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Cinzia guardò sospirando dalla finestra le magnifiche luci di Natale sulla casa della dirimpettaia dall'altra parte della strada. Verdi, rosse, blu, gialle... sfavillando contribuivano a ravvivare ulteriormente l'atmosfera natalizia del quartiere.
La donna annuì pensando - e un brivido scosse il suo esile corpo - per poi bere un sorso di tè. Lasciò che il calore si depositasse nello stomaco e, infine, con la tazza fumante in mano, si sedette sulla sedia a dondolo dinnanzi al caminetto scoppiettante.
Alla sua destra, sotto l'albero addobbato, tra panettoni e colorati pacchetti di ogni genere, c'era una piccola scatoletta avvolta in una raffinata carta rossa e con un elegante nastro bianco.
Erano passati esattamente cinque anni dalla morte di Natale, il fidanzato. Quel pacchettino era per lei.
Ogni anno Cinzia collocava la scatoletta impacchettata sotto l'abete con la decisione che per nessuno motivo al mondo l'avrebbe mai aperta e, tastando l'anulare, gli occhi immancabilmente le si inumidivano.
Quel tragico 25 Dicembre 2013 l’uomo della sua vita avrebbe festeggiato l'onomastico e, sfortunatamente, la ragazza non aveva potuto fargli un regalo altrettanto prezioso: l'annuncio di una gravidanza, il frutto del loro amore che mesi dopo venne chiamato Natale.
Natale, lo stesso nome dell’insostituibile amato.
Natale in giro per l'Italia: Livorno

Mi viene da pensare a cos’era il Natale negli anni sessanta. Non quello di tutti, il mio.
Vivevo in una famiglia nucleare: padre, madre, io. Mio fratello non era ancora stato progettato. Una città di provincia della Toscana, un appartamento in un quartiere popolare, arredato in modo funzionale e moderno, ché noi eravamo una famiglia al passo coi tempi. Mia madre lavorava, guidava la Bianchina e faceva la spesa alla Smec, il primo supermercato che abbia messo piede in centro. Vivevamo il boom economico con speranza, fieri del progresso che avrebbe portato solo civiltà, orgogliosi del frigorifero, del tostapane, del frullatore, dell’acqua gassata con le presine dell’Idrolitina, del vino in bottiglia sulla tavola.
A quei tempi, l’albero non si faceva a novembre, non si faceva l’otto dicembre, non si faceva neanche il quindici, si faceva il ventidue o ventitré dicembre. E sapete perché? Perché allora il tempo era ancora il tempo. Un mese era un mese, lungo, infinito. Tutto si concentrava nella settimana di Natale, la settimana più magica dell’anno.
Non c’erano le sciroccate e le zanzare, andavamo a scuola col berretto di lana e le ginocchia intirizzite. L’albero era vero, perdeva gli aghi per terra, profumava di bosco la casa. E l’odore del pino si mescolava al cherosene della stufa che, dal corridoio, doveva riscaldare tutto l’appartamento. Le palle erano di vetro, ne compravamo una ogni anno, nuova e preziosa, le luci non erano led cinesi ma pupazzi di neve, casine, fantastici trenini che s’illuminavano da dentro. Non mancavano mai, appesi ai rami, figurine di cioccolata e un sacchetto di monete da mangiare.
Ho dei flash, di me e mamma che addobbiamo l’albero in salotto, è giovedì sera, la televisione è accesa su Rischiatutto. Mamma ha portato delle scatole piene di fili argentati e, per la prima volta, abbiamo decorato insieme tutta la casa, attaccandoli alle porte, agli specchi. Dal lampadario penzola una composizione di nastri e palle che ha fatto lei, con le sue mani, come le ha spiegato una collega di ufficio.
