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saggi

Palazzeschi e i Pancaldi

23 Maggio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #luoghi da conoscere, #personaggi da conoscere

Palazzeschi e i Pancaldi

Aldo Palazzeschi (1885 – 1974) ha dedicato ai nostri bagni Pancaldi un pezzo memorabile, pubblicato in Stampe dell'Ottocento, F.lli Treves, Milano, 1936
È davvero una stampa la sua, descritta con gli occhi stupiti di un bambino che, il primo d’Agosto, in una giornata torrida, sudato fradicio, viaggiando in carrozza e in vagone ferroviario insieme ai genitori e alla donna di servizio, giunge alla “porta a mare” di Livorno, dove vede per la prima volta la distesa azzurra, spumeggiante, le creste bianche delle onde.
Durante il viaggio sua madre ha chiacchierato tutto il tempo con una dama vistosa, la quale ha descritto nei minimi particolari la vita che si svolgerà sullo stabilimento mondano e lussuoso, luogo “di tutte le delizie e le primizie”, spettegolando sulle signore che lo frequentano, sul numero dei vestiti, delle scarpe e dei cappelli di questa e quella.
Non è difficile immaginare l’aria calda e salmastra, il sole rovente dal quale le signore si proteggevano con l’ombrellino, le tende gonfie di vento dello stabilimento balneare, le marchese, le contesse, le attrici, le cantanti ingioiellate che, passeggiando, sfoggiavano ogni giorno una toelette nuova - in primis una principessa che arrivava addirittura con ventotto bauli, cento vestiti e duecento paia di scarpe. All’alba si facevano duelli segreti e, dopo, se ne parlava con un brivido d’emozione.
Oltre e sopra tutto, indifferente, il mare.

“Il mare era calmissimo, profondamente azzurro, e pareva adagiato vittoriosamente dopo una gara col cielo a chi lo fosse di più; nel cielo non era che il sole e riempiva tutto col suo calore, e nel mare un gruppettino di vele bianche in fondo, cinque o sei, e certe spumettine candide verso la riva, fiocchetti di cotone, che apparivano e sparivano come dalle fessure di una veste.”

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Yorick

21 Maggio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #poesia, #luoghi da conoscere, #personaggi da conoscere

Quando talor frattanto, forse, sebben così; giammai piuttosto alquanto come perché bensì;

Ecco repente altronde, quasi eziandio perciò, anzi, altresì laonde purtroppo invan però!

Ma se per fin mediante, quantunque attesoché, ahi! sempre, nonostante, conciossiacosaché!

Nel ritratto di Corcos, Pietro Francesco Leopoldo Coccoluto Ferrigni (1836 – 1895), in arte Yorick figlio di Yorick, (con un doppio omaggio prima a Shakespeare e poi a Sterne), ci appare come un uomo massiccio, infagottato in un cappottone, con i baffi folti. Nato a Livorno, fu un enfant prodige, dalla memoria strepitosa, che a tre anni sapeva leggere e a nemmeno sedici si era già iscritto all’università grazie ad una dispensa granducale. Vicino alle idee liberali di Ricasoli, partecipò alla seconda guerra d’indipendenza e fu poi segretario particolare di Garibaldi, rimanendo ferito a Milazzo. Scrittore ironico di nonsense, le sue rime più famose furono “Parole per musica” del 1881, che mettevano in ridicolo le melensaggini dei libretti d’opera. Giornalista di razza, fondatore de Il Fanfulla, ogni giorno su la Nazione pubblicava un articolo, abbastanza ponderoso, denominato “Cronache dai Bagni”, dove raccontava, a chi non poteva godere dei piaceri della Livorno balneare, la vita che si svolgeva negli stabilimenti sul nostro litorale. I suoi pezzi avevano grande riscontro e successo di pubblico e furono anche tradotti in inglese dal Morning Post. Yorick descriveva una città che d’estate cambiava fisionomia e si riempiva di una folla chiassosa. Ormai non c’erano più le stanzette dei bagni Baretti, ora i Pancaldi, i Palmieri, Lo Scoglio della Regina e gli altri stabilimenti avevano ampi spazi aperti, dove i frequentatori passeggiavano e s’immergevano nelle acque limpide senza più privacy. I lettori si divertivano con i pettegolezzi, con le disavventure dei malcapitati fiorentini che “si facevano spennare nei ristoranti”, con gli inglesi che sguazzavano e si tuffavano, con i francesi che muovevano le braccia all’impazzata senza avanzare di un passo nell’acqua. Immaginavano le grazie delle donne, che si bagnavano indossando tuniche ampie e mutandoni alla caviglia, mostrando comunque sempre più pelle che non con gli abituali corsetti e crinoline, accendendo la fantasia maschile o rivelando qualche difettuccio di troppo. Le mamme ostentavano le figlie auspicando di maritarle e i giovanotti in bolletta speravano in una dote. La talassoterapia era ambita come cura, mentre il sole era bandito ed evitato a ogni costo. “I nostri ospiti riveriti vengono qui per bagnarsi”, dice Yorick, “per ballare, per passeggiare e per discorrere … tutte occupazioni da sfaccendati”.

****

 

Quando talor frattanto, forse, sebben così; giammai piuttosto alquanto come perché bensì;

Ecco repente altronde, quasi eziandio perciò, anzi, altresì laonde purtroppo invan però!

Ma se per fin mediante, quantunque attesoché, ahi! sempre, nonostante, conciossiacosaché!

In the portrait of Corcos, Pietro Francesco Leopoldo Coccoluto Ferrigni (1836 - 1895), aka Yorick son of Yorick, (with a double tribute first to Shakespeare and then to Sterne), appears to us as a massive man, bundled up in a coat, with bushy mustache.

Born in Livorno, he was an enfant prodige, with an amazing memory, who at three years of age knew how to read and had enrolled in university at sixteen thanks to a Grand Ducal dispensation. Close to Ricasoli's liberal ideas, he participated in the Second War of Independence and was then particular secretary to Garibaldi, being injured in Milazzo.

An ironic nonsense writer, his most famous rhymes were "Words for music" of 1881, which ridiculed the melancholy of opera librettos.

Pure journalist, founder of Il Fanfulla, every day on the Nation he published an article, quite ponderous, called "Cronache dai Bagni", where he told, to those who could not enjoy the pleasures of seaside in Livorno, the life that took place in the bathhouses on the coast. His pieces had great success and  were also translated into English by the Morning Post.

Yorick described a city that changed its physiognomy in the summer and filled with a rowdy crowd. By now the rooms in the Baretti bathrooms were no more, now the Pancaldi, Palmieri, Lo Scoglio della Regina and other bathhouses had large open spaces, where visitors strolled and immersed themselves in the clear waters without more privacy.

Readers amused themselves with gossip, with the misadventures of the unfortunate Florentines who "lost their money in restaurants", with the British splashing and diving, with the French moving their arms wildly without taking a step forward into the water. They imagined the graces of the women, who got wet wearing large tunics and knickers at the ankle, however showing more and more skin than with the usual corsets and crinolines, turning on the male fantasy or revealing some flaws. The mothers flaunted their daughters hoping to marry them and the poor young men hoped for a dowry. Thalassotherapy was sought after as a cure, while the sun was banned and avoided at all costs.

"Our revered guests come here to bathe," says Yorick, "to dance, to walk and to talk ... all idle occupations."

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Lamartine a Livorno

19 Maggio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #poesia, #saggi, #ida verrei, #personaggi da conoscere

Lamartine a Livorno

Perché balzate sulla spiaggia spumeggiante,
Onde in cui nessun vento ha scavato solchi?
Perché agitate la vostra schiuma fumante
In leggeri turbinii?
Perché dondolate le vostre fronti che l’alba asciuga,
Foreste, che stormite prima dell’ora del risveglio?
Perché dai vostri rami spargete come pioggia
Quelle lacrime silenziose di cui vi bagnarono la notte?
Perché rialzate, oh fiori, i vostri calici pieni,
come fronte chinata che l’amore risolleva?
Perché nell’ombra umida esalare questi primi
Profumi
che il giorno respira?”

Alphonse de Lamartine (1790 – 1869), scrittore, storico e politico francese autore tra l’altro de Le meditazioni poetiche, aveva dei cugini a Livorno e venne a visitarli. Ancora una volta è Pietro Vigo a riportarci le sue parole.


“Abitavo presso Livorno nella villa Palmieri sulla strada di Montenero; a sinistra vedevo le cime selvose dei Monti di Limone, a dritta il mare, di faccia Montenero. Sulla sommità di questo capo, addossato allo scoglio ed a verdi querce s'innalza una chiesa come un tempio greco in vista del mare, ed è un pellegrinaggio pei naufraghi scampati dalle procelle pei voti innalzati alla stella del mare. Mi piaceva tanto questo luogo che vi ascendevo sovente. Sulla strada è la villa, un tempo splendida, allora deserta dove Lord Byron si trattenne una o due estati qualche tempo prima della mia dimora in Livorno.
Ero solito fermarmi col cavallo dinanzi alla porta del suo giardino, come per cercarvi l'assente figura del gran poeta che in certo modo consacrò quella solitudine. Poco più oltre lasciavo la strada guidando i cavalli verso la locanda di Montenero per inoltrarmi solo nei boschi d'onde scorgesi il mare. Là passavo intere giornate in compagnia dei miei pensieri, con un libro in mano, nel cui margine, andava scrivendo le poesie ispiratemi dal cielo e dal mare. I cespugli a piè delle verdeggianti querce di Montenero conservarono per qualche tempo le pagine strappate dai libri e dagli album, dove mi provai a notare alcuni canti, spesse volte interrotti dal sonno, dal capriccio, e dal tramonto del dì, e che lasciava in brani sull'erba o sulla sabbia in ludibrio del ven
to ».


Vigo afferma che tre dei componimenti delle “Armonie poetiche e religiose” siano stati scritti nei nostri boschi. Pare che una folata di tramontana abbia fatto volare gli appunti de L’Inno al mattino, al punto che il poeta li aveva ormai dati per persi. La mattina dopo, però, una bambina scalza, figlia di un arsellaio, glieli riconsegnò inzuppati d’acqua di mare. Sembra che il padre li abbia ripescati e fatti leggere a dei frati Cappuccini che gli consigliarono di riportarli all’autore francese. Come ricompensa, Lamartine offrì all’uomo tanti scudi quante erano le pagine e comprò alla bimba un vestito nuovo.


