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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

Herodion

19 Luglio 2018 , Scritto da Lorenzo Barbieri Con tag #lorenzo barbieri, #racconto, #storia

 

 

 

 

Tratto da "Evros".

Colpiti dalle frecce e dalle lance scagliate da lontano, i soldati greci caddero nelle acque del fiume. Molti furono quelli portati via lentamente dalla corrente. In uno degli ultimi assalti, Herodion, il giovane ufficiale, rimase ferito, colpito da diverse frecce. Due conficcate nella gamba sinistra, una sul braccio destro che impugnava la lancia.

I suoi rimasero con lui circondandolo a protezione, formando un circolo per tenerlo coperto dagli assalti, ma lui ordinò, urlando, di ritirarsi. Inutile sprecare tante vite in una volta sola. Lui ormai non poteva salvarsi, si mise al centro del guado e, strappate le frecce dalla carne sanguinante, mise lo scudo dietro le spalle a protezione e, con la spada e lancia nelle mani, si accinse ad affrontare il nemico che lo stava circondando. Si difendeva come un leone. La pesante lancia teneva lontano gli assalitori, quelli che riuscivano ad avvicinarsi cadevano sotto i colpi della sua spada. Gli stessi nemici erano sbalorditi dal coraggio e dalla forza del giovane guerriero. Si mantenevano a distanza, cercando ci colpirlo con le lance. Da lontano, intanto, gli arcieri greci cercavano di assottigliare le file nemiche che stavano pressando l’eroe ferito.

Altre frecce lo colsero, ma lui le strappava e continuava a colpire persiani con la lancia. Le forze man mano però lo stavano lasciando, il sangue, che usciva copioso dalle ferite, lo stava indebolendo sempre di più. Cadde in ginocchio e ancora tentava di tenere a bada i fanti. Ad un certo punto, nonostante le ferite, fra lo stupore degli stessi assalitori, si fermò. Lasciò cadere le armi e si accinse a togliersi l’armatura. I nemici, per una forma di silenzioso rispetto, si fermarono a distanza osservando cosa stava facendo il giovane eroe. Con notevole sforzo, lentamente, riuscì a sfilare la corazza di lame di cuoio che indossava e si mise a torso nudo. Il  suo corpo era una maschera di sangue. Le numerose aste di frecce, che lui stesso aveva spezzato, gli davano l'aspetto di un orso irsuto. Sostenendosi con la spada come un bastone, si erse in tutta la sua statura e, rivolto a cielo, invocò il grande Zeus.

"Oh! padre Zeus, ecco!  Questo è il mio petto, il mio cuore, questa è la mia vita, la offro a te in segno di ringraziamento per avermi permesso di morire da Spartano.

Salva i miei compagni e la nostra amata  Patria. Tu!  Padre degli Dei e di noi mortali, fa che il mio nome non sia dimenticato."

Stette ancora l’eroe, eretto, ad invocare il suo Dio, poi, rivolgendosi ai suoi assalitori esclamò:

"Empi codardi, venite ad affondare le vostre lance nel mio petto, è vostro! Che possiate vantarvi, da sciacalli quali siete, di aver ucciso uno spartano.

Venite, iene maleodoranti! Buoni a colpire solo le prede indifese… così muore uno spart..."

Le ultime parole non finì di pronunciarle. I fanti dai lunghi vestiti, passato l’attimo di stupore, si erano fatti avanti per concentrare la loro rabbiosa impotenza contro quel corpo ormai senza vita, martoriandolo con le punte delle loro lance. 

Vinto, il corpo del giovane si era accasciato al suolo. Giaceva sulla schiena ancora protetta dal grande scudo.  Le ferite che lo avevano piegato erano tutte sul petto.

Dimostravano che aveva affrontato la morte a viso aperto e con onore, di fronte al nemico. Gli uomini, da dietro i ripari, si resero conto della fine del giovane valoroso e, in un impeto di furore vendicativo, si spinsero fuori gridando come forsennati, facendosi largo fra la fanteria nemica. Quelli che ancora si accanivano contro i poveri resti furono fatti a pezzi dalla furia dei soccorritori. Erano usciti dai loro rifugi, questa volta non per difendersi, ma per vendicarsi e trucidare gli autori di quello scempio. Quattro di loro recuperarono il corpo martoriato, sottraendolo all’oltraggio dei nemici. Gli altri decimavano coloro che si erano resi partecipi dell’uccisione del giovane eroe. La furia omicida dei greci fu di breve durata ma molto cruenta. Il suono del corno li indusse a ritirarsi dietro le trincee, non prima, però, di aver  portato a termine un altro attacco distruttivo alla fanteria nemica. Da dietro i ripari, le lunghe sarisse colpivano i persiani che non riuscivano nemmeno a vedere i loro assalitori. Dopo quest'episodio ci fu un momento di tregua, in cui anche gli ufficiali nemici, ancora scossi per la violenza della sortita spartana, mandarono uomini a recuperare parte dei loro feriti.

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Gigante pensaci tu

18 Luglio 2018 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #come eravamo, #televisione

 

 

Rieccomi a rammentare il ben tempo che fu. Si sa che, dopo una certa età, tutto fa nostalgia. Ve li ricordate Jo Condor, il cattivo sui generis, e il gigante buono dello spot dei Mon Cherie Ferrero?

Adesso negli spot dei cioccolatini ci sono case di lusso e un’irraggiungibile atmosfera alto borghese, (ma non quella simpatica del mitico Ambrogio con la contessa). Qui, invece, avevamo un disegno garbato e romantico di un villaggio dove tutti erano ben inseriti e felici, vegliato da un gigante paterno e gentile, che puniva come si meritava un vecchio condor rompipalle.

E che? Ci ho scritto Jo Condor?

Lo dicevamo tutti, era un tormentone.

Eh, sì, gigante, almeno tu potessi pensarci anche oggi. Sai quanti Jo Condor andrebbero spazzati via?

 

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Emily Barr, "L'unico ricordo di Flora Banks"

17 Luglio 2018 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

 

 

 

 

L’unico ricordo di Flora Banks

Emily Barr

Salani Editore, 2018

pp 299

15,90

 

Questo romanzo è una calamita. Avvince nel senso che cattura, avviluppa e non ti puoi staccare. Erano anni che non provavo la sensazione di voler leggere senza smettere mai, forse dai tempi de Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte. Anche qui la prospettiva, il punto di vista, sono simili e ugualmente distorti.

Flora Banks ha 17 anni ma la sua mente è rimasta ferma ai 10. Una lesione cerebrale le ha causato un’amnesia anterograda e la perdita della memoria a breve termine. Sa come si fanno le cose, sa chi era fino a 10 anni, ma tutto ciò che accade nel presente le rimane in mente per un massimo di due ore, poi se ne va, svanisce. Per ovviare al tremendo inconveniente, Flora prende appunti ovunque, in un quaderno che porta sempre con sé, su dei post it che appiccica dappertutto, e, in primo luogo, scrivendosi direttamente sulle mani. In particolare legge e rilegge una scritta, a quanto pare indelebile, che la invita ad essere coraggiosa.

A un certo punto, però, Flora bacia un ragazzo su una spiaggia, per la precisione il ragazzo della sua migliore amica, e questo ricordo rimane. Tutti rammentiamo il primo bacio ed è così anche per lei. Flora s’innamora e pensa che a questo ragazzo sia legata una possibilità di recupero della memoria. Lo segue in capo al mondo, al Polo Nord, alle isole Svalbard.

Quella di Flora è una storia di coraggio e di viaggio, di ricerca – quella effettiva di Drake, il ragazzo di cui è innamorata– e quella interiore della verità su se stessa, sulla sua famiglia e sul suo passato. È una storia di speranza e di voglia di scoprire il mondo e sentirsi liberi. È, soprattutto, anche una potente metafora del vivere l’attimo.

Colgo l’attimo. Deve diventare una delle mie regole di vita: vivi l’attimo ogni volta che puoi. Non serve avere una memoria per questo. (pag 161)

Il passato non c’è più, il futuro potrebbe non esserci, tutto quello che abbiamo è la possibilità di godere a pieno del momento presente, della compagnia delle persone, della natura, dei viaggi, i cui ricordi inevitabilmente svaniranno per tutti, dell’amore, che diventerà man mano sempre meno acceso e passionale, dell’amicizia che può interrompersi, dell’entusiasmo che può scemare.

Lo stile è agile e scattante, la ripetizione delle frasi, dei ricordi, degli appunti crea un’atmosfera soffocante e claustrofobica che ben si sposa con la situazione ansiogena ed è in linea con la ricostruzione dall’interno dell’età mentale della protagonista. Quante volte, anche in chi non soffre di amnesie, il cervello funziona così, in un loop di pensieri che girano su se stessi in modo ossessivo? Inoltre, l’autrice è bravissima a disseminare qua e là oggetti, indizi, situazioni, parole che l’amnesia dilava ma poi tornano improvvisamente fuori come se fossero novità. Ciò non è un caso e dovrebbe indirizzare il lettore sul metodo d’indagine per arrivare al finale.