Al piano di sotto abitavano mia nonna (vedova) e la mia prozia (zitella). Loro andavano a messa e preparavano il presepe, in un angolo della sala. Un cimelio di famiglia, lo aveva costruito il bisnonno Fortunato nell’ottocento, ricavandolo da un caldano, mettendo da parte stagnola, sughero, pezzi di legno. Era bellissimo, aveva tutto: il pozzo, la fontana, la mangiatoia, la lanterna, persino la chiesa con le campane che suonavano la nascita del bambino che poi l’avrebbe fondata. Ricordo l’odore di muschio secco, la folla dei pastori stretti uno di fianco all’altro, dipinti a mano, qualcuno un po’ sbreccato, scolorito. Ricordo le stelle di latta, il filo argentato con le lucine. Capitava che la zia ricomprasse un filo nuovo, a volte, cambiasse lo scotch, ma la roba era quella, conservata in una scatola da scarpe terrosa; roba povera, a pensarci, ma io la trovavo meravigliosa.
E quando nonna m’insegnava a cantare Tu scendi dalle stelle, mi sembrava di essere lì anch’io, mentre Gesù nasceva nella grotta “al freddo e al gelo”, il bue e l’asinello lo riscaldavano col loro fiato e la cometa splendeva in cielo. Credevo a tutto, era tutto vero, il Bambino Divino, Babbo Natale che attraversava la notte per lasciare i regali sotto l’albero.
A scuola si festeggiavano solo gli ultimi giorni, proprio a ridosso delle vacanze, allestendo piccoli presepi e alberelli addobbati con qualcosa portato da casa. Ricordo un anno che la maestra regalò a tutti una palla dorata e luccicante da appendere all’albero, la aprivi e dentro c’era un piccolo pensiero per ognuno di noi, a me toccò un anellino rosa. E scrivevamo letterine di Natale, non tanto per chiedere regali, quanto per domandare perdono ai nostri genitori delle marachelle, per promettere di essere più buoni, per dire “babbo, mamma, vi voglio bene”, parole che il pudore dell’epoca non ci permetteva di esprimere in giorni meno speciali.
La via principale della città era rallegrata dalla “luminara” ma io, anche oggi che sono vecchia, trovo più affascinanti gli addobbi dei negozi di quartiere, quelli poveri - le lucine che si rincorrono sulla porta della tabaccheria, le palle colorate poggiate sui ripiani polverosi della mesticheria - li preferisco ai grandi apparati dei centri commerciali. Amo il Natale della gente normale: il foglio di carta roccia, il rotolo di cielo stellato, il pungitopo e la borraccina raccolti in campagna.
Da noi, in Toscana, la vigilia non si festeggiava, era un giorno qualsiasi, i negozi chiudevano tardi la sera, non come adesso che alle quattordici è già tutto morto e la gente va a prepararsi per il cenone, quasi fosse l’ultimo dell’anno. Era un giorno di attesa, di trepidazione, di festa vissuta dentro. Si mangiava normale, poco per non appesantirci in vista del venticinque, si apparecchiava in cucina come sempre. In tv non mancava mai qualcosa di bello, un cartone incantato, un film fiabesco; andavo a letto col cuore in gola, con un po’ di paura, chiedendomi cosa sarebbe successo se, per caso, avessi scorto Babbo Natale. “Perché”, mi spiegavano i miei genitori, “quelli che vedi in giro, non sono veri Babbo Natale, sono solo travestimenti per far festa, Lui, l’originale, è misterioso e lontano, non lo si può vedere e passa solo se siamo stati buoni.” Il regalo, insomma, te lo dovevi meritare, non lo trovavi scontato all’Ipercoop. L’uomo barbuto vestito di rosso non faceva “ohohoh” all’americana, non viveva al polo nord con una renna di nome Blizzard, ma era, piuttosto, un’entità un po’ inquietante.
La mattina di Natale, anzi di “Ceppo”, come dicevano i vecchi, si faceva colazione col caffellatte e, ancora in pigiama, si aprivano i regali. C’era tanta roba da farmi sgranare gli occhi. Bambole, “ciottolini”, libri, matite. C’era un cesto rosso con un biglietto scritto di pugno da Babbo Natale in persona: “Perché tu sia più ordinata”, c’era un mangiadischi che, bastava schiacciarlo col dito, e potevi sentire le fiabe sonore, c’era il quarantacinque giri di Un cuore matto - ero follemente innamorata di Little Tony - e anche la Pappa col pomodoro con Rita Pavone nei panni di Gianburrasca.
