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ida verrei

Natale alle vele

21 Dicembre 2014 , Scritto da Ida Verrei Con tag #ida verrei, #racconto, #unasettimanamagica

Natale alle vele

Luisella apre gli occhi, se li stropiccia.

Cos’è quella lucina intermittente che rompe il buio attraverso i vetri?

I gemelli dormono ancora, il respiro è pesante. Prende uno straccio dal comodino e asciuga dal mento di Pinuccio il rivolo di bava che ha inumidito il cuscino. Poi allunga una mano attraverso il suo corpo e afferra la vecchia sveglia: le sei, è ora di alzarsi. Scavalca a fatica il corpo di Giannino e con un sospiro cerca di mettere le gambe gonfie di vene bluastre giù dal letto. “Comme so’ cresciute ‘sti criature”, bisbiglia, “n’ato poco e nun ce trasimmo cchiù int’ a ‘sto lietto tutte e ttre”.

Un gesto automatico, preme l’interruttore, ma la luce non si accende: “Ah…” Sospira. Guarda le bollette sul tavolo di formica, scadute. Sospira ancora, non sa quando potrà pagarle.

Accende la candela. Strusciando le ciabatte, si accosta ai vetri; le lucine continuano a creare piccoli bagliori alternati: un filo di minuscole lampadine colorate dondola appeso ai pilastri del pianerottolo. Qualcuno si è ricordato che domani è Natale e ha voluto mettere un segnale anche in quell’inferno.

È presto, ma la giornata si presenta già cupa, gonfia di pioggia che batte e ricade sui ballatoi interni, schizzando ovunque e lasciando pantani d’acqua nerastra.

Pensa al suo vicolo, Luisella, agli odori acuti che si spargevano nell’aria nei giorni di festa, alla voce del venditore di pesce, con il bancone pieno zeppo di capitoni, lupini, vongole e cozze profumate di mare. E agli effluvi di aceto delle papaccelle che traboccavano dagli scaffali del baccalaiuolo.

Ha vissuto a lungo in quel vicolo, Luisella, con occhi inariditi e incendiati da lacrime, ma anche brillanti di una gaiezza maliziosa e misteriosa; uno di quei vicoli dove i “bassi” neri e miseri possiedono angoli illuminati da brandelli di sole; dove nelle notti d’estate un coro di fiati striscia lieve lungo i muri scrostati e anneriti dei vecchi palazzi e avvolge i corpi sudati abbandonati nel sonno.

Lì, in quel budello scuro e umido, la gioia e il dolore, la salute e la malattia, la pietà e la ferocia, sono voci così confuse tra loro, che non riesci più a distinguere bene e male, fortuna e sventura. La strada è casa, e la gente, onda del mare, quel mare che da lontano regala il salmastro a bruciare la pelle.

È stata felice in quel tempo, senza saperlo, abbandonata ai sogni di una giovinezza aspra che lievemente scivolava nella maturità.

Bastava poco, qualche metro di strada e si trovava in Via Toledo: colori, traffico delle automobili, negozi con le vetrine che invogliavano agli acquisti, l’afflusso dei suonatori ambulanti, il susseguirsi dei manifesti pubblicitari sui muri degli storici palazzi d’epoca e la folla vociante che sembrava sempre in festa.

Ora vive un altro mondo.

La candela si è spenta, prende un altro fiammifero e la riaccende, versa un po’ di cera in un piattino sbrecciato e vi poggia il moccolo quasi consumato. Si prepara il caffè nella moka annerita; lo fa lungo, il barattolo è quasi vuoto. Poi si siede accanto alla finestra, le ombre della notte si stanno diradando, qualche striscia bianca attraversa il cielo livido; ne intravede qualche spicchio tra i pilastri del ballatoio. È lo stesso cielo che la luna illuminava nel vicolo, quando, dalla finestrella della sua casa a pianterreno guardava in alto nelle sere d’inverno. Ora non guarda più in alto. Sorseggia piano la bevanda marroncina e amara. Zucchero ce n’è poco, serve per il latte dei gemelli.

Prima di uscire, dà uno sguardo a quelle due sagome immobili: dormono, sa che non si sveglieranno ancora per molte ore, rimbocca le coperte e stira con le mani la piega del ruvido lenzuolo di canapa, macchiato di ruggine.

Percorre il ballatoio, discende le ripide scale a cielo aperto, gli ascensori guasti sono ormai depositi di rifiuti; schizzi di pioggia passano attraverso i buchi del vecchio ombrello con le stecche che spuntano fuori; attraversa scheletri di giardini, passa in fretta davanti ad androni bui e scuri, schivando le “stanze del buco” e pilastri come mostri di cemento. Cento anni sulle spalle, ricordi sbrindellati negli occhi spenti, il peso di un corpo sfatto dai parti e dalla fatica.

Ha sposato il suo Salvatore, una vita fa: “Andiamo a vivere in un quartiere nuovo”, le aveva detto lui, “avremo una casa tutta nostra, con balconi e giardini per i bambini, niente più bassi, niente più vicoli stretti e scuri”. Ed era partita, ancora vestita da sposa, coi barattoli di latta che rotolavano dietro alla macchina che correva verso un infinito sconosciuto.

Ha avuto cinque figli. Tre sono morti nei primi anni di vita, sono sopravvissuti solo i gemelli, due esserini col corpo molle e la testa ciondolante. E a Salvatore è scoppiato il cuore, l’ha lasciata sola in quello strano quartiere nuovo, Le Vele, un nome che ricorda il mare, ma che del mare non ha neanche gli abissi più profondi.

Cammina per Viale della Resistenza, la strada è ancora mezza vuota, sta attenta a non calpestare cocci di vetro e siringhe sparse tra i residui d’erba inaridita.

Un tempo aveva un lavoro, Luisella, per anni si è spezzata la schiena sui pavimenti delle case dei signori al Vomero e sulle scale di uffici e cliniche. I gemelli glieli guardava l’anziana madre; poi la vecchia è morta, e lei ha dovuto abbandonare quelle attività faticose ma che le davano da vivere. Ora si arrangia col sussidio del patronato e con i pochi spiccioli che guadagna facendo la sirengaia. Ogni mattina gira per il quartiere a fare iniezioni, cinque euro ognuna, ma l’aiutano ad andare avanti e a far da mangiare a quei poveri disgraziati dei figli suoi.

Persa nei pensieri, non si accorge di essere arrivata alla prima Vela di via Labriola, la sorpassa, poi torna indietro. Arranca per le scale, ogni tanto si ferma per prendere fiato, tossisce.

All’ultimo piano, sul ballatoio uguale al suo, si somigliano tutti quelli dei mostri di cemento a Scampia, suona il campanello della prima porta. Apre Concetta, un donnone di un metro e ottanta, non ha ancora quarant’anni ma se li porta male, come tutti quelli che non hanno mai avuto tempo né voglia per la spensieratezza: i capelli striati di grigio, il corpo già sfatto, il doppio mento e un reticolo di rughe attorno agli occhi e alle labbra:

Uè, Luisè, hai fatto tardi. Lo sai che la signora mia s’incazza se non arrivo puntuale”.

Fa lo stesso lavoro che un tempo faceva lei, va a servizio, e guadagna bene perché i suoi padroni sono ricchi e generosi. Luisella entra in cucina, sulla credenza, un piccolo albero di Natale. È da un tempo infinito che lei non lo fa più, da quando Salvatore se n’è andato, in quella torrida notte d’estate:“Tanto i gemelli neanche se ne accorgono”, pensa.

Apre lo scatolo dei medicinali già pronto sul tavolo, prende una fiala, la sbatte un po’, poi la spezza e riempie la siringa, controlla che non ci sia aria e con un batuffolo di ovatta imbevuto di alcool in una mano, si gira verso Concetta. La donna è già pronta, la natica bianca e molliccia scoperta. Un attimo, qualche secondo e tutto è finito.

Sì sempe brava, Luisè, tieni ‘na mano ch’è ‘na piuma. Manco me ne accorgo quanno butti l’ago int’a coscia.” Luisella sorride, piccole soddisfazioni.

Concetta apre il borsellino, prende cinque euro e glieli mette in mano, poi ne prende altri cinque e dice: “Questi sono per Natale, accatta qualcosa per le creature”. Le “creature” hanno quasi vent’anni, ma nessuno se ne ricorda, e neanche lei.

“E questo è per te”, aggiunge, prendendo un panettone dalla credenza. Luisella arrossisce, ringrazia, ed esce a testa bassa.

Nello stesso edificio, tre piani più sotto, c’è ‘o scugnato, sessant’ anni, magro, basso, senza neanche un dente, il viso scavato e la bocca che sembra una ferita. Ha la bronchite da un mese e non può portare il pane casa per casa come fa di solito. Ex carcerato, è uscito dal “giro”, si arrangia, fa il garzone per il fornaio e, quando serve, aiuta l’unico pizzaiolo del rione. Vive con una sorella zitella che fa la bidella nella scuola elementare. È tifoso della Juventus, e per questo ha anche abbuscato più di una volta dagli ultras del Napoli.