Mi viene spontaneo associare questo testo a uno di Niccolò Gennari, letto recentemente, L’incanto del tempo. Lì si affermava che “noi siamo ciò che ricordiamo”. Qui, invece, c’è la tesi opposta. Non serve la memoria, né per vivere né per essere qualcosa o qualcuno. Flora è ancorata al suo passato ma può anche svincolarsene, può essere di volta in volta quello che sceglie di essere, o quello che le circostanze del momento richiedono.

In una parola, senza il gravame del passato, ciascuno di noi potrebbe essere libero, se solo prendesse coraggio e si tuffasse nella vita.

 

This novel is a magnet. It captivates you in the sense that it grabs, envelops you and you cannot detach yourself. It had been years since I had the feeling of wanting to read without ever stopping, perhaps from the time of The Curious  Incident of the Dog in the Nigth. Here too the perspective, the point of view, is similar and equally distorted.

Flora Banks is 17 but her mind has remained at 10. A brain injury has caused her anterograde amnesia and short-term memory loss. She knows how things are done, she knows who she was up to 10 years old, but everything that happens in the present remains in her mind for a maximum of two hours, then it goes away, vanishes. To overcome the terrible inconvenience, Flora takes notes everywhere, in a notebook that she always carries with her, on post-it notes that she sticks everywhere, and, in the first place, writing directly on her hands. In particular, she reads and rereads an apparently indelible writing which invites her to be courageous.

At one point, however, Flora kisses a boy on a beach, to be precise the boyfriend of her best friend, and this memory remains. We all remember the first kiss and it is the same for her. Flora falls in love and thinks that this boy has a chance to make her recover her memory. She follows him to the end of the world, to the North Pole, to the Svalbard islands.

Flora's is a story of courage and travel, of research - the real story of Drake, the boy she is in love with - and the inner story of the truth about herself, her family and her past. It is a story of hope and desire to discover the world and feel free. Above all, it is also a powerful metaphor for living the moment.

I take the moment. It must become one of my rules of life: live the moment whenever you can. You don't need to have a memory for this.

The past is gone, the future may not be there, all we have is the opportunity to fully enjoy the present moment, the company of people, nature, travel, whose memories will inevitably vanish for everyone, the love, which will gradually become less and more passionate, friendship that can be interrupted, enthusiasm that can diminish.

The style is agile and lively, the repetition of the sentences, the memories, the notes create a suffocating and claustrophobic atmosphere that goes well with the anxiety-provoking situation and is in line with the reconstruction from inside of Protagonist’s mental age. How many times, even in those who do not suffer from amnesia, does the brain work like this, in a loop of thoughts that turn on themselves in an obsessive way? In addition, the author is very good at disseminating here and there objects, clues, situations, words that amnesia dilates but then suddenly come out as if they were new. This is no accident and should direct the reader on the investigation method to reach the end.

I spontaneously associate this text with one by Niccolò Gennari, recently read, L'incanto del tempo. There it was stated that "we are what we remember". Here, however, there is the opposite view. You don't need memory, either to live or to be something or someone. Flora is anchored in her past but she can also be released from it, she can be from time to time what she chooses to be, or what the circumstances of the moment require.

In a word, without the burden of the past, each of us could be free, if only we took courage and plunged into life.

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Miti e leggende per tutte le età!

16 Luglio 2018 , Scritto da Laura Nuti Con tag #laura nuti, #sezione primavera, #miti e leggende

 

 

 

 

 

Ragazze, ragazzi, bambine, bambini e adulti di tutte le categorie (genitori, parenti, amici, conoscenti …), CIAO! Se – come me - siete innamorati dei miti, delle leggende, delle fiabe,  insomma di tutte le “grandi storie” che le persone si raccontano da quando è nato il mondo, questo è il posto giusto per voi.

 

Chi sono io? Mi chiamo Laura, insegno alla scuola media Mazzini di Pisa, e mi piace moltissimo la mitologia classica: i miti greci e romani (ma anche le fiabe e le leggende) sono da sempre la mia grande passione.

 

Nessuno sa chi abbia inventato le “grandi storie”. Miti, leggende e fiabe hanno attraversato il tempo  (secoli, millenni …) e lo spazio (stati, continenti …) passando di bocca in bocca, di racconto in racconto fino a quando “qualcuno” non ha deciso di scriverle. Così sono giunte fino a noi. Di questo “qualcuno” che le ha scritte (Omero, Ovidio, i Fratelli Grimm) noi conosciamo il nome, dell’autore “vero”, di chi per primo le ha raccontate, no. Queste storie  perciò sono un po’ di tutte le donne e gli uomini del mondo, da quando il mondo esiste.

 

Ma perché proprio alcune storie arrivano fino a noi mentre tante altre vanno perdute? Perché sono storie molto molto belle e molto molto importanti. Non a caso vengono chiamate “grandi”!

 

Per questo mi è venuta voglia di raccontare alcuni miti presenti nelle Metamorfosi del poeta latino Ovidio, scelti fra quelli che spiegano l’origine di animali, piante e fenomeni naturali. Ho voluto raccontarli in modo “leggero”, senza però tradire la splendida scrittura di Ovidio.

 

Ogni settimana troverete in questo blog alcune di queste storie. Vi piaceranno? Spero tanto di sì. Fatemi sapere …

 

A PRESTO

 

 

 

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Tesoro di Scozia di Valentina Piazza: in una terra di miti e leggende, un mistero da risolvere

13 Luglio 2018 , Scritto da Federica Cabras Con tag #federica cabras, #recensioni

 

 

 

 

Scozia, 1270. Murdo MacLeod, signore di Dunvegan, è un uomo affascinante e potente, nel suo volto nobile i tratti degli avi scandinavi. Ha tutto, Murdo MacLeod, tranne una cosa, una cosa fondamentale. L’amore. Lui non conosce quel sentimento che anima il cuore del suo amico Owen e per questo lo invidia, perlomeno un poco. Anche lui vorrebbe scaldarsi, eccitarsi, addolcirsi, rallegrarsi in quel modo, come quando Owen parla di sua moglie. Un giorno, però, questa sua brama viene esaudita.

“Murdo trattenne il fiato di fronte alla radura. Stentò a credere a ciò che vedeva: una donna bellissima dalla pelle bianca e splendente, vestita di una semplice tunica del colore della terra, i lunghi capelli neri a ricoprirle la schiena, intrecciati da rami, foglie e fiori del sottobosco, giaceva inginocchiata fra l’erica […] Murdo trattenne il fiato. Era la creatura più bella su cui avesse mai posato lo sguardo. La bellezza di quel giovane viso lo lasciò esterrefatto per quanto sembrasse ultraterrena, irreale, con grandi occhi verdi orlati da lunghe ciglia che si spalancarono, scorgendolo, mentre le labbra, altrettanto perfette, pronunciavano il suo nome: «Murdo»”

Italia, oggi. Adele è l’assistente universitaria di un professore di storia medievale. Appassionata e bella, ha una chioma di capelli rossi e ribelli e un temperamento irriverente. Quando le viene chiesto di indagare su un mistero che avvolge un’antica famiglia scozzese, quella dei MacLeod, lei accetta. Un drappo, appartenuto a un popolo fatato, e la sua leggenda: ecco verso cosa deve rivolgere la sua attenzione la bella Adele.

La rossa vola subito nella terra dei miti e delle leggende.

“Mi sento come trasportata in un’altra dimensione, in un mondo diverso e in un tempo rimasto immutato nei secoli, dominato dalla natura con cui l’uomo ha dovuto in qualche modo scendere a patti.”

Il problema? L’ultimo discendente dei MacLeod, Colin. Un uomo scorbutico, un po’ introverso, non particolarmente contento che si parli di certe cose. E bello, soprattutto bello.

Scavare nel passato non è semplice, non è indolore, non è privo di pericoli. Ma Adele è pronta, è curiosa e indomita quanto basta. E Colin, be’, Colin non può starle lontano.

Valentina Piazza ci trasporta nella magica Scozia. Ci dona leggende da scoprire, misteri da risolvere, amori da assaporare. Ci dona coraggio ma anche paura, ci dona passato e presente. Ci dona l’amore, sia quello possibile, quello consueto, quello normale – ammesso e non concesso che l’amore, nella sua perfetta forza, possa essere chiamato così – sia quello osteggiato dallo stesso destino e per questo ancor più forte e destinato a splendere. Questo libro ci insegna, in un certo senso, che quando due cuori si legano, si donano l’uno all’altro, si scelgono, be’, non c’è modo di dividerli per sempre... seppure dopo secoli, essi si uniranno.

“Aveva un presentimento su Sheela, percepiva che, in qualche modo, a lei non fosse concesso di unirsi a lui, sapeva che il viaggio sarebbe continuato anche quando lui sarebbe giunto alla fine […] Quello che stavano vivendo era un amore impossibile, ostacolato dalle leggi stesse che la razza umana si era imposta per secoli. Uomini con uomini, altri esseri con altri esseri.”

