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musica

Omaggio a Mario Abbate

30 Luglio 2015 , Scritto da Marcello de Santis Con tag #marcello de santis, #musica

Omaggio a Mario Abbate

Agli inizi degli anni 50 - avevo undici, dodici anni - ed ero già un inguaribile appassionato di canzoni, specialmente quelle napoletane - conobbi un cantante dalla voce d'oro, si chiamava Mario Abbate.
Pensate, io avevo a capo del mio letto in sala da pranzo, (casa mia era modesta e povera: camera da letto per i miei genitori, papà a lungo disoccupato e mamma donna di casa, una sala quadrata con tavolo anch'esso quadrato, buffet e controbuffet, e il mio letto, e una cucina piccolissima e fredda; il bagno era uno sgabuzzino di due metri per due metri, con un finestrino alto lassù dove la luce penetrava a malapena, e un gancio di ferro a portata di mano per infilarci i fogli di carta di giornale al posto della carta igienica), dicevo, avevo a capo del mio letto una grossa radio "marca Geloso", di quelle a valvole, dove le stazioni si cercavano girando una manopola che metteva in movimento una barra verticale; e girando girando gracchiava fino a che non si trovava una stazione, sulle onde medie (io non capivo che erano 'ste onde medie, ma mi adeguavo), e allora la fermavo.
Si può dire che ero io il signore della radio, ché mio padre era sempre in giro a cercare lavoro e mamma sempre indaffarata a mandare avanti una barca che faceva acqua da tutte le parti, con me e mio fratello che quando non eravamo a scuola le gironzolavamo sempre intorno.
Era una vita da tirare avanti alla bell'e meglio, per i miei genitori, ma per me ragazzino scorreva piacevole tra i giochi coi compagni di sotto al prato sangiovanni, una vasta distesa di terra circondata da poche abitazioni, tra cui la nostra (in affitto, s'intende) fuori della porta grande del paese (c'è ancora, questo portone medievale alto e grosso e rovinato dal tempo, oggi è sempre aperta; ma allora di sera si chiudeva ancora, qualche volta)
La radio era la cosa che amavo di più.
Uscivo da scuola e tornavo di corsa, perché all'una, ricordo, c'era sempre un programma di canzoni; un giorno Angelini e la sua orchestra con la sigla "c'è una chiesetta, amor"; oppure Angelini e otto strumenti, con la sigla "dove e quando", con Nilla Pizzi, Carla Boni, Gino Latilla, Achille Togliani e il duo Fasano; un'altra volta l'orchestra di Semprini o quella del maestro Francesco Ferrari o quella di Pippo Barzizza o Armando Fragna (questa con Giorgio Consolini, Clara Iaione, Vittoria Mongardi, Luciano Benevene).
Da questa radio ho ascoltato tutti i festival di Sanremo e i primi festival della canzone napoletana. Da questa radio ho ascoltato per la prima volta la voce divina di Mario Abbate
Poi venne la televisione, e anche papà poté acquistare uno di quegli immensi scatoloni ingombranti e bizzosi con uno schermo bombato. E i festival cominciammo a seguirli alla televisione.
Era il 1951 quando uscì il primo numero di "Sorrisi e Canzoni" che trattava solo di canzoni e di cantanti, con fotografie e notizie e biografie di artisti della rai, celebri e non.
E forse fu proprio da quelle pagine che seppi di lui e della sua vita, del papà artigiano in piazza san Ferdinando a Napoli, delle sue prime esibizioni (col suo vero nome, Salvatore) nelle prime sceneggiate (che allora erano altra cosa da quelle di camorra e guappi di Mario Merola) con la compagnia di Salvatore Cafiero e di Eugenio Fumo.
Era il 1951 quando lo sentii per la prima volta dipingere con la voce "malafemmena" di Totò. Che emozione, ragazzi. Credetemi, nessuna voce mi commuoveva come la sua.
Nel 1965 finalmente dopo tanti piazzamenti d'onore (secondi posti) porta al successo e al primo posto la canzone "core napulitano".
Mario Abbate era diventato uno dei miei idoli ormai da molto tempo, insieme a Franco Ricci, a Pina Lamara e a tanti altri.
Fece anche teatro ma a me piace ricordarlo come cantante; e interprete di stupende indimenticabili canzoni come "Anema e core"; ma soprattutto quella "Indifferentemente" che ancora una volta arriverà al secondo posto al festival di Napoli dell'anno 1963; ma che nel tempo, e a buon diritto grazie anche e soprattutto alla sua esecuzione da gran maestro, entrerà nel novero delle "classiche".
Non scorderò mai la sua eleganza, la sua bonomia e la sua voce meravigliosa.