Anche da lui Luisella si sbriga in fretta: fa l’iniezione e scappa via; le dispiace un po’ prendere i cinque euro da ‘o scugnato, ma poi pensa che la sorella guadagna bene e che lei non può proprio permettersi di rinunciare a quei pochi spiccioli.

Fa ancora un giro nell’edificio accanto, compra le verdure per i gemelli e poi ritorna verso casa. Le gambe le fanno male, se le trascina a fatica. Ha smesso di piovere ma si è alzato un forte vento che solleva foglie secche e cartacce sporche.

Sul ballatoio di casa viene avvolta da un forte odore di fritto: “Ninuccia sta preparando il pranzo della vigilia”, pensa e sospira. Per lei sono solo lontani ricordi.

I gemelli dormono ancora. Si accosta al letto e li sveglia con una carezza, poi li scopre, hanno il pannolone fradicio di urina; il fetore invade la stanza. Li lava, li cambia e poi, uno alla volta, se li carica sulle spalle e li sistema sul seggiolone. Apre la finestra per far passare un po’ d’aria ma un colpo di vento la fa sbattere e un vetro si rompe. “E addò ‘o trovo mò, a Natale, uno che me lo acconcia?” Cerca un pezzo di cartone e prova a rattoppare il buco. Raccoglie i frantumi sul pavimento, i gemelli brontolano, hanno fame, emettono suoni rauchi e si sbavano schioccando la lingua.

Riscalda il latte, vi scioglie dei biscotti e uno alla volta, li imbocca, mentre loro sbattono le mani a pugno sul ripiano del seggiolone. Li sistema davanti al vecchio televisore, poi si ricorda che non funziona perché non c’è la luce e allora dà loro dei pezzi di carta da tagliuzzare, è il loro passatempo preferito; lei, alla luce della mezza finestra, si siede a rammendare.

Fa buio presto d’inverno, e le ore passano veloci.

E’ già sera, prepara il passato di verdure per i gemelli e poi li mette a letto.

Lei non può guardare neanche un po’ di tv, ma pensa che intanto i programmi natalizi le mettono tristezza. Sbocconcella una fetta di panettone, è la sua cena. Fa freddo, dalla porta e dalla finestra rattoppata di cartone entrano spifferi d’aria gelida. La fiammella della candela oscilla. Non funziona neanche la stufetta. E allora pensa di accendere tutti i fuochi del gas e anche il forno, che lascia aperto: faranno un po’ di luce e un po’ di calore.

Si spoglia, infila la camicia di flanella, mette le calze di lana e si sdraia in mezzo ai gemelli. Li tira accanto a sé, così stretti sentiranno meno freddo.

Chiude gli occhi, le sembra che le pareti si stringano; intravede un azzurro lontano, ma è solo un ricordo atroce vicino ai bagliori rossastri delle fiammelle che ardono nella stanza; i muri si accostano sempre di più, formano un pozzo viscido e nero, vede, al di sopra del soffitto, la notte e lo strazio che imperversa fuori. È talmente stanca che vorrebbe che il corpo sprofondasse. I ricordi si affollano brucianti, ma non scaldano. Un colpo di vento più forte, il cartone si stacca dal vetro, i fuochi si spengono. Non se ne accorge, la mente sta viaggiando; passa dal nero cupo al giallo di un sole lontano, dall’angoscia mortale ad una gioia folle, troppo grande da contenere. Come pesano gli occhi! Cerca di aprirli, intravede le pareti che schiacciano, ma ora si sente leggera, vola, oltre i muri, oltre i ballatoi puzzolenti, con i suoi gemelli per mano. Forse domani sarà tutto come ieri, forse i fuochi che vanno in cenere diventeranno sole.

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Amore Che Vieni Amore Che Vai - Francesco Il Principe

11 Novembre 2014 , Scritto da Ida Verrei Con tag #ida verrei, #musica

Ringraziamo Francesco Prencipe, musicista e compositore, per questo brano di De Andrè, dolcissimo e reinterpretato con tocco personale e inconfondibile, da vero maestro. (Ida Verrei)

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Laboratorio di Narrativa: Danilo Napoli

24 Ottobre 2014 , Scritto da Laboratorio di Narrativa Con tag #Laboratorio di Narrativa, #racconto, #ida verrei, #poli patrizia

Laboratorio di Narrativa: Danilo Napoli

Racconto dove si mescolano surreale ed orrore, fantasia e verosimile, in una dimensione temporale che spazia da un futuro possibile, mai vissuto, ad un presente in cui il raccapriccio non lascia scampo e annulla sogni e prospettive. Resta solo il delirio premorte. Una giovane e bella donna in carriera, un ascensore che si blocca, uno specchio che rimanda immagini del passato. E poi quel luogo, la cucina-mattatoio dove si consuma l’orrore che impedirà per sempre il ritorno al futuro. Un omicidio di quelli che i cliché della carta stampata e della televisione definiscono “efferati” e di cui, purtroppo, sono piene le cronache: uno zio pazzo che massacra sorella e nipote, le fa a pezzi fino a renderle irriconoscibili e le cucina in un pentolone, un cane che tenta di salvare almeno la bambina senza riuscirci. Tutto questo è ahimè abbastanza scontato nella sua orrifica “normalità” e fa da antefatto a qualcosa di fantastico che avverrà o, meglio, dovrebbe o potrebbe avvenire nel futuro.

L’autore descrive al rallenty le sequenze più truci e cruente, registrando percezioni, suoni, odori, colori, in un crescendo di angoscia, che prende lo stomaco, offusca la mente e ti fa desiderare che finisca al più presto lo strazio della narrazione, ma anche, inaspettatamente, ti spinge a continuare, per vedere come “va a finire”, sino alla conclusione, inevitabile, già intuita.

Lo spunto è interessante ma necessiterebbe di maggiore sviluppo per non apparire forzato. Bravo l’autore a creare l’attesa, il senso di ansia insopportabile che cresce, bravo a connotare personaggi e atmosfere, che si integrano e determinano il climax del racconto, ma sono da potenziare i collegamenti fra presente e futuro, è da vedere se sia davvero il caso di orientare la storia dalla parte di un commissario dai tratti inflazionati il quale, però, si limita a registrare l’accaduto senza metterci del suo. Ultimo ma non ultimo, il cane sembra avere un ruolo fondamentale ma poi sparisce.

Insomma, qualcosa di positivo c’è, in questo “REC” di Danilo Napoli, oltre allo stile pulito e corretto, ed è la voglia che infonde nel lettore di andare avanti, di sapere cosa succede nel finale e come esso si colleghi all’inizio. Pare una banalità questa ma, al giorno d’oggi, è diventato molto difficile trovare una novella, ed anche un romanzo, che stimolino interesse, voglia di voltare pagina. Peccato che la storia si perda o, meglio, risulti incoerente e non del tutto attinente con il suo stesso svolgimento.

Patrizia Poli e Ida Verrei

REC.

Sara Valliani entrò nell’ascensore dell’edificio alle 09.00 in punto.

Puntuale, come sempre.

D’altronde, per lei era deformazione professionale, essere puntuale. A 35 anni era considerata uno dei migliori ingegneri del pianeta. Lavorava in un paesino della California ad un progetto segretissimo per conto della NASA, in un edificio di dieci piani che non presentava alcun nome all’esterno. Era il sogno di ogni ingegnere lavorare in un luogo simile. I privilegi non finivano mai, l’area ristoro gratuita era paragonabile ad un ristorante a 5 stelle e gli stipendi erano elevatissimi, addirittura maggiori di quelli dei migliori calciatori internazionali.

Nessuno avrebbe mai pensato ad un banalissimo blocco dell’ascensore, tantomeno Sara.

Pigiò il pulsante che l’avrebbe portata al suo studio al quinto piano e si guardò allo specchio. I costosissimi trattamenti anti-invecchiamento stavano dando i loro frutti. La sua pelle era perennemente abbronzata e le rughe sembravano lontane anni luce. Gli occhi erano lucenti, azzurri, in gradevole contrasto con i capelli neri, che portava lunghi sulle spalle e piastrati. Era alta un metro e settanta e indossava un elegante, ma comodo, vestito nero. Sì, poteva considerarsi una donna molto piacente. Nonché intelligente.

Sorrise alla sua immagine allo specchio e controllò il suo Android di ultima generazione.

Linea inesistente.

Molto strano. Quegli ambienti erano altamente tecnologizzati e permettevano la ricezione della linea telefonica ovunque.

Solo chiamate d’emergenza.

Doveva essersi verificato un guasto, o qualcosa del genere.

Fu al settimo piano che l’ascensore si bloccò completamente. Nessun rumore, nessuna voce elettronica che avvisava del guasto e si collegava con chi di dovere per far ripartire l’aggeggio.

Nulla.

‹‹Oh, Cristo›› sussurrò. ‹‹Adesso devo aspettare che mi tirino fuori di qui e non ho nemmeno avvisato del ritardo.››

Fu in quel momento che la luce si spense. ‹‹Anche al buio, adesso. Ottimo!›› commentò ironicamente.

Si grattò le guance e le palpebre.

“Oddio, non dirmi che il fard che ho acquistato stamattina mi fa allergia” pensò.

