e anche qui ci chiediamo se i suoi problemi non derivino da qualche colpa, qualche cedimento passato in cui si torna ad indulgere.

“e invece sei fermo da ormai sette anni, se non sbaglio! Ehi, brando, non credi ch la vacanza possa ormai ritenersi conclusa? Che ne dici, ci riusciresti ancora a scrivere un romanzo di successo? O anche solo un romanzo? O anche solo una pagina?” (pag 12)

Come già avveniva ne Il vicino, verità e immaginazione hanno confini labili, sovrapponibili, il sogno si mescola alla realtà e persino alla finzione romanzesca, creando un effetto metanarrativo spiazzante.

Mostra altro

Il mio primo e unico furto (fuori casa)

5 Luglio 2015 , Scritto da Paolo Mantioni Con tag #paolo mantioni, #racconto

Il mio primo e unico furto (fuori casa)

All’epoca eravamo un gruppo di monelli tra i dodici e i quattordici anni. Passavamo il tempo tra giochi infantili – nascondino (da noi chiamata nascondarella), partite di pallone, e altre simil cose – e occupazioni più smaliziate – partite di poker nel garage momentaneamente libero d’uno di noi; chiacchierate indolenti seduti sul muretto della chiesa o tra i tavoli del piccolo bar dei paraggi, a dispetto della non sempre contenuta irritazione del proprietario, che vedeva i suoi tavoli occupati per molte ore a fronte di poche e povere consumazioni; sigarette fumate tra le dunette di un campetto circostante ai limiti del nostro territorio e da noi chiamato “I monticelli”, e altre simil cose. Eravamo un gruppo di monelli ognuno dei quali aveva un che da fuggire in casa propria. Chi altri quattro o cinque tra fratelli e sorelle ingombranti, chiassosi e tendenzialmente prevaricatori, impegnati a costruire e mantenere una gerarchia della quale facevano le spese i minori, magari a petto d’un padre ubriaco se allegro o ingrugnito se sobrio; chi fuggiva invece dubbie reputazioni di madri o sorelle, troppo spigliate o simpatiche, pagando il fio di una colpa non sua e risarcendo qualcuno di noi dell’ospitalità con saltuarie e non del tutto impegnative prestazioni omosessuali; chi fuggiva l’onta di genitori separati: oggi si stenterebbe a crederlo, ma allora un padre non morto o non emigrato o non carcerato che non vivesse in casa era un mistero che rendeva i figli bisognosi di comprensione e sempre a rischio d’esclusione; chi, più semplicemente, fuggiva le botte dirette su di sé o indirette sulla madre d’un padre perennemente sbronzo – fotocopia sputata del Ferribotte dei Soliti ignoti - che sostentava la famiglia e la sua macchina sportiva guardando lavorare moglie e figlio nel lucroso negozio di casalinghi e servizi vari. Io per la verità non ricordo cosa fuggissi o se avessi qualcosa da fuggire: madre e parenti mi volevano bene, mi stimavano, mi ritenevano in rampa di lancio per un profittevole futuro, ero riflessivo, educato, preoccupato; soffrivo un po’, forse, dell’indifferenza arrogante d’un fratello troppo maggiore d’età e già impegnato in attività cui non potevo partecipare: insomma nulla di veramente serio. Eravamo un gruppo di monelli che s’aggirava o sostava su un territorio circoscritto che comprendeva le case d’ognuno di noi, la scuola, la chiesa, il bar, i “Monticelli”: questo era il cerchio spaziale. Il cerchio ideale che costituivamo era altrettanto reale, sebbene duttile e permeabile sia in entrata che in uscita. Eravamo un gruppo di monelli e in mezzo a noi capitava talvolta un ragazzo un po’ più grande, di pochi mesi da alcuni, di un anno o poco più da altri. Un ragazzo di esperienza e di prestigio. Per l’una faceva fede il suo lavoro fisso – barista al bar del mercatino rionale, ben distante dal nostro territorio – per l’altro un fratello in carcere, che se non era proprio il famoso bandito era comunque oggetto di suggestione e soggezione. Eravamo un gruppo di monelli e un ragazzo d’esperienza e prestigio saltuariamente ospite del nostro circolo ognuno con un nome. Mi correrebbe l’obbligo di indicarlo, di chiamare con il loro nome o con un nome fittizio questi personaggi (me compreso). Ma l’una o l’altra cosa mi risultano difficili. Se li indicassi con il loro vero nome, temo, nel caso improbabile vengano a conoscenza di queste righe, che possano urtarsi, possano rivendicare d’aver visto le cose in maniera diversa, o che non gradiscano vedersi imprigionati in una verità parziale, com’è, e come non può essere altrimenti, una verità. Se usassi nomi fittizi e mi consegnassi, come sarebbe giusto, a tutte le prerogative del fare letteratura, mi sembrerebbe quasi di tradirli, di svellere da loro una parte della loro verità. Un residuo, forse, del pensiero magico che contesta l’assoluta convenzionalità di parola e cosa, nome e persona. Del resto, però, chiamarsi Giovanni o Kevin o Goffredo, oppure Concetta, Sharon o Lucrezia, converrete con me, non è la stessa cosa, soprattutto quando si è ancora in tenera età, quando la personalità è ancora una nebulosa di opportunità. Ma in questa constatazione c’è poco di magico: qui entrano in corte la Storia, la Sociologia con gli