marcello de santis

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Domenico Modugno

28 Luglio 2015 , Scritto da Marcello de Santis Con tag #marcello de santis, #musica

Domenico Modugno


Vent'anni fa moriva il grande cantautore italiano. Aveva appena 66 anni, ancora giovane per i suoi tempi, ma mister volare era provato per il male che lo aveva colpito anni prima. Però viveva felice con la sua famiglia, la moglie e i due figli, sull'isola di Lampedusa dove si era ritirato tra i suoi delfini.
Era mister volare, nel mondo, perché la canzone che vinse il Sanremo dell'anno 1958, che si intitolava Nel blu dipinto di blu era diventata,prima per gli americani e poi per la gente del mondo intero, Volare.
E la sua figura con le mani al cielo, quell'uomo baffuto con uno smoking formato da calzoni neri giacca bianca e farfallina nera, ha fatto il giro del pianeta terra. E dico poco.
Io ho un antico ricordo di Domenico Modugno.
Ero un ragazzo, ascoltavo le sere alle undici e un quarto, sulla mia amata radio Geloso, posta a capo del mio letto, sistemato da un lato nella piccola sala da pranzo della modesta casa dei miei genitori (in affitto), una radio di quelle che andavano a valvole, ricordate? E che come tutti gli apparecchi radio del tempo mostravano uno schermo di vetro, illuminato da una lucina interna che dava luce alle varie stazioni italiane e straniere segnate sul vetro, le cui frequenze si andavano a captare girando una delle due manopole sotto lo schermo, e una barretta verticale, di alluminio forse, interna al vetro, si muoveva a seconda del movimento impresso alla manopola, e si andava a fermare sulla stazione cercata e trovata; ascoltavo un programma che non ho mai dimenticato; e sì che sono passati più di cinquant'anni.
Erano altri tempi, le stazioni private o le radio libere di oggi non esistevano, ancora, l'etere era dell'Eiar prima della Rai poi, e la televisione era di là da venire.
Bene, dicevo che ascoltavo, alle ore 11 e un quarto di sera, un programma che si chiamava Siparietto. Una voce maschile, dopo alcuni secondi di silenzio, annunciava: Siparietto, a cura di Nicola Adelchi. Non sapevo chi fosse costui, ma erano notizie di giornata quelle che proponeva in quel quarto d'ora di attualità, notizie che potevano interessare più i grandi che i ragazzi come me, dico quelli di sedici diciassette anni o giù.
Ascoltavo dunque il programma perché sapevo che subito dopo, circa verso le undici e mezza, più o meno, c'era un'altra rubrica; e questa sì che m'interessava; era un breve programma di canzoni, anche questo di un quarto d'ora circa; aveva una particolarità, non presentava canzoni conosciute né tantomeno cantanti celebri. Ma solo giovani di belle speranze che non avevano ancora un nome.
E' là che ho scoperto, forse il primo in italia, la grande Dalida (non capivo bene il nome, dalida, dalirà darilà, tanto che il giorno dopo la trasmissione dedicata a questa nuova futura star della canzone francese scrissi alla mia amica Nicole di Marsiglia - che avevo conosciuto per lettera in seguito a uno scambio di corrispondenza tra ragazzi di liceo (italiani) e bacalaureat (francesi)- se mi sapeva dire qualcosa di lei; la conosceva, e mi confermò, insieme ad altre poche notizie, che il nome esatto era Dalida e che era una oriunda italiana; poi di lei venni a sapere tante altre cose, ché ero un appassionato della canzone fin da allora.
Ecco, in uno di quei brevi programmi venne presentato un giovane pugliese cantante che si chiamava Domenico Modugno (mai sentito nominare) del quale mi colpirono due cose, immediatamente: la voce calda e piena e tutta particolare; e il genere di canzoni che cantava accompagnandosi con la chitarra; canzoni in dialetto. La prima fu: Lu pisci spada - spiegò le parole il presentatore - e la seguii attentamente; che brividi sulla mia pelle di ragazzo! Quella voce che piangeva faceva piangere anche il mio cuore. Il povero pesce spada che vede la sua amata arpionata e morire, e piange.
Avevo scoperto Domenico Modugno.
Poi si fece un nome, divenne conosciuto in italia, ma tutto qui. Fino a quando al festival di Sanremo del 1958 presentò la sua canzone per eccellenza; lui aveva scritto la musica sul testo di quel grande che risponde al nome di Franco Migliacci, e che Modugno presentò in coppia con Johnny Dorelli: Nel blu dipinto di blu.
Non sto scrivendo per esaltare i suoi successi e i suoi premi, e i riconoscimenti i più prestigiosi del mondo, dico solo che non si fece mancare niente; ai tanti trofei aggiunse anche nel 1964 la vittoria al festival della canzone napoletana, dove portò al primo posto la stupenda dimenticabile canzone da lui scritta: Tu sì 'na cosa grande.


marcello de santis

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Quanto sei bella Roma

26 Luglio 2015 , Scritto da Marcello de Santis Con tag #marcello de santis, #musica

Quanto sei bella Roma

Era il 7 febbraio del 1987, ormai quasi trent'anni fa; Claudio Villa moriva. Appresi la notizia, e come me moltissimi italiani, durante la trasmissione in televisione dell'ultima serata del Festival di Sanremo. Erano passate da poco le ore 23.00, si presentò Pippo Baudo dopo l'esecuzione dell'ennesima canzone e fece l'annuncio. Ci fu un silenzio generale poi Baudo chiese un applauso; e applauso ci fu, lungo e caloroso.