Fece luce sullo specchio con il cellulare per guardarsi in viso e lanciò un debole urlo.

Il viso era ringiovanito di più di vent’anni, ed ora somigliava ad una tredicenne con qualche chiletto di troppo.

‹‹Che cosa sta succedendo?›› chiese allo specchio, balbettando.

Ma non ottenne risposta.

Continuò a guardare stupita quel volto delicato e paffuto, che ormai non le apparteneva più da tempo immemore, fino a quando l’immagine lanciò un grido, un urlo sovrumano, qualcosa che non aveva mai sentito in trentacinque anni di vita. E anche l’immagine si contorse in una creatura strana, quasi demoniaca.

Poi lo specchio diventa una cucina, e la cucina un mattatoio.

E Sara Valliani non è più Sara Valliani. O, almeno, non lo è tutta intera.

Sono circa le 14.00 e sto tornando da scuola. Sono felice per due motivi: innanzitutto perché ho preso dieci in matematica, con i complimenti della professoressa (anche se quelle buone a nulla di Daria e Felicia mi lanciavano sguardi carichi d’invidia e mi chiamavano “sfigata”); e poi perché mia madre mi ha finalmente affidato le chiavi di casa. Era ora, a tredici anni!

Così, apro la porta con le mie chiavi e mi ritrovo davanti Jack, il mio fedele pastore tedesco, che mi abbaia. Non si era mai comportato in questo modo prima. Il suo abbaiare è aggressivo. Non mi suona come un saluto, ma come un avvertimento.

‹‹Jack!›› urlo. ‹‹Che diavolo stai facendo?››

Jack ringhia. È fermo nel corridoio e non mi lascia entrare.

Resto ferma sul tappetino dell’entrata, a due passi esatti da Jack, che ora ha ripreso ad abbaiare.

‹‹Mamma?›› chiamo. ‹‹Jack mi sta ringhiando!››

Nessuna risposta.

Inizio ad avere paura.

La vescica preme, deve essere svuotata. Jack non ha mai fatto del male ad anima viva, nemmeno ad una mosca, si può dire. Così, lo ignoro e muovo un passo verso il corridoio.

Jack ringhia di nuovo.

‹‹Si può sapere che cos’hai?›› chiedo, ma non finisco la domanda che comincia a mordermi la felpa blu elettrico che ho indossato stamattina.

‹‹Lasciami!›› urlo. ‹‹Mamma, aiutami!››

Ancora nessuna risposta. L’unica cosa che sento è il ringhiare di Jack mentre mi strattona la maglia sempre più forte.

‹‹Jack, ora basta!›› urlo.

Jack molla la maglia e indietreggia.

Ricomincio a buttare fuori l’aria compressa a causa dell’ansia. Ora posso sentire il battito del mio cuore pulsarmi nelle tempie. Sento anche una puzza strana, ma inizialmente non ci faccio molto caso.

Però faccio caso alla paura che mi ha invaso e che, probabilmente, mi ha fatto sfuggire qualche goccia di urina dalla vescica compressa nei pantaloni che mi calzano leggermente stretti.

Jack resta a guardarmi in silenzio per una manciata di secondi, poi ricomincia ad abbaiare e a ringhiare nella mia direzione. Decido di ignorarlo di nuovo (forse si è impressionato per qualcosa, ma deve pur passargli!), quindi mi giro per chiudere la porta di casa.

Qualcosa mi tira violentemente lo zaino, ringhiando.

‹‹Jack! Ancora?››

Sembra quasi che voglia spingermi fuori di lì. Sento le unghie sui miei jeans e la sua stazza sul mio zaino. Mi appoggio alla porta per non perdere l’equilibrio.

‹‹Mamma! Aiuto!›› urlo di nuovo, ma sono troppo allibita dal fatto che Jack mi abbia tolto quasi completamente lo zaino dalle spalle per rendermi conto che mia madre non mi ha risposto nemmeno questa volta.

Adesso lotto con Jack per il possesso dello zaino. Lui si arrende e abbaia più forte di prima, poi mi supera ed esce fuori.

Resto a guardarlo, confusa.

Jack abbaia ancora, ma non ringhia più. Mi sembra diverso anche il suo modo di abbaiare, non più rabbioso, ma quasi… supplichevole.

‹‹Che sta succedendo, Jack?››

Continua ad abbaiare ed io, ferma, a guardarlo. Poi comincia a correre verso la strada.

“Magari vuole giocare”, penso, senza esserne granché convinta. “Chiederò a mamma”.

Mi volto e sento di nuovo quella puzza strana che non riesco a definire, ma neanche stavolta ci faccio molto caso.

‹‹Mamma?›› chiamo. ‹‹Sono tornata. Ma che aveva Jack?››

Nessuna risposta.

‹‹Mamma, dove sei? Jack mi ha aggredito e poi è uscito di casa abbaiando. Ma cosa gli hai dato da mangiare?››

Ancora nulla.

La prima cosa che faccio è soddisfare il mio bisogno impellente di orinare. Sollevata, esco dal bagno e attraverso il lungo corridoio verso la cucina.

‹‹Zio Oscar?››

Zio Oscar è il fratello di mia madre, e vive con noi nel nostro modesto appartamento in provincia di Salerno. In un certo senso ha rimpiazzato mio padre, che è fuggito con una ucraina lo stesso giorno in cui nacqui. Dove sia andato, ancora non si è capito.

Zio Oscar non è stato molto bene negli ultimi dieci anni. È continuamente in viaggio perché deve curarsi, dice la mamma. Va e torna molte volte dalla comunità in cui è rinchiuso per disintossicarsi. Contemporaneamente, è assistito da diversi medici, che vengono sempre qui a casa per curarlo. Ce n’è una fissa che gli sta sempre dietro. È una psicologa, mi pare. Ah, no, è una psichiatra. Forse.

‹‹Perché la psichiatra, mamma?›› chiesi un giorno.

‹‹La droga gli ha mangiato il cervello, tesoro›› mi rispose. ~~È diventato matto.››

‹‹Matto come?››

‹‹Matto. Non so se potrà vivere ancora con noi›› disse mia madre, con le la-crime agli occhi.

‹‹Come mai?››

‹‹Dicono che è pericoloso. Molto pericoloso.››

Mi dirigo verso la cucina, ma non sento il solito odore di qualcosa di buono cucinato da mia madre o il suono proveniente dalla televisione che guarda mio zio. Quello che le mie narici avvertono è quella puzza strana e acre di prima, come se… non lo so, non riesco a fare paragoni perché non mi era mai capitato prima di sentire un simile odore. Ma è molto più forte e sgradevole di prima.

‹‹Mamma?››

Non mi sente, ma di sicuro è in cucina. Forse ha gli auricolari del mangianastri nelle orecchie, con i Queen a tutto volume. E probabilmente avrà bruciato qualcosa in cucina senza accorgersene.

Ma non credo molto a questa ipotesi. In primis, mamma adora cucinare e non lo fa mai con la musica, poiché può distrarla. E poi… semplicemente non è un odore di bruciato, ma qualcosa di diverso.

L’unico modo per scoprire cosa sia quell’odore e perché né mia madre né mio zio mi rispondono è andare in cucina, poi in salotto poi nelle camere.

‹‹Mamma?››

La porta della cucina è chiusa.

La apro, ma mia mamma non è lì. O, almeno, non è lì tutta intera.

È sul tavolo, a pezzetti.

Ricordavo che la cucina avesse le pareti bianche, ma adesso sono quasi completamente rosse, macchiate di un liquido misterioso che sembra essere sprizzato violentemente.

E l’odore… l’odore proviene da lì. Da mia madre. Mi si è subito impregnato nei vestiti.

Rallenty. I dettagli che ora registro sono a rallenty. Forse è il trauma che ho inconsciamente subito all’ora di pranzo di un qualsiasi sabato invernale.

Il trauma di vedere a pezzi la propria madre.

E così annoto mentalmente alcuni dettagli che poi finiranno registrati insieme ad altri deliri. Ad esempio, appunto nel mio cervello l’occhio mancante di mia madre, il sinistro, che sta rotolando sotto al tavolo. Gli arti inferiori e superiori, impegnati in una cottura a fuoco vivo sui fornelli ai quali mia madre avrebbe dovuto preparare il pranzo.

Resto immobile sull’uscio, incapace di compiere un solo passo. Ma continuo a registrare nella mia mente dettagli. Insignificanti, ma non posso farne a meno.

E quindi, ecco che la mia memoria incassa il ricordo permanente dell’odore che emana mia madre, un tempo maniaca della pulizia e casalinga perfetta. Il cervello e il suo colore e il sangue che impregnava i capelli e le labbra mozzate e le pareti sporche e quella che sembra una spalla e un capezzolo che spunta dal pentolone e l’odore che diventa più forte e le pareti spruzzate di sangue e anche la cucina decorata di rosso e il rosso che è il mio colore preferito e lo spezzatino che ho sempre odiato e il tagliere e il coltello a fianco a lei e la lama che non è sporca di sangue e un movimento strano alle mie spalle.

È un sogno, ne sono sicura. Chiudo gli occhi e li riapro, ma quella visione terribile è sempre lì.