spregevoli cortigiani dell’autocompiacimento e dell’intellettualismo. Eravamo un gruppo di monelli e un ragazzo ospite e ci chiamavamo, alla rinfusa, Gianni, Paolo, Daniele, Stefano (due occorrenze), Giorgio, Massimo, Giancarlo; nessun Goffredo, nessun Sigismondo, nessun Manfredi e nemmeno un più spendibile Riccardo; per la verità non c’erano nemmeno Carmeli o Concetti o Santini. Il ragazzo ospite aveva una per noi stupefacente disponibilità economica che gli permetteva d’aprire giornalmente il suo pacchetto di Marlboro morbide (soft), che, quasi snobisticamente, ripagavano della minor praticità della confezione rispetto alla Marlboro dure (box) con una leggera maggior lunghezza e un gusto più pieno. Poteva consumare al bar e fare il gesto che alcuni di noi sognavano la notte: infilare la mano in tasca, trarne una manciata di monete e trascegliere tra queste quelle da consegnare al cassiere. Intendiamoci, noi gruppo di monelli, avevamo disponibilità economiche personali superiori a quelle dei Goffredo - che magari avrebbe potuto possedere e giocare con una pista a quattro corsie, due ponti e un giro della morte, ma non avrebbe potuto decidere d’andarsi a prendere un gelato - o dei Concetto, ma dovevamo pur sempre contare mentalmente le 500 lire per il cinema o le 250 da mettere insieme per le MS da 10. E se riuscivamo a mettere insieme ognun per sé le 2500 lire per la piscina – avendo il mare a poche centinaia di metri, ovviamente agognavamo d’andare nella piscina inaugurata di fresco, come una grande novità – non potevamo certo dire, come faceva il ragazzo talvolta ospite, “dai, un biglietto ve lo pago io”. La letteratura non ha solo il sacro e santo, fumoso e controverso compito di dire la verità, ma, assieme ad altri ancora, anche quello di mostrare agli Stefano, ai Goffredo e ai Concetto che il mondo è un prisma cangiante e che se ci si riduce ad una striminzita figurina – foss’anche nudo su un panfilo a largo o in costume da bagno a bordo piscina o in mutande bianche su una spiaggia libera – se ne perde gran parte del gusto. Il ragazzo ospite aveva anche il privilegio di lasciare, purché non glielo richiedessimo esplicitamente, gli ultimi due tiri o addirittura l’intera mezza sigaretta a qualcuno di noi che lui opzionava a caso o secondo sue imperscrutabili elucubrazioni. Caso e elucubrazioni insollecitabili, pena l’evaporare della possibilità. Il ragazzo ospite aveva disponibilità economiche per noi fantasmagoriche perché lavorava, perché a fine mattinata poteva portarsi via le mance e perché rubava. Era specializzato nel furto delle autoradio dalle macchine in sosta. Come poi trasformasse l’aggeggio in monete e banconote, ovvero l’esistenza di ricettatori o committenti, era per noi gruppo di monelli un mistero che rendeva il ragazzo ospite ancora più affascinante e soggiogante. Come invece svolgesse concretamente l’operazione, anziché limitarsi a raccontarcelo, decise, colta una circostanza favorevole, di mostrarcelo. In un’aula a cielo aperto il ragazzo ospite tenne un seminario di ladroneria. In uno spiazzo poco lontano dalla spiaggia, un assistente del professore – l’inconsapevole e malcapitato proprietario – aveva depositato una Cinquecento gialla con la cappotta apribile di cotone plastificato. Il ragazzo ospite ci fece dapprima notare che non aveva gli ammortizzatori abbassati, quindi non poteva appartenere a qualcuno che, informandosi in giro, avrebbe potuto scoprire l’autore (o gli autori?) del misfatto. Poi estrasse dalle tasche i ferri del mestiere, un coltellino e un rampino (che altro non era che un’antenna da autoradio, appunto), che spiegò sotto i nostri occhi. (Ah, che meravigliosa storia è compresa tra il rampino del secentesco Cavalier Marino e quello del ragazzo ospite). Sbirciò dal finestrino, si girò di nuovo verso i suoi pigolanti allievi e disse, con l’aria di chi la sa lunga, “c’è l’impianto, ma lo stereo non c’è”. Pensammo (o forse sperammo) che fosse suonata la campanella e che la lezione sarebbe stata rimandata ad altra data o a mai più; invece, dopo aver studiato le nostre estatiche espressioni, dopo aver di nuovo maliziosamente sorriso, “sti coglioni tante volte lo mettono sotto il sedile” aggiunse. D’un sol colpo di coltellino disegnò uno squarcio a forma di 7 sulla cappotta, infilò il rampino, sollevò il pomello di chiusura dello sportello, controllò sotto entrambi i sedili, scassinò, per sicurezza, e già che c’era, il vanetto portaoggetti, il tutto in non più di cinque o sei secondi, ma lo stereo non c’era per davvero. Evidentemente il coglione, sordo alle derisioni dei cabarettisti, se l’era portato dietro e ora passeggiava per mano alla fidanzata tenendo nell’altra il suo stereo in sicurezza. E noi gruppo di monelli fummo sollevati dall’idea che in fondo, mancando il bottino, non avevamo partecipato ad un furto, eravamo ancora vergini, per così dire. Il ragazzo ospite non se la prese più di tanto: uno squarcio in più o in meno non avrebbe influito più di tanto sulla sua esecranda carriera.