Vinse la canzone "Si può dare di Più", cantata dai tre amici Umberto Tozzi, Enrico Ruggeri, ancora con i capelli e gli occhiali scuri con la montatura bianca, e Gianni Morandi. Disse Morandi: "Conoscevo Claudio Villa da quando portavo i calzoncini corti e lui, già famoso, venne a cantare nel mio paese. Che strano sapore ha la vittoria in queste condizioni".

Ecco, il reuccio della canzone ci aveva lasciato.

Era stato ricoverato a Padova per un intervento al cuore; e molti pensammo che fosse deceduto sotto i ferri dei chirurghi, invece no; fu un infarto. Niente faceva prevedere la sua uscita di scena così improvvisa. Per sessant'anni aveva occupato un posto speciale nel grande palcoscenico della canzone italiana e romanesca.

Era trasteverino, era nato in via della Lungara, la strada dove c'era e c'è il carcere di Regina Coeli; e di cognome faceva Pica, come il padre Pietro che faceva prima il ciabattino, poi il vetturino e l'acquaiolo. E pure lui lo aiutava andando a riempire, all'Acqua Acetosa, i recipienti con l'acqua da vendere.

Poi scoprì la sua voce, e la sua vita cambiò.

Ma in questo breve pezzo, che ho scritto di getto per presentare una stupenda canzone su Roma, è d'uopo dire della trasformazione di Claudio, cantante melodico per eccellenza, dal Claudio dei primi tempi, che si obbligò a cantare in falsetto e che ci ha lasciato indimenticabili melodie su disco, ed è il Claudio Villa che amo di più, nel cantante che conosce la gran massa di fans, cioè di Claudio delle esibizioni a voce piena, da grande tenore.

Era il 1944. Claudio si ammalò di tubercolosi; un male micidiale per chi canta. Tanto è vero che i medici gli consigliano di lasciare perdere; non può più cantare se non vuole aggravare la malattia. Ma il giovane trasteverino è impunito, come si dice a Roma, e non demorde. Decide di cantare in falsetto, prova e riprova e la cosa gli riesce, senza eccessivi sforzi di voce.

E da quella malattia è nato un Claudio Villa fantastico.

Eccola la sua voce, in falsetto appunto, in una famosa canzone: "Quanto sei bella Roma".

Quanto sei bella Roma

quanto sei bella Roma a primavera

er Tevere te serve

er Tevere te serve da cintura,

San Pietro e er Campidojo da lettiera,

Quanto sei bella Roma

quanto sei bella Roma a prima sera.

Gira si la vòi girà,

Canta si la vòi cantà.

De qua e de là dar fiume

de qua e de là dar fiume c'è 'na stella,

e tu nun pòi guardalla

e tu nun pòi guardalla tanto brilla,

e questa è Roma mia, Roma mia bella,

de qua e de là dar fiume,

de qua e de là dar fiume c'è 'na stella.

Gira si la vòi girà

canta si la vòi cantà

marcello de santis

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Bammenella

24 Luglio 2015 , Scritto da Marcello de Santis Con tag #marcello de santis, #musica

Bammenella

Quante volte ho ascoltato la canzone Bammenella per la splendida interpretazione di Angela Luce, bella e brava cantante e attrice napoletana.

Per un certo periodo è stata per me la canzone più amata, quella che ascoltavo di più, ne ero incantato (forse perché ero innamorato della bella voce di Angela).

Eppure, confesso, non mi sono mai soffermato sul testo che pure mi piaceva tanto; anche e soprattutto per la musica che mi rapiva ogni volta. E non immaginavo neppure lontanamente il significato del termine bammenella, che ritenevo - ignorantemente - fosse il nome della protagonista della canzone. Solo più tardi mi resi conto che, sì, in qualche modo lo era.

Allora non sapevo quanto lontano io fossi dalla realtà.

Bammenella, in lingua significa bambinella, un vezzeggiativo del sostantivo "bambina, insomma "piccola dolce bambina"; ma nella canzone è il nome della ragazza che fa da protagonista, nata dalla verve di quel grande compositore e poeta che fu a Napoli Raffaele Viviani, il "poeta scugnizzo" come veniva chiamato.