 

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Sfilata sotto le stelle

12 Luglio 2018 , Scritto da Daniela Lombardi Con tag #moda, #eventi

 

 

 
 
 
Giovedi 12 luglio, evento super mondano organizzato a Villa Petrischio, location con vista mozzafiato, di Diletta Cecconi e Gabriele Ricci. Circondato da un parco di tre ettari di pini secolari e cipressi, il Relais gode di un’incantevole vista sulla Valdichiana. In questo lussuoso  ed esclusivo contesto  si svolgerà l’evento moda della stilista pratese Cinzia Diddi che presenzierà l'evento.
Una sfilata interamente dedicata alla DONNA.
Abiti lunghi, lussuosi, carichi di paillettes, e giochi di trasparenze.
 
 
Perché questo evento ?
 
Si tratta di un evento che in qualche modo è stato organizzato per concludere l'estate, ma che farà da apripista a future manifestazioni dedicate alla donna e alla sua salvaguardia e protezione.
Ho volutamente scelto di far sfilare una dozzina di abiti da sera e da cerimonia, si tratta del mio singolare modo, per AFFERMARE che la DONNA va celebrata SEMPRE, ma soprattutto attraverso i mezzi che ho a disposizione, il mio lavoro.
È un tema che mi sta molto a cuore, sensibilizzare in qualunque modo mi sia possibile, e sfruttare ogni occasione, per ribadire che è necessario educare al rispetto della donna.
È un tema sociale importantissimo e di grande emergenza.
Questa sfilata è indiscutibilmente e unicamente dedicata alla DONNA .
Ho voluto legarvi questo tema sociale di grande importanza e che merita tutta l'attenzione possibile.
Le mie, sono iniziative volte alla sensibilizzazione, affinché uomini e donne comprendano che, insieme, possono avviare il processo di cambiamento culturale necessario perché  episodi di violenza non si ripetano.
Sicuramente ci sarà chi sosterrà che non è con una sfilata che cambieranno le cose, a queste persone rispondo con un invito a promuovere anch'esse delle azioni piuttosto che delle critiche o polemiche, perché è la somma delle piccole azioni che crea degli importanti cambiamenti.
 
 
Chi si è occupato dell'organizzazione della serata?
 
 
Un noto vocalist, conosciuto e stimato, con cui collaboro da un po' di tempo e che ho avuto modo di apprezzare per la sua professionalità e coinvolgente energia.
Il vocalist, Niko Mammato, è uno dei migliori vocal performer del jet set italiano.
A Villa Petrischio è il direttore artistico del giovedi sera, uno speciale evento che ha inizio alle 19:00 e prevede musica e drink in una incantevole location da favola.
Il giovedì sera a Villa Petrischio è solo... LUX!
Mi ha entusiasmato creare un connubio tra l'eleganza dei miei abiti da sera e la modernità propria di un aperitivo accompagnato da musica da discoteca.
E' in un’atmosfera particolare dei primi anni del ‘700 - poiché la villa appartiene a questo periodo, insieme a musica  da discoteca, grande contrasto che riporta ai tempi attuali - che ho deciso di catapultare i miei  invitati, in una seducente performance con modelle che indossano abiti ormai cult di desiderio, eccentricità e alto tasso di seduzione. Sensazioni e profumi dal sapore ‘dannunziano’ che mischiano antiche e moderne seduzioni .
 
 
Perché  ha scelto villa Petrischio come location?
 
Mi è stata proposta da Niko Mammato, direttore artistico per tutta l'estate fino ad agosto, dell'apericena del giovedi organizzato in questo magico posto.
La villa, costruita sulla collina più alta di Farneta, mantiene le caratteristiche originali dell'architettura dell'inizio del XVIII secolo, con la colombaia tipica e con all'interno gli archi di mattoni e i soffitti a travi. Le camere hanno nomi di personaggi femminili mitologici, questo è un particolare che mi ha molto colpito.
Dove, se non qui, potevo organizzare una sfilata di moda dedicata alla DONNA?!
 
 
Gli abiti che lei propone sono eleganti e raffinati, quando si indossa un abito lungo?
 
L'abito lungo è sinonimo di eleganza da sempre ed è spesso associato nell'immaginario collettivo a cene di gala, cerimonie, manifestazioni o serate importanti, tutti eventi in cui l'abito occupa un ruolo di primaria importanza. L'abito lungo è per antonomasia inteso come l'abito elegante da sfoggiare nelle serate importanti e nei gran galà. In realtà non vi è nulla di più falso. L'abito lungo può interpretare varie esigenze a seconda della stagione, dell'evento e del tipo di abito. Vi sono infatti abiti lunghi  davvero molto eleganti ed abiti lunghi sportivi e casual .
L'abito lungo è adatto, a mio avviso, proprio per ogni occasione, l'importante è scegliere il modello giusto e lo stile adeguato. 
E' ovvio che per una serata importante si tenderà a scegliere un abito lungo ed elegante, magari in raso di seta o in tessuto pregiato di altro genere, con paillettes, strass o Swarovski.
Vediamo più nello specifico le situazioni in cui indossare un abito lungo.
 
CERIMONIE - Quando si pensa ad un abito lungo elegante immediatamente lo si associa a una cerimonia importante, come ad esempio un matrimonio. In tal caso però è bene sapere che esso va indossato nel caso in cui il matrimonio sia serale. Scegliete un modello adatto al vostro fisico: quelli stretti e con bustier non si adattano a chi ha una bassa statura, mentre lo stile impero dona a tutte perché copre le rotondità e slancia la figura. I colori da scegliere sono quelli dalle tonalità pastello. L'etichetta dice che il nero è da bandire, a mio avviso, l'unico veramente vietato  in questa circostanza è il total White.
 
PARTY ESTIVI - Estate... Tempo di party all'aperto o magari a bordo piscina. Essere semplici ed eleganti è fondamentale e un abito lungo è l'ideale. In tali occasioni sono da prediligere le tonalità pastello per mantenere una certa sobrietà e un vestito dalle linee morbide magari tenuto con un un cinturino in vita. Un suggerimento: personalizzate e valorizzate il vostro outfit con accessori più ricercati, bracciali e collane anche particolarmente eccentriche e vistose.
 
SERATE  DI GALA -   Le serate di gala possono essere un evento più unico che raro. Per tale motivo occorre prepararsi al meglio. In tale occasione è doveroso indossare un abito lungo che valorizzi la vostra figura. Non eccedete con le scollature. Via libera a lustrini o paillettes (senza esagerare) Abbinate una pochette e sarete impeccabili per la serata. 
 
Se la vostra serata di gala si svolge a bordo di una crociera (in crociera c'è il galà di Benvenuto e il galà di Arrivederci), un abito lungo può essere tranquillamente indossato. A differenza della prima situazione, tale occasione non necessita di un abito eccessivamente formale ed elegante.
 
Ma l'abito lungo può essere indossato anche in occasioni meno formali.
 
PASSEGGIATE - utilizzate capi semplici, leggeri e comodi da indossare che poi sono i più adatti nelle calde giornate estive anche per una semplice passeggiata, magari in riva al mare. Possono essere indossati con dei sandali bassi o modello schiava. Si al colore, si alle fantasie.

 

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Michele Paoletti, "Breve inventario di una assenza"

11 Luglio 2018 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

Michele Paoletti
Breve inventario di un’assenza

Samuele Editore, 2017

– Pag. 80 – Euro 12

 

Leggendo non cerchiamo nuove idee, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma, scrive Pavese ne Il mestiere di vivere. Per concludere che ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra – che già viviamo – e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi. Michele Paoletti nel suo Breve inventario di un’assenza indaga il senso di vuoto che pervade la nostra vita dopo la scomparsa di una persona cara, in questo caso il padre, senza indulgere in momenti retorici e malinconici, ma stringendo un patto di comune sentire con il lettore. Tutto si fa più leggero/ adesso che le stagioni/ voltano le carte mentre il gelo/ si attarda tra le lenzuola/ con uno sbadiglio/ di gatto infastidito./ Ho trovato per sbaglio/ la tua giacca verde/ ma non c’erano caramelle/ nelle tasche e mancava/ il secondo bottone sul davanti./ La lascio appesa alla poltrona,/ un’ala di falena/ impolverata e persa/ nella fuga. L’assenza del padre si nota dalle piccole cose, dai particolati evanescenti, da un capo di abbigliamento consueto, ritrovato per caso e subito abbandonato a un destino di oggetto inutile, ormai privo di spirito vitale. Il poeta fa l’inventario di quel che resta dopo la scomparsa, un inventario  poetico, malinconico e dolente, ma non triste e ripiegato su se stesso, quanto teso a mostrare il cambiamento della vita provocato dall’assenza. La realtà torna a essere se stessa, con il quotidiano scandito da piccoli gesti, inevitabilmente segnato dal dolore. Breve inventario di un’assenza è un corpus poetico unitario, una silloge compiuta e profondamente sentita, introdotta da brevi versi di Paolo Ruffilli e da una frase di Amelia Rosselli sul senso del dolore, della perdita, della mancanza, rappresentata dagli oggetti che si trasformano in cose ormai vuote, prive di senso. Non è certo un ragioniere – se non dei sentimenti – il poeta che enumera le fatture da saldare con la vita, i conti che non tornano, i nodi sottili di dolore da stringere di poco sotto la cravatta. Il libro si articola in tre momenti lirici: La terra intatta, Inventario e Muri, tre istanti dilatati nel tempo per metabolizzare dolore e perdita, per farlo diventare una cosa sola con gli oggetti e i momenti della vita. Torneranno le giornate lunghe/ le corse dei bambini,/ la conta dei gradini da saltare./ Si faranno altri nidi sugli abeti/ e l’estate non chiederà il permesso,/ ma pioverà sole intorno/ per far fiorire qualche cosa dentro,/ un grumo, un fremito, un appiglio. Tornano i giorni lieti e magici dell’infanzia, armamentario lirico del poeta, perché tutto quel che si scrive - ormai lo sappiamo! - proviene dalle emozioni ancestrali, dai nostri archetipi di bambini e di adolescenti. Che ridere quando con la mano/ inventavi contro il muro/ un cane una farfalla/ o un’aquila lontana./ Ora la tua ombra è solo un solco/ che si allunga,/ un pilastro caduto senza suono. Non resta che fare l’inventario del poco che ci resta, ascoltare gli oggetti respirare da lontano/ l’aria che muovono i ricordi/ quando si staccano da noi. Poca cosa è il significato delle evanescenti tracce del recente passato: Una macchia sul cuscino/ due bottoni, la manica/ scucita di una giacca./ Il breve inventario di un’assenza. Tutto intorno al poeta è mancanza, ricordo di quel che è stato e che non può tornare. Si allunga la fila di croci/ contro il calendario./ Per dimenticare/ basterebbe non saper contare.