È uno scherzo, ne sono sicura. Ma l’odore mi dà la nausea e mi fa girare la testa.

Provo il vomito. Sento la bile quasi ribollire nel mio stomaco e salirmi fino in gola, ma non posso fare a meno di registrare altri dettagli, come i denti che non ci sono più e che io cerco e che trovo con lo sguardo sul pavimento e il tappetino davanti alla cucina e altro rosso e rosso davanti agli occhi e rosso che adesso odio e rosso che adesso basta così.

Mi volto per andare in bagno, ma la strada è sbarrata da un uomo magro, al-to, imponente, con i vestiti macchiati di sangue.

Mio zio Oscar.

I suoi occhi sono sbarrati e sul suo volto c’è un ghigno terrificante. Ma ancora più terrificante è coltellaccio che impugna nella mano sinistra e, chissà perché, un registratore nella mano destra.

‹‹Mamma!››

Ecco perché Jack si comportava così. Non voleva aggredirmi. Voleva avvisarmi del pericolo. Voleva farmi allontanare da casa.

‹‹Perdonami, Jack.››

Paolo Lindani non aveva mai visto una scena del genere. Almeno non dal vivo, perché nei film dell’orrore bene o male tutti ci ritroviamo, davanti a scene cruenti come quella. Ma chi se lo sarebbe aspettato che quella mattina, in un comune sperduto della Campania, gli occhi del commissario Lindani vedessero un devasto simile?

Era stato svegliato da uno dei suoi agenti migliori, Giovanni Bella, dal suo riposino pomeridiano. Era il suo giorno libero, e in centrale sapevano che non avrebbero dovuto disturbarlo se non in caso di tragedia. In dieci anni, mai nessuno si era permesso di violare la sua giornata di ricarica, e Lindani credeva fermamente che si continuasse in quella direzione, visto e considerato che non succedevano mai tragedie nel territorio della sua giurisdizione.

E invece il telefono squillò.

Paolo Lindani stoppò la puntata di Romanzo Criminale con il telecomando e voltò la testa in direzione del telefono. “Provvederò a togliermi il telefono di casa”, pensò. “Solo fastidi!”

Indugiò un altro po’ sul comodo divano di pelle, restio a lasciare il torpore della camicia da notte e del camino al suo fianco e desideroso di sapere se il Libanese sarebbe riuscito a conquistare Roma, ma alla fine decise di rispondere.

‹‹Pronto?›› disse con voce stanca.

‹‹Commissario Lindani›› esordì la voce di Bella.

‹‹Cristo›› mormorò il commissario.

‹‹Non l’avrei chiamata se non fosse stato urgente›› disse Bella.

‹‹Cosa può esserci di tanto urgente?››

Bella esitò un attimo, poi rispose: ‹‹Meglio che venga qui e veda di persona, commissario.››

‹‹Avevo detto che avreste dovuto disturbarmi solo in caso di tragedia!››

Bella non replicò subito e Lindani pensò che avesse riattaccato. ‹‹È una tragedia, commissario. Gliel’assicuro›› disse con voce cupa, interrompendo la comunicazione.

E ora stava sull’uscio di quella cucina devastata. I pezzi della donna e della bambina erano mischiati insieme sul tavolo della cucina, mentre il corpo di quell’uomo alto ed emaciato era stato trovato penzoloni in una delle due modeste camere da letto. Si era impiccato.

Lindani si mostrava tranquillo agli occhi dei suoi colleghi, ma in realtà sarebbe tornato volentieri a casa a vomitare e a finire la puntata di Romanzo Criminale che aveva lasciato a metà.

‹‹Le vittime sono due?›› chiese a Giovanni Bella, che aveva un’espressione piuttosto provata.

Giovanni Bella annuì. ‹‹La madre e la figlia, a quanto pare. Sara Valliani e Francesca D’Amato, vedova Valliani.››

‹‹Sembra un unico corpo›› commentò Lindani.

Bella annuì. ‹‹Il medico legale dice che la madre è morta circa un’ora prima della figlia, cioè tra le 12.30 e le 13.00. La figlia tra le 13.30 e le 14.00.››

‹‹La bambina quanti anni aveva?››

‹‹Tredici, compiuti da poco.››

‹‹Sai se era a scuola, stamattina?››

‹‹Me ne sono già occupato. Sì, era a scuola›› disse Bella.

‹‹Quindi è tornata da scuola e…››

‹‹…ed è stata uccisa, sì.››

Lindani fissò per un momento il vuoto. ‹‹E dell’altro cosa mi dici?››

‹‹Oscar D’Amato. Il fratello della vittima, lo zio della bambina. Aveva problemi di schizofrenia legati alla droga. Aveva tentato più volte il suicidio, in passato, e le comunità e gli ospedali psichiatrici della zona lo conoscono molto bene.››

‹‹Chi ha trovato i corpi?››

‹‹Un vicino. Il signor Pascale. Ha detto di aver visto il cane dei Valliani ab-baiare davanti alla sua abitazione.››

‹‹Il cane?››

Giovanni Bella annuì.

‹‹E adesso dov’è?›› chiese Lindani.

‹‹È scomparso›› disse Bella, scrollando le spalle.

‹‹Capisco›› disse Lindani, giusto per dare un cenno d’assenso, perché in realtà non ci capiva nulla. La testa cominciava a fargli molto male. ‹‹Vado in centrale ad organizzare le indagini. Tieni il cellulare a portata di mano.››

‹‹Certo, commissario.››

‹‹Se ci sono novità, avvertimi.››

‹‹Ovviamente›› rispose Giovanni Bella.

Paolo Lindani pensò che in centrale forse avrebbe riacquistato un po’ di lucidità e avrebbe potuto pensare meglio al da farsi. Si girò e si avviò verso la sua auto, mentre i suoi colleghi lo guardavano quasi esterrefatti.

“Vi sorprendete che mi sia fatto impressionare, stronzi?”, pensò. “Allora fate una cosa: non rompetemi i coglioni, pivelli che non siete altro.”

Aprì lo sportello della sua Ford Fiesta e fece per entrare, ma non riuscì a resistere alla tentazione di tornare indietro per dire due parole a quelle femminucce che non avevano nemmeno idea del suo passato. Erano due dei nuovi, giovani e inesperti. E Paolo Lindani, in quanto commissario, doveva fargli ben vedere chi comandasse. Doveva e voleva guadagnarsi il loro rispetto. Per cui, era già seduto sul sedile del guidatore della sua auto, quando si alzò nuovamente e si girò in direzione dei due bastardelli che sghignazzavano.

Li aveva già puntati, rivolgendogli uno sguardo truce che li fece impallidire. Sì, era una piccola vittoria per lui, e non riuscì a contenere un sorrisetto divertito. Ma non aveva ancora finito. Voleva farli impaurire per bene: con degli idioti totali come quelli, la forza era l’unico strumento valido per ottenere il rispetto a breve e lungo termine.

Proprio mentre puntava verso quei due ragazzi, che oramai avevano perso il sorriso, gli occhi del commissario Paolo Lindani scorsero qualcosa che lo incuriosì e distolsero l’attenzione dal loro obiettivo originario.

Giovanni Bella che correva verso di lui.

‹‹Commissario!›› lo chiamò.

‹‹Cos’altro c’è?›› Si avvertiva molto acredine nella sua voce, Paolo lo sapeva, ma non poteva farci nulla.

‹‹Ho dimenticato di dirle una cosa molto importante. Sono uno sbadato.››

‹‹Spara, Bella.››

‹‹C’è una cosa interessante nella stanza da letto in cui si è impiccato Oscar.››

‹‹Non tirarla per le lunghe. Che cos’è?››

‹‹Un registratore.››

‹‹E perché è interessante?››

‹‹D’Amato ha registrato le ultime parole della bambina mentre iniziava a farla a pezzi. Erano i suoi sogni per il futuro, una sorta di “delirio pre-morte”, se ne esiste uno. A quanto pare abbiamo perso un futuro ingegnere aerospaziale. Venga, commissario, glielo faccio ascoltare.››

Danilo Napoli

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Gordiano Lupi, "Calcio e Acciaio"

20 Ottobre 2014 , Scritto da Ida Verrei Con tag #ida verrei, #gordiano lupi, #recensioni

Gordiano Lupi, "Calcio e Acciaio"

Il bel libro di Gordiano Lupi: Calcio e Acciaio- Dimenticare Piombino.

Rincorrere il passato, forse è una soluzione, quando il presente non possiede niente di magico, non profuma di sogni ma porta con sé un acre sapore di sconfitta”…(pag.151)

Sommessa passeggiata tra i ricordi: un calciatore, che ha conosciuto fama e successo negli anni della gioventù, torna, al tramonto, nella sua terra maremmana. E, pur con cuore e mente legati ai giorni di gloria, riscopre il gusto delle emozioni antiche.
Una delicata storia di provincia; un romanzo del rimpianto, della nostalgia. Ma anche del sogno, della riscoperta delle radici.
Lenta la narrazione, la scrittura pare scorrere pigra, indolente, una sorta di cantilena dolce della memoria; come lenti sono i ritmi della vita di provincia, dove sembra non accadere mai niente, ma dove pure si conserva il passato, si riscoprono i valori, quelli veri, autentici, mai dimenticati. Così come restano nella pelle, nei sensi, sapori, colori, odori, anche se cambiano come “il tempo che scorre tra le dita…”
…E ti svegli da grande e non ce la fai più.