La canzone nacque nei primi anni del novecento, esattamente nel 1917, a narrare le vicende di questa giovane affascinante guagliona che per vivere esercita il mestiere più antico del mondo, la prostituta; lei si descrive come "bammenella 'e copp' 'e quartiere", la bambinella di sopra i quartieri, presumiamo si tratti dei quartieri spagnoli, sopra Toledo. Oggi i quartieri, in cui un tempo era disegnata e divisa teoricamente la città, sono solo dei riferimenti, come dire, topografici; e in ispecie indicazioni dei luoghi sulla carta della posizione nella città vecchia. A quel tempo, nel primo novecento, erano circa una trentina, oggi sono stati raggruppati in dieci municipalità.

I quartieri spagnoli oggi stanno a indicare le zone di Montecalvario ed Avvocata, per intenderci; prendono il nome dall'essere stati, nel millecinquecento, sede delle milizie spagnole di stanza permanente a Napoli o di passaggio per poi andare verso altre destinazioni. E fin da subito luoghi di cattiva fama per la presenza di prostitute e di piccola e grande criminalità. Sono vicoli e vicoli che scendono dalla parte alta della città storica di Napoli giù alla allora via Toledo (oggi via Roma) che prende il nome dal viceré della città don Pedro de Toledo, appunto. Ancora oggi i quartieri sono popolatissimi di gente povera, gran parte della quale vive nei famosi "bassi (vasci)"

La ragazza dunque si racconta così

“... So' Bammenella ‘e coppe Quartiere:

pe’ tutta Napule faccio parla’,

quanno, annascuso, pe vicule, ‘a sera,

‘ncopp’ o pianino mme metto a balla’.

Sono "Bambinella" di sopra i Quartieri, / e per tutta Napoli faccio parlare (di me), / quando, nascostamente, per i vicoli, di sera, / sulla musica di un pianino mi metto a ballare...

Raffaele era di Castellammare di Stabia, ma la sua famiglia presto si trasferì a Napoli, dove il giovane, con la grande passione trasmessagli dal padre che a Castellammare dirigeva un teatro, l'Arena Margherita, prese a scrivere appena si fece grandicello, ché ancora bambino - aveva solo quattro anni - debuttò sulle scene del nuovo San Carlino, a fianco della sorella Luisella; e dalle tavole del palcoscenico nacque il Raffaele Viviani che noi conosciamo.

Raffaele Viviani (1888-1950)

La famiglia ha sempre versato in condizioni miserevoli e Raffaele ben presto deve darsi da fare per aiutare in casa.

Infatti a soli dodici anni perde il padre e diviene giocoforza lui il capo della famiglia.

Deve abbandonare i giochi e lavorare per vivere, cominciando a recitare prima, a scrivere commedie dopo; e poi poesie e quindi canzoni, tutte cose che lo rndono celebre non solo a Napoli, ma nel mondo intero.

Ecco i primi versi di una poesia in cui descrive se stesso ancora guaglione

Quanno pazziavo 'o strummolo, 'o liscio, 'e ffiurelle,

a ciaccia, a mazza e pìvezo, 'o juoco d''e ffurmelle,

stevo 'int''a capa retena 'e figlie 'e bona mamma,

e me scurdavo 'o ssolito, ca me murevo 'e famma.

quando giocavo con lo strummolo (la trottolina di legno) 'o liscio (giocando a carte, lo striscio, il liscio, a significare che si hanno in mano altre carte dello steso seme) 'e ffiurelle (a figurine) a lizza (o lippa) o con i bottoni ('e ffurmelle) ricordo che stavo nella più grande combriccola di figli di buona mamma e mi dimenticavo al solito che morivo di fame.

(Raffaele Viviani, Guaglione, 1931)

E dunque, Bammenella.

L'autore con tutta la sua anima di attore e sceneggiatore, nonché di autore di commedie, descrive una ragazza, come detto, di facili costumi, che andrebbe bene come interprete di una sceneggiata tutta napoletana. Io non so se l'abbiano mai messa in scena questa canzone (come è avvenuto per tante altre; ho in mente a tal proposito il grande Mario Merola con le sue indimenticabili sceneggiate, la più grande di tutte "'Zappatore", nata appunto come canzone - era l'anno 1928 - per i versi di Libero Bovio e la musica di Ferdinando Albano, e poi portata sulle scene ogni volta con grandissimo successo); dicevo, non so se Bammenella sia mai stata rappresentata, riconosco la mia ignoranza, e me ne dolgo. Ma credo che sarebbe una sceneggiata di grido; gli ingredienti ci sono tutti per un dramma che pare attuale, considerando l'argomento trattato: la donna perduta, giovane e bella, il pappone, il maresciallo o il brigadiere, la malattia del protettore, le cure che gli prodiga la donna, e le botte che lui le rifila, e l'amore che - nonostante - ella prova per lui.

E la musica è già pronta; basta farne degli arrangiamenti ad hoc. Se pensiamo che la poesia è nata dall'estro di questo grande artista a tutto tondo, c'è da restare stupiti; un artista "già grande", quando grande non era ancora, ma che fu costretto, come ho detto, a diventarlo presto, quann'era - se po' dicere, ancora "guaglione".