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La cultura occidentale nel 2000

10 Luglio 2018 , Scritto da Guido Mina di Sospiro Con tag #guido mina di sospiro, #poli patrizia, #cultura, #saggi, #cinema

 

 

 

 

Di Guido Mina di Sospiro - tradotto da Patrizia Poli

 

[Pubblicato nell’originale inglese da Disinformation con il titolo: Western Culture, 2000 AD, e ispirato da una visita che feci con mia moglie a Santiago de Compostela nel 2000. Rileggendo, vi trovo un parallelo (dalle conseguenze, però, opposte) fra il film Tutto su mia madre di Almodóvar e Salò, o le 120 giornate di Sodoma, di Pasolini. Non sono orgoglioso di rivelare, ma temo che io debba farlo, che nel film di Pasolini il gerarca che obbligava quei malcapitati alla coprofagia era mio zio, Uberto Paolo Quintavalle.]

 

I profeti sono l’incarnazione di un dilemma. Il loro messaggio è, in essenza, esoterico, tuttavia sono spinti a renderlo essoterico. Come tutti i dilemmi, neanche questo può essere risolto, e il risultato di solito è l’immolazione o la caduta del profeta, a meno che circostanze eccezionali non sospendano temporaneamente questa situazione. Inoltre, che ci debba essere l’iniziato (il profeta) e il non iniziato (i discepoli) è diventato un concetto piuttosto indigesto.

Infatti i valori tradizionali, quali il rapporto docente – discente, il tirocinio, la pazienza, la metodicità e la costanza sono andati perduti sia nella sfera sacra che in quella profana. Ad esempio, nelle arti figurative, pensate per un momento a Jackson Pollock, che ha basato tutto il suo lavoro di una vita nel tentativo di riprodurre con la pittura le tracce disegnate da suo padre, perduto da tempo, che urinava sulla roccia. Tali pitture, alle quali ero solito fare riferimento, forse in modo lusinghiero, come “spaghetti poco appetibili”, sono in mostra in molti dei principali musei del mondo. Chiaramente, non è il milieu in cui Cimabue avrebbe detto al suo allievo Giotto: “Hai superato il maestro”.

E tuttavia, un forum “profetico” come questo, che esorta a ripensare le proprie convinzioni di base, sente il dovere di promuovere e divulgare idee esoteriche. Ma qual è lo stato della cultura popolare occidentale nel 2000?

Il film di Pedro Almodovar, Tutto su mia madre, fu insignito del (marcia trionfale): premio per la regia al Festival di Cannes; miglior film dell’anno all’International Cinematographic Press Federation (Fipresci) al festival di San Sebastiano (Spagna); miglior film europeo e miglior regista europeo agli European Film Awards del 1999; miglior film dell’anno per Time Magazine; Golden Globe per il miglior film straniero; sette Goya Awards; Academy Award per miglior film straniero, e la lista continua.

Manuela, l’eroina della storia, lasciando una rappresentazione di Un tram chiamato desiderio col figlio diciassettenne, Esteban, si ritrova a guardare orripilata mentre questi, che stava rincorrendo la star della commedia per avere un autografo, viene ucciso da una macchina. Lui l’aveva pregata di parlargli del padre che non aveva mai conosciuto, e aveva tenuto un diario, chiamato Tutto su mia madre (l'eco del film Eva contro Eva è voluto). Dopo la morte di Esteban, Manuela va a Barcellona per cercare il padre del ragazzo, che ora si fa chiamare Lola. Transessuali, una suora incinta che lavora in un rifugio per prostitute maltrattate, l’amante saffica e tossicodipendente della star di Un Tram – tutti hanno un ruolo nella vita di Manuela. Alla fine, ci viene chiesto di credere che il padre transessuale del povero Esteban abbia messo incinta la giovane suora, sebbene ci si chieda che attrazione possa esercitare una suora su un omosessuale attempato. Come da copione, quest’ultima è affetta da AIDS. Alla fine, la suora muore di parto e Manuela diventa madre di un altro figlio di… Lola.

Ernest Lehman, lo sceneggiatore preferito di Alfred Hitchcok, mio maestro a Los Angeles, mi ha insegnato una regola d’oro nello scrivere storie: “Non dire mai al lettore qualcosa che già sa.” Tuttavia, Almodovar prima ci mostra la morte sfortunata di Esteban, poi fa in modo che Manuela racconti questa tragedia non una ma due volte ad altri personaggi che non ne sapevano niente. Il pubblico sbadiglia? Sì e no. L’intenzione è spremere le lacrime del pubblico, attirare simpatie non tanto per il figlio e per la madre, ma per tutti i personaggi coinvolti. Almodovar stesso ha affermato: “Non c’è spettacolo più grande del vedere una donna che piange.”

Di conseguenza, siamo indotti a commiserare un circo di personaggi dolorosamente grotteschi e non plausibili. Questa è la cultura della glorificazione del degrado e della mancanza di uno scopo. Il film sembrerebbe suggerire, forse involontariamente, che il grado di libertà goduta dai personaggi è un fardello di tale portata che semplicemente non sanno sopportarlo.

Quarantatré anni fa, Salò, o le 120 giornate di Sodoma, di Pier Paolo Pasolini, dipinse personaggi ancor più degradati. Qualcuno ricorderà la famosa scena in cui ad alcuni personaggi vengono fatte mangiare feci umane. Anche qui l’intento era, presumibilmente, scioccare i borghesi, visto che il film fu sequestrato, censurato etc. Al giorno d’oggi, l’intellighenzia applaude, e ricopre di premi film che, non solo ritraggono l’uomo nel suo disorientamento più totale, ma reclamano la nostra simpatia e il nostro plauso.

Questo è il vicolo cieco dell’esistenzialismo esasperato, un pozzo senza fondo. Al suo meglio, l’uomo esistenzialista, giusto e integro, è un triste sacerdote senza Dio, come esemplificato dal Dottor Rieux ne La Peste di Camus. Al suo peggio, è un individuo antropocentrico e arrogante che non pretende niente da se stesso e indulge in qualsiasi debolezza o degrado, o per il brivido della cosa, o perché, non conoscendo nulla di meglio, non sa come aiutare se stesso.

Non ci aveva avvertiti, Ortega y Gasset? “La sovranità dell’individuo non qualificato, dell’essere umano generico come tale, non è più un’idea giuridica, ma uno stato psicologico inerente all’uomo medio.” Bene, sono felici l’uomo e la donna medi? A giudicare dal film di Almodovar, per niente.

E c’è dell’altro.

Un film enormemente popolare rivela un altro aspetto della cultura occidentale, se possibile ancora più allarmante. Titanic racconta la storia inventata di un amore contrastato a bordo della nave fatale nel suo viaggio inaugurale. L’eroina è fidanzata per ragioni di convenienza a un uomo ricco ma volgare. Tuttavia s’innamora pazzamente di un passeggero clandestino, un giovane e spiantato pittore. Mentre la nave affonda, il ricco egoisticamente salva se stesso, a spese di una donna e di un bambino, mentre il povero sacrifica la sua vita per salvare quella dell’eroina. Milioni di donne giovani e non-così giovani hanno pianto tutte le loro lacrime mentre guardavano queste scene. Di che cosa si tratta? Di un chiaro messaggio antimaterialistico? Sì, ma soprattutto di una rielaborazione dell’antico mito di Tristano. La cultura occidentale del 2000 è, in generale, non più cristiana ma neppure laica. È, sebbene inconsapevolmente, Manichea.