A pranzo venivano su anche nonna e zia, mangiavamo i tortellini in brodo, il cappone lesso con le radici di Genova, il panettone di Milano che costava un mucchio di soldi - non come ora che ne trovi tre al prezzo di due - il panforte, i ricciarelli, i cavallucci, il torrone. Ma anche frutta secca, datteri della Tunisia con la ballerina in bilico sulle punte, zibibbo, fichi secchi aperti a panino e farciti di noci e noccioline.
Di pomeriggio nonna e zia tornavano giù, a casa loro, a riposarsi, mentre noi guardavamo i programmi televisivi, film, cartoni animati, commedie di teatro e, intanto, io giocavo con tutto quel ben di Dio che Babbo Natale mi aveva portato; si vede che, nonostante i dubbi, i timori e i sensi colpa, alla fine ero stata davvero buona. E, naturalmente, divoravo i libri nuovi. A santo Stefano, quando era invitata l’altra nonna, quella paterna, li avevo già finiti.
Non c’è nulla di speciale in questi miei ricordi, nessun messaggio, niente che caratterizzi una generazione. Posso solo dire che i bambini si nutrono di pensiero magico e chi glielo sottrae compie un crimine, li priva della fantasia, del desiderio, delle cose che noi adulti rimpiangeremo tutta la vita e non avremo mai più, per quanti sforzi facciamo.
A.A.A.cercasi…

A.A.A. cercasi personale dai sani principi natalizi e con esperienza nel settore per contratto a tempo indeterminato. I candidati devono dimostrare un'ottima conoscenza della geografia mondiale ed è richiesta la patente di categoria R per la guida delle renne. Inoltre, gli aspiranti operatori devono essere in grado di pilotare i droni in dotazione durante la consegna dei doni, che avviene su e giù verticalmente per i camini oppure dalle finestre delle abitazioni.
La ditta Christmas Express non si assume alcuna responsabilità in caso di danno di persone o cose, materiale individuale compreso la completa uniforme rossa con gli stivali impermeabili. In caso di danneggiamento, i costi di riparazione verranno addebitati, tranne in evidenti casi di malfunzionamento o difetti di fabbrica.
Il personale dovrà operare No Stop nelle ore notturne in data 25 dicembre di ogni anno.
In caso di individuazione di uno o più bambini, oppure di un adulto o più adulti, animali a parte, la ditta Christmas Express negherà qualsiasi collegamento con la vostra identità e la vostra natalizia missione.
Diritto alle ferie: 364 giorni lavorativi.
I candidati di età superiore ai 300 anni saranno scartati.
Scaricare e compilare il modulo collocato in fondo alla pagina, a destra, ed allegarlo assieme al proprio CV alla seguente email:
SantaClaus@penguin.Pnd
*Pnd è un acronimo immaginario che sta per Polo Nord
L'alberello

Tree, così chiamato dagli altri fratelli alberelli per via di una piccola incisione in quattro lettere, incisione causata da un coltello di un qualche sconosciuto che non aveva niente di meglio da fare, se ne stava in perfetta beatitudine. Si sentiva estremamente felice, godendosi le quattro stagioni, per non parlare del vento, il quale gli procurava appagamento ogni qualvolta lo scuoteva, specie quando soffiava forte e per di più gli animali del bosco erano suoi amici.
In un brutto mattino d’inverno, inaspettatamente, arrivarono cinque uomini. Chi con delle motoseghe e chi con delle accette, costoro fecero "accetta" in molti punti del bosco.
Presto fu il turno di Tree. I duri denti metallici senza pietà gli penetrarono dolorosamente la corteccia e in men che non si dica attraversarono l'intero tronco. Egli cadde, abbattuto. Gridò telepaticamente aiuto a Madre Natura. Non venne ascoltato.
Fu gettato senza tanti complimenti su un camion assieme agli altri suoi simili, tutti accatastati. Eppure, nonostante ciò, riusciva ancora "respirare", finché in tarda serata svenne.