Aveva presto lasciato i giochi di ragazzo, lo strummolo, 'o liscio, 'e ffiurelle, perché

... a dudece anne, a tridece, cu 'a famma e cu 'o ccapì,

dicette: Nun pò essere: sta vita ha da fernì.

Pigliaie nu sillabario: Rafele mio, fa' tu!

E me mettette a correre cu A, E, I, O, U.

... a dodici tredici anni, con la fame che non passava e cominciando a capire la vita, mi dissi: non può andare così, questa vita deve finire... e si mise a studiare, prese il sillabario, "adesso devi fare sul serio, caro Raffaele"... ... e si mise a compitare cominciando dalle vocali... (e mi misi a correre studiando le A,E,I,O,U).

E allora Bammenella, Bammenella 'e copp''e quartiere.

Nella quale l'autore, grande scrittore e interprete sulla scena delle sue opere, trasfuse tutta la sua immensa umanità, che va a mitigare la trista realtà della donna di strada, vittima non solo della vita ma anche del protettore che su di essa scarica una inammissibile violenza gratuita; e anche su Bammenella si riversa questa violenza materiale, ma ella ama il suo uomo, nonostante tutto.

Sentite qua:

....

Io faccio ‘ammore cu ‘o cap’e guaglione

e spenno ‘e llire p’o fa’ cumpare’.

....

Tengo nu bellu guaglione vicino

ca mme fa rispetta’!

Chi sta ‘into peccato,

ha dda tene’o ‘nnammurato,

ch’appena doppo assucciato,

s’ha da sape’ appicceca’.

E tutt’ e sserate

chillo mm’accide ‘e mazzate!

Mme vo’ nu bene sfrenato,

ma nun ‘o ddà a pare’!”

... faccio l'amore con il capo / e spendo i soldi per fargli sempre fare bella figura. (in pratica, è lei che mantiene lui)

...

ho vicino a me un bel ragazzo / che mi fa rispettare da tutti.../ del resto chi vive nel peccato come me / deve per forza avere l'innamorato, bello, forte / che dopo aver fatto l'amore / deve sapere anche litigare...

Mi riempie di botte (mazzate) tutte le sere / mi vuole però un bene da matti / anche se non lo dà a vedere...

E ditemi voi se questi versi scritti quasi cento anni fa non sono attualissimi, nel dipingere la situazione della violenza sulle donne, che da allora non è cambiata, se non in peggio; di cui oggi molto si parla e si argomenta, con una maniera sì drammatica ma quasi accettabile, direi; come nella canzone, ché così appare in essa questa bellissima figura femminile, grazie anche a una stupenda colonna musicale.

Bammenella è convinta che il suo uomo la ami, anche se la spinge giornalmente sul marciapiede a battere, la riempie di "mazzate" e le fa fare debiti per mantenerlo; situazione che anche oggi la gran parte delle donne vessate materialmente e psicologicamente si rifiutano di denunciare (per paura? per abitudine alla sottomissione?) alle autorità costituite; e si giustificano dentro di sé con un "e che possiamo fare, se non questo?".

E' convinta che lui l'ama, e lei confessa di riamarlo in maniera carnale. Lo cura quando sta male, spende tutto quello che ha per le visite del medico, per le medicine, e quando non ha denaro sa come fare:

...‘o duttore cu mme s’è allummato,

pe’ senza niente mmo faccio cura’.

Ha fatto innamorare il dottore (che s'è acceso per lei, s'è allumato) / e fa curare il suo uomo senza pagare (e lascia intendere che paga in natura...).

Bammenella viene presa spesso in occasione di retate delle guardie che la portano in caserma; ma lei non se ne preoccupa, ché

Cu ‘a bona maniera,

faccio cade’o brigatiere,

con le mie buone maniere / faccio cadere nelle mie braccia il brigadiere ...

e quando nella retata talvolta cade il suo protettore, lei sa come fare, si reca laddove l'hanno portato, e

Cu ‘a bona maniera,

faccio cade’o brigatiere

mentre io lle vengo ‘o mestiere

isso hav’o canzo’ e scappa’

... mentre concedo a lui le mie grazie / il mio uomo ha modo di scappare...

E' un amore carnale che la lega indissolubilmente a questo mascalzone che per lei è solo il bel ragazzo alto e forte che la fa rispettare da tutti e che la fa impazzire d'amore.

Sentite questo:

Pe’ mme, o ‘ssenziale

è quanno mme vasa carnale:

mme fa scurda’ tutto o mmale

ca mme facette fa’.”

Per me la cosa più bella e più importante / è quando lui mi bacia e mi desidera carnalmente / è allora che mi fa scordare ogni male, ogni bruttura della vita / e di tutto il male che mi fece e mi fa fare...

Eccola la vita degradata di Bammenella, ma per lei la vita più bella che ci sia perché ha vicino un uomo che la ama nonostante tutto, non importano più la dignità calpestata, le botte; e ci sta bene pure che spesso venga portata via dalle guardie, tanto andare in questura, per lei è talmente un'abitudine inveterata che è diventata una pura "furmalità".