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Palestina ti sogno

19 Settembre 2014 , Scritto da Ida Verrei Con tag #ida verrei, #poesia, #il mondo intorno a noi

Palestina ti sogno

Sono nato poeta, ho il verso sulle mie labbra, la rima nelle mie mani, la strofa nei miei occhi…

E da poeta, l’italo-senegalese Cheikh Tidiane Gaye eleva un canto lirico alla terra di Palestina. E’ un canto d’amore e di dolore; un inno alla Pace, un’accorata invocazione alla rinascita. “il mio paese”, la “mia terra”, dice il Poeta, perché sua è ogni terra martoriata, “soffocata, ingoiata, scacciata dal monte di Dio” ; suo è l’urlo di chi soffre. E lui, cittadino del mondo, attende che il mondo sorrida ancora e che rispunti la “luna della concordia”. (Ida Verrei)

Palestina ti sogno

Paese mio dall’alito verde

verde di pace e puro di pace

svegliati!

La mia terra piange

le lacrime di sangue che straripano

le sabbie di pace

ti voglio terra dalle sabbie d’oro

Che Pace sia con te,

che il Sole illumini

i tuoi sentieri

il mio paese deve rinascere

seppellire le macerie

terra avvelenata

terra ingioiata

terra soffocata

terra scacciata

dal Monte di Dio,

la mia Ramallah ti chiamo,

piangono i bambini

muoiono le donne

Betlemme non sorride,

sorrisi spenti

il fiato in prigione

la speranza sepolta

Gaza non si sveglia più

Gerusalemme mortificata

il mondo non sorride più

Paese mio dall’alito verde

verde di pace e puro di pace

svegliati!

Cosa ti manca?

Hai accolto la nascita dei profeti

hai curato le piaghe

hai dato il sorriso al mondo

hai acceso gli sguardi

e oggi il cuore non pulsa

Paese mio dall’alito verde

verde di pace e puro di pace

svegliati!

Vorrei alzare la chioma di pace

e gridare giustizia

voglio piantare il profumo

di pace

voglio che i tuoi polmoni siano forti

per sollevare l’aria di libertà

sei la terra di sabbia

e non di sangue

i nostri occhi

come le nostre orecchie

non devono più testimoniare

la tua sofferenza

Il tuo nome è l’albero

ombreggiante di pace

robusto e forte

forte e robusto

chi può cancellare l’ombra?

Sei l’ombra che nessuno

può seppellire

il tuo nome è poesia

ti voglio cantante di rime

la tua vita è lirica

ti voglio tessitrice di prose

pastore dell’orto di pace

regista delle coreografie di pace

che la tua bandiera sventoli

per svegliare la luna della concordia

e la tua ala volteggi

per designare la strada dell’unità

Paese mio dall’alito verde

verde di pace e puro di pace

svegliati!

Il tuo nome è storia

i tuoi morti martiri

ma i veri martiri lottano per la libertà

ti voglio curatrice delle piaghe

Il tuo nome è libertà

libera sei

come liberi sono i tuoi figli

alza la mano per condurre il corteo

apri le catene della disperazione

canta il canto della liberazione

Palestina la mia la nostra

voglio alzare i tuoi minareti

sentire la tua voce scandire

vocali di libertà

consonanti di pace

voglio che le tue acque siano pacificatrici.

CHEIKH TIDIANE GAYE

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Cristina Bove, "Una per mille"

13 Aprile 2014 , Scritto da Ida Verrei Con tag #ida verrei, #recensioni

Cristina Bove, "Una per mille"

"Una per mille"

di Cristina Bove.

Edizioni Smasher

Commento

di: Ida Verrei

Sintesi emblematica di un percorso di vita, storia di una donna, “Una per mille”, una e mille: ricordi d’infanzia; rievocazioni; reminiscenze; sogni e visioni rivestiti dell’apparenza psichica delle emozioni; non un vero e proprio romanzo autobiografico, ma memoria, un divagare che procede per analogie, associazioni di immagini e di idee, una sorta di flusso di coscienza, che conserva, però, una sintassi razionalmente strutturata, pur se i procedimenti narrativi vengono risolti in modo del tutto personale e peculiare.

Cristina Bove, artista poliedrica, poetessa, pittrice, scultrice, fotografa, riconduce in quest’opera in prosa tutte le tecniche delle arti che frequenta. Ne risulta una singolare composizione, una scrittura colma di immagini e assonanze, che spiazzano ma coinvolgono il lettore dall’inizio alla fine.

“… Se ne stava seduta sulla seggiolina fatta apposta per lei da quel suo nonno falegname a cui mancava mezzo pollice… Sedeva accanto a lui che ascoltava musica classica, con la testa ripiegata e i pollici sotto le bretelle…” (pag.5)

“Nel dormitorio, in lettini di ferro ci si stava in due… A me toccò una coetanea, menomale… Avevo sempre freddo…”(pag.8)

Sta raccontando la sua vita, certo, e per non perdere il filo, segue una linea di percorso, alterna, perché così vanno i ricordi. E se uno comincia a riviversi mica si ferma e aspetta di rincontrarsi a tutte le età contemporaneamente. O forse sì…”(pag.9)

È sempre Cristina Bove che parla, rivisita il passato e, voce narrante, lo racconta in terza persona; poi si reincarna nella bimba di un tempo e diviene l’io che rievoca. Ancora, torna all’oggi e commenta, spiega, quasi fosse altro da sé, testimone e non protagonista. Il “doppio” (che è poi il mille indicato dal titolo) qui non rappresenta la dualità tra bene e male o tra possibile e impossibile, quanto piuttosto un geniale espediente narrativo per colloquiare con il lettore, per immetterlo nel suo mondo, ricco di chiari e scuri, ma anche di colori accecanti o sfumati, di “ero, sono, sarò”. Salti temporali, viaggi avanti e indietro tra presente, passato e futuro; un tempo misto; una scrittura capace di cambiare pelle e adattarsi ad ogni stagione della vita, ad ogni stato d’animo, ad ogni transizione emotiva. Un monologo a più voci, attraverso il quale è possibile ricostruire da diversi punti di vista, di tempo e di luogo, una storia che è vita. Un romanzo che trova il valore unitario nell’alone di sospensione e di attesa che sovrasta l’atmosfera e che, dilatandosi oltre i confini di un’unica vita, assurge a vicenda universale. Ampi spazi di considerazioni e riflessioni filosofiche, apparentemente divaganti, si intrecciano al filo onirico che si ritrova in tutta la tessitura romanzesca; una visionarietà profonda che si dipana attraverso le memorie che si sovrappongono alle vicende, in qualche modo condizionandole, un raccontare che è rivivere, un’analisi del passato senza censure, una vita messa a nudo con delicato pudore

E così attraversiamo un’intera esistenza, una crescita fisica, intellettuale, spirituale. Vita intrecciata ad altre vite, recupero del passato attraverso la memoria involontaria, riscoperta di angoli dell’anima dove si annida la sofferenza, quella che si rimuove ma con la quale poi dobbiamo fare i conti tutta la vita:

“Da una certa rinascita si ritorna nudi, soli… Poi bisogna tener conto dei distacchi… il primo degli addii fu per il padre… sparì, come Babbo Natale sotto un cappotto di cammello. Prima ancora, non propriamente un addio, ma un abbandono sì, fu il giorno in cui si chiusero alle sue spalle di bambina i battenti del portone del collegio…” (pag.23)

Ma anche momenti tenerissimi di gioie familiari, di esaltazione struggente:

Quando glielo misero tra le braccia, fu travolta dal profumo di neonato… Le accadeva la vita, ed era un mistero così grande da farla piangere… (pag.28)

E poi ancora l’angoscia, gli incubi che ritornano. Quel “salto dal quarto piano come in trance”, quella memoria che diviene “interludio” di tutta una vita, quel “volo sospeso… rimandato sempre…” Un presagio di morte, o forse un desiderio, che sembra aleggiare in tutta la narrazione. Ma con una sorta di levità, con autoironia, cosicché, anche nel ricordo di eventi che per molti sarebbero devastanti, Cristina trova forza e coraggio, fiducia nel presente e nel futuro:

Potrebbe sembrare eccessivo considerare decenni di vita una proroga, eppure è proprio così che li ha vissuti, sentendosi in un certo senso privilegiata… “Domani” era una speranza da custodire…” (pag.99)

E il suo libro diviene un inno alla vita, testimonianza d’amore, di generosità, di pienezza intellettuale e spirituale.

Leggerlo, vuol dire arricchirsi.

“…rifuggo gli aggettivi: brutta o bella

non aggiungono niente alla mia essenza

né tolgono un momento al mio passato…

…E vivo della mia e d’ogni altra bellezza” (da: Comunque di C.Bove)

I.V.