Il Manicheismo si basa sulla divisione dualistica dell’universo negli opposti del bene e del male: il regno della Luce (spirito), guidato da Dio, e il regno dell’Oscurità (la materia), guidato da Satana. I due si sono mescolati e ingaggiano una lotta perenne. La razza umana è il risultato e il microcosmo di questa lotta. Il corpo umano è materiale, perciò è il male; l’anima umana è spirituale, un frammento della Luce divina, e deve essere redenta dalla sua prigionia, sia nel corpo sia nel mondo. In questo mondo della materia, l’amore puro (spirituale) non può esistere. Perciò si può avere solo nell’aldilà. Da qui, Tristano e Isotta, Romeo e Giulietta, etc.

Il pubblico occidentale contemporaneo piange guardando Titanic, in una inconscia presa di coscienza delle proprie manchevolezze e dei propri fallimenti. Attingendo alla propria esperienza, si rende conto che l’amore puro non si può ottenere in questo mondo, e si identifica con gli amanti sfortunati. Nonostante la libertà di scelta del coniuge, nonostante la possibilità di rimediare agli errori divorziando e risposandosi ancora e ancora, l’uomo e la donna occidentali bramano un amore di una tale purezza che, si rendono conto a dispetto di se stessi, non si può ottenere in questo mondo materialistico, ma solo nell’aldilà. Tuttavia, poiché la maggior parte di loro non crede nella vita dopo la morte, ciò diventa la moderna degenerazione del manicheismo, con una forte sfumatura nichilistica.

La decadenza è un concetto comparato. Forze possenti insistono nel mostrarci un quadro roseo. Il “Progresso”, questo termine di straordinaria vaghezza, ha arruolato molti potenti alleati nei secoli. L’intera problematica iniziò a Firenze, circa sei secoli fa.

Ad alcuni gioiellieri del Ponte Vecchio fu chiesto di custodire gioielli nei loro forzieri per amici e clienti. Notando che la quantità di gioielli recuperati dai proprietari era solo una frazione del totale depositato, si resero conto che potevano temporaneamente prestare un po’ di questo oro ai cittadini che ne avevano bisogno, ottenendo una cambiale per l’importo e gli interessi. Questo fu l’inizio del moderno sistema bancario. Questo segnò la fine di ciò che io chiamo l’Età dello Spirito, ma il mondo moderno chiama i Secoli Bui.

Tuttavia, la propaganda progressista ci insegna che il Rinascimento fu proprio questo: una rinascita. Intellettualizzando l’uomo, e ritirando la sua anima, Cartesio si ribellò contro i magnifici edifici che Pico della Mirandola, Marsilio Ficino e, in misura minore, il cronicamente confuso Giordano Bruno avevano costruito. (Della Mirandola tentò di fondere la Cristianità col Neo-Platonismo e la Cabala; Ficino “si limitò” alla Cristianità e al Neo-Platonismo; Bruno cercò di rifarsi alla magia Egiziana, (però apocrifa, come è emerso).

Più tardi, L’Illuminismo consolidò ulteriormente l’uomo sul trono dove si era auto installato, insieme a qualsiasi cosa ritenuta utile nella fisica di Newton. (Va sottolineato che Newton era molto coinvolto con l’alchimia, ma questa non sarebbe stata un’alleata del progresso). Poi giunsero gli –ismi, e il progresso trionfò completamente.

Meccanicismo, darwinismo, positivismo, determinismo, modernismo, e i loro inevitabili derivati: esistenzialismo, ateismo, nichilismo.

In altre parole, sei secoli fa l’uomo ha cominciato a cercare Dio nel proprio ombelico. Non trovandolo, ha continuato a esplorare, sebbene nei luoghi sbagliati. Alla fine, ha dimenticato persino cosa stava cercando in origine, e tutto ciò che ha potuto mostrare della sua ricerca è… il niente. Da ciò ha dichiarato che, non avendo trovato niente, non c’era niente da trovare, e Dio, o la deità, erano invenzioni delle culture primitive. La parola “superstizione” divenne di moda; la ragione, un feticcio.

L’uomo antropocentrico, non subordinato, lasciato ai suoi meccanismi, mi ricorda una cellula anaplastica, la cellula cancerosa che invade e distrugge il tessuto o il sistema circostante.

La perdita della subordinazione a un’autorità spirituale è andata di pari passo con la perdita di subordinazione a una autorità temporale

Il problema del Potere è il problema della Sovranità, e il problema della Sovranità è il problema della Legittimità. Il Potere è effettivo, valido e giusto, non abusivo se basato su una Sovranità legittima. Come tale, è naturalmente, spontaneamente e persino intimamente, riconosciuto da tutti coloro che sono legati ad esso. Tuttavia, qualche paragrafo sopra ho scritto, parafrasando Ortega y Gasset: “La sovranità dell’individuo non qualificato, dell’essere umano generico come tale, non è più un’idea giuridica, ma uno stato psicologico inerente l’uomo medio”. E l’uomo medio è colui la cui vita manca di qualsiasi scopo; colui che non chiede nulla a se stesso; colui che non trascende, ma piuttosto scivola lungo il facile declivio o, semplicemente, vivacchia galleggiando.

Le civiltà “tradizionali”, a differenza di quelle “moderne”, erano basate su una diversa visione del mondo. La realtà era sacra e spirituale, in opposizione a ciò che è materiale e materialistico. Di conseguenza, il Potere, l’Autorità e la Sovranità non erano basati sul numero di voti (e, nota bene, l’affluenza alle elezioni statunitensi è bassa; gli elettori votano per candidati che solo grazie a immensi fondi e sostegno economico possono permettersi le campagne elettorali), ma su un’origine superiore e metafisica. Per una società che viveva al tempo del mito, l’origine divina del Potere non era assurda, come qualsiasi persona moderna con la testa a posto (o dovrei piuttosto dire convenzionale?) penserebbe, bensì naturale. Non era un concetto astratto ma realistico. La persona che lo incarnava, il Re o la Regina, il Monarca, aveva una doppia funzione. Non solo governava i suoi sudditi, ma era anche un tramite con l’Autorità che, dall’alto, legittimava il suo potere. Lui o lei erano, in altre parole, un pontifex, un artefice di ponti.

Il papa cattolico è ancora considerato un pontefice, un pontifex, ma dall’inizio della chiesa Cattolica questo concetto fu male applicato. Quando nell’800 nacque il Sacro Romano Impero, il suo primo Imperatore non fu un papa ma Carlo Magno. Questa frattura fra il potere Spirituale e quello Temporale ha causato guerre, bagni di sangue e calamità di origine umana.

Sua Altezza Reale, la regina Elisabetta II, è “per grazia di Dio Difensore della fede”, sebbene non sia il capo della Comunità anglicana, poiché quest’ultima non ha autorità centrale e nessuno da cui possa aspettarsi un’autorità finale. Piuttosto, consiste di chiese nazionali autonome, che sono unite da legami di lealtà tra la sede di Canterbury e le altre. Ciò è dovuto a ragioni storiche, naturalmente. Ma, come Difensore della fede, la regina Elisabetta II è quanto di più vicino all’incarnazione di una forma di autorità tradizionale e metafisica. Come ci si aspetterebbe, molte, moltissime forze hanno lavorato nel ventesimo secolo per minare la sua autorità. Questo è un gran peccato, poiché lei rappresenta un autentico miracolo della Tradizione in un mondo altrimenti degenerato.

I progressisti strombazzino pure, adesso, i loro slogan e frasi fatte. Ma si ricordino di ciò che ha scritto Ortega y Gassett: “Contrariamente a ciò che si pensa di solito, è la persona di eccellenza, e non la persona comune, che vive in una servitù essenziale. La vita non ha sapore per lui/lei a meno che lui/lei non la facciano consistere nel servizio a qualcosa di trascendentale (…) Questa è la vita vissuta come una disciplina – la nobile vita. La nobiltà è definita dalle richieste che ci impone – dagli obblighi, non dai diritti. Noblesse oblige.”

Eppure, in questa epoca compiaciuta di sé in cui l’uomo comune presume di governare se stesso, siamo venuti a conoscenza di un nuovo insieme di afflizioni. Mai prima le masse sono state affette dal degrado del benessere. Insonnia, obesità e la fase 2: anoressia e bulimia; depressione maniacale e cronica, tossicodipendenza, alcolismo, morti autoerotiche e così via. Gente non subordinata, antropocentrica, inquieta, nel mondo dei ricchi si rende conto che ha la nausea di sé, e di ciò di cui si è circondata lavorando così duramente per ottenerlo. Il suddetto degrado sembra loro l’unica opzione. Sembra che queste persone abbiano bisogno di drogarsi per controbilanciare l’impatto di tutti i loro meccanismi salva fatica. E quelle libere da tali afflizioni possono essere facilmente dei robot compiacenti, dei tubi di cibo.