Ché lei lo sa che

... cu ‘a bona maniera,

faccio cade’ ‘o brigatiere,

piglio e lle vengo ‘o mestiere...

Cu ‘a bona maniera,

faccio cade’o brigatiere

mentre io lle vengo ‘o mestiere

isso hav’o canzo’ e scappa’

... mentre concedo a lui le mie grazie / il mio uomo ha modo di scappare...

Per chiudere voglio riportare una breve testimonianza di Angela Luce che ha per oggetto la canzone.

Lo ha raccontato in occasione dei festeggiamenti per i suoi sessant'anni di carriera di canto e di cinema. Riporto le sue parole:

Era il 1967 e stavo girando ‘‘Lo straniero''. Eravamo in una pausa e a un tratto il maestro si avvicinò e mi disse: ‘Angela me lo fa un grande regalo?',

‘Ma certo conte, mi dica',

‘No, non mi chiami conte, ma solo Luchino, ecco vorrei che mi cantasse ora e qui la sua straordinaria ‘Bammenella'. Sa, l'ho sentita a teatro e mi ha regalato emozioni fortissime'.

Non me lo feci ripetere due volte e intonai a cappella, senza strumenti, lo struggente brano di Viviani, che da allora sarebbe diventato il mio cavallo di battaglia».

E' il suo cavallo di battaglia.

Per me Bammenella, la ragazza perduta de copp''e quartiere, è e sarà solo e sempre Angela Luce.

marcello de santis

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Giacomo Rondinella

18 Luglio 2015 , Scritto da Marcello de Santis Con tag #marcello de santis, #musica

Giacomo Rondinella


Giacomo Rondinella ( 30 agosto 1923 - 26 febbraio 2015), abitava vicino al mio paese, a Fonte Nuova, dove ho accompagnato alcune volte i miei nipotini, che fanno ginnastica artistica in una palestra di quel paesino distribuito sulla via Nomentana; e l'estate scorsa mi sono recato a casa sua per fargli una visita, inaspettato, e per fargli dono di alcuni mie libri di poesie.
Quando sono arrivato, davanti al suo nome, sopra al campanello, ho esitato; mi avrebbe accolto? Non mi conosceva e il dubbio era normale. Ho suonato e qualcuno mi ha aperto. In casa c'erano due giovani intenti a sistemare il breve soggiorno; ho chiesto di lui, mi sono presentato, e ho saputo che, dopo la recente morte della moglie, Giacomo aveva scelto di ritirarsi in un centro anziani, aveva novant'anni, per sentirsi meno solo; girare per la casa vuota gli avrebbe fatto male.
Poi, più in là, l'amico Salvatore Pirrone mi ha comunicato che era ritornato a casa; e allora gli ho chiesto se mi avesse avvisato quando lui sarebbe andato a trovarlo. Rimanemmo d'accordo così.
Solo recentemente ho avuto un contatto con la nipote Rita; che mi ha detto che, quando io avessi voluto l'avessi pure chiamata, mi avrebbe accompagnato o accolto a casa di Giacomo.
Ho deciso allora di aspettare, preoccupandomi del freddo che, per un vecchio di 91 anni, era più duro che per me che ne ho settantasei.
Ma non ho fatto in tempo; Giacomo non mi ha aspettato; e non per colpa sua.
Se n'è andato alle 3.00 del 26 febbraio.
Era veramente l'ultimo grande dei classici, uno che ha inciso con la sua figura di bel giovane e grande voce il cielo del bel canto di Napoli.
Nato e cresciuto in una famiglia di artisti, i genitori Ciccillo e Maria, il fratello Luciano e le sorelle Francesca e Amelia, tutti cantanti; Clelia, nipote attrice, e oggi la nipote Rita.
Iniziò nel 44, in pieno periodo di guerra, quando vinse un concorso per voci nuove a Radio Napoli. Divenne presto un grande cantante, ma fece anche film e commedie musicali in teatro.
La sua prima grande canzone che lanciò proprio lui fu quella di Rocco Galdieri, Munasterio 'e Santa Chiar
a.
E nel 1951 fu il primo ad incidere Malafemmena del grande Totò.
Se ne andò in America e solo dopo vent'anni tornò in Italia con meno capelli in testa, ma sempre con la sua bella presenza (è stato sempre alto e atletico); ma soprattutto con la sua voce immutata calda e modulata come era agli inizi.
Non voglio soffermarmi più a lungo a ricordare i di lui successi canori e cinematografici; non ce n'è bisogno; ché la gente della mia generazione lo conosce fin troppo bene.
Questo breve ricordo vuole solo invogliare i giovani, che non lo conoscono e non lo hanno mai conosciuto, e non può essere altrimenti, a trovare qualche scritto su di lui e a sentire qualche successo delle sue canzoni.
Grazie Giacomo per la gioia che mi hai dato per lunga parte della mia giovinezza.
Ho un solo rimpianto, non averti conosciuto... ma la primavera che attendevo per venire a conoscerti, è giunta troppo tardi.
Ciao.

marcello de santis

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L'italiana in Algeri

17 Luglio 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #musica

L'italiana in Algeri

L'italiana in Algeri, opera buffa di Gioacchino Rossini, rappresentata per la prima volta nel 1813, si ispira, sembra, a un fatto di cronaca, la vicenda della milanese Antonietta Frapolli, rapita dai corsari nel 1805 e poi tornata in Italia.