Riferimenti
Pietro Vigo, Montenero www.infolio.it

Si ringrazia Ida Verrei per la traduzione

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La cultura dell’educazione in una società complessa di B.O.Severini presentato da Adriana Pedicini

10 Maggio 2013 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #saggi, #educazione, #biagio osvaldo severini

La cultura dell’educazione in una società complessa
JEROME BRUNER

Epoca rivoluzionaria. Disagio degli attori educativi. Antinomie e complessità. Cultura rivoluzionaria. Dialogo e istruzione estensibili a tutti. Metodologia della ricerca e mente proattiva. I giovani e i problemi cruciali. Identità narrativa e alterità. Mente interpretativa. Comunicazione ed educazione. Colpa degli insegnanti e degli intellettuali la rovina della scuola e della cultura?

Ci troviamo a vivere un momento di radicale trasformazione delle istituzioni educative che sono o preposte esplicitamente ai processi formativi, o ne sono implicate indirettamente.

Società, famiglia, scuola, gruppo dei pari e mass media sono attraversate da cambiamenti veloci e diversi che le trasformano e le fanno cadere , a volte, in conflitto di competenze e di interessi.

Un’attenzione peculiare viene rivolto alla scuola e all'educazione, ma non si mancherà di accennare ad altre aree tematiche rilevanti nel campo della sociologia dell'educazione.

La scelta cade sulla scuola, perché in essa confluiscono e interagiscono, formalmente o informalmente, le diverse componenti della vita comunitaria.

E anche perché, come sottolinea Vincenzo Cesareo ( "Elementi di sociologia dell'educazione", Carocci editore, Roma, 2004), il sistema formativo è sempre e comunque radicato in una realtà sociale definita, per cui, se quest'ultima è coinvolta in processi di modificazione profonda, è impossibile che esso vi rimanga estraneo a lungo, nonostante eventuali resistenze.

Il disorientamento delle istituzioni educative genera un clima di crisi e di sfiducia, in cui si trovano a disagio sia i genitori, sia gli educatori in genere, sia gli alunni di ogni ordine e grado.

Per cercare di dare un contributo al chiarimento della questione, si può partire dalle riflessioni dello studioso nordamericano Jerome Bruner, esposte nell'interessante lavoro "La cultura dell'educazione".

A questo fine rivolgo al professore - in una intervista immaginaria - alcune domande su specifiche problematiche educative e non solo.

Egregio professore, mi permetta di ricordare che Hegel amava sostenere che, quando bisogna iniziare un discorso, è importante cominciare dal “cominciamento”. Perciò, soffermerò la sua attenzione su una questione preliminare di carattere, diciamo così, terminologico.

Il processo formativo deve essere inteso etimologicamente come attività di “educare”, ossia guidare, o come “educere”, ossia “tirar fuori”?

Il modello da tenere presente deve essere quello di Pitagora, che pretendeva dai suoi allievi l’obbedienza assoluta, secondo il principio dell’ “Ipse dixit”; o viceversa quello di Socrate, secondo il metodo della “maieutica”, dell’aiutare l’allievo a “partorire” la verità, ad arrivare alla conoscenza, impegnando le proprie forze?

Da questa prima problematica scaturiscono, di conseguenza, altri interrogativi.

Nel processo educativo deve, dunque, assumere importanza: il magistrocentrismo (il maestro è il centro), o il puerocentrismo ( il bambino è il centro); l’insegnamento ( “in-signare”, per cui il docente porta dentro la mente del bambino i segni della conoscenza), o l’apprendimento ( “ad-prehendo”, per cui l’allievo con la sua mente si muove per afferrare gli elementi della conoscenza); l’eteroeducazione (per cui si riceve la conoscenza dall’esterno), o l’autoeducazione, per cui ci si educa da soli); la socializzazione ( per cui è l’adulto che sottopone il bambino al processo di acquisizione di comportamenti sociali), o lo sviluppo sociale ( per cui il bambino possiede in sé le spinte a vivere con gli altri)?

Porre l’accento sull’insegnante o sull’alunno comporta una serie di cambiamenti di prospettiva nel processo educativo, negli obiettivi educativi, nell’orientamento scolastico.

Ma comporta anche una visione diversa della concezione della società: la centralità spetta allo Stato o al cittadino, all’autorità o alla libertà, al dogmatismo o al problematicismo?

In sintesi: credere, obbedire e combattere per uno Stato etico assolutistico? O criticare, decidere, dialogare in uno Stato di diritto democratico?

Non sono problemi di poco conto, com’è facile capire.

Certo. Per trovare una soluzione, dobbiamo riflettere sul fatto che in epoche rivoluzionarie la società è sempre dominata dalle contraddizioni. E la nostra è un’epoca rivoluzionaria. Perciò, essa è dominata dalle contraddizioni, dalle antinomie…

…Scusi, nella mia mente subito affiorano i ricordi legati alle famose antinomie della ragione di cui parla Kant, nelle quali l’antitesi sostiene il contrario della tesi; come esempio,cito l’antinomia del mondo: il mondo ha un’origine nel tempo ed è limitato nello spazio (tesi); il mondo non ha origine nel tempo, né nello spazio (antitesi). Secondo la logica formale le antinomie sono un paradosso, perché due proposizioni riferite allo stesso oggetto nello stesso momento non possono essere vere entrambe: il principio del terzo escluso non lo ammette: A o è B o è non-B ( “tertium non datur”).

Anche l’educazione è travagliata dalle contraddizioni.

Infatti, lei elenca tre antinomie del campo pedagogico. Con il suo permesso, le sintetizzo.

La prima riguarda l’individuo e la società. Tesi: l’educazione deve mirare a realizzare le potenzialità dell’individuo; antitesi: l’educazione deve mirare a riprodurre, consevare la cultura della società attuale.

La seconda si riferisce allo sviluppo intrapsichico o allo sviluppo interpersonale. Tesi: l’apprendimento è intrapsichico, allora è centrale l’alunno con le sue doti naturali e bisogna coltivare la mente dei migliori; antitesi: lo sviluppo mentale è interpersonale, allora è importante che l’insegnante fornisca a tutti gli alunni gli attrezzi simbolici con cui sviluppare le doti naturali.

La terza è relativa alla conoscenza locale o alla storia universale. Tesi: la conoscenza locale è valida di per sé e non ha bisogno di una teoria universale per essere convalidata (questa tesi appare nei movimenti estremistici localistici); antitesi: esiste una storia universale che si manifesta nei fatti locali in tempi, luoghi e circostanze precise e ci sono personaggi che si autoproclamano portatori di valori universali.

Come si risolvono queste antinomie?

La soluzione delle antinomie non può essere trovata nel campo della logica formale, ma solo in quello della pragmatica.

Voglio dire che nel campo dell'educazione, per valutare quello che vogliamo insegnare o vogliamo far apprendere, e per sapere in che direzione ci vogliamo muovere, dobbiamo tenere in debito conto queste antinomie. Quindi, capire che la giusta misura non sta nella scelta della tesi o dell'antitesi, ma nel considerare i vari aspetti presenti in una società complessa come la nostra.

Come concepire, allora, il processo e gli obietti educativi?

L'educazione deve essere concepita come un processo anch'esso complesso, intrinsecamente antinomico e interdipendente, in cui confluiscono sviluppo e formazione, auto ed eteroeducazione.

Anche gli obiettivi educativi diventano, di conseguenza, complessi: bisogna tendere a realizzare le potenzialità individuali, ma salvaguardando la società; riconoscere le differenze dei talenti naturali, ma fornendo a tutti gli strumenti della cultura; rispettare le identità locali, ma difendendo anche la coesione come popolo, per evitare sia la torre di Babele dei localismi, sia l'omologazione della globalizzazione.

Quale deve essere, allora, la caratteristica generale della scuola?

Una risposta di carattere generale mi porta ad affermare che la scuola deve essere una comunità propositiva, collaborativa, solidaristica, promotrice di una cultura rivoluzionaria, soprattutto in una situazione di deprivazione.

Per capire meglio, vuole scendere nell’analisi della sua affermazione?

Bene. Alcuni esperimenti psicologici su animali e su bambini hanno dimostrato che essi, se allevati in situazioni di deprivazione sensoriale affettiva e culturale, rivelavano deficienze, quando venivano sottoposti a test relativi a normali compiti di apprendimento e di soluzione di problemi.

Questi esperimenti ci fanno capire, in sintesi, che gli esseri umani, in particolare, presentano le caratteristiche di essere non solo "reattivi", ma anche "proattivi".

Gli uomini, in sostanza, non solo necessitano delle stimolazioni, ma le cercano, soprattutto vogliono interagire con gli altri, vogliono essere aiutati a sviluppare le loro capacità.

La scuola, allora, deve intraprendere un'azione positiva nel senso di spingere gli alunni a vivere in una comunità scolastica propositiva, per permettere loro di costruire le proprie competenze e di sviluppare un effettivo senso di appartenenza ad una comunità collaborativa.

La comunità scolastica deve, quindi, strutturarsi come un ambiente, in cui si elabora un progetto legato agli interessi degli alunni e che essi stessi contribuiscono ad organizzare con le loro idee.

Solo così operando, si può sperare di contrastare l'alienazione, l'impotenza e la mancanza di scopi della società più ampia.

La scuola deve diventare, in concreto, un luogo dove sperimentare: come usare la mente; come trattare con gli altri; come trattare con l'autorità; come formarsi l'autostima; come mettere in pratica i principi etici, che la società esterna non sempre applica.

Lei afferma che la scuola deve diventare promotrice di una cultura rivoluzionaria. Quando una cultura diventa rivoluzionaria?

La cultura diventa rivoluzionaria, semplicemente quando è coerente con i principi dichiarati nelle "Carte dei diritti dell'uomo" e quando diventa dialogica, narrativa, interpretativa.

Narrazione significa, infatti, vedere le cose da un altro punto di vista, significa rompere gli schematismi tradizionali totalizzanti, considerati, dopo millenni, di origine divina o naturale e, perciò, immodificabili.

La scuola deve applicare, inoltre, nella pratica quotidiana i diritti dell'uomo e permettere all'alunno di farlo, sperimentando le proprie capacità e i propri limiti.

Se la scuola non realizza questa pratica educativa, spingerà l'alunno a cimentarsi nel campo della "crimininalità spicciola" o nei comportamenti anomali (bullismo, antisocialità, ribellismo, ed altro).

Si sa che le società nazionali e la società mondiale stanno attraversando un periodo di trasformazioni e di crisi profonde, che investono stili abitativi, modelli di famiglia, consapevolezza etnica, opportunità socioeconomiche.

Si sa anche che i poveri diventano sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi, con in mezzo la classe demografica media che sta scendendo al di sotto della soglia della povertà.

Allora, cambia anche la percezione della scuola?

Senza dubbio. La classe sociale dei ricchi manderà i propri figli nelle scuole dove si formano i dirigenti. La classe media considererà la scuola e la cultura come il migliore investimento. Gli ultimi della scala socioeconomica non avranno più fiducia nella scuola, perché non la considereranno più come una via d’uscita dalla povertà e l’abbandoneranno.