Cionondimeno quella lezione ebbe i suoi frutti. In una bella sera d’estate, ridotto momentaneamente il gruppo di monelli a una coppia, passeggiavamo per una delle nostre strade senza marciapiede e superavamo macchine in sosta alla nostra destra. Notai, notò, notammo una Seicento nera (se mal non ricordo) con il finestrino completamente aperto: non ci sarebbe stato bisogno né di coltellino né di rampino. Proseguimmo per un po’ senza parlarne, solo guardandoci, poi feci, fece, facemmo un’inversione a U e ripassammo di fianco alle lamiere tentatrici. Non c’era nessuno stereo, ma c’era in bella evidenza sul cruscotto un pacchetto di sigarette Astor morbide, involucro marrone, cammeo all’inglese proprio al centro, che aveva tutta l’aria di essere pressoché intonso. Al terzo passeggio presi, prese, prendemmo la decisione: il mio buon amico, poco più grande, più risoluto e, diciamolo francamente, più bello di me, protese il braccio nell’abitacolo e senza nemmeno aprire lo sportello, arpionò l’agognato pacchetto di sigarette. Cominciammo a correre a perdifiato, svoltammo subito a destra su una stradina laterale meno illuminata e più stretta e non ci fermammo fino a quando gli immaginati giustizieri con bastoni e forconi avrebbero esaurito l’ultima stilla d’energia. Io e il mio buon amico ci eravamo sverginati, per così dire. Come si evince dal titolo di questo pezzo letterario e, per chi fosse interessato, dal mio casellario giudiziale, io interruppi lì la mia carriera: troppa paura, troppa preoccupazione di far soffrire la mamma, di deludere i parenti. Il mio buon amico invece perseverò con conseguenze, che il fallace e lungimirante, a volta a volta lungimirante e fallace, senso comune, considererebbe disastrose. Il mio buon amico agì secondo il fallace e lungimirante detto “chi non risica non rosica”, io secondo l’altrettanto fallace e lungimirante “male non fare paura non avere”.