Si svegliò e si sorprese nel ritrovarsi nuovamente in piedi, Tree tirò un sospiro di sollievo, in quanto credeva di aver avuto un brutto sogno ma prestissimo si accorse che non era così.
Si trovava all'interno di una casa. Il cielo sostituito dal soffitto, la terra dal pavimento e le pareti gli procurarono un senso di claustrofobia. L’amato vento andò a fargli visita per pochi minuti per poi essere cacciato via dalla padrona di casa, una volta chiusa l'unica finestra del salone. A peggiorare le cose quel trovarsi in quel luogo completamente da solo, lontano dai suoi fratelli, oltre che dal suo habitat naturale.
Inoltre, con orrore si accorse di quegli estranei oggetti luccicanti che pesavano sui suoi rami e, sotto di lui, alcuni anonimi ma curiosi pacchetti colorati.
«Per favore, lasciami morire!» implorò più volte rivolgendosi nuovamente a Madre Natura.
Trilly, uno dei gatti presenti in quella casa, probabilmente preso dalla compassione, fece una rincorsa si lanciò addosso a Tree. Il povero alberello cadde sul camino acceso e cominciò a bruciare per poi finire letteralmente in fiamme. Come il resto della casa.
Natale a sorpresa

«Va bene»
24 dicembre, stessa ora, qualche chilometro di distanza
I nostri due ragazzi, imbottigliati nel traffico dell’ultima ora pensano con terrore all’incontro tra consuoceri, i quali per ora si sono visti solo al matrimonio in comune, osteggiato dai genitori di Dora, Vittoria e Giovanni, sessantenni ultrà di Militia Christi, che sono contrari a tutto lo stile di vita dei ragazzi e che cercano di mettere bocca su tutto, inutilmente.
«Lo sento, finirà male, perché gli abbiamo dato retta? Non può funzionare il diavolo e l’acquasanta!»
«L’importante è che non senti altro, il cucciolo è tranquillo?»
«Angosciato. Lo intuisco.»
«Digli di resistere, domani è un altro giorno»
«Perché non lo fai tu? Mi piaci tanto quando vai lì sotto e gli sussurri parole dolci».
«Smettila, è un mese che non lo facciamo, se proviamo a fare qualcosa, tu vomiti e io con l’affare in tensione ci sollevo i pesi!»
«Te lo taglio l’affare, è colpa sua se ci troviamo in questa situazione».
«Amore, era troppo tempo che ti desideravo».
«Cinque secondi! Neanche il tempo di dire “stai attento!” che già avevi combinato il guaio».
«Ma ora è tutto risolto, avremo un cucciolo bellissimo e…»
«… e una vita difficile»
24 dicembre, ore 23.59.50
Quasi mezzanotte, tutti i protagonisti si trovano in una sala d’attesa di una clinica privata gestita da suore, pretesa da Giovanni, mentre Dora al suo arrivo è stata caricata e portata direttamente in sala parto.
«Meno dieci… nove…»
«Ma sei scemo, non è Capodanno».
«È solo per far vedere ai consuoceri sniffa incenso, inginocchiati davanti alla Madonna dell’Ospedale, che anche noi festeggiamo».
«Dai papà, smettila, io me li dovrò subire tutta la vita e sta per nascere mio figlio».
«Per la gente del porto lo chiami Gesù Bambino?»
«Lo lasci in pace? È il giorno più importante della sua vita, faglielo godere senza macchie».
«Agli ordini, Maura… però non dimenticherò mai il momento dopo cena, quando Vittoria si è alzata dicendo “stasera nasce il bambinello” ed a Dora si sono rotte le acque».
«Beh, ammetto che ripensandoci a mente fredda è stato esilarante, mi sono sentita la nonna dell’unto dal Signore, quindi la madre del triangolato».
«Smettetela entrambi, altrimenti mia suocera vi farà fare i gargarismi con l’acqua santa!»
«Ti hanno già chiesto perché sta nascendo in anticipo?»