In questa situazione di tensioni e di conflitti, in una società in trasformazione la scuola deve assumere, quindi, funzioni nuove?

Le scuole dovrebbero diventare luoghi dove venga praticata la reciprocità culturale, dove gli alunni siano messi in grado di acquisire la consapevolezza di quello che fanno, di come lo fanno, del perché lo fanno.

La scuola, quindi, non dovrebbe semplicemente rinnovare le abilità tradizionali - quelle che rendono un paese competitivo sui mercati mondiali - , facendole acquisire per imitazione, ma dovrebbe rinnovare soprattutto l'apprendimento, nel senso di farlo diventare più partecipativo, più proattivo, più collaborativo, più costruttivo di significati.

L'istruzione, in sostanza, dovrebbe uscire dai limiti angusti della prospettiva utilitaristica e strumentale, tipica di una società acquisitiva ed efficientistica, e diventare disinteressata, bene in sé e diritto estendibile a tutti.

Questo nuovo modo di concepire "l'apprendimento come collaborazione nel produrre senso", dovrebbe significare non imporre ai più deboli la versione dei più forti; quindi, dovrebbe portare al riconoscimento delle minoranze e alla sconfitta della visione unilaterale della soluzione dei problemi, alla eliminazione dell'egemonia e dell'unanimismo, con la conseguente creazione di un mondo più solidaristico e più democratico.

Per sperare di realizzare queste finalità, si dovrebbe cambiare anche il rapporto tra docenti e alunni?

Certamente. In classe, ad esempio, si dovrebbe privilegiare il "dialogo", perché esso rappresenta la forma di conversazione che, aprendo alla problematicità, favorisce la possibilità di arricchimento e di perfezionamento dei contenuti.

In questa prospettiva andrebbe cambiata anche la concezione della cultura!

La cultura, infatti, dovrebbe essere intesa come l'acquisizione di tecniche e procedure per gestire e capire il mondo e, in questo senso, vanno apprese le nuove tecnologie (CD-rom, ipertesti, strutture ramificate, ed altre) che ci permettono di controllare e dominare i mezzi di comunicazione di massa e di non esserne schiavi.

La tecnologia è essenziale per la cultura, ma non ne rappresenta certo il punto centrale. Il punto centrale della cultura è la metodologia di ricerca e di uso della "mente proattiva".

Cosa fare per interessare i giovani alla istruzione e alla cultura?

Per operare un cambiamento della nostra cultura e della nostra scuola, bisognerebbe scegliere prima di tutto i problemi cruciali, quelli che gli alunni vivono ogni giorno e a cui sono sensibili, come, ad esempio, il degrado ambientale, le violenze a scuola, la droga, il fumo, gli omicidi nella società locale, lo sfaldamento della famiglia.

I giovani, infatti, vivono dentro queste stesse contraddizioni e cercano con il gruppo dei pari di realizzare un'esperienza vitale accanto all'esperienza familiare, di mediare il rapporto con gli adulti, di riempire il vuoto creato dalla distanza psicologica con gli interlocutori adulti, genitori e docenti in particolare.

Spesso i comportamenti devianti nascono proprio dalla necessità di "rendersi visibili" alla società degli adulti, come sottolinea Palmonari (citato in "Elementi di sociologia dell'educazione", a cura di Elena Besozzi).

La scuola con funzioni nuove deve significare che essa dovrebbe raccordarsi, appunto, con le esigenze dei giovani, con il desiderio di acquistare una identità e sviluppare una personalità autonoma.

Una identità che, come dice il filosofo Paul Ricoeur, deve essere concepita come "identità narrativa, dinamica" che fa pensare ad una continua dialettica di accordo e disaccordo tra azione e agente, tra sé e l'altro, mantenendo sempre presente il legame con la responsabilità.

Alla luce di questa teoria narrativa e processuale dell'identità, e quindi dal riconoscimento dell'alterità e della differenza e al contempo della responsabilità del soggetto, è possibile procedere ad una ricostruzione del legame sociale e all'attenuazione dei problemi della devianza.

Quando si è sottolineato l'importanza del "dialogo" nella scuola, si voleva proprio chiarire il principio fondamentale di una scuola con funzioni nuove, in cui possano convivere autonomia e reciprocità, in una continua approssimazione verso l'altro, in cui si impara a leggere il modo in cui l'altro legge il mondo; dove le diversità non vanno ridotte al silenzio; dove c'è una continua dialettica tra libertà individuale e legame sociale verso le istituzioni.

Per quale ragione insiste sulla forma dialogica?

La forma dialogica si rende necessaria, anche perché adeguata alla nuova visione della mente umana.

Oggi, gli psicopedagogisti fanno notare che la mente solitaria probabilmente è stata la proiezione della nostra ideologia occidentale.

La mente non è più una semplice "tabula rasa", né una rete di relazioni logiche, ma è una mente orientata ai problemi, interpretativa, diretta verso gli scopi, alla ricerca di rapporti con altre menti attive, con gli altri e con i loro punti di vista.

La mente, poi, costruisce i discorsi, servendosi delle idee acquisite, concatenandole tra loro secondo regole grammaticali e sintattiche, per giungere ad una conclusione e alla comunicazione strutturata.

A proposito di comunicazione, che rapporto esiste tra essa e l’educazione?

Voglio sottolineare che ogni educazione è sempre comunicazione; pertanto, non ci può essere contrapposizione tra educazione e comunicazione. Come il pensiero è sempre pensiero di qualcosa, anche la comunicazione è sempre processo dialettico e interattivo e, quindi, avviene all'interno di legami mediati, "inter-mediati", nel senso che c'è sempre un termine intermedio di confronto all'interno dei flussi comunicativi.

Come si struttura la personalità di un ragazzo?

Quando abbiamo accennato alla concezione dell'identità narrativa, abbiamo voluto evidenziare che la personalità di ciascun alunno si struttura proprio nella conversazione con se stesso e con gli altri, nello sperimentare l'altro come differenza, nel prestare attenzione all'altro che genera in noi tensione, ciò che giustifica l'impegno e la fatica di crescere.

Questa finalità della scuola comunicativa si può realizzare, se, come abbiamo detto, i problemi cruciali e le procedure per riflettere su di essi entrano a far parte della scuola e del lavoro che si svolge in classe.

Se, invece, lasciamo fuori dell'aula, per convenienza o per delicatezza, gli argomenti scottanti, la scuola comincia a presentare un aspetto così estraneo e così lontano dal mondo, che molti ragazzi potrebbero non sentirsi più a loro agio e a non trovare più posto al suo interno per se stessi e per i loro amici.

I ragazzi potrebbero chiedersi: che cosa ci faccio in una istituzione che lascia fuori della porta i problemi della vita reale, della strada, della paura di vivere in quartieri degradati?

E sono soprattutto i ragazzi delle classi più povere a non amare la scuola, perché la sentono troppo astratta e separata dalla vita reale, come già detto.

Sono d’accordo con le sue affermazioni e ne traggo la conclusione che in tal modo si può dare una spiegazione – ma non è la sola – dell’ origine del fenomeno della dispersione scolastica.

Prima di terminare, vorrei conoscere il suo pensiero sull’accusa che viene rivola agli insegnanti americani di essere i colpevoli del disastro dell’educazione nazionale.

Non sono stati gli insegnanti e le scuole a creare le condizioni che hanno reso così difficile la situazione educativa americana. Non hanno creato loro una classe sociale inferiore. E non avrebbero mai potuto compromettere la missione di ricerca e di sviluppo di un'industria competitiva quale l'americana come hanno fatto gli avventurieri che negli anni Ottanta hanno dato la scalata alle imprese investendo in azioni-spazzatura. Né hanno creato, come hanno fatto gli speculatori di borsa e gli speculatori immobiliari, un mondo di senzatetto da una parte e di consumisti dall'altra, che oggi affliggono la nostra economia e minano la nostra determinazione. Non sono loro i responsabili del problema della droga, che adesso Washington propone ironicamente di risolvere affidandone il compito di prevenzione alle scuole, invece di bloccare l'afflusso di stupefacenti nel nostro paese o di distruggere i cartelli nostrani della droga.

Come ben riflettono e descrivono anche la nostra situazione italiana queste osservazioni critiche!

Per migliorare il sistema educativo e renderlo idoneo a guidare il futuro, diventa necessario, allora, avere idee chiare su dove vogliamo andare e su quale tipo di umanità vogliamo essere.

Per Bruner l'obiettivo non deve essere quello di formare una società-azienda competitiva sui mercati mondiali, ma di formare una nazione "nella quale e per la quale valga la pena di vivere".

Certo, non bisogna negare l'importanza di avere lavoratori con una solida preparazione scientifica e matematica, in grado di competere ora con i Giapponesi, i Cinesi e gli Indiani.

Non dimentichiamo, però, che i "cambiamenti rivoluzionari", quelli che aprono nuovi orizzonti culturali, sono stati portati avanti non da avventurieri, da speculatori di borsa o immobiliari, da spacciatori di droga, bensì da poeti, commediografi, musicisti, filosofi.

E’ per questo - Bruner conclude - che "che in un regime di tirannia i primi ad andare in prigione sono i romanzieri , i poeti, i filosofi, i pensatori. E' per questo che io li voglio in una classe democratica: perché ci aiutino a vedere ancora, in modo nuovo".

E come dargli torto?

( Intervista realizzata sulla base dell’opera di J. Bruner: “La cultura dell’educazione”, Feltrinelli, Milano, 2000)

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Edmondo De Amicis, "Cuore"

17 Aprile 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #recensioni, #poli patrizia, #saggi

Cuore

Edmondo De Amicis

Garzanti , 1968

 

 

“Oggi primo giorno di scuola. Passarono come un sogno quei tre mesi di vacanza in campagna! Mia madre mi condusse questa mattina alla sezione Baretti a farmi iscrivere per la terza elementare: io pensavo alla campagna, e andavo di malavoglia. Tutte le strade brulicavano di ragazzi; le due botteghe di libraio erano affollate di padri e di madri che compravano zaini, cartelle e quaderni, e davanti alla scuola s’accalcava tanta gente, che il bidello e la guardia civica faticavano a tener sgombra la porta.”

 

No, non siamo in Diagon Alley. No, non ci sono Harry, Ron e Hermione che, frettolosamente, fanno gli ultimi acquisti di bacchette e scope magiche prima di prendere il treno per Hogwarts.