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Introduzione di Ida Verrei a "Quand'ero scemo"

27 Marzo 2014 , Scritto da Ida Verrei Con tag #ida verrei, #racconto, #poli patrizia

 

 

 

“… Succede alle storie di andare a infilarsi nel sistema nervoso di chi le legge scuotendo i terminali. Così, mentre gli occhi scorrono una pagina, scorre in sovraimpressione la vita…” (Erri de Luca)

 

Ed è la vita che Patrizia Poli rappresenta in questa raccolta di dieci racconti, quella che spesso ci sfiora soltanto o che ci investe in tutta la sua inesorabilità.

Con una scrittura asciutta, essenziale ma anche irrequieta e visionaria, capace sempre di superare i confini del normale e del banale, regala emozioni forti in poche pagine, spesso in poche righe, riuscendo a disegnare figure pregnanti di umanità.

È una folla variegata di personaggi che popola le pagine del libro. Ombre, riflessi di una dimensione amara, eppure reale: uomini tristi o disperati; ragazze nel fiore degli anni già disilluse; mogli insoddisfatte e amareggiate, vittime o feroci carnefici; anziane donne dalla bellezza sfiorita, aggrappate ai  ricordi; vecchie bambine con la mente che si aggira tra i fantasmi; disabili alla ricerca di una collocazione in un mondo di “diversi”.

Ognuno di essi rappresenta l’Uomo, nella sua solitudine cosmica, nella perenne aspirazione al riscatto. P.P. spazia da un realismo vagamente romantico, al surreale, metafore delle angosce esistenziali e della dimensione onirica, dove l’assurdo diviene possibile, verosimile.

Come ne “L’inchiesta”, bellissimo affresco di una società contadina, dove viene introdotta, tra lo sconcerto generale,  una nuova gabella, la  “tassa sulla felicità”. E l’uomo è contento, aspetta con ansia l’inchiesta, “non sta più nella pelle al pensiero che presto, a giorni addirittura, qualcuno, per la prima volta in tutta la sua vita, gli avrebbe chiesto se era felice: Peer, sei felice? Sei felice Peer? Nessuno ti fa una domanda così bella, diretta…

Oppure  ne “La scelta”, storia di una monaca in crisi di vocazione, che si identifica con Licia, la vestale; vede e sente “cose che non avrebbe dovuto vedere né  sentire… le vibrazioni della roccia, i segreti dolorosi racchiusi nello scrigno del tempo… La voce della superiora: “ il dubbio non ti è concesso…Sii felice, Licia, sii felice più che puoi, perché non hai scelta… Alla rinuncia ci si abitua…”

O ancora, in “Quand’ero scemo”, monologo di un ragazzo Down, che subisce  un intervento al cranio, e si ritrova “normale” in un mondo di diversi che non riconosce:

 

“Sinceramente, non trovavo di gran conforto che adesso, come fece notare padre Lattanzio, “il mio volto risplendesse dell’eccelsa luce dell’intelletto”. Nei giorni che seguirono, scoprii che Dio non esiste e nemmeno Babbo Natale, scoprii che mio fratello mi odiava e mia sorella aveva paura di me. Scoprii che i vicini avevano smesso d’avere pietà, e volentieri mi avrebbero dato in pasto al cane…”

 

Ma in questa varietà di temi e di condizioni umane, l’autrice non indulge mai nel patetico, non lancia messaggi, non rivela intenzioni didascaliche o finalità sociologiche. Piuttosto ci fa riflettere sul concetto di “normalità”, ribaltandolo attraverso un’ottica particolare, una visione distorta, angolare.

Racconta semplicemente le diverse realtà (o fantasie), così come potrebbero narrarle gli stessi protagonisti. E lo fa con una sorta di levità, con distacco ironico, talvolta con umorismo sottile,  che strappa anche il sorriso.

Non è semplice riuscire a dare al racconto breve compiutezza e ottenere la suggestione dell’intreccio narrativo. Patrizia Poli raggiunge questi risultati e lascia nella  mente del lettore immagini indelebili.

 

                                                                                              Ida Verrei

 

 
 
 
 
 
 
 
 
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Uno sporco lavoro

3 Gennaio 2014 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #racconto, #poli patrizia, #ida verrei, #Laboratorio di Narrativa

La protagonista di “Uno sporco lavoro” di Franca Poli è una poliziotta come se ne vedono tante nei telefilm americani: è tosta, è scabra, è maschia nei modi di fare. Però è italiana e si ritrova alle prese con la triste, purtroppo ben nota, realtà degli sbarchi clandestini a Lampedusa. Si chiama Rachele e questo la dice lunga sull’ambiente in cui, probabilmente, è cresciuta, sulla sua ideologia di fondo. Compie il proprio dovere considerandolo dall’ottica del pre-giudizio, inteso come giudizio antecedente, a priori. Il lavoro che è costretta a fare non le va, subisce l’immigrazione, vive a disagio il contatto con il diverso, con l’altro da sé, sente insofferenza per la divisa che la infagotta, non sopporta i continui e improvvisi cambiamenti di programma, i colleghi maschi che ironizzano sulla parità pretesa dalle donne. E sfoga il proprio malumore con un “linguaggio da caserma”: “È un lavoro del cazzo…”, quasi si rammarica di aver vinto il concorso.La spediscono a Lampedusa, ad accogliere la massa di disperati che lei non accetta. È imbevuta di pregiudizi, Rachele, di rabbia e intolleranza verso i “diversi” che arrivano a gonfiare le fila della malavita organizzata e che considera dei “rompicoglioni”. Ma quando si trova a dover soccorrere un gruppo di clandestini, “stremati, le guance incavate, gli occhi fuori dalle orbite, per la prima volta non brontola nel fare il proprio lavoro, e quando, poi, il caso la conduce ad affrontare l’emergenza di assistere una partoriente di colore, Rachele sente vacillare le proprie certezze, sente crollare difese e pregiudizi, e riscopre, attraverso le lacrime, la propria umanità negata. Sarà proprio a causa della prossimità con ciò che non conosce e non le piace, che capirà quanto il fenomeno immigrazione sia impossibile da contenere in un solo sguardo e in un solo parere. Il mondo con cui viene a contatto forzato è fatto, sì, di uomini dalla mentalità maschilista, arretrata - non molto diversa, tuttavia, da quella dei suoi stessi colleghi - ma comprende anche donne dall’aspetto elegante, dagli occhi tristi, dal coraggio animalesco, istintivo.La donna nera partorisce una creatura indifesa, piccola, che ci sfida con l’audace caparbietà del suo stesso venire al mondo in mezzo a chi la rifiuta, addirittura dalle mani di chi la rifiuta. La mamma le imporrà il nome Rachele, legandola a chi l’hai aiutata a nascere, compiendo a ritroso un percorso inconsapevole che lega la nuova bimba a vecchi echi, fatti di guerre d’Africa, di regine nere, di veneri abissine. La madre stessa, da oggetto di derisione, assurgerà al ruolo di prima Madre, di Madonna col Bambino. È un racconto ben strutturato e dal contenuto attuale che rende perfettamente le diffuse resistenze all’accettazione di realtà che ancora provocano rifiuto e diffidenza. Ci sono la rabbia, l’ansia, la paura, il sospetto che spesso dilagano di fronte al “diverso” sconosciuto, ma c’è anche la pietas, l’insopprimibile impulso al “dono di sé”, che va oltre il pregiudizio, oltre ogni irrazionale chiusura di mente e cuore. La storia è compiuta nel suo insieme, procede da un punto all’altro, da un inizio a una conclusione, lasciando intendere che esiste un prima e ci sarà un dopo, uno sviluppo, una trasformazione. Lo stile è funzionale alla narrazione, con qualche immagine forte che colpisce, come la vagina che sembra “inghiottire il bambino” invece di espellerlo.