«Perché è settimino!»
«E ci hanno creduto?»
«Sono cattolici, l’importante è che la forma prevalga sulla sostanza»
«Si stanno rialzando, a cuccia».
«Belle ginocchia callose da pretini, se provassi a rialzarmi io così, le rotule inizierebbero a rotulare per tutto il corridoio»
«Sssh! Arrivano!»
«Arriva anche il dottore!»
«Domanda retorica, siete voi i parenti di Dora?»
«Penso che sia l’unica a partorire stanotte, giusto?»
«Quest’anno sì»
«Anche nei 2015 anni passati?»
Il consuocero si gira stizzito
«Non è il caso di essere blasfemi».
Diego riceve su un polpaccio un calcio in mezza rovesciata che lo convince a non controbattere, mentre il dottore, per cambiare discorso, chiede: «Sapete? È nato esattamente a mezzanotte! Come lo chiamerete?»
Nilo alza la mano di corsa, prima che qualcuno metta bocca: «Magdalena, è un fiume della Colombia, è l’unico che abbiamo trovato degno di lei, che ha dei genitori con nomi di fiumi, visto che non la battezzeremo…»
Doppio mancamento, controllato con abilità.
«… la benediremo a Piazza Navona con l’acqua sorgiva della fontana del Bernini, quella dei quattro fiumi»
Per fortuna siamo in clinica, i nonni materni vengono subito presi e portati in rianimazione per finire questa piccola storia di Natale.
I maglioni

Quando ero bambino, precisamente a nove anni, ricordo che il giorno di Natale, mentre pranzavamo dai miei zii nella casa di campagna, mia nonna materna, anziché comprarmi dei completi invernali con tanto di scarpe come solitamente faceva ogni anno, mi regalò una serie di orrendi maglioni già detestati fin da subito.
La delusione fu evidente, tant'è che ripiegai con ruffianeria su mia nonna paterna, anch'essa invitata assieme a mio nonno, grazie ai tanti giocattoli e dolci ricevuti. La rivalità tra le due nonne era arcinota, quindi è facile immaginare.
La madre di mia madre ci restò male, e anche quest'ultima, che mi guardò visibilmente costernata. Entrambe mi chiesero di indossarne almeno uno, di quei non graditi capi, e di provarli dal primo fino all'ultimo. Erano tutti uguali, cambiava soltanto il colore, mentre, nonostante la misura risultasse giusta, non li avvertivo come i classici maglioni morbidi e comodi. Nossignore, praticamente pruriginosi e scomodi, tra l'altro non mi tenevano affatto al caldo.
Proposi con insolenza di darli in dono a uno dei miei cugini lì presenti.
«Ma ti stanno bene!» insistette mia madre.
«Sti maglioni sono una merda!» dissi spudorato. «Minchia, con tutto che c'è il camino acceso, sento più freddo di prima e poi mi fanno grattare!»
Mio padre, non sopportando più quello show, si alzò di scatto dalla sedia per mollarmi un sonoro ceffone con l'approvazione della mamma, anche perché i miei genitori non tolleravano assolutamente le parolacce da parte del sottoscritto. Si creò un clima di disagio, interrotto da mia zia che, con un finto sorriso, portò in tavola un grosso panettone, di cui anticipatamente rifiutai una fetta ostentando un'aria da duro.
Mi sedetti sul divano come un cane bastonato, con addosso l'ultimo dei maglioni provati, precisamente quello di colore verde simil militare.
Alcune ore dopo la mia famiglia e i parenti lasciarono il salone per dirigersi in campagna per una passeggiata digestiva, mi impuntai per rimanere da solo, con le braccia conserte e battendo nervosamente i piedi.
Appena si allontanarono, innanzitutto, mi tolsi quella “cagata” di dosso per rimettermi frettolosamente ciò che avevo prima. Il focolare era semi spento (del resto non potevano di certo lasciarlo incustodito) e di conseguenza non emanava quasi nessun calore, così, sia perché desideravo riscaldarmi e sia per spregio, lanciai il maglioncinaccio verde, assieme a tutti gli altri, all'interno del camino. Si infiammarono senza troppa difficoltà, soprattutto dopo che ebbi aggiunto alcuni rami reperiti in una stanzetta apposita.
