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Umberto Bieco, "Alcune note su una non entità"

11 Marzo 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #psicologia, #umberto bieco

 

 

 

Alcune note su una non entità

Umberto Bieco

 

Youcanprint, 2016

pp 234

15,00

 

Il Superato, protagonista del romanzo Alcune note su una non entità, si confronta col Superatore e ne esce perdente. Il superato non ha nome, è una non entità, lo immaginiamo fra i trenta e i quaranta, nullafacente, vivere ancora insieme ai genitori e sulle loro spalle. Sognatore, poeta, passa la vita a scrivere testi di canzoni in inglese e a rimuginare su se stesso, autoanalizzandosi senza pietà e giudicando il mondo in modo solipsistico, un mondo che gli appare sbagliato e poco attraente.

È immaturo, presumibilmente affetto da ansia sociale, o, almeno, ne ha tutti i sintomi, condizione che purtroppo conosco bene per doverla vivere ogni giorno sulla mia pelle. In pratica è uno che guarda la vita da fuori, la vede scorrere come un fiume nel quale vorrebbe entrare senza mai avere il coraggio di saltarci dentro. È una parodia del giovane favoloso, di un Leopardi ingobbito, pronto a scrivere versi per la fanciulla di turno capace di catalizzare il suo sguardo e infiammare la sua mente.

 

“Si confermava come una di quelle persone perse negli anfratti sotterranei della non esistenza, mentre i vivi passavano sopra. Come quasi ogni altro, concentrato su se stesso, ignorava la fitta popolazione di quei luoghi. I suoi simili”. (pag 19)

 

Gli Altri – chiamarli amici sarebbe eccessivo – stanno all'esterno e vivono, lui li guarda mentre giocano, studiano, si sposano, procreano, guadagnano una posizione e una carriera. Lui rimane sempre fermo al palo, impaurito, impigrito. E la scrittura è solo un altro alibi per rimandare il processo di maturazione.

In più, è un erotomane sessuofobico, laddove i due termini sembrerebbero in contraddizione senza esserlo. È enormemente attratto dal sesso e dall’amore, ma non riesce a mettere in pratica le sue fantasie, vuoi per la solita ansia da prestazione, vuoi per un disgusto che subentra a punirlo e distoglierlo dall’obiettivo. S’innamora di alcune ragazze, le spia, le segue, instaura con loro un rapporto virtuale o telefonico, scrive su di loro pagine e pagine di diario, ma non riesce mai a concludere, per timidezza, per paura e per ripugnanza. Il sesso lo spaventa, gli appare come uno svilimento dell’ideale, del romantico, del trascendente. Le ragazze passano dal ruolo di muse angelicate a mero oggetto di masturbazione colpevole.

La storia si muove avanti e indietro nel tempo, recuperando episodi remoti per analizzarli senza compassione. È il “movimento di una stasi”, sono le increspature di un tempo che scorre inesorabile lasciando tutto com’era, eppure spostando comunque ogni cosa in avanti. Il mondo intorno muta e lui rimane bloccato nelle stesse tossiche elucubrazioni sulla propria inconcludenza, sull’incapacità di provare sentimenti autentici, sulla struttura nevrotica del proprio io.

Sogni, libri, film, saggi, recensioni, scrittori e registi vengono sbeffeggiati ma anche analizzati con intelligenza, i nomi sono camuffati ma riconoscibilissimi, come lo stesso divertente pseudonimo dell’autore, Umberto Bieco, che non dà alcuna informazione su di sé.

Che cosa distingue questo ennesimo tentativo di diario trasformato in romanzo di (de)formazione - in “nevroromanzo”, come l’autore stesso lo definisce - dal mero onanismo su carta? Cosa, in parole povere, mi fa leggere volentieri questa storia non originale? Non lo so, forse il modo in cui è scritta, personale, intessuto di allitterazioni ritmiche, intellettuale ma non noioso; forse l’ironia crudele che diventa, insieme, pietà, schifo e sarcasmo verso se stesso; forse quel mescolare generi, dai testi di canzoni, ai saggi letterari e cinematografici, a libri e, soprattutto, film che conosco e prediligo; forse è perché anch’io amo la lingua inglese; o, forse, è solo perché personalmente mi ritrovo nella descrizione dell’ansia sociale e dell’introversione spinta fino all’asocialità. Eh, già, quanto sarebbe bello non “doversi capire e ricreare in continuazione” ma semplicemente esistere.

 

“Era molto più semplice continuare a lasciarsi morire che vivere. E allo stesso tempo non si rassegnava ciò.” (pag 118)

 

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