La leggiadra Isabella, protagonista dell'opera, è però Livornese. Dalla città toscana è salpata alla ricerca dell'amato Lindoro ed è naufragata sulle coste algerine, dove è stata catturata e rinchiusa nell'harem del bey Mustafà, stanco della propria moglie. Sarà proprio grazie al suo carattere labronico, battagliero e arguto, se riuscirà a prendere per il naso Mustafà, a farlo pentire di aver ripudiato la sottomessa moglie locale in favore di una italiana, e a ricongiungersi con l'amato.

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Caruso a Livorno

16 Luglio 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #musica, #personaggi da conoscere

Enrico Caruso (1873 – 1921), già legato alla città labronica per il suo rapporto privilegiato con l’opera di Mascagni Cavalleria Rusticana, nel 1897 conobbe a Salerno il direttore d’orchestra Vincenzo Lombardi, che gli propose di accompagnarlo nella stagione estiva a Livorno. Caruso dimorò nella villa del soprano Ada Giachetti, interprete con lui dell’opera, sposata con il triestino Botti e madre di un bambino. La Boheme non era ancora mai stata rappresentata a Livorno.

Il 14 agosto 1897 Puccini fu accolto in trionfo, con la banda e con una profusione di torce accese, il cui fumo intenso fece anche temere per un momento un incendio. Il Goldoni era strapieno, le signore sfoggiavano abiti lunghi, piume, gioielli, gli uomini erano in frac. La Giachetti fu insuperabile e per Caruso fu un successo, ripetuto già l’anno seguente, dove nel luglio, al teatro Politeama, cantò in una stessa giornata addirittura due opere, I Pagliacci e Cavalleria Rusticana.

Trasportati dalla musica, dalla passione comune, dall’atmosfera romantica dell’opera lirica, Ada ed Enrico s’innamorarono perdutamente. Ada era un poco più vecchia di Enrico, aveva un viso ovale ma pieno, occhi grandi, sorriso enigmatico, per undici anni fu la sua compagna, la sua allenatrice, la madre di quattro figli di cui sopravvissero solo Rodolfo e Enrico Junior.

Ma la vita li allontanò, Ada fuggì con Romiti, l’autista, col quale poi intentò causa a Caruso, perdendola e finendo condannata al carcere e a un risarcimento pecuniario.

Enrico Caruso (1873 - 1921), already linked to the Labronic city for his privileged relationship with the work of Mascagni Cavalleria Rusticana, in 1897 met the conductor Vincenzo Lombardi in Salerno, who proposed to accompany him in the summer season in Livorno. Caruso lived in the villa of the soprano Ada Giachetti, interpreter of the work with him, married to Botti from Trieste and mother of a child. La Boheme had never been represented in Livorno yet.

On August 14, 1897 Puccini was welcomed in triumph, with the band and with a profusion of burning torches, whose intense smoke also made them fear a fire for a moment. The Goldoni was overflowing, the ladies sported long dresses, feathers, jewels, the men were in tails. Giachetti was unsurpassed and for Caruso it was a success, already repeated the following year, where in July, at the Politeama theater, he sang even two operas in the same day, I Pagliacci and Cavalleria Rusticana.

Transported by music, by common passion, by the romantic atmosphere of the opera, Ada and Enrico fell madly in love. Ada was a little older than Enrico, had an oval but full face, large eyes, enigmatic smile, for eleven years she was his partner, his coach, the mother of four children of whom only Rodolfo and Enrico Junior survived.

But life drove them away, Ada fled with Romiti, the driver, with whom she then filed a lawsuit against Caruso, losing and ending up being sentenced to prison and financial compensation.

 

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Guido Menasci

14 Luglio 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #musica

Mamma, quel vino è generoso, e certo

oggi troppi bicchieri ne ho tracannato...

vado fuori all'aperto.

Ma prima voglio che mi benedite

come quel giorno che partii soldato...

E poi... mamma... sentite...

s'io... non tornassi... voi dovrete fare

da madre a Santa, ch'io le avea giurato

di condurla all'altare.”

Quasi tutti conoscono Guido Menasci (1867 – 1925) come librettista, insieme all’amico Targioni Tozzetti, della “Cavalleria Rusticana” di Pietro Mascagni.