Una delle maggiori vittime di questo clima di autodistruzione e di nichilismo è la preghiera. L’Occidente non prega più. D’altra parte, i musulmani pregano almeno cinque volte al giorno. Un’ipotesi semiseria mi è venuta in mente più e più volte. Non potrebbe essere che, in risposta alle loro ferventi preghiere, alle nazioni arabe siano stati garantiti immensi giacimenti di petrolio, come fossero manna, mentre l’Occidente che non prega ha prodotto le sue varie rivoluzioni industriali, che hanno reso così importante questo idrocarburo liquido? Sarebbe un sottile esempio di preghiera retroattiva. La risposta alle loro suppliche era già sotto i piedi dei fedeli. Ma c’è voluto l’Occidente per attivare questa risposta concessa da tempo.

Ciò significa forse che la preghiera è consigliabile? Assolutamente sì, e non solo per ragioni egoistiche, ovviamente. Pregare, inginocchiarsi di fronte alla deità, sanziona la propria subordinazione all’autorità trascendente. Il fine della vita è al di fuori della vita, al di là di essa. La trascendenza ci fa desiderare Dio e questa meta allo stesso tempo. Possono benissimo essere la stessa cosa. Come la regina Elisabetta è a-scesa al trono, così noi possiamo tra-scendere i nostri ego isolati e i nostri miopi desideri. Questa è la vita del pellegrino o, come la chiamano i Sufi, la Tariga. La trascendenza implica la subordinazione a un principio superiore, e tuttavia l’elevazione, e la santificazione della propria vita.

Ma l’intellighenzia santifica, con premi e promozioni di ogni tipo, la glorificazione del degrado. C’è un significato intrinseco antitrascendente nella parola stessa. Degradare, dal latino de- gradus, gradino. Trascendere, d’altra parte, deriva da trans- scandere, arrampicare.

Quando l’uomo fu creato, non poteva fare ameno di essere geloso degli uccelli. Volando lungo linee invisibili, essi si libravano in alto fin dove poteva vedere e migravano verso terre lontane che poteva solo immaginare. Siccome non sapeva volare, iniziò a sognare. Col tempo, cominciò a costruire templi. Ma una spinta più forte era in lui.

Divenne un pellegrino.

La sua necessità di integrare il corso cosmico gli fece contemplare, considerare il corso tremolante delle stelle. Lo dice la parola stessa: contemplare, da con templum (uno spazio per osservare gli auguri); considerare, da con sidera, con le stelle.

Solare nella sua concezione del sacro, ma anche alla ricerca del principio lunare complementare, tutto ciò di cui aveva bisogno era allineare il suo sentiero con le invisibili forze telluriche lungo le quali tabernacoli di tutti i tipi sono stati eretti lungo i secoli.

Che possiamo tutti iniziare un pellegrinaggio, raggiungere la nostra destinazione, e oltrepassarla.

 

 

 

Western Culture, 2000 a.d.

Prophets are the incarnation of a dilemma. Their message is quintessentially esoteric, yet they are driven to make it exoteric. As all dilemmas, this cannot be solved, and the usual outcome is the immolation or downfall of the prophet, unless exceptional circumstances temporarily suspend this predicament. Moreover, that there should be the initiate (the prophet) and the uninitiate (the disciples), has become a rather indigestible concept.

Indeed, traditional values such as the teacher-disciple relationship, training, patience, methodicalness, and constancy, have been lost in the sacred and profane spheres alike. For example, in the figurative arts, think for a moment of Jackson Pollock, who based his life’s work on trying to reproduce in paint the patterns made by his long-lost father urinating on stone. Such paintings, to which I used to refer, perhaps flatteringly, as “unappetising spaghetti”, are on display in many major museums the world over. Clearly, this is not the environment for Cimabue to say to his pupil Giotto, “You have surpassed your teacher.”

And yet, a “prophetic” forum such as this, one that rethinks one’s basic assumptions, feels the duty to promote and divulge esoteric ideas into the public domain. But, what is the state of popular western culture in the year 2000?

Pedro Almodóvar’s latest film, All About My Mother, is on a victory march. He has been awarded as the Best Director at the Cannes Film Festival; Best Movie of the Year of the International Cinematographic Press Federation (Fipresci) at the Festival of San Sebastian (Spain); Best European Film and Best European Director at the 1999 European Film Awards; Time Magazine’s Best Movie of the Year; the Golden Globe for the Best foreign Film; seven Goya Awards; the Academy Award for Best Foreign Film, and the list goes on.

Manuela, the story’s heroine, leaving a performance of A Streetcar Named Desire with her 17-year-old son, Esteban, watches in horror as he is killed by a car while chasing the play’s star for an autograph. He had been begging his mother to tell him about the father he never knew, and keeping a journal entitled All About My Mother (the echo of All About Eve is deliberate). After Esteban’s death, Manuela goes to Barcelona to find the boy’s father, who now goes by the name of Lola. Transsexuals, a pregnant nun who works in a shelter for battered prostitutes, the Streetcar star’s junkie lesbian lover—all have a role in Manuela’s life. Eventually, we are asked to believe that the transexual father of the late Esteban has impreganted the young nun, though one wonders at the attraction a nun would have for an ageing transexual? Dutifully, the latter is afflicted by AIDS. In the end, the nun dies at childbirth, and Manuela mothers yet another son by… Lola.

Ernest Lehman, Alfred Hitchock’s favourite screenwriter, and my teacher in Los Angeles, taught me a golden rule in story-telling: “Never tell the audience something it already knows.” Yet, Almodóvar first shows us the unfortunate death of Esteban; then has Manuela recount this tragedy not once, but twice to other unknowing characters. Is the audience yawning? Yes and no. The intent is to jerk the audience’s tears, to engender sympathy not so much for the son and mother, but for all characters involved. Almodóvar himself has stated: “There is no greater spectacle than watching a woman cry.”

Consequently, we are made to commiserate a circus of painfully grotesque and implausible characters. This is the culture of the glorification of degradation, and of aimlessness. The film would seem to suggest, perhaps unwittingly, that the degree of freedom enjoyed by the characters is a burden of such magnitude, they simply cannot deal with it.

Twenty-five years ago, Pier Paolo Pasolini’s Salò, Or 120 Days Of Sodomportrayed yet more degraded individuals. Some might remember the notorious scene in which a few characters are made to eat human faeces. The intent was also, presumably, to shock the bourgeois, as the film was censored, sequestered, etc. Nowadays, the intelligentsia applauds, and lavishes awards to films that not only portray man at his most disoriented worst, but demand our sympathy, and praise.

This is the blind alley of exasperated existentialism, a bottomless pit. At his best, existentialist man, just and upright, is a sad priest without God, as exemplified by Dr. Rieux in Camus’s The Plague; at his worst, an anthropocentric, arrogant individual who demands nothing of himself, and indulges in whatever weakness or degradation, either for the thrill of it, or because, not knowing any better, he cannot help himself.

The sovereignty of the unqualified individual, of the generic human being as such, is no longer a juridical idea, but a psychological state inherent in the average man. Well, are average man and woman happy? Judging from Almodóvar’s film, not in the least.

And there is more.

A hugely popular recent film reveals another aspect of western culture, possibly more alarming. Titanic tells the fictitious story of a star-crossed love aboard the doomed ship on her maiden voyage. The heroine is betrothed to a rich but callous man for reasons of convenience. However she falls in love, head over heels, with a clandestine passenger, a boyish and penniless painter. As the ship sinks, the rich man selfishly saves himself at the expense of a woman or child, whereas the poor man sacrifices his life so as to save the heroine’s. Millions and millions of young and not-so-young women have wept all the tears they had as they watched this. What do we have here? A clear anti-materialistic message? Yes, but most of all we have a reshuffling of the age-old Tristan myth. Western culture in year 2000 is, by and large, no longer Christian, yet not secular either. It is, however unknowingly, Manichaean.

Manichaeism is hinged on a dualistic division of the universe into contending realms of good and evil: the realm of Light (spirit), ruled by God, and the realm of Darkness (matter), ruled by Satan. The two have become mixed and engaged in a perpetual struggle. The human race is a result and a microcosm of this struggle. The human body is material, therefore evil; the human soul is spiritual, a fragment of the divine Light, and must be redeemed from its imprisonment, both in the body and the world. In this world of matter, pure (spiritual) love cannot exist. Therefore, it can only be had in the afterworld. Hence, Tristan and Iseult, Romeo and Juliet, etc.

Contemporary western audiences weep at Titanic in unconscious recognition of their shortcomings and failures. Drawing from their own experiences, they recognise that pure love cannot be had in this world, and identify with the star-crossed lovers. Despite their freedom in selecting their spouse; despite the possibility of amending mistaken choices by divorcing and remarrying over and over, western man and woman long for a love of a purity that, they realise in spite of themselves, cannot be had in this materialistic world, but only in the afterworld. Since most of them do not quite believe in life after death, however, this becomes a modern degeneration of Manichaeism, with a strong nihilistic tinge.

Decadence is a comparative concept. Tremendous forces insist in showing us a rosy picture. “Progress”, this term of more than ordinary vagueness, has conscripted many powerful allies down the centuries. Indeed, the whole problem began in Florence, about six centuries ago.