Eppure la sensazione è la stessa: il formicolante inizio di un nuovo anno scolastico che sarà pieno di novità, di promesse, ma anche di difficoltà. Enrico Bottini non è Harry Potter e Torino non è Londra ma anche lui, per crescere, dovrà scontrarsi con una realtà non sempre piacevole, non sempre corrispondente a quelli che sono i sogni di un bambino. E il successo di questo romanzo, almeno in Italia, fu paragonabile a quello della saga inglese.

Libro Cuore, dunque, non solo Cuore, “il libro” per antonomasia, capace di rimanere nell’immaginario collettivo come emblema della didattica morale.

Pubblicato nel 1886 dalla casa editrice milanese Treves, "Cuore" di Edmondo De Amicis (1846 - 1908) racconta, sotto forma di diario, l’anno scolastico di una terza elementare torinese, con il protagonista Enrico Bottini, i compagni di scuola di quest’ultimo, più altri caratteri di contorno. Chi non ricorda il buon Garrone e il perfido Franti, il muratorino muso di lepre, il gobbino Nelli, il superbo Nobis, il maestro Perboni - solitario e dabbene - la maestrina dalla penna rossa? Alcune figure sono diventate tipiche, come Derossi, sinonimo ormai di primo della classe.

Quella classe diventa la finestra da cui si guarda l’Italia dell’ultimo ottocento”, afferma il Cappuccio. Oltre agli alunni, ai bidelli e agli insegnanti, si affacciano nella storia le famiglie, con le loro diverse appartenenze sociali, con i loro mestieri, le loro miserie e nobiltà. Vi è rappresentata Torino, con le strade, le piazze, il circo, i soldati che sfilano, ma vi è raccontata anche l’Italia postunitaria o, almeno, vi è l’intento d’inventarla attraverso un’operazione di amalgama, di fusione.

L’aula è una zona franca interclassista, nella quale convivono piccolo e alto borghesi, operai e sottoproletari. Il maestro Perboni, i genitori, cercano di stabilire e inculcare un codice comune di valori da condividere, basati sul trittico Dio, Patria, Famiglia. Un faticoso tentativo di accordo in un’Italia appena fatta che, purtroppo, resterà disuguale e disunita ancora troppo a lungo.

 

Ricordatevi bene di quello che vi dico. Perché questo fatto potesse accadere, che un ragazzo calabrese fosse come in casa sua a Torino, e che un ragazzo di Torino fosse come a casa propria a Reggio di Calabria, il nostro paese lottò per cinquant’anni, e trentamila italiani morirono. Voi dovete rispettarvi, amarvi tutti fra voi; ma chi di voi offendesse questo compagno, perché non è nato nella nostra provincia, si renderebbe indegno di alzare mai più gli occhi da terra quando passa una bandiera tricolore.”

 

L’intento educativo è debordante in ognuno degli episodi ma, soprattutto, nei famosissimi racconti mensili a carattere risorgimentale, patriottico, edificante. Arcinoti La piccola vedetta lombarda, Dagli Appennini alle Ande, Il piccolo scrivano fiorentino, etc, letti e riletti dai bambini di ogni epoca, ancora capaci di strappare una lacrima a nonni e nipoti. E, tuttavia, questi stessi racconti dall’intento moralistico e didattico gettano un occhio alla questione sociale, occupandosi della vita militare, della condizione degli insegnanti elementari, dell’emigrazione.

La critica ascrive De Amicis al manzonismo minore, lo considera un autore mediocre per la prosa piana e discorsiva, l’intento troppo scoperto di elevazione morale, il “corto respiro” della narrazione. Se ne sono fatte decine di parodie, Umberto Eco ha addirittura ribaltato la prospettiva nel suo “elogio di Franti”, dove il cattivo è eletto a unico baluardo sovversivo contro una società mediocre che svilupperà il fascismo. Eppure il librone, almeno per quelli delle passate generazioni, restava una pietra miliare, da tenere sulle ginocchia e leggere insieme a mamme e nonne, commuovendosi per certi eroismi che sfociavano sempre nell’estremo sacrificio di sé, in quel clima funebre che doveva essere comune in un’epoca nella quale la mortalità infantile era alta e le infezioni abbassavano la speranza di vita dei cittadini. Un clima che era, tuttavia, anche di grande fiducia nel futuro, nel progresso, nel miglioramento al quale sembrava inevitabile andare incontro, grazie soprattutto alla diffusione della cultura e dell’alfabetizzazione.

 

“Immagina questo vastissimo formicolio di ragazzi di cento popoli, questo movimento immenso di cui fai parte, e pensa: - Se questo movimento cessasse, l’umanità ricadrebbe nella barbarie; questo movimento è il progresso, la speranza, la gloria del mondo. - Coraggio dunque, piccolo soldato dell’immenso esercito. I tuoi libri sono le tue armi, la tua classe è la tua squadra, il campo di battaglia è la terra intera, è la vittoria è la civiltà umana. Non essere un soldato codardo, Enrico mio.”

 

C’è da chiedersi, in questi giorni bui, dove siano finiti certi ideali.

 

 

Today first day of school. Those three months of vacation in the countryside passed like a dream! My mother took me to the Baretti section this morning to get me enrolled for the third grade: I thought about the countryside, and I was reluctant. All the streets were teeming with boys; the two bookseller shops were crowded with fathers and mothers who bought backpacks, folders and notebooks, and in front of the school there were so many people, that the janitor and the civic guard struggled to keep the door clear. "

 

No, we are not in Diagon Alley. No, there are no Harry, Ron and Hermione who hastily make the last purchases of magic wands and brooms before taking the train to Hogwarts.

Yet the feeling is the same: the tingling start of a new school year that will be full of news, promises, but also of difficulties. Enrico Bottini is not Harry Potter and Turin is not London but he too, in order to grow, will have to face a reality that is not always pleasant, not always corresponding to what a child's dreams are.

And the success of this novel, at least in Italy, was comparable to that of the English saga.

Libro cuore, therefore, not only Cuore, "the book" par excellence, capable of remaining in the collective imagination as an emblem of moral teaching.

Published in 1886 by the Milanese publishing house Treves, "Cuore" by Edmondo De Amicis (1846 - 1908) tells, in the form of a diary, the school year of a third elementary school in Turin, with the protagonist Enrico Bottini, his classmates, plus other minor characters. Who does not remember the good Garrone and the perfidious Franti, the Muratorino with the hare face, Nelli the hunchback, the superb Nobis, the master Perboni - solitary and worthy - the teacher with the red feather. Some figures have become typical, such as Derossi, now synonym of top of the class.

 

"That class becomes the window from which we look at Italy in the late nineteenth century," says Cappuccio. In addition to the pupils, the janitors and the teachers, families, with their different social affiliations, with their trades, their miseries and nobility, appear in history. Turin is represented, with the streets, squares, the circus, the soldiers parading, but post-unification Italy is also shown or, at least, there is the intention of inventing it through an amalgamation, a merger .

 

The classroom is an interclass free trade zone, in which small and high bourgeois, workers and subproletarians coexist. Maestro Perboni, the parents, try to establish and inculcate a common code of values ​​to share, based on the trinity God, Homeland, Family. A tiring attempt to reach an agreement in a newly made Italy which, unfortunately, will remain unequal and disunited for too long.

 

Remember well what I tell you. In order for this to happen, that a Calabrian boy was like in his home in Turin, and that a Turin boy was like at home in Reggio Calabria, our country fought for fifty years, and thirty thousand Italians died. You must respect yourselves, love each other among yourselves; but who of you offended this companion, because he was not born in our province, would make himself unworthy of ever raising his eyes from the ground when a tricolor flag passes. "

 

The educational intent is overflowing in each of the episodes but, above all, in the famous monthly stories of a Risorgimental, patriotic and edifying nature. Well known The little Lombard lookout, From the Apennines to the Andes, The little Florentine scribe, etc, read and reread by children of all ages, still capable of bringing tears to the eys of grandparents and grandchildren. And, however, these same stories with a moralistic and didactic intent offer a glimpse of the social question, dealing with military life, the condition of elementary teachers, emigration.

The criticism ascribes De Amicis to the minor Manzonism, considers him a mediocre author for his flat and discursive prose, the too open intention of moral elevation, the "short breath" of the narrative. Dozens of parodies have been made, Umberto Eco has even reversed the perspective in his "praise of Franti", where the villain is elected as the only subversive bulwark against a mediocre society that will develop fascism. Yet the book, at least for those of past generations, remained a milestone, to be kept on the knees and read together with mothers and grandmothers, moved by certain heroisms that always resulted in the extreme self-sacrifice, in that funeral atmosphere that had to be common at a time when infant mortality was high and infections lowered citizens' life expectancy. A climate that was, however, also of great confidence in the future, in progress, in the improvement which seemed inevitable, thanks above all to the spread of culture and literacy.

"Imagine this vast swarming of boys of a hundred peoples, this immense movement of which you are a part, and think: - If this movement ceased, humanity would fall into barbarism; this movement is the progress, the hope, the glory of the world. - Courage then, little soldier of the immense army. Your books are your weapons, your class is your team, the battlefield is the whole earth, and victory is human civilization. Don't be a cowardly soldier, my Enrico. "

There is a question, in these dark days, where certain ideals have gone.

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Pascoli a Livorno

16 Aprile 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #poesia, #personaggi da conoscere, #luoghi da conoscere

Penso a Livorno, a un vecchio cimitero

di vecchi morti; ove a dormir con essi

niuno più scende; sempre chiuso; nero

d'alti cipressi.

Tra i loro tronchi che mai niuno vede,

di là dell'erto muro e delle porte

ch'hanno obliato i cardini, si crede

morta la Morte,

anch'essa. Eppure, in un bel dì d'Aprile,

sopra quel nero vidi, roseo, fresco,

vivo, dal muro sporgere un sottile

ramo di pesco.

Figlio d'ignoto nocciolo, d'allora

sei tu cresciuto tra gli ignoti morti?

Ed ora invidi i mandorli che indora

l'alba negli orti?

Od i cipressi, gracile e selvaggio,

dimenticati, col tuo riso allieti,

tu trovatello in un eremitaggio

d'anacoreti?”

 

Giunge improvvisa, nel 1887, a Giovanni Pascoli (1855 – 1912) la notizia che il ministero lo ha trasferito da Massa a Livorno, dove ha ottenuto un incarico presso il liceo Niccolini Guerrazzi. Sgomento, si confida col Carducci che lo esorta comunque ad andare verso il cambiamento. Sappiamo tutto del trasferimento grazie agli scritti della sorella Maria, “Lungo la vita di Giovanni Pascoli”.

Dopo l’uccisione del padre e gli altri tragici lutti familiari, Giovannino ha preso con sé Ida e Maria, le due sorelle, e con loro si trasferisce nella nostra città. Il 31 ottobre parte in treno, le sorelle lo raggiungono su un barroccio carico di mobili, con la gabbia dell’uccellino Ciribì. La gattina di famiglia sfugge dal canestro e non si fa trovare. Sarà un bravo vicino a riconsegnarla la settimana successiva.