Mostra altro

Otello Chelli, "Rizio"

4 Luglio 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Otello Chelli, "Rizio"

Rizio

Otello Chelli

MdS Editore, 2015

pp 164

12,00

Rizio appartiene alla “stirpe dei Morgiano”, è giovane, avvenente, povero. Rizio è un comunista duro e puro, dall’animo nobile, solidale, quasi evangelico. Vive nella baraccopoli, sorta sui prati della fortezza Nuova a seguito dei bombardamenti che hanno devastato Livorno. Benvoluto dai vertici del partito, sta facendo carriera come politico, mantenendo indipendenza di giudizio e coscienza personale. S’imbatte in Valeria Righi, esponente di spicco della Democrazia Cristiana. Valeria è più grande di Rizio, è fervente cattolica, anticomunista, sposata con prole. Ma è bella, dolce, innocente, pura quanto il giovane labronico. S’innamorano e la vita li travolge.

Rizio, di Otello Chelli, è un vero e proprio romanzo storico, ambientato nel dopoguerra, con vicende reali e personaggi famosi, come Enrico Berlinguer e Ilio Barontini, mescolati ad altri di fantasia.

La parte migliore del testo non è la trama, non è l’afflato politico, non è nemmeno il grande amore descritto con enfasi e linguaggio d’altri tempi. Il momento in cui Chelli raggiunge il suo apice è, come sempre, nella descrizione accorata del suo quartiere, La Venezia, di cui già avemmo a parlare leggendo il suo Gente della Venezia.

La Venezia rappresenta, per Chelli, quello che, per un uomo anziano ma ancora innamorato, è la sposa invecchiata. Solo lui, nel chiuso della memoria, sa vederla com’era, giovanetta in fiore, senza rughe né crepe. Quella che racconta con toni accorati, è la Venezia di prima dei bombardamenti, il luogo magico dove è cresciuto.

Ho vissuto i miei primi dieci anni in una fiaba, il quartiere della Venezia, circondato, come sai, da una rete di canali dove navigano e vengono ormeggiati i navicelli, quei barconi che, trascinati da un uomo armato di una lunga pertica, scivolavano silenziosi, carichi di merci da e per il porto.” (pag 49)

È da notare a margine come l’ateo Chelli riesca a descrivere sentimenti religiosi con quasi più emozione di chi religioso lo è davvero ma forse in modo scontato. Si tratta di quell’anelito verso il soprasensibile che accomuna i non credenti dotati di animo poetico e non puramente materialista.

Quel “ragazzo era un uomo diverso da tutti gli altri, egli sembrava un antico, individuava e inseriva nel suo universo i segni forniti dalla Creazione e aveva rapporti trascendenti, non sapeva con chi.” (pag 68)

Anche l’amore è un mezzo per raggiungere la trascendenza. Puro, sublime, di una carnalità scevra di ogni bassezza. È l’unione mistica di due corpi, ma soprattutto di due anime, capace di superare ogni ostacolo, di sopravvivere oltre la morte.

Anche la politica è intesa in questo stesso modo: come lotta eterna e titanica fra Bene e Male, come combattimento corpo a corpo fino alla morte, ma anche come pietà, giustizia, compassione. Contempla persino la stima del nemico, quando sia mosso dagli stessi, seppur opposti, ideali.

In “questo tempo ho conosciuto uomini di tale levatura, anche tra quelli della maggioranza, che in un futuro non troppo lontano non avranno successori degni di tanto valore e ciò mi fa temere per il destino del nostro paese.”

Al di là delle convinzioni di ciascuno, come dargli torto?

Mostra altro

Spunti di viaggio: Slovenia, un piccolo gioiello a due passi dall'Italia

3 Luglio 2015 , Scritto da Liliana Comandè Con tag #liliana comandè, #luoghi da conoscere

Spunti di viaggio: Slovenia, un piccolo gioiello a due passi dall'Italia
UN INCANTEVOLE PAESE, RICCO DI BELLEZZE, DI NATURA E DI STORIA.

Pur trovandosi a due passi dall’Italia, la Slovenia, fino a qualche anno fa, non era molto conosciuta alla maggioranza degli Italiani, oppure era conosciuta solo come località termale.
Stato federato della ex Jugoslavia, il 25 giugno del 1991 proclamò, insieme alla Croazia, la propria indipendenza.

A seguito di questo atto unilaterale, mentre in Croazia si sviluppò un aspro conflitto con l’esercito federale jugoslavo, durato alcuni mesi, in Slovenia non ci fu un vero e proprio scontro, tanto è vero che le truppe federali si ritirarono dal territorio sloveno dopo pochi giorni. La Slovenia fu riconosciuta dalla Comunità Internazionale come Repubblica Indipendente nel 1992 e dal 1° maggio 2004 fa parte dell’Unione Europea e della Nato.