Patrizia Poli e Ida Verrei

Uno sporco lavoro

“È uno sporco lavoro. Porcaccia Eva io non ci vado laggiù. Senza nemmeno interpellarmi poi… Non ci vado. No!”Rachele si stava annodando la cravatta, era la cosa che più odiava della sua divisa. Si era già infilata i pantaloni e, come sempre, li aveva trovati larghi, deformi. La camicia era un po’stropicciata e con la giacca addosso, poi, si sentiva un sacco di patate.“È un lavoro del cazzo!” imprecava mentre stava uscendo dallo spogliatoio femminile del reparto di Polizia dove era stata distaccata. Da quando si era arruolata, aveva acquisito anche il comportamento e il linguaggio tipico “da caserma”, glielo rimproverava sempre sua madre.In mattinata aveva ricevuto l’ordine e sarebbe partita per Lampedusa. Sbarchi continui di immigrati imponevano rinforzi e, a turno, tutti i colleghi erano andati in missione per una quindicina di giorni. Ora toccava a lei.Renato, il suo compagno di pattuglia, la vide uscire come una furia e subito capì quanto fosse arrabbiata: “Avete voluto la parità? Eccovi accontentate!” Rachele non rispose, alzò semplicemente il dito medio e lo sentì allontanarsi mentre nel corridoio risuonava la sua risatina ironica.“Stronzo! È colpa di quelli come te se ogni giorno di più mi pento di aver vinto il concorso” pensò. Lei non si sentiva adatta a quell’incarico. Amava le indagini, era arguta e attenta a ogni particolare quando seguiva un caso, ma andare al centro di accoglienza per occuparsi di quelli che considerava dei “rompicoglioni” che dovevano restarsene a casa loro, lo riteneva insopportabile. Arrivata suo malgrado a destinazione l’umore non migliorò. Al contrario vedersi attorniata da nordafricani che le lanciavano occhiate lascive, la infastidiva. La mandavano in bestia i sorrisini e le battute in arabo a cui non poteva replicare. “State qui a gozzovigliare alle nostre spalle, col cellulare satellitare in mano, tute nuove, scarpe da tennis, magliette, cibo in abbondanza: ovviamente dieta rigorosamente musulmana, e pure la diaria giornaliera!” mentre si incaricava della distribuzione rimuginava e si rendeva conto senza vergognarsene che non era affatto umanitaria nello svolgimento del suo compito e non voleva assolutamente esserlo. Era sempre stata piuttosto convinta che non si potesse accogliere chiunque. La delinquenza in Italia era aumentata. I clandestini non erano prigionieri al centro, spesso alcuni se ne andavano e molti di loro finivano a rafforzare le fila della malavita organizzata. E, se era vero che non tutti i mussulmani erano terroristi, era pur vero che tutti i terroristi erano musulmani!“È un cazzo di sporco lavoro! Ma datemene l’occasione e vi faccio pentire di essere venuti fin qua.” Pensava mentre uno di loro le faceva l’occhiolino.Durante la notte segnalarono la presenza di un barcone in difficoltà al largo delle acque territoriali italiane e si doveva intervenire a portare soccorso. “Perché, dico io? Lasciateli affogare o che rientrino in Africa a nuoto…” Arrabbiata più che mai a causa di questa emergenza durante il suo turno di lavoro, salì sulla nave per obbedire agli ordini e, quando fu il momento, instancabile come sempre, aiutò chi ne aveva bisogno. Avevano soccorso un barcone con 80 clandestini per lo più somali fra cui anche alcune donne. Li avevano aiutati a salire a bordo, passavano loro coperte e acqua. Alcuni erano stremati, le guance incavate, avevano gli occhi fuori dalle orbite e, per la prima volta, Rachele non brontolò nel fare il proprio lavoro.Fu chiamata con urgenza dal medico di bordo. Una donna incinta stava partorendo e gli serviva l’aiuto di una donna.“Lo sapevo io… Solo questa ci mancava. Proprio ora hai deciso di mollare il tuo bastardo?” E imprecò, come sempre, contro i superiori e contro la scarsa volontà politica di risolvere questo annoso problema.Quando si trovò di fronte la donna con le doglie vide che era piuttosto bella. Alta, nera, ma con i lineamenti fini e delicati. Occhi grandi e scuri come la notte, sgranati per la paura e per il dolore , la fronte imperlata di sudore. Aveva gambe d’alabastro, lunghe e sinuose che si intravedevano da un caffetano di colore azzurro sgargiante aperto sul davanti, soffriva molto.Il medico si doveva occupare di alcuni feriti e le chiese di stare vicino alla donna, di controllare la distanza fra una doglia e l’altra e di chiamarlo se l’avesse vista spingere. “Calma Naomi!” le disse Rachele prendendola in giro per la sua leggera somiglianza con la bella indossatrice, “Non ti mettere a spingere proprio ora, capito?” le inumidiva le labbra con una pezzuola bagnata e quando la donna in preda a una doglia forte e persistente le strinse la mano, lei provò quasi un senso di ripulsa e voleva divincolarsi, ma la stretta era forte e allora strinse anche lei, mentre la donna emetteva un rantolo roco e continuo.A un certo punto la partoriente inarcò la schiena e cominciò a spingere. Era quasi seduta con le gambe allargate e si teneva alle sue spalle con tutta la forza.“Aiuto dottoreee! Presto venga, questa non aspetta più!!” chiamò Rachele cercando di attirare l’attenzione del medico.La donna urlava e spingeva e Rachele, guardando fra le cosce allargate, vide spuntare la testa del bambino. Compariva e scompariva a ogni respiro. Un ciuffetto di capelli neri, che spingeva e allargava quel sesso deforme, arrossato, quasi a sembrare una bocca affamata che lo stava ingoiando e non espellendo.“Dottore!! Presto...” la voce le morì in gola. Non c’era più tempo. Il bambino stava uscendo e allora Rachele prese la testina fra le mani e provò a tirare piano piano per agevolare lo sforzo della donna. Niente da fare, urlava la poveretta e parlava nella sua lingua chiedendo aiuto o chissà cosa altro. Allora si fece coraggio, infilò una mano dentro la donna, afferrò il bambino per le spalle e tirò con forza. Fu un attimo e tutto il corpo del piccolo, rosso e viscido di sangue scivolò fuori e la donna, stremata, si lasciò cadere all’indietro con un ultimo profondo sospiro. Rachele si ritrovò con quell’esserino fra le mani e lo guardò: era una bambina. Nera come la pece e con gli occhi sgranati e grandi come quelli della madre. La prese e gliela poggiò delicatamente sul petto.“Dottore!! Cazzo quando si decide a venire qua?” aveva ritrovato la voce e urlò con tutta la forza.Il medico arrivò, si occupò della madre e della figlia, mentre Rachele, rapita, continuava a fissare gli occhi di quelle due creature. Così grandi e vuoti, così imploranti e tristi. Per la prima volta non era arrabbiata con loro, con i diversi, era solidale. Una donna come loro sola e arrabbiata e si sentì percorrere da un brivido di tenerezza e commozione.“È un maledetto sporco lavoro” disse questa volta senza convinzione.Stavano caricando la donna su una barella, erano al porto e un’ambulanza col lampeggiante la stava aspettando per condurla all’ospedale. Rachele si sentì prendere per una mano. Era la giovane mamma che la guardava e le faceva cenno, indicandola con l’indice puntato e con una muta domanda negli occhi.“Non capisco… Cosa vuoi ancora?” le chiese infastidita e poi d’improvviso, un lampo d’intesa fra loro e capì. “Rachele… Mi chiamo Rachele “ rispose.Allora la donna che, fino ad allora, aveva solo urlato e pianto, sorrise illuminando la notte con i suoi denti bianchissimi. Sollevò la sua piccola bambina, puntandola verso di lei e stentando ripeté: “Rachele.”Fu allora che le lacrime sgorgarono finalmente anche sul suo viso, Rachele piangeva a dirotto e cercando invano di asciugarsi il viso bofonchiò:“È un cazzo di sporco lavoro.”

Franca Poli

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Ida Verrei - recensione . "Il mio nome è Strange" di Alessandro Ceccoli

28 Dicembre 2013 , Scritto da Ida Verrei Con tag #recensioni, #ida verrei

Ida Verrei - recensione . "Il mio nome è Strange" di Alessandro Ceccoli

Il mio nome è Strange

di Alessandro Ceccoli

Edit. Medea

PP.202

Euro: 16,00

Recensione

di Ida Verrei

“lo svolgere della vita dipende da dove ti poni, dall’altezza da cui guardi, è solo un gioco di distanze, e ogni passo fatto anticipa quello successivo” (pag.11)

E il cammino può essere a ritroso, verso il passato, oppure verso l’ignoto, ma è sempre una somma di viaggi che ognuno compie nel tempo e nello spazio, una ricerca che è soprattutto interiore, il bisogno di costruirsi un’identità che plachi l’urgenza di conoscere se stessi.

Il libro di Alessandro Ceccoli, è questo, ma non solo: in un intrecciarsi di generi, (dal noir d’azione, all’analisi socio-psicologica, dal romanzo d’avventura, alla speculazione filosofica e all’intimismo), percorre una serie di tematiche, tutte sviluppate con maestria, che si coordinano l’una all’altra e, pur nella costruzione narrativa complessa, spingono il lettore a procedere con gusto e curiosità nel dipanarsi di una storia che talvolta spiazza, altre commuove, altre ancora angoscia.

Follia, fuga, intrigo internazionale, amore e, soprattutto, la dolce morte, vista in una dimensione prettamente umana, estrapolata da questioni morali o religiose, sono gli argomenti del romanzo.

Ma chi è il protagonista della storia? Il folle fuggito dallo psichiatrico, nascosto tra i cunicoli del Cimitero delle Fontanelle a Napoli, che ruba un’identità e va incontro a un nuovo destino? O l’eroico medico che tenta di salvare gli hutu contro la ferocia dei tutzi in Ruanda? O ancora, il “bastardo che opera sulla linea di confine…che non si sottomette alla logica del governo degli uomini”? (pag.179)

È certamente un uomo solo, ma si è sempre soli quando si stravolgono le convenzioni: “ Siamo null’altro che quello che sogniamo…”

Nella finzione letteraria l’Io narrante, un uomo nel pieno della maturità, durante una sosta a Shanghai, mentre è lì “a giocare con la vita e a portare la morte”, sente il bisogno di raccontarsi, per “lasciare una traccia della sua incredibile avventura”. “Scrivo pensieri, poesie, parole, frasi senza senso, vomito congetture inondando pezzi di carta, espello tutto quello che il mio cervello non riesce più a trattenere; e non mi interessa sapere il perché, l’unica cosa che conta è liberarmene”. (pag.90)

Si sofferma su vicende del proprio passato, si rifugia nella memoria, con tono di volta in volta ironico, dolente, dissacrante. E’ un fuggitivo che ha attraversato la follia ed è poi entrato in un’altra pelle, per “un caso fortuito” ( il “caso” ritorna sempre nei romanzi di Alessandro Ceccoli); non narra il trauma del ricovero, si limita a descriverne gli effetti, ma esso aleggia in tutta la narrazione, come una ferita non sanata, mai rimossa.