Dal luminoso alloggio campestre di Massa si ritrovano catapultati al quarto piano di uno squallido appartamento in via Micali. Giovanni comincia a insegnare al liceo, dà anche molte lezioni private ma i soldi non bastano mai, fra cambiali da pagare, mobili da acquistare e libri indispensabili per l’insegnamento e gli studi.

La famiglia vive in grandi ristrettezze, Giovanni non si integra subito sul luogo di lavoro e si sente poco stimato dai colleghi. Continua ad aspirare, come tutti gli insegnati livornesi, a un posto in Accademia, ma intanto accetta anche un incarico in un collegio di Ardenza. Ha solo una mezz’ora d’intervallo nella quale corre a casa per mangiare un boccone ma finisce, come ci racconta Maria, per addentare pane e salame in carrozza. Prende anche in casa uno studente che prepara senza successo per gli esami.

Il tempo libero è poco, con due sorelle a carico c’è da pensare solo a sbarcare il lunario. Nonostante ciò, è qui che prende corpo parte della raccolta Myricae, poi pubblicata dall’editore Raffaello Giusti, è qui che si delinea al poetica pascoliana, antiretorica, aderente alle cose.

Ed è in questo periodo che Giovanni s’innamora di Lia, una giovane cantante figlia di un musicista che abita davanti al liceo. In una poesia ce la descrive con le vesti troppo corte per l’età.

 

Lia giovinetta, ardisci dunque, parla;

di’: « Cara madre, corta è piú la gonna

che non convenga; or pensa ad allungarla.

Fiere pupille seguono moleste

i passi miei di giovinetta donna;

ond’io vorrei piú schermo della veste ».

Troppo io so bene quale a me talora

da te derivi immemore malia,

che gli occhi avvallo, e il volto trascolora;

di che tu avvampi, o giovinetta Lia!

 

Vicissitudini familiari, la possibilità poi evitata che la sorella Ida sposi un giovane non gradito, gli fanno volgere le spalle all’amore per concentrarsi sui doveri di famiglia.

Anche se gravata da pensieri economici, la vita dei fratelli è serena. Frequenta casa il poeta Giovanni Marradi; Pietro Mascagni musica la lirica “Sera d’ottobre”.

 

Lungo la strada vedi sulla siepe

Ridere a mazzi le vermiglie bacche:

nei campi arati tornano al presepe

tarde le vacche.

Vien per la strada un povero che il lento

Passo tra foglie stridule trascina:

nei campi intuona una fanciulla al vento:

fiore di spina!

 

Sono frequenti le incursioni alla fiaschetteria in via Maggi, insieme a Carducci, o le passeggiate fino a piazza Cavour per acquistare dolci che allietano le serate. La casa si riempie di uccellini ma il preferito resta sempre Ciribì.

Quando i problemi economici un poco si acquetano, si trasferiscono tutti in una villetta con giardino, sempre in via Micali. Giovanni vince il Veianus, un concorso olandese di poesia latina, ma è costretto a impegnarsi la medaglia per risolvere il problema di una certa cambiale e le sorelle finiscono per mettersi nelle mani di un usuraio.

Il soggiorno labronico termina nel 1895 con una nomina in altra città. Livorno, che lo aveva accolto con freddezza, gli tributa stima e onori, richiamandolo nel 1911 per fargli tenere un discorso all’Accademia in occasione del cinquantenario dell’unità d’Italia.

Il legame con la città resta e se ne sentono gli influssi in numerose poesie, fra le quali Il conte Ugolino.

 

Ero all'Ardenza, sopra la rotonda

dei bagni, e so che lunga ora guardai

un correre, nell'acqua, onda su onda,

di lampi d'oro. E alcuno parlò: «Sai?»

(era il Mare, in un suo grave anelare)

«io vado sempre e non avanzo mai».

E io: «Vecchione,» (ma l'eterno Mare

succhiò lo scoglio e scivolò via, forse

piangendo) «e l'uomo avanza, sì; ti pare?»

E l'occhio, vago qua e là mi corse

alla Meloria...”

 

******

 

Penso a Livorno, a un vecchio cimitero

di vecchi morti; ove a dormir con essi

niuno più scende; sempre chiuso; nero

d'alti cipressi.

Tra i loro tronchi che mai niuno vede,

di là dell'erto muro e delle porte

ch'hanno obliato i cardini, si crede

morta la Morte,

anch'essa. Eppure, in un bel dì d'Aprile,

sopra quel nero vidi, roseo, fresco,

vivo, dal muro sporgere un sottile

ramo di pesco.

Figlio d'ignoto nocciolo, d'allora

sei tu cresciuto tra gli ignoti morti?

Ed ora invidi i mandorli che indora

l'alba negli orti?

Od i cipressi, gracile e selvaggio,

dimenticati, col tuo riso allieti,

tu trovatello in un eremitaggio

d'anacoreti?”

Suddenly, in 1887, Giovanni Pascoli (1855 - 1912) got the news that the ministry had transferred him from Massa to Livorno, where he got an assignment at the Niccolini Guerrazzi high school. Dismayed, he confided in Carducci who urged him to go anyway. We know all about the transfer thanks to the writings of his sister Maria, "Along the life of Giovanni Pascoli".

After the killing of his father and the other tragic family bereavements, Giovannino took Ida and Maria, the two sisters, with him and moved with them to the Tuscan city. On October 31, he leaves by train, the sisters join him on a cart loaded of furniture, with the bird cage of Ciribì. The family kitten escapes from the basket and is not found. He will be returned by a good neighbour  the following week.

From the bright country accommodation in Massa they find themselves catapulted to the fourth floor of a squalid apartment in via Micali. Giovanni starts teaching in high school, he also gives many private lessons but the money is never enough, including bills of exchange to be paid, furniture to buy and books essential for teaching and studying.

The family lives in a straitened financial situation, Giovanni does not immediately integrate into the workplace and feels little esteemed by his colleagues. He continues to aspire, like all Livorno teachers, to a place in the Academy, but in the meantime he also accepts an assignment in a boarding school in Ardenza. He has only half an hour's break in which he runs home to have a bite to eat but ends up, as Maria tells us, to bite bread and salami in a carriage. He also takes a student home whom he prepares for exams without success.

There is little free time, with two dependent sisters there is only room for making ends meet. Despite this, it is here that part of the Myricae collection takes shape, then published by the publisher Raffaello Giusti, it is here that  anti-rhetorical, adhering to things Pascoli’s poetry is outlined .

And it is in this period that Giovanni falls in love with Lia, a young singer, daughter of a musician who lives in front of the high school. In a poem he describes her with clothes too short for her age.

 

“Lia giovinetta, ardisci dunque, parla;

di’: « Cara madre, corta è piú la gonna

che non convenga; or pensa ad allungarla.

Fiere pupille seguono moleste

i passi miei di giovinetta donna;

ond’io vorrei piú schermo della veste ».

Troppo io so bene quale a me talora

da te derivi immemore malia,

che gli occhi avvallo, e il volto trascolora;

di che tu avvampi, o giovinetta Lia!”

 

Family vicissitudes, the possibility then avoided that his sister Ida marries an unwelcome young man, make him turn his back on love to focus on family duties.

Even if burdened by economic thoughts, the life of the brother and sisters is peaceful. The poet Giovanni Marradi frequented the house; Pietro Mascagni music the lyric "Evening of October".

 

“Lungo la strada vedi sulla siepe

Ridere a mazzi le vermiglie bacche:

nei campi arati tornano al presepe

tarde le vacche.

Vien per la strada un povero che il lento

Passo tra foglie stridule trascina:

nei campi intuona una fanciulla al vento:

fiore di spina!”

 

Incursions to the tavern in Via Maggi, along with Carducci, or walks to Piazza Cavour to buy sweets that cheer the evenings, are frequent. The house is filled with birds but the favorite is always Ciribì.

When the economic problems subside a little, they all move to a house with a garden, always in via Micali. Giovanni wins the Veianus, a Dutch Latin poetry competition, but is forced to bring the medal to the pawn to solve the problem of a certain bill of exchange and the sisters end up putting themselves in the hands of a usurer.

The Labronic stay ends in 1895 with a nomination in another city. Livorno, who had greeted him coldly, pays him esteem and honuors, calling him back in 1911 to have him give a speech at the Academy on the occasion of the fiftieth anniversary of the unification of Italy.

The link with the city remains and its influences can be felt in numerous poems, including Il Ugolino.

Ero all'Ardenza, sopra la rotonda

dei bagni, e so che lunga ora guardai

un correre, nell'acqua, onda su onda,

di lampi d'oro. E alcuno parlò: «Sai?»

(era il Mare, in un suo grave anelare)

«io vado sempre e non avanzo mai».

E io: «Vecchione,» (ma l'eterno Mare

succhiò lo scoglio e scivolò via, forse

piangendo) «e l'uomo avanza, sì; ti pare?»

E l'occhio, vago qua e là mi corse

alla Meloria...”

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L’acqua, inesauribile fonte di bellezza, benessere e utilità, bene pubblico sommo.di Adriana Pedicini

5 Aprile 2013 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #saggi

L’acqua, inesauribile fonte di bellezza, benessere e utilità, bene pubblico sommo.

Il paesaggio, con la fonte coperta da uno o più alberi che la proteggono dal sole, con acqua freschissima che ristora gli animali assetati, rientra nel tipo di paesaggio “ameno”, tanto diffuso nella letteratura greca dal IV secolo in poi. Esempi numerosi sono presenti nella poesia epigrammatica greca ed è un topos che avrà vita lunghissima e feconda in tutta la letteratura occidentale.

Il paesaggio ameno è delineato nell’ode Fons Bandusiae con l'essenzialità classica solita a Orazio e meravigliosa è la nitidezza, veramente splendidior vitro, con cui l'insieme e i particolari sono illuminati. Non manca poi un'altra impronta propria di Orazio: l'amore per le piccole e umili cose, che la poesia può rendere grandi e nobili, per un piccolo mondo la cui bellezza il poeta rivendica.

L'orgoglio del poeta per la propria arte poetica è presente, ma non bisogna dimenticare che l'attenzione gravita sempre intorno alla fonte: il valore è in quel piccolo mondo e la poesia lo scopre (non lo inventa) per rivendicarlo. Il gusto per la bellezza fa un tutt'uno con un determinato gusto morale.

Traduzione

O fonte di Bandusia, più lucente del cristallo,

degno di un vino dolce non senza fiori,

domani ti verrà offerto un capretto,

a cui la fronte gonfia per le corna pronte

promette sia amore sia battaglie.