Il fuoco mi tenne finalmente caldo, sebbene non allo stesso modo delle mazzate del babbo, che pigliai successivamente, una volta scoperto il misfatto.
Un Natale per sette fratelli

Svegliarsi presto la mattina per andare a lavorare rappresentava la solita e inevitabile routine, ma quel giorno era Natale. I sette fratelli saltarono dai loro letti con gioia ancor prima che il sole apparisse all'orizzonte. Persino il fratello più brontolone, appariva di buon umore.
I sette fratelli si precipitarono a pian terreno per poi radunarsi mano nella mano attorno all'Albero di Natale. Fischiettarono e cantarono in attesa che lei arrivasse.
Mela e cannella si diffondevano nel salone mentre Biancaneve, affaccendata, stava preparando il pranzo natalizio e canticchiando:
– Specchio, specchio delle mie brame, dov'è il Natale più bello del Reame? –
Oggi che giorno è per Mario?

Babbo Natale e la sua provenienza

Babbo Natale non conosceva la sua nazionalità. Una sera decise di scoprirla e chiese aiuto alla moglie e agli assistenti di Santa Claus Town.
La Signora Natale ipotizzava che il marito fosse della Groenlandia, abbandonato dalla balene su una banchisa del Polo Nord, mentre Joll, lo gnomo, affermava che il suo principale potesse essere di origine indiana, magari figlio di un qualche santone, oppure originario della Svizzera, per via che amava anche fin troppo la cioccolata e per l’immancabile puntualità (ad esempio con le consegne dei regali) di un orologio svizzero.
Babbo Natale non accettava nessuna di quelle ipotesi, e non appariva nemmeno tanto convinto di ciò che supponeva lui stesso, quindi, stanco di scervellarsi, si affidò ad un kit speciale, costruito appositamente da alcuni elfi scienziati, per stabilire finalmente le sue origini. Per i risultati passarono una quindicina di giorni non prima di un piccolo prelievo del sangue.
Giub, il folletto responsabile del laboratorio, gli lesse le pochissime parole del rapporto finale.
– Dice che sei grasso e felice – disse Giub – Possiamo tornare alla fabbricazione dei giocattoli? –
Babbo Natale sorrise, sospettava da sempre, e ora era convinto, di essere almeno un mezzo samoano.
Il mio Natale

Il mio Natale quest'anno è sfogliare con nostalgia un vecchio album di foto di famiglia. Immagini di noi, di tutti noi, in quell'abbraccio caldo e avvolgente che questi giorni di festa hanno sempre portato nei nostri cuori. Il mio Natale, quest'anno, sono gli occhi lucidi di mio padre, che vive la solitudine dei nuovi giorni lontano da lei: lei che ora si sveglia dai suoi sogni inquieti in un luogo diverso, lei che forse neanche lo sa il vuoto che si lascia dietro… lei che quando ci vede ora sorride confusa. Il mio Natale… il nostro Natale sono quei pensieri, quelle parole, che ognuno di noi sente riecheggiare dentro di sé, nei momenti in cui quel posto a tavola mancante sembra una porta aperta verso il ricordo di un altro tempo, un tempo di spensieratezza e di magia, un tempo che più non torna e il cui ricordo tinge le ore e i giorni con i colori della malinconia. Ed è guardare i volti dei miei bambini accesi di entusiasmo, mentre tutti insieme prepariamo l'albero, e, mentre li guardi, pensare a quando, bambina, osservavi estasiata tua madre e tuo padre compiere quegli stessi gesti che ora sono i tuoi. Il mio Natale quindi, quest'anno ha, sì, un sapore diverso. Ma tengo stretta al cuore questa malinconia… perché in fondo essa è figlia delle felicità vissute, e che per sempre ci resteranno dentro, colmando gli spazi vuoti e ricordandoci di vivere con pienezza ogni momento.