Tutto ritorna. Tutto è conseguente…” e, dall’incursione nei ricordi, Strange, il singolare protagonista della storia, passa ad una sorta di diario, una cronaca di viaggio verso una missione oscura, dove si alternano momenti in cui la materia narrativa è ricondotta agli eventi, e momenti in cui l’emozione dei sentimenti trabocca. E qui ci si trova immersi in paesaggi fantastici, una Cina fiabesca, in atmosfere sospese tra sogno e realtà: il fiume Li Jangh, “ebbi l’impressione di avere di fronte le enormi dita di un gigante morente, protese in un ultimo sforzo ad afferrare il cielo…”(pag.41) O il tempio che emerge dalle acque: “Due massicce statue di Buddha, circondate da liane, minuscoli fiori rosso rubino e impercettibili trasparenti pesci vegliavano nei fondali. La loro presenza sembrava testimoniare che la vita non fa differenza di specie e il bisogno di Dio non ha confini…” (pag.76) Scenografie di forte impatto, non solo visivo.

Ma la narrazione ha un ulteriore livello, c’è il racconto in terza persona di eventi che si svolgono in modo parallelo. Eppure non c’è frattura, sembra ancora che sia Strange a raccontare, a presentarci quella che potremmo ritenere la co-protagonista, Maria, la giovane detective che lavora per il Vaticano, alla ricerca dei fondi neri dello Ior, di un colpevole per una morte sospetta e che tenta di sfuggire alle terribili rappresaglie della mafia cinese.

“I miei personaggi femminili hanno sempre scarso spessore” dice Alessandro Ceccoli. Non è così: Maria, “ribelle quanto bastava, rude nell’approccio e amante del lavoro solitario…una sensibilità insolita e un sesto senso che la portava a sbrogliare anche le situazioni più complesse…” (pag.30), è una figura forte, ben delineata, una donna determinata eppure estremamente femminile, nelle emozioni, negli abbandoni, e nell’illusione di un sogno d’amore Definita, forse, anche più dello stesso Strange, che appare una sorta di moderno Lord Jim, sempre avvolto da una zona d’ombra, un personaggio oscuro, mai totalmente conosciuto, che incuriosisce ma insieme intenerisce e commuove.

Fare una breve sintesi del romanzo non è facile, è un continuo susseguirsi di situazioni diverse, di mutamenti di scenari, di intrecci tra gli eventi. E’ un libro che tiene sino alla fine col fiato sospeso, che avvince e affascina. Anche i personaggi minori sono tratteggiati con cura: il commissario Marò, “ un budino…dolce ma terribilmente molle”; Monsignore Uboldi, con un linguaggio “ben lontano da quello del mondo ecclesiale”; Elias, l’amico fraterno, l’altro “bastado che forniva la logistica”; e infine Liù, l’alto dirigente della Cina Comunista, l’uomo che Strange avrebbe dovuto accompagnare verso la morte, colui che gli spiega il senso dell’ideogramma inciso sul dorso dei Buddha: “siate un onda anomala”, la sintesi del suo esistere..

Un bel libro, scritto con cura e strutturato bene, una storia insolita ma verosimile, con agganci all’attualità; amara, talvolta, perché amara è la vita.

E di tanta vita, di tanta storia, come spesso accade, infine, resta solo la solitudine: “Si fa di tutto per nascondersi alla morte, ma per vivere bisogna abbassare la testa e continuare a camminare…”(pag.81)

I.V.

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#unasettimanamagica L'incontro

24 Dicembre 2013 , Scritto da Ida Verrei Con tag #ida verrei, #racconto, #unasettimanamagica

#unasettimanamagica L'incontro

Le parole sono colorate diceva Eduardo, “…tu liegge e vide ‘o blu, vide ‘o cceleste, vide ‘o russagno, ‘o vverde, ‘o ppavunazzo…”

Ma le parole sono anche suoni, immagini, musiche dell’anima.

Talvolta la parola, una sola, un’unica parola, “quella parola”, è un incontro, un avvicinarsi inaspettato tra sconosciuti, tra diversi, tra chi avrebbe potuto anche non trovarsi mai. E quando alla parola si accompagna lo sguardo, allora due mondi si fondono, si ri-conoscono, vite che si sfiorano e restano legate da un filo sottile che avvolge, stringe e impedisce di dimenticare. Una traccia indelebile nell’anima.

È così che è accaduto, pochi giorni fa, mentre camminavo di corsa per le strade di una città infreddolita ma frenetica, volgarmente addobbata per un Natale che bisogna a ogni costo festeggiare, illuminata in modo sciatto, così, quasi per forza, perché “a Natale si fa”, a Natale si truccano strade e piazze, si mascherano miserie e squallori. A Natale, i colori artificiali non sono quelli delle parole.

Macchine che sfrecciano e strombazzano, passanti carichi di pacchi che ti urtano indifferenti, con occhi vuoti, il sorriso stampato su volti di pietra, finto, come le luci, come i colori. E, a un incrocio, l’unico buio, addossata al muro, una grande macchia scura accartocciata; ai suoi piedi, un largo panno che intravedi sporco, carico di cianfrusaglie, radioline, statuette, portafogli: un piccolo bazar.

Passo oltre, uno dei tanti uomini-sacco, come li chiamano ora. Ho fretta, ho freddo, devo compiere il solito rituale dei regali, non ne ho voglia. Ma, qualcosa mi blocca, qualcosa mi spinge a tornare sui miei passi, una insolita curiosità, o forse no, forse il richiamo per quell’”invisibile” che sta lì, muto, rassegnato, in un luogo inconsueto. “Ecco”, penso, “ecco che come sempre mi intenerisco per un derelitto e faccio il solito gesto di generosità pelosa. Non sfuggo alla regola, a Natale si diventa tutti più buoni ed altruisti, come se, con un po’ di elemosina, ci si lavasse le coscienze”.

Ma quel cartoccio umano ha su di me uno strano fascino. Mi accosto, vorrei dargli dei soldi e poi scappare via, ma ho paura di offenderlo, e allora fingo di interessarmi a un piccolo portamonete, quasi perfetta imitazione Gucci. Lo prendo e guardo l’uomo. Senza parlare, lui alza una grande mano dal palmo rosa e mi mostra le cinque dita. Faccio il conto che, se tutto va bene, a lui andrà la metà; gli porgo una carta da dieci euro. Lui cerca in un sacchetto di pezza il resto, sempre senza parlare gli faccio cenno che va bene così, non voglio il resto.

E allora avviene l’incontro. Il giovane alza su di me due immensi occhi neri e liquidi, “occhi di paglia bruciata”, avrebbe detto Pasolini, “…occhi di poveri cani dei padroni”. Mi guarda serio per un lungo istante. Quegli occhi non sorridono, “vedono”, mi riconoscono, quegli occhi sanno. Sanno il segreto di una vita che rotola ancora alla ricerca di un senso, sanno, sanno di un Natale, di mille Natali mai arrivati. E anche io so, e vedo. Vedo tracce della sua storia antica, vedo la sua crudele innocenza, vedo lui, vero testimone dell’Avvento.

Alì, uno dei tanti figli dei figli…” “essi che ebbero occhi solo per implorare…” “essi che si adattarono ad un mondo sotto il mondo…” (1)

Abbassa il capo, Alì; prende dalla tasca qualcosa e me lo porge: è un piccolo ciondolo d’avorio, una minuscola testa d’elefante. Io compro, lui dona.

Apre la bocca, le sue grosse labbra si stirano sui denti bianchissimi. La voce dura, roca, un’aspra carezza: AMICA, dice, solo AMICA.

Avrebbe potuto pronunciare altre parole: “grazie” per esempio , oppure “ciao”, o anche: “è per te”. E invece sceglie di dire: AMICA. E quella parola ha il colore di tutti i mondi lontani, il colore di tutti i Natali del mondo.

Sono tornata a quell’incrocio, ci passo spesso, ma lui non c’è.

Altre strade, altri marciapiedi, altri incroci lo vedranno, grande ombra scura dagli occhi brillanti, neri e lucidi come la sua pelle, porterà altrove la sua storia, la storia dei figli di “Alì dagli occhi azzurri”, pronuncerà ancora “quella parola” ad orecchi sordi, guarderà sempre in fondo a occhi ciechi, e la profezia di un Vate rimpianto, non troverà ancora echi. “Se egli non sorride, è perché la speranza per lui non fu luce, ma razionalità”. (1)

Ida Verrei.

(1) da “Profezia” di P.P.Pasolini

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