Invano: infatti ti macchierà le fresche acque

di rosso sangue il rampollo del gregge ruzzante.

Non riesce a toccarti la terribile stagione della canicola bruciante,

tu offri la gradita frescura ai buoi stanchi del vomere

e alle pecore vagabonde.

Anche tu diventerai famosa tra le fonti

perché io canto gli elci che pendono

sulle rocce cave da dove

stillano le tue acque sonore.

L’acqua come origine della vita attraverso elementi storici, etnoculturali e sociologici e la sua funzione terapeutica nel tempo.

“Quando lassù i cieli non avevano ancora un nome,

E in basso la terra non era chiamata con un nome,

E il primordiale Apsu (personificazione dell’oceano), che li generò,

E Mummu e Tiamat (mostro marino), madre di tutti loro,

Confondevano le loro acque in un solo tutto…”.

Enuma Elish (Quando lassù)il poema cosmogonico dei Sumeri

Nella tradizione ellenica, sin dall’antichità i quattro elementi: acqua, aria, fuoco e terra erano messi in relazione tra loro e tale interazione era ritenuta il motore dell’incessante fluire dell’universo.

L’acqua ha sempre avuto una posizione “d’inizio”, la Grande Madre, l’”Oceano primordiale”, da essa trae origine ogni principio vitale: la vita sul pianeta ha inizio dall’acqua, nel liquido amniotico si muove il seme dell’uomo; l’acqua è l’elemento principe, carico di significati cosmici, simbolici, mitici.

I significati simbolici dell’acqua sono principalmente: sorgente di vita, mezzo di purificazione, centro di rigenerazione.

L’acqua è l’elemento che è sempre stato presente, nei miti della creazione:

Nella Genesi leggiamo “…lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque…”; nella tradizione induista, troviamo l’immagine di un uovo galleggiante sulle acque primordiali, il Brahamanda, generatore del mondo; ancora, secondo i midrashim, studi approfonditi sulle scritture ebraiche, nella storia della creazione le acque superiori non volevano dividersi da quelle inferiori e Dio era triste perché vedeva il loro dolore; solo quando Egli riuscì a separarle, poté iniziare la creazione della terra.

L’Antico Testamento descrive poi le meraviglie dell’acqua: presso i pozzi del deserto il popolo ebreo nomade celebrava l’amore e i matrimoni. L’acqua è un segno di benedizione: il giusto è paragonato ad un albero che cresce lungo il corso di un fiume.

Per i Greci la divinità marina Proteo è l’elemento acqueo della genesi, e, poiché l’acqua non ha forma, eccelle nei cambiamenti e nelle metamorfosi; qui l’acqua è pura potenzialità, capace di sconfinare nel tutto. (Luigia Bressan “Nettuno”).

Il nome di Nettuno, divinità marina dei Latini, deriva da “Neptus” che significa “sostanza umida”; l’etimologia rimanda al principio umido che è alla “radice delle origini”; Per gli Orfici il principio umido fa germogliare le anime e le immette di nuovo nel circuito cosmico della vita; l’umido quindi conduce anche alla reincarnazione.

Mircea Eliade descrive l’acqua come ”Principio dell’indifferenziazione e del virtuale, fondamento di ogni manifestazione cosmica, ricettacolo di tutti i germi; le acque simboleggiano la sostanza primordiale da cui nascono tutte le forme e alle quali tornano per regressione o cataclisma (diluvio universale).

Le acque sono al principio e tornano alla fine di ogni ciclo storico o cosmico; esse sono germinative e racchiudono nella loro unità indivisa le virtualità di tutte le forme.

Nella cosmogonia, nel mito, nel rituale, nell’iconografia, le acque svolgono la stessa funzione.

L’immersione nell’acqua simboleggia la regressione nel preformale, la rigenerazione totale, la nuova nascita, perché l’immersione equivale ad una dissoluzione delle forme, ad una reintegrazione nel mondo indifferenziato della preesistenza. (Battesimo di S. Giovanni)

E l’uscita dalle acque ripete il gesto cosmogonico della manifestazione; il contatto con l’acqua implica rigenerazione, perché la dissoluzione è seguita una nuova nascita e perché l’immersione fertilizza e aumenta il potenziale di vita e di creazione”.(Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni pagg.193-194)

La percezione immediata dell’acqua porta in sé il senso di un riconoscimento antico, ricco di mistero e sacralità, presente fin dagli albori del pensiero simbolico, carica di valenze di vita o di morte legate alla sopravvivenza dei popoli.

La misteriosità del mare, gli esseri nascosti che lo popolano, gli inganni e la seduzione dell’ignoto, apportano all’acqua proprietà fecondanti o mortifere, come la fonte dell’eterna giovinezza o le acque nefaste dello Stige, fiume dell’oltretomba.

La doppia valenza vita -morte, rigenerazione- purificazione, legano l’acqua ad immagini arcaiche di rinascita e saggezza, spesso correlate a riti iniziatici; per i Greci, ad esempio, l’acqua recava il dono della profezia o la condanna della follia, l’acqua della fonte Castalia di Delfi forniva invece l’ispirazione alla Pizia.

Proprio per la sua natura fluida ed il suo incessante scorrere, essa collega la vita terrena e sepolta, noto e ignoto, visibile e nascosto, manifesto e occulto...

Nel linguaggio alchemico l’acqua è simbolo dell’anima, descritta nel suo cammino tra stati di pace ed inquietudine, ora minacciosa ora pacificatrice.

L’acqua è agente di morte e rinascita: basti pensare al rito del Battesimo presente in molte religioni; al potere rigenerante dell’acqua del Gange immergendosi nella quale durante il mese sacro di Magha (gennaio-febbraio), si attinge purezza dal cielo; al Diluvio che rinnova un’umanità corrotta; al passaggio del popolo ebraico attraverso il Mar Rosso per raggiungere una vita nuova; agli antichi che immergevano annualmente nell’acqua i simulacri di Afrodite, Athena e Cibele.

Molte sono le leggende ed i racconti legati alle manifestazioni dell’acqua sotto forma di fonti, fiumi, mari e oceano.

La fonte sgorga spesso al centro di un giardino, un paradiso terrestre, dividendosi poi in quattro fiumi verso le quattro direzioni dello spazio (i punti cardinali); spesso nelle costruzioni arabe al centro di un giardino quadrato vi è una fontana. Per tradizione la fonte dell’immortalità nasce ai piedi di un albero ed è simbolo del continuo ringiovanimento; anche Alessandro il Grande avrebbe ricercato questa fonte senza mai trovarla.

Nelle leggende irlandesi si parla di una fonte guaritrice in cui si gettavano i guerrieri feriti in battaglia presso la quale il dio della medicina aveva messo un esemplare di ogni pianta medicamentosa.

Molti racconti su fonti, pozzi, fiumi riguardano le virtù curative delle acque.

In questi luoghi, a guardia delle magiche acque vi erano le ninfe per le fonti, le Nereidi per le acque marine, le limniadi per i laghi e le oceanidi per gli oceani; anche le credenze cristiane spesso mettono le fonti sotto la protezione di martiri e santi.

Nel passato si pensava che le proprietà terapeutiche dell’acqua riuscissero a curare le mostruosità come piaghe e pustole, proprio perché essa sgorgava da sottoterra, cioè dal regno dei mostri.

Per i Germani dalla fonte di Mimir sgorgava l’acqua del sapere ed il dio Odino cedette un occhio pur di berla.

Il fiume è strettamente legato allo scorrere della vita e delle cose: la sua discesa verso l’oceano è la riunione delle acque al tutto, la risalita è il ritorno alla sorgente divina, la traversata corrisponde al superamento di un ostacolo.

Lo stesso itinerario geografico del Gange, ad esempio, è rappresentativo delle tappe spirituali dell’anima umana, in quanto esso scorre dall’alto e proviene dalla capigliatura di Shiva.

Una credenza diffusa presso molti popoli, siano essi Greci, Indiani, Celti, Egizi, è quella che alla fine del pellegrinaggio terreno ogni anima debba attraversare una massa d’acqua che divide il presente dal passato, il cui fluire cancella nel viaggiatore i ricordi che lo legano alla vita.

Così il fiume Acheronte per i Latini, il Lete per i Greci, il Nilo per gli Egizi costituiscono lo spartiacque tra il regno della vita e della morte.

I ricordi lavati via dal fiume Lete non vengono però distrutti, piuttosto trasportati in una fonte che sgorga perenne e trasforma i morti in ombre: la fonte Mnemosine.

I mortali benedetti dagli dei possono ascoltare le voci delle Muse che presso la fonte cantano le cose passate e future; in questo modo nulla va perduto e le azioni e gli affetti delle Ombre tornano a far parte del regno dei viventi.

Nelle leggende le acque sono anche distruttive: il Diluvio universale ricorre presso vari popoli e anche una leggenda africana del popolo Amouka narra la scomparsa del paese di Kassipi, che separava la terra dei bianchi da quella dei neri, in seguito ad un’inondazione mandata dal dio Mouloukou per punire la durezza di cuore degli abitanti.

Presso gli Aztechi l’acqua è seme divino che feconda la terra, nel pensiero dei Dogon e dei loro vicini Bambara, invece, l’acqua è anche parola e verbo generatore.

La creazione del mondo è quindi parola umida, a cui si oppone una parola opposta gemella, rimasta fuori dal cielo: la parola secca, che ha solo valore potenziale e non può generare, che non viene espressa e corrisponde ai sogni, all’inconscio.

Questa parola fu rubata al dio creatore Am dallo sciacallo che viene interrogato nelle preghiere dei Dogon.

L’acqua lustrale era usata dai druidi per scongiurare i malefici e nei funerali.

Secondo i Celti alla fine del mondo regneranno incontrastati solo due elementi: l’acqua e il fuoco.

Il mare e l’oceano sono definiti da J. Chevalier e A. Gheerbrant come uno stato transitorio fra le possibilità ancora da realizzare e quelle già realizzate.

Per l’estensione senza limiti della loro superficie ci ricordano l’indifferenziato dell’elemento primordiale, e psicologicamente l’animo umano con le sue infinite passioni espresse simbolicamente dai pericolosi mostri marini, da combattere o da domare.

Nella Teogonia di Esiodo la Terra genera senza amore prima Pontos, il mare sterile, poi in unione con suo figlio Urano, l’Oceano. Dunque per Esiodo l’acqua sterile e l’acqua fecondatrice sono legate alla presenza o all’assenza dell’amore.