Geograficamente la Slovenia confina a nord con l’Austria, a sud-est con la Croazia, a ovest con l’Italia e con il Mar mediterraneo sul quale si estende per circa 45 chilometri. La Slovenia ha una popolazione di oltre due milioni di abitanti ma nella sola Lubjana ce ne sono circa trecentomila.

Questa breve introduzione serve a far comprendere che la Slovenia è sempre stato un paese che ama risolvere i problemi senza violenza. Infatti, tanto per fare un esempio, quando fu affrontato il problema dei confini con la Croazia, esso fu risolto pacificamente cedendo a quest’ultima circa 15 chilometri di territorio, ottenendo in cambio le dovute garanzie e facilitazioni per le minoranze slovene in territorio croato.

Una saggia politica per un paese che aveva bisogno di concentrare le proprie energie per la ripresa economica, cosa che ha fatto e sta ancora facendo. Un settore importante dell’economia slovena è il turismo, sia quello balneare, sia quello naturalistico, culturale e del wellness.

L’ARISTOCRATICA LUBJANA

Sicuramente da visitare la capitale della Slovenia, che lascerà tutti a bocca aperta. Secondo un’antica leggenda, Lubjana fu fondata da Giasone quando, ritornando dalla sua ricerca del vello e navigando sul Danubio, vi si fermò con i suoi argonauti. Lubjana è veramente una città incantevole, la cui elegante architettura la rende una delle città più belle. Somiglia vagamente a Vienna e questo è dovuto al fatto che, dopo aver subito danni per il terremoto avvenuto nel 1895, fu dato incarico di ricostruire ciò che era andato distrutto ad un team di architetti e fra questi vi era il viennese Kamil Sitte.

La città assunse l’attuale aspetto moderno con ampie vie diritte, grandi piazze e spazi verdi, edifici ricostruiti e restaurati su imitazione di quelli di Vienna e Praga. La città è attraversata dal fiume Ljubljianica, su cui sono stati costruiti alcuni ponti.

Il più antico è il triplo ponte Tromostovje, che porta sulla piazza dedicata al più grande poeta sloveno F. Preseren, in memoria del quale è stato eretto un pregevole monumento in stile rinascimentale. Da visitare, anche se interamente ricostruito nel 1960 sulle vecchie fortificazioni.

Da visitare anche il centro turistico di Bled, dove c’è un lago ed è frequentato in ogni stagione dell’anno da una clientela raffinata. Ma la Slovenia ha numerosi luoghi di interesse, da quello naturalistico, come ad esempio il Parco nazionale del Triglav, alle grotte di S. Canziano e ai cavalli di Lipizza.

Ma una meraviglia assolutamente da non perdere è quel capolavoro della natura chiamato “Grotte di Postumia”, caverne nate dalla deviazione del letto dei fiumi sotterranei e modellate dalle infiltrazioni di acqua che, goccia dopo goccia, hanno creato delle sculture naturali conferendo all’ambiente un’atmosfera di magica bellezza. Fino ad ora sono stati scoperti oltre 20 chilometri di sentieri ma, di questi, sono visitabili dai turisti oltre cinque chilometri. A Natale, le grotte si trasformano in un presepe vivente, molte delle grotte, infatti, accolgono tutte le figure del presepe ed è di grande suggestività l’ascolto di musiche natalizie questa scenografia sotterranea.

PORTOROSE: BELLEZZA E MARE

Per chi ama le vacanze estive marittime c'è Portorose, ridente e tranquilla cittadina posta sul Golfo di Pirano, che si trova a circa settanta chilometri da Trieste.
Portorose è conosciuta sin dal secolo scorso come centro termale che sfrutta I fanghi e l’acqua delle saline per la cura della pelle, dei postumi delle malattie reumatiche e delle vie respiratorie.

In realtà, gli effetti benefici dell’acqua delle saline erano conosciute sin dai tempi degli antichi romani quando, iniziando a bonificare la zona, notarono che i salinai non soffrivano di affezioni reumatiche.

In questi ultimi anni è cresciuta anche come centro balneare fino a diventare uno dei luoghi più mondani dell’Adriatico.

Ben attrezzato, con alberghi di varie tipologie, è in grado di accogliere turisti di ogni genere. Durante l’estate vengono organizzate gare sportive, concerti ecc…per rendere il soggiorno ancora più piacevole. Molti scelgono Portorose per la cura della propria persona in quanto la cittadina è diventata uno dei centri wellness più attrezzati e organizzati in Europa.