Some jewellers on the Ponte Vecchio were asked to hold gold in their safes by friends and clients. Noticing that the amount of gold removed by owners was only a fraction of the total stored, they realised that they could temporarily lend out some of this gold to citizens in need, obtaining a promissory note for principal and interest. This was the very beginning of the modern banking system. Indeed, the first modern currency was the Florin, employed throughout Europe. Thus usury was legalised by governments, and became banking. This sealed the end of what I call The Age of the Spirit, but modern world calls The Dark Ages.

Yet, progressive propaganda teaches us that the Renaissance was just that: a rebirth. By intellectualising man, and withdrawing his soul, Descartes rebelled against the magnificent edifices that Pico della Mirandola, Marsilio Ficino, and to a lesser extent the chronically confused Giordano Bruno, had built. (Della Mirandola attempted to fuse Christianity with Neo-Platonism and the Cabala; Ficino “limited” himself to Christianity and Neo-Platonsim; Bruno attempted to revert to Egyptian magic [apocryphal, as it transpired].)

Later on, Enlightenment further consolidated man in his self-appointed throne, along with whatever was deemed useful in Newton’s physics. (It must be emphasised that Newton was much involved with alchemy, but this would not have been an ally to progress). Then came the -isms, and progress triumphed utterly.

Mechanism, Darwinism, Positivism, Determinism, Modernism, and their inevitable offspring: Existentialism, Atheism, Nihilism.

In other words, six centuries ago man began to seek God in his own navel. Not finding Him, he continued to explore, albeit in the wrong place. In the end, he forgot even what he was originally seeking, and all he could show for his quest was… nothingness. From this, he declared that, having found nothing, there was nothing to find, and God, or the Godhead, were inventions of primitive cultures. The word “superstition” became fashionable; reason, a fetish.

Anthropocentric, un-subordinated man left to his own devices reminds me of an anaplastic cell, the cancer cell that invades and destroys the surrounding tissue, or system.

Loss of subordination to a spiritual authority came hand in hand with loss in subordination to a temporal authority.

The problem of Power is the problem of Sovereignty, and the problem of Sovereignty is the problem of Legitimacy. Power is effective, valid and just, not abusive, if it is based on a legitimate Sovereignty. As such, it is naturally, spontaneously, even intimately recognised by all who are bound to it. Yet, a few paragraphs above, I wrote: “The sovereignty of the unqualified individual, of the generic human being as such, is no longer a juridical idea, but a psychological state inherent in the average man.” And the average man is he whose life lacks any purpose; he who makes no demands on himself; he who does not transcend, but rather slides down the easy slope, or simply goes drifting along.

“Traditional” civilisations, unlike “modern” ones, were based on a different vision of the world. Reality was sacred and spiritual, as opposed to material and materialistic. Consequently, Power, Authority and Sovereignty were not based on the number of votes (and, nota bene, the turnout at US election is about 10% of the voting population; these vote for candidates who only thanks to immense funds and backing could afford to run campaigns), but on a superior and metaphysical origin. In a society living in the time of myth, the divine origin of Power was not absurd, as any right-minded (or should I say conventional?) modern person would have it, but natural. It was not an abstract, but a concrete and indeed factual concept. The person who incarnated it, the King or Queen, the Monarch, had a twofold function. Not only did he govern his subjects, but was also a go-between with the Authority that, from above, legitimated his power. He or she was, in other words, a pontifex, a bridge-maker.

The Catholic pope is still considered a pontiff, a pontifex, but from the inception of the Christian Church this concept was misapplied. When the Holy Roman Empire was born in 800, its first Emperor was not a pope, but Charlemagne. This fracture between Spiritual and Temporal Power has caused wars, blood-baths and man-made calamities since.

HRH Queen Elizabeth II is “by the Grace of God, Defender of the Faith”, although not the Head of the Anglican Communion, as the latter has no central authority and no one person from whom it can expect final authority. Rather, it consists of national, autonomous churches that are bound together by ties of loyalty between the see of Canterbury and each other. This is due to historical reasons, of course. But, as Defender of the Faith, Queen Elizabeth II is the closest incarnation of a Traditional, and metaphysical, form of Authority. As is to be expected, many, many forces have been at work in the Twentieth Century so as to undermine Her Authority. This is a great pity, for She represents a veritable miracle of Tradition in an otherwise degenerated world.

Liberals and progressivists may now trumpet their slogans and stock phrases. But they must be reminded of what Ortega y Gassett wrote. “Contrary to what is usually thought, it is the person of excellence, and not the common person, who lives in essential servitude. Life has no savour for her/him unless (s)he makes it consist in service to something transcendental. (…) This is life lived as a discipline—the noble life. Nobility is defined by the demands it makes on us—by obligations, not by rights. Noblesse oblige.”

Yet, in this self-satisfied age in which ordinary man presumes to govern himself, we have become acquainted with a new set of afflictions. Never before have the masses been afflicted by the degradations of affluence. Insomnia; obesity, and its Phase 2: anorexia and bulimia; manic and chronic depression; drug addiction; alcoholism; autoerotic deaths, and so on. Un-subordinated, anthropocentric, listless people in the rich world realise that they are sick of themselves and of what they have worked so hard to surround themselves with. The mentioned degradtions seem to them the only options. One might say that they need dope to counteract the impact of all their labour-saving devices. And those free from these afflictions can easily be complacent robots, food tubes.

One of the many casualties of this climate of self-destruction and nihilism is prayer. The West no longer prays. On the other hand, Moslem nations pray five times a day, and then more. A semi-serious hypothesis has come to mind time and again. Could it be that, in response to their fervent prayers, the Arab nations were granted immense oil-fields, as if they were a manna, while the non-praying West produced its various industrial revolutions, which made this liquid hydrocarbon so all-important? It would be a subtle instance of retroactive praying. The response to their supplication was under the feet of the faithful, already. But it took the West to “activate” this long-granted response.

Does this mean that praying is advisable? By all means, and not merely for selfish reasons, obviously. Praying, kneeling before the Godhead, sanctions one’s subordination to a Transcendental Authority. The goal in one’s life is outside it, beyond it. Transcendence makes us yearn for God and this goal at once. They may well be one and the same. As Queen Elizabeth II a-scended to the throne, so can we tran-scend our insulated egos and short-sighted desires. This is the life of the pilgrim, or, as the Sufis call it, the Tariqa. Transcendence implies subordination to a higher principle, and yet the elevation, and sanctification, of one’s life.

But the intelligentsia sanctifies, with awards and promotion of all types, the glorification of degradation. There is an intrinsic anti-transcendental meaning in the very word. To degrade, from the Latin de- de- gradus- step. To transcend, on the other hand, derives from trans- trans- scandere to climb.

When man was created, he could not help being jealous of the birds. Flying along invisible lines, they soared as high as he could see, and migrated to distant lands he could only imagine. Since he could not fly, he started to dream. In time, he began to build temples. But a more compelling drive was inside him.

He became a pilgrim.

His necessity to integrate the cosmic course made him contemplate, consider the flickering course of the stars. The very words say it: contemplate, from con- templum (a space for observing auguries); consider, from con- sidera, with the stars.

Solar in his conception of the sacred, but also seeking the complementary lunar principle, all he needed was to align his path with the invisible tellurian forces along which shrines of all types have been erected down the ages.

May we all start on a pilgrimage, reach our destination, and go well beyond it.

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Davide Rocco Colacrai, "Polaroid"

8 Luglio 2018 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #poesia

 

 

 

 

 

Davide Rocco Colacrai
Polaroid

Edizioni Cinquemarzo, 2018 

– Pag. 100 – Euro 12

 

Ho conosciuto Davide Rocco Colacrai durante il concorso di poesia Il Cipressino, dove – come spesso mi capita – facevo parte della giuria e mi sono battuto a fondo perché fosse tra i premiati, vista la profondità civile delle sue liriche e la ricerca letteraria insita nei suoi versi. Fare poesia –credo di averlo scritto fino alla noia – non significa buttare giù una serie di riflessioni in prosa e di tanto in tanto andare a capo; pure in tempi segnati dal verso libero fanno la differenza ricerca linguistica, assonanze, dissonanze, metafore, musicalità della parola, valenza delle cose da dire. Colacrai spazia dai temi intimisti alla poesia civile, fa riferimento alla Rivoluzione Cubana e al Cile, passando per la Repubblica Dominicana di Trujillo e per le problematiche di una dittatura centramericana. Temi personali e ispirazione d’autore che si abbevera alla poesia di Tondelli e di Pasolini, ma che frequenta il ritmo della poesia racconto di Pavese e di tanto simbolismo europeo. Stefano Zangheri e Federico Li Calzi scrivono due intensi saggi pubblicati in apertura e a chiusura di silloge, utili per comprendere meglio il poeta, anche se sono del parere che un buon lettore debba impadronirsi delle liriche e trovarci soprattutto se stesso.  Come diceva Pavese, si cerca in quel che leggiamo soltanto noi stessi, nel preciso istante in cui facciamo nostra l’opera d’un poeta finiamo per tradire il motivo per cui è stata scritta. Ma questo è il gioco della letteratura, il suo intimo segreto. Una nota di merito va all’editore Cinquemarzo, del quale ho già avuto modo di leggere due libri (Frammento di Falesia di Stefano Giannotti è il precedente), apprezzando buon gusto e capacità di selezione. Per dare un’idea del lavoro che sta alla base della ricerca poetica di Colacrai, pubblichiamo due liriche contenute nella raccolta.