Suggestiva sicuramente l’interpretazione esiodea, tuttavia da parte di tutti si può comprendere come l’acqua, dono del Creato, sia la linfa d’amore che rende fertili i campi e disseta uomini e animali. E’ da tempo che si discute se questo bene comune sia da privatizzare sottoponendolo a limiti di utilizzo e di godimento oppure se sia più giusto ritenere il diritto all’acqua una specificità del Diritto alla Vita, come affermato nella Dichiarazione dei diritti umani.

La Risoluzione ONU del 28 luglio 2010 dichiara per la prima volta nella storia il diritto all'acqua un diritto umano universale e fondamentale.

La Risoluzione sottolinea ripetutamente che l'acqua potabile e per uso igienico, oltre ad essere un diritto di ogni uomo, più degli altri diritti umani, concerne la dignità della persona, è essenziale al pieno godimento della vita, è fondamentale per tutti gli altri diritti umani.

La Risoluzione tuttavia non è vincolante, ovvero afferma un principio che ancora raccomanda (non obbliga) gli Stati ad attuare iniziative per garantire a tutti un'acqua potabile di qualità, accessibile, a prezzi economici. È stata approvata dall'Assemblea Generale con 122 voti favorevoli, 41 astensioni e nessun contrario. Altri documenti dell'ONU avevano affermato il diritto all'acqua come diritto di alcune categorie di persone (minorenni, disabili), mai come diritto universale.

E’ auspicabile che tale diritto venga definito a beneficio di tutti, senza alcuna distinzione e senza alcuna speculazione.

L’acqua, inesauribile fonte di bellezza, benessere e utilità, bene pubblico sommo.di Adriana Pedicini
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Adriana Pedicini LA CULTURA DELL'EDUCAZIONE IN UNA SOCIETA' COMPLESSA di Biagio Osvaldo Severini

5 Aprile 2013 , Scritto da Adriana Pedicini Con tag #adriana pedicini, #educazione, #saggi, #biagio osvaldo severini

Biagio Osvaldo Severini

 

La cultura dell’educazione in una società complessa
JEROME BRUNER
Epoca rivoluzionaria. Disagio degli attori educativi. Antinomie e complessità. Cultura rivoluzionaria. Dialogo e istruzione estensibili a tutti. Metodologia della ricerca e mente proattiva. I giovani e i problemi cruciali. Identità narrativa e alterità. Mente interpretativa. Comunicazione ed educazione. Colpa degli insegnanti e degli intellettuali la rovina della scuola e della cultura?