Malinconico, cagionevole di salute, di lui si ricorda la storia del libretto finito di scrivere l’ultimo giorno di scadenza del concorso, poi vinto dall’opera di Mascagni - in cui la tematica sociale del testo verghiano viene diluita e diventa solo folclore. Il successo dell’opera decretò la fama dei due librettisti che collaborarono ancora ad altre opere del compositore livornese.

Non tutti sanno, però, che Menasci fu uomo di lettere a tutto tondo. Suo padre, assessore all’Istruzione del Comune di Livorno, fu uno dei primi traduttori italiani di Heine, poeta tedesco a metà strada fra romanticismo e realismo. Queste opere infusero in Menasci l’amore per la letteratura soprattutto straniera. Conosceva così bene il francese da tenere orazioni a Parigi e fu fine critico letterario goethiano. Scrisse prose, libri per ragazzi e versi malinconici ispirati alle nostre marine.

Almost everyone knows Guido Menasci (1867 - 1925) as librettist, together with his friend Targioni Tozzetti, of Pietro Mascagni's "Cavalleria Rusticana".

Melancholy, poor in health, we remember the story of the booklet finished writing on the last day of the competition's expiration, then won by Mascagni's work - in which the social theme of the Vergian text is diluted and becomes only folklore. The success of the work decreed the fame of the two librettists who still collaborated on other works by the composer from Livorno.

Not everyone knows, however, that Menasci was an all round man of letters. His father, Councilor for Education of the Municipality of Livorno, was one of the first Italian translators of Heine, a German poet halfway between romanticism and realism. These works infused Menasci's love for especially foreign literature. He knew French so well that he gave orations in Paris and was a fine Goethian literary critic. He wrote prose, children's books and melancholy verses inspired by our navies.

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La corale Costanza e Concordia

29 Giugno 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #musica

La corale Costanza e Concordia

Tutti conoscono la corale Pietro Mascagni, non tutti sanno che porta questo nome dal 1945, anno della morte del compositore labronico, ma si è evoluta dalla precedente Corale Costanza e Concordia.

Quest’ultima, a sua volta, era nata nel 1877 dalla fusione di due corali maschili, la Costanza e la Concordia appunto. Il nuovo complesso era formato da circa quaranta elementi e come emblema adottò l’immagine di due dame che si danno la mano.

Il primo direttore fu Oreste Carlini, morto a Livorno nel 1902, direttore di banda e compositore. La corale Costanza e Concordia contribuì al successo di Cavalleria Rusticana al Goldoni, alla presenza di Mascagni stesso.

La sede iniziale era nel Teatro San Marco, poi distrutto dai bombardamenti.

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Stelutis alpinis

29 Maggio 2015 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #storia, #musica

Stelutis alpinis

“Stelutis alpinis” è un canto scritto e composto da Arturo Zardini (1869-1923) durante la Prima Guerra. L'autore, profugo a Firenze, era un maestro di Pontebba, paese che allora si trovava sul confine italo-austriaco. La canzone è una sintesi di sentimenti profondi: sofferenza, fedeltà, affetto, intimità, una canzone semplice che ha fatto presa sull'anima popolare ed è diventata l'inno degli alpini e del Friuli intero, anche durante l'altra guerra.
Il testo originale scritto in dialetto friulano è ricco di diminutivi, vezzeggiativi specifici del parlare friulano, molte sono le versioni tradotte in lingua italiana, pregevole quella del poeta Chino Ermacora che la pubblicò nella rivista “PICCOLA PATRIA” nel 1928.
In seguito, nella traduzione, anonimamente, qualcuno ha aggiunto due strofe che non appartengono al canto originale, prezzo da pagare quando un successo diventa popolare. Anche Francesco De Gregori ne ha tratto una sua versione con una canzone compresa nell'album ”Prendere lasciare”
Qui di seguito riporto una versione di Emilio Maria Boria, molto conosciuta, forse la più nota e che, anche se perde un po' della metrica originale, cerca di rispettare la semplicità del testo e soprattutto di non perdere nella traduzione il ritmo che permetta di "cantarla" in italiano. Ovviamente comprende anche le due strofe apocrife

STELLE ALPINE

Se verrai qui fra le rocce
Dove lor mi han sotterrato
C'è uno spiazzo pien di stelle
Dal mio sangue fu b
agnato.
Come segno una crocetta
È scolpita nelle rocce.
Fra le stelle c'è l'erbetta
Sotto loro dormo in pace.
Prendi su, prendi una stella
Che ricorda il nostro amore.
Dalle un bacio, è così bella.
Poi nascondila sul cuore.
Quando a casa tu sei sola
E di cuor tu pensi a me
Il mio spirito a te vola
Io e la stella siam con te.
Ma un bel dì quando la guerra
Farà parte dei ricordi
Nel tuo cuore là dov'eran
Stella e amore saran morti.
Resterà per me la stella
Che il mio sangue ha già nutrito
Perché splenda sempre bella
Sull'Italia all'infinito.

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