 

Il confino (Isole Tremiti, 1939)

Agosto trascorre lento, solo,

la notte a girare per le campagne e contare i pioppi

sugli argini

e bere[1].

 

 

Ricordo lo stomaco vuoto com’erano vuote le onde,

i giorni nella ragnatela dell’attesa,

il marchio di essere un arruso,

l’odore di quell’incubo,

e tutto nell’atto di fingere una vita diversa, forse migliore.

 

Zuppa di fagioli e pane,

lo sciabordare liquido dei sogni,

il gioco alla morra,

il desiderio esacerbato della carne, di virgole azzurre nella notte,

un orizzonte senza scorciatoie,

il pensiero fisso all’isola,

nostra unica donna, madre e matrigna.

 

Eravamo costretti in baracche, due e di legno,

prigionieri di un reticolato,

pochi metri quadrati per essere uomini,

quattro spiccioli per sopravvivere a noi stessi.

 

Passavano i giorni,

lenti e lontani, come risucchiati dal Cretaccio, e sospesi,

era un’isola, la nostra, che non c’era,

si faceva sempre più pesante la solitudine,

l’assenza quasi tangibile dell’amore,

un’ora come un anno

a strisciare nei solchi lasciati dalle nostre preghiere, e poi a capo.

 

C’era chi raschiava il silenzio,

chi dipanava la matassa di un senso fatto di sole ossa,

qualcuno annusava già la morte.

 

Non c’era pietà né perdono.

 

Addosso, con me, il dolore mai lavato della razza, del nostro essere tutti cani randagi, senza nomi.

 

 

 

 

Il peso viola del coraggio (a Oscar Wao)

 

Erano lenti e stanchi, gli anni di Truijllo[2], scarni e senza benedición,

e ogni figlio dell’isola aveva una stella di fukú[3] a seguitarlo

che nessuno osava scomporre in sillabe,

ancora meno nel sussurro di un sogno o di un amore,

per non scoprisi cuorecontro in un campo di canna di zucchero

prima di aver avuto il tempo di decidere

a quale Santo votarsi.

 

Contavamo la polvere,

molti respiravano le proprie orme, incerte ed epidermiche,

e tessevano rimorsi,

qualcuno prestava il nome alle onde corte dell’Avana

per tentare il domani,

c’erano studenti, spesso figli di zapateros, il cui incedere era lesto, quasi diafano, e d’ombra,

e tutti eravamo in attesa,

intrappolati nel grembo cavo di una terra, nostra madre,

dove il diablo seminava la sua gramigna, 

l’ansia di sentire bussare alla porta,

una nota di merengue inghiottita dal silenzio di un padre che svaniva,

l’aria che si dissolveva,

e persino il vento ridotto all’accenno di un apostrofo.

 

La vita era una hjia dagli occhi di Atlantide, con un cuore in apocalisse,

forgiata dalla povertà primitiva quanto basta dell’Azua Profonda[4],

una parabola d’oscurità

che segnava il primo e ultimo neo del giorno

con o senza un amen,

dove la Fine del Mondo e la Mangusta[5],

tanti scordatidimé nell’educazione di un esilio,

i c’erano una volta senza epilogo,

fukú e zafa[6], e tutto al peso viola del coraje, insieme,

indovinavano un’Anacaona[7] moderna sulla iolla[8] verso una pagina bianca e innocente come questa.

 

 

 


[1] Altri libertini, Pier Vittorio Tondelli

[2] Dittatore della Repubblica Dominicana dal 1930 al 1961, conosciuto anche come El Jefe

[3] Maledizione mortale:  “Si credeva che chiunque cospirasse contro Trujillo sarebbe incorso in un fukù potentissimo, che lo avrebbe perseguitato per oltre sette generazioni”.

[4] Una delle zone più povere della Repubblica Dominicana: “I poveri… si vestivano spesso di stracci, giravano scalzi e vivevano in case che sembravano costruite con i detriti di un mondo precedente.”

[5] Simbolo di forza e ricchezza spirituale, si nutre di serpenti (che simboleggiano odio e avidità)

[6] L’unico controincantesimo per neutralizzare la maledizione fukù

[7] Una delle Madri fondatrici del Nuovo Mondo, conosciuta anche come Fiore d’Oro

[8] Tipo di barca a vela su cui s’imbarcavano coloro che immigravano negli Stati Uniti d’America

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Mario Bonanno, "Guida ai cantautori italiani"

6 Luglio 2018 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #musica

 

 

 

 

 

Mario Bonanno
Guida ai cantautori italiani
Gli anni Settanta

Paginauno, 2018

- Pag. 140 - Euro 15

 

Mario Bonanno è un nome importante nel panorama della critica musicale italiana, profondo conoscitore del mondo dei cantautori che segue con passione e competenza sin dai tempi di una rivista trimestrale edita da Bastogi, della quale ogni appassionato sente la mancanza. Leggere un libro di Bonanno equivale a staccare un biglietto per un viaggio a ritroso nel tempo, percorri strade composte da struggenti madeleines musicali e cavalchi ricordi giovanili. Finisce che leggi il suo libro canticchiando - pure se sei stonato come una campana - e scende quasi una lacrima con Notte prima degli esami, non tanto per una ragazza di nome Claudia che viveva sulle sponde del Lago d’Orta, quanto perché eri giovane e facevi il commissario d’esame alla maturità. Per ogni capitolo un frammento di passato da sfogliare come un petalo di margherita: Venditti con Nietsche e Marx che si davano la mano - non erano due amici dai nomi strani, come pensava un mio vecchio compagno di scuola -, per non parlare di Dalla e dei cattivi pensieri finiti in fondo al mare. Canzoni e amori, passioni più o meno violente, politiche e sentimentali, mentre quasi ogni giorno da vent’anni a questa parte ascolti L’avvelenata di Guccini, così come Luci a San Siro di Roberto Vecchioni è il leitmotiv che ti ricorda l’ora di andare in ufficio. Lascia stare se con l’età tutto finisce per fare nostalgia, persino i Pooh e i Nuovi Angeli, Antoine e Nico Fidenco, passando per Nada e Nicola Di Bari, senza dimenticare i Ricchi e Poveri che straziarono un grande pezzo di José Feliciano che ormai conosci più in spagnolo che in italiano. Lascia stare che il tempo perduto alla fine mette tutto sullo stesso piano, pure se lo sai che Jannacci con Messico e nuvole non ha niente a che spartire con Nannini - Bennato e le Notti italiane inseguendo un gol. Sarà perché nel 1970 avevi dieci anni e tutto era ancora intero, tutto era ancora chi lo sa, sarà perché gli occhi del bambino vedevano il Messico lontanissimo e sognante, sarà perché andammo in finale contro il Brasile e quella canzone incarna un bolero di nostalgia. De André con i Vangeli apocrifi, gli inni dolenti alle puttane di via del Campo, a una dolcissima Marinella volata in cielo su una stella, la musica che non sarà più la stessa, dopo la mia cara piattola triste presa di mira dai mitici Squallor. Claudio Lolli e la sua Borghesia mi ricorda Marcello Baraghini e un festival resistente, pochi anni fa, in una stalla di Pitigliano, vicino al quartiere ebreo, a sentire il cantautore anarchico sputare veleno contro il potere. Paolo Conte e Un gelato al limone fa venire a mente Pisa, un concerto al teatro Verdi, lui che batte nervosamente tasti d’un pianoforte a coda con la testa nascosta tra note e pensieri, mentre percorre ritmi sudamericani; Battiato è la memoria d’un concerto a Piombino nei primi anni Settanta, in un cortile, quattro gatti a sentir cantare un ragazzotto siciliano. De Gregori è Rimmel, il mio primo trentatré giri comprato nel negozio di articoli musicali della mia città, dopo che avevo saccheggiato tutti i quarantacinque giri editi da Karim incisi da Fabrizio. Stefano Rosso è la poesia, le partite di calcio, gli spinelli mai fatti (per fortuna) e gli intervalli tra il primo e il secondo tempo allo Stadio Magona quando passavano sempre la domenica ho problemi grossi/ segna Giordano oppure Paolo Rossi. Per me in questa Guida ai cantautori degli anni Settanta soffia forte un vento di nostalgia, ricorda un biscotto inzuppato nel tè dal sapore antico, soffuso, amaro, ebbro di rimpianto. Bravo Bonanno che mi hai fatto venire a mente un sacco di cose, tu certo lo sai che la letteratura nasce dai ricordi, proprio come la buona musica, positivi o negativi non importa, restano sempre frammenti di passato.

Gordiano Lupi
www.infol.it/lupi

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