Per chi ama muoversi, da Portorose si raggiunge facilmente a piedi la deliziosa città di Pirano, un piccolo gioiello separato dal mare da una strada e dove è gratificante sorseggiare una bevanda nel caffè più antico del luogo, ricco di memorie del tempo passato.

Perché scegliere la Slovenia per le proprie vacanze o per un lungo week end?. Principalmente per le sue bellezze naturali, poi per la gentilezza del suo popolo, per l’ordine e la pulizia che regna sovrana ovunque. Infine, per l’amore che dimostra nella conservazione e la divulgazione della propria cultura.

Tutto ciò l’allinea a quei paesi dove ancora la parola civiltà ha un significato. E di questi tempi, in cui l’inciviltà è imperante, non è cosa da poco tornare in un piccolo paradiso e respirare "quell’aria” benefica che da noi non si respira quasi più.

Spunti di viaggio: Slovenia, un piccolo gioiello a due passi dall'Italia
Spunti di viaggio: Slovenia, un piccolo gioiello a due passi dall'Italia
Spunti di viaggio: Slovenia, un piccolo gioiello a due passi dall'Italia
Spunti di viaggio: Slovenia, un piccolo gioiello a due passi dall'Italia
Mostra altro

Aldo Dalla Vecchia, "Vita da giornalaia"

2 Luglio 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #televisione

Aldo Dalla Vecchia, "Vita da giornalaia"

Vita da giornalaia

Aldo Dalla Vecchia

Murena editrice, 2015

pp 47

8,00

Ci siamo occupati ampiamente di questo testo, quando era ancora un brogliaccio di un’opera teatrale che stava per andare in scena. Vi rimandiamo perciò alla lettura della precedente e dettagliata recensione. Possiamo solo aggiungere che adesso questo atto unico è diventato un libro vero, con una copertina deliziosa, che richiama, appunto, la Vita da giornalaia, trascorsa dentro un'ipotetica, coloratissima edicola, piena di tutte le testate care all’autore.

Rispetto al copione teatrale, la voce fuori scena si è trasformata in un personaggio che pone domande. Sorge il dubbio che intervistato e intervistatore siano la medesima persona. È se stesso che Aldo Dalla Vecchia interroga, è dentro la sua memoria che fruga alla ricerca di pezzetti di vita dolceamari.

Gli argomenti sono quelli trattati abitualmente dall’autore: la gavetta come giornalista, la carriera in ascesa, che lo ha portato a lavorare come autore di importanti programmi televisivi e collaboratore di note testate, il contatto diretto con i più importanti e glamour personaggi dello spettacolo. Possono sembrare temi non particolarmente rilevanti o impegnati, ma a vivificarli ci sono la dolcezza e il garbo con cui Dalla Vecchia ne parla. La sua passione è profonda, tutto è permeato di nostalgia, dolce ma non zuccherosa, tenera e delicata come il suo animo da eterno ragazzo perbene.

Attraverso i ricordi, ripercorriamo tempi televisivi ormai scomparsi, divenuti quasi epici, incontriamo personaggi forse sopra le righe ma sempre signorili. Ci appaiono più attraenti, più puliti, più affascinanti di quelli di oggi. Oppure, chissà, magari è solo il rimpianto a farci sembrare bello tutto quello che ormai è solo reminiscenza. Come le puntate de La casa nella Prateria, come gli sceneggiati, i quiz del giovedì, il pappagallo di Portobello. Come tutto quello che ci ricorda come eravamo e come non saremo mai più.

Fondamentale il passaggio dalla tv di stato a quella sbarazzina delle reti commerciali. E ciò è tanto più significativo in questo momento in cui tutto sta di nuovo mutando in modo epocale, con l’arrivo dei canali digitali, della tv on demand e interattiva.

La fine degli Anni Settanta segnò, almeno per me che ero bambino e appassionato di televisione, un passaggio epocale e uno choc benefico, con l’arrivo dei programmi a colori e la nascita delle tivù private, una su tutte Telemilano 58, la futura Canale 5, dove ritrovai molti dei miei beniamini.”

Che rimane di quei tempi pionieristici? Il mondo catodico che conoscevamo sta sparendo, i grandi del passato se ne vanno, a uno a uno, ormai solo illustri fantasmi in Techetechetè, più simile ad un triste necrologio che ad un vivace preserale.

Mostra altro
<< < 1 2 3 4 > >>