Ci troviamo a vivere un momento di radicale trasformazione delle istituzioni educative che sono o preposte esplicitamente ai processi formativi, o ne sono implicate indirettamente.
Società, famiglia, scuola, gruppo dei pari e mass media sono attraversate da cambiamenti veloci e diversi che le trasformano e le fanno cadere , a volte, in conflitto di competenze e di interessi.
Un’attenzione peculiare viene rivolto alla scuola e all'educazione, ma non si mancherà di accennare ad altre aree tematiche rilevanti nel campo della sociologia dell'educazione.
La scelta cade sulla scuola, perché in essa confluiscono e interagiscono, formalmente o informalmente, le diverse componenti della vita comunitaria.
E anche perché, come sottolinea Vincenzo Cesareo ( "Elementi di sociologia dell'educazione", Carocci editore, Roma, 2004), il sistema formativo è sempre e comunque radicato in una realtà sociale definita, per cui, se quest'ultima è coinvolta in processi di modificazione profonda, è impossibile che esso vi rimanga estraneo a lungo, nonostante eventuali resistenze.
Il disorientamento delle istituzioni educative genera un clima di crisi e di sfiducia, in cui si trovano a disagio sia i genitori, sia gli educatori in genere, sia gli alunni di ogni ordine e grado.
Per cercare di dare un contributo al chiarimento della questione, si può partire dalle riflessioni dello studioso nordamericano Jerome Bruner, esposte nell'interessante lavoro "La cultura dell'educazione".
A questo fine rivolgo al professore - in una intervista immaginaria - alcune domande su specifiche problematiche educative e non solo.
Egregio professore, mi permetta di ricordare che Hegel amava sostenere che, quando bisogna iniziare un discorso, è importante cominciare dal “cominciamento”. Perciò, soffermerò la sua attenzione su una questione preliminare di carattere, diciamo così, terminologico.
Il processo formativo deve essere inteso etimologicamente come attività di “educare”, ossia guidare, o come “educere”, ossia “tirar fuori”?
Il modello da tenere presente deve essere quello di Pitagora, che pretendeva dai suoi allievi l’obbedienza assoluta, secondo il principio dell’ “Ipse dixit”; o viceversa quello di Socrate, secondo il metodo della “maieutica”, dell’aiutare l’allievo a “partorire” la verità, ad arrivare alla conoscenza, impegnando le proprie forze?
Da questa prima problematica scaturiscono, di conseguenza, altri interrogativi.
Nel processo educativo deve, dunque, assumere importanza: il magistrocentrismo (il maestro è il centro), o il puerocentrismo ( il bambino è il centro); l’insegnamento ( “in-signare”, per cui il docente porta dentro la mente del bambino i segni della conoscenza), o l’apprendimento ( “ad-prehendo”, per cui l’allievo con la sua mente si muove per afferrare gli elementi della conoscenza); l’eteroeducazione (per cui si riceve la conoscenza dall’esterno), o l’autoeducazione, per cui ci si educa da soli); la socializzazione ( per cui è l’adulto che sottopone il bambino al processo di acquisizione di comportamenti sociali), o lo sviluppo sociale ( per cui il bambino possiede in sé le spinte a vivere con gli altri)?
Porre l’accento sull’insegnante o sull’alunno comporta una serie di cambiamenti di prospettiva nel processo educativo, negli obiettivi educativi, nell’orientamento scolastico.
Ma comporta anche una visione diversa della concezione della società: la centralità spetta allo Stato o al cittadino, all’autorità o alla libertà, al dogmatismo o al problematicismo?
In sintesi: credere, obbedire e combattere per uno Stato etico assolutistico? O criticare, decidere, dialogare in uno Stato di diritto democratico?
Non sono problemi di poco conto, com’è facile capire.
Certo. Per trovare una soluzione, dobbiamo riflettere sul fatto che in epoche rivoluzionarie la società è sempre dominata dalle contraddizioni. E la nostra è un’epoca rivoluzionaria. Perciò, essa è dominata dalle contraddizioni, dalle antinomie…
…Scusi, nella mia mente subito affiorano i ricordi legati alle famose antinomie della ragione di cui parla Kant, nelle quali l’antitesi sostiene il contrario della tesi; come esempio,cito l’antinomia del mondo: il mondo ha un’origine nel tempo ed è limitato nello spazio (tesi); il mondo non ha origine nel tempo, né nello spazio (antitesi). Secondo la logica formale le antinomie sono un paradosso, perché due proposizioni riferite allo stesso oggetto nello stesso momento non possono essere vere entrambe: il principio del terzo escluso non lo ammette: A o è B o è non-B ( “tertium non datur”).
Anche l’educazione è travagliata dalle contraddizioni.
Infatti, lei elenca tre antinomie del campo pedagogico. Con il suo permesso, le sintetizzo.
La prima riguarda l’individuo e la società. Tesi: l’educazione deve mirare a realizzare le potenzialità dell’individuo; antitesi: l’educazione deve mirare a riprodurre, consevare la cultura della società attuale.
La seconda si riferisce allo sviluppo intrapsichico o allo sviluppo interpersonale. Tesi: l’apprendimento è intrapsichico, allora è centrale l’alunno con le sue doti naturali e bisogna coltivare la mente dei migliori; antitesi: lo sviluppo mentale è interpersonale, allora è importante che l’insegnante fornisca a tutti gli alunni gli attrezzi simbolici con cui sviluppare le doti naturali.
La terza è relativa alla conoscenza locale o alla storia universale. Tesi: la conoscenza locale è valida di per sé e non ha bisogno di una teoria universale per essere convalidata (questa tesi appare nei movimenti estremistici localistici); antitesi: esiste una storia universale che si manifesta nei fatti locali in tempi, luoghi e circostanze precise e ci sono personaggi che si autoproclamano portatori di valori universali.
Come si risolvono queste antinomie?
La soluzione delle antinomie non può essere trovata nel campo della logica formale, ma solo in quello della pragmatica.
Voglio dire che nel campo dell'educazione, per valutare quello che vogliamo insegnare o vogliamo far apprendere, e per sapere in che direzione ci vogliamo muovere, dobbiamo tenere in debito conto queste antinomie. Quindi, capire che la giusta misura non sta nella scelta della tesi o dell'antitesi, ma nel considerare i vari aspetti presenti in una società complessa come la nostra.
Come concepire, allora, il processo e gli obietti educativi?
L'educazione deve essere concepita come un processo anch'esso complesso, intrinsecamente antinomico e interdipendente, in cui confluiscono sviluppo e formazione, auto ed eteroeducazione.
Anche gli obiettivi educativi diventano, di conseguenza, complessi: bisogna tendere a realizzare le potenzialità individuali, ma salvaguardando la società; riconoscere le differenze dei talenti naturali, ma fornendo a tutti gli strumenti della cultura; rispettare le identità locali, ma difendendo anche la coesione come popolo, per evitare sia la torre di Babele dei localismi, sia l'omologazione della globalizzazione.
Quale deve essere, allora, la caratteristica generale della scuola?
Una risposta di carattere generale mi porta ad affermare che la scuola deve essere una comunità propositiva, collaborativa, solidaristica, promotrice di una cultura rivoluzionaria, soprattutto in una situazione di deprivazione.
Per capire meglio, vuole scendere nell’analisi della sua affermazione?
Bene. Alcuni esperimenti psicologici su animali e su bambini hanno dimostrato che essi, se allevati in situazioni di deprivazione sensoriale affettiva e culturale, rivelavano deficienze, quando venivano sottoposti a test relativi a normali compiti di apprendimento e di soluzione di problemi.
Questi esperimenti ci fanno capire, in sintesi, che gli esseri umani, in particolare, presentano le caratteristiche di essere non solo "reattivi", ma anche "proattivi".
Gli uomini, in sostanza, non solo necessitano delle stimolazioni, ma le cercano, soprattutto vogliono interagire con gli altri, vogliono essere aiutati a sviluppare le loro capacità.
La scuola, allora, deve intraprendere un'azione positiva nel senso di spingere gli alunni a vivere in una comunità scolastica propositiva, per permettere loro di costruire le proprie competenze e di sviluppare un effettivo senso di appartenenza ad una comunità collaborativa.
La comunità scolastica deve, quindi, strutturarsi come un ambiente, in cui si elabora un progetto legato agli interessi degli alunni e che essi stessi contribuiscono ad organizzare con le loro idee.
Solo così operando, si può sperare di contrastare l'alienazione, l'impotenza e la mancanza di scopi della società più ampia.
La scuola deve diventare, in concreto, un luogo dove sperimentare: come usare la mente; come trattare con gli altri; come trattare con l'autorità; come formarsi l'autostima; come mettere in pratica i principi etici, che la società esterna non sempre applica.
Lei afferma che la scuola deve diventare promotrice di una cultura rivoluzionaria. Quando una cultura diventa rivoluzionaria?
La cultura diventa rivoluzionaria, semplicemente quando è coerente con i principi dichiarati nelle "Carte dei diritti dell'uomo" e quando diventa dialogica, narrativa, interpretativa.
Narrazione significa, infatti, vedere le cose da un altro punto di vista, significa rompere gli schematismi tradizionali totalizzanti, considerati, dopo millenni, di origine divina o naturale e, perciò, immodificabili.
La scuola deve applicare, inoltre, nella pratica quotidiana i diritti dell'uomo e permettere all'alunno di farlo, sperimentando le proprie capacità e i propri limiti.
Se la scuola non realizza questa pratica educativa, spingerà l'alunno a cimentarsi nel campo della "crimininalità spicciola" o nei comportamenti anomali (bullismo, antisocialità, ribellismo, ed altro).
Si sa che le società nazionali e la società mondiale stanno attraversando un periodo di trasformazioni e di crisi profonde, che investono stili abitativi, modelli di famiglia, consapevolezza etnica, opportunità socioeconomiche.
Si sa anche che i poveri diventano sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi, con in mezzo la classe demografica media che sta scendendo al di sotto della soglia della povertà.
Allora, cambia anche la percezione della scuola?
Senza dubbio. La classe sociale dei ricchi manderà i propri figli nelle scuole dove si formano i dirigenti. La classe media considererà la scuola e la cultura come il migliore investimento. Gli ultimi della scala socioeconomica non avranno più fiducia nella scuola, perché non la considereranno più come una via d’uscita dalla povertà e l’abbandoneranno.
In questa situazione di tensioni e di conflitti, in una società in trasformazione la scuola deve assumere, quindi, funzioni nuove?
Le scuole dovrebbero diventare luoghi dove venga praticata la reciprocità culturale, dove gli alunni siano messi in grado di acquisire la consapevolezza di quello che fanno, di come lo fanno, del perché lo fanno.
La scuola, quindi, non dovrebbe semplicemente rinnovare le abilità tradizionali - quelle che rendono un paese competitivo sui mercati mondiali - , facendole acquisire per imitazione, ma dovrebbe rinnovare soprattutto l'apprendimento, nel senso di farlo diventare più partecipativo, più proattivo, più collaborativo, più costruttivo di significati.
L'istruzione, in sostanza, dovrebbe uscire dai limiti angusti della prospettiva utilitaristica e strumentale, tipica di una società acquisitiva ed efficientistica, e diventare disinteressata, bene in sé e diritto estendibile a tutti.
Questo nuovo modo di concepire "l'apprendimento come collaborazione nel produrre senso", dovrebbe significare non imporre ai più deboli la versione dei più forti; quindi, dovrebbe portare al riconoscimento delle minoranze e alla sconfitta della visione unilaterale della soluzione dei problemi, alla eliminazione dell'egemonia e dell'unanimismo, con la conseguente creazione di un mondo più solidaristico e più democratico.
Per sperare di realizzare queste finalità, si dovrebbe cambiare anche il rapporto tra docenti e alunni?
Certamente. In classe, ad esempio, si dovrebbe privilegiare il "dialogo", perché esso rappresenta la forma di conversazione che, aprendo alla problematicità, favorisce la possibilità di arricchimento e di perfezionamento dei contenuti.
In questa prospettiva andrebbe cambiata anche la concezione della cultura!
La cultura, infatti, dovrebbe essere intesa come l'acquisizione di tecniche e procedure per gestire e capire il mondo e, in questo senso, vanno apprese le nuove tecnologie (CD-rom, ipertesti, strutture ramificate, ed altre) che ci permettono di controllare e dominare i mezzi di comunicazione di massa e di non esserne schiavi.
La tecnologia è essenziale per la cultura, ma non ne rappresenta certo il punto centrale. Il punto centrale della cultura è la metodologia di ricerca e di uso della "mente proattiva".
Cosa fare per interessare i giovani alla istruzione e alla cultura?
Per operare un cambiamento della nostra cultura e della nostra scuola, bisognerebbe scegliere prima di tutto i problemi cruciali, quelli che gli alunni vivono ogni giorno e a cui sono sensibili, come, ad esempio, il degrado ambientale, le violenze a scuola, la droga, il fumo, gli omicidi nella società locale, lo sfaldamento della famiglia.
I giovani, infatti, vivono dentro queste stesse contraddizioni e cercano con il gruppo dei pari di realizzare un'esperienza vitale accanto all'esperienza familiare, di mediare il rapporto con gli adulti, di riempire il vuoto creato dalla distanza psicologica con gli interlocutori adulti, genitori e docenti in particolare.
Spesso i comportamenti devianti nascono proprio dalla necessità di "rendersi visibili" alla società degli adulti, come sottolinea Palmonari (citato in "Elementi di sociologia dell'educazione", a cura di Elena Besozzi).
La scuola con funzioni nuove deve significare che essa dovrebbe raccordarsi, appunto, con le esigenze dei giovani, con il desiderio di acquistare una identità e sviluppare una personalità autonoma.
Una identità che, come dice il filosofo Paul Ricoeur, deve essere concepita come "identità narrativa, dinamica" che fa pensare ad una continua dialettica di accordo e disaccordo tra azione e agente, tra sé e l'altro, mantenendo sempre presente il legame con la responsabilità.
Alla luce di questa teoria narrativa e processuale dell'identità, e quindi dal riconoscimento dell'alterità e della differenza e al contempo della responsabilità del soggetto, è possibile procedere ad una ricostruzione del legame sociale e all'attenuazione dei problemi della devianza.
Quando si è sottolineato l'importanza del "dialogo" nella scuola, si voleva proprio chiarire il principio fondamentale di una scuola con funzioni nuove, in cui possano convivere autonomia e reciprocità, in una continua approssimazione verso l'altro, in cui si impara a leggere il modo in cui l'altro legge il mondo; dove le diversità non vanno ridotte al silenzio; dove c'è una continua dialettica tra libertà individuale e legame sociale verso le istituzioni.
Per quale ragione insiste sulla forma dialogica?
La forma dialogica si rende necessaria, anche perché adeguata alla nuova visione della mente umana.
Oggi, gli psicopedagogisti fanno notare che la mente solitaria probabilmente è stata la proiezione della nostra ideologia occidentale.
La mente non è più una semplice "tabula rasa", né una rete di relazioni logiche, ma è una mente orientata ai problemi, interpretativa, diretta verso gli scopi, alla ricerca di rapporti con altre menti attive, con gli altri e con i loro punti di vista.
La mente, poi, costruisce i discorsi, servendosi delle idee acquisite, concatenandole tra loro secondo regole grammaticali e sintattiche, per giungere ad una conclusione e alla comunicazione strutturata.
A proposito di comunicazione, che rapporto esiste tra essa e l’educazione?
Voglio sottolineare che ogni educazione è sempre comunicazione; pertanto, non ci può essere contrapposizione tra educazione e comunicazione. Come il pensiero è sempre pensiero di qualcosa, anche la comunicazione è sempre processo dialettico e interattivo e, quindi, avviene all'interno di legami mediati, "inter-mediati", nel senso che c'è sempre un termine intermedio di confronto all'interno dei flussi comunicativi.
Come si struttura la personalità di un ragazzo?
Quando abbiamo accennato alla concezione dell'identità narrativa, abbiamo voluto evidenziare che la personalità di ciascun alunno si struttura proprio nella conversazione con se stesso e con gli altri, nello sperimentare l'altro come differenza, nel prestare attenzione all'altro che genera in noi tensione, ciò che giustifica l'impegno e la fatica di crescere.
Questa finalità della scuola comunicativa si può realizzare, se, come abbiamo detto, i problemi cruciali e le procedure per riflettere su di essi entrano a far parte della scuola e del lavoro che si svolge in classe.
Se, invece, lasciamo fuori dell'aula, per convenienza o per delicatezza, gli argomenti scottanti, la scuola comincia a presentare un aspetto così estraneo e così lontano dal mondo, che molti ragazzi potrebbero non sentirsi più a loro agio e a non trovare più posto al suo interno per se stessi e per i loro amici.
I ragazzi potrebbero chiedersi: che cosa ci faccio in una istituzione che lascia fuori della porta i problemi della vita reale, della strada, della paura di vivere in quartieri degradati?
E sono soprattutto i ragazzi delle classi più povere a non amare la scuola, perché la sentono troppo astratta e separata dalla vita reale, come già detto.
Sono d’accordo con le sue affermazioni e ne traggo la conclusione che in tal modo si può dare una spiegazione – ma non è la sola – dell’ origine del fenomeno della dispersione scolastica.
Prima di terminare, vorrei conoscere il suo pensiero sull’accusa che viene rivola agli insegnanti americani di essere i colpevoli del disastro dell’educazione nazionale.
Non sono stati gli insegnanti e le scuole a creare le condizioni che hanno reso così difficile la situazione educativa americana. Non hanno creato loro una classe sociale inferiore. E non avrebbero mai potuto compromettere la missione di ricerca e di sviluppo di un'industria competitiva quale l'americana come hanno fatto gli avventurieri che negli anni Ottanta hanno dato la scalata alle imprese investendo in azioni-spazzatura. Né hanno creato, come hanno fatto gli speculatori di borsa e gli speculatori immobiliari, un mondo di senzatetto da una parte e di consumisti dall'altra, che oggi affliggono la nostra economia e minano la nostra determinazione. Non sono loro i responsabili del problema della droga, che adesso Washington propone ironicamente di risolvere affidandone il compito di prevenzione alle scuole, invece di bloccare l'afflusso di stupefacenti nel nostro paese o di distruggere i cartelli nostrani della droga.
Come ben riflettono e descrivono anche la nostra situazione italiana queste osservazioni critiche!
Per migliorare il sistema educativo e renderlo idoneo a guidare il futuro, diventa necessario, allora, avere idee chiare su dove vogliamo andare e su quale tipo di umanità vogliamo essere.
Per Bruner l'obiettivo non deve essere quello di formare una società-azienda competitiva sui mercati mondiali, ma di formare una nazione "nella quale e per la quale valga la pena di vivere".
Certo, non bisogna negare l'importanza di avere lavoratori con una solida preparazione scientifica e matematica, in grado di competere ora con i Giapponesi, i Cinesi e gli Indiani.
Non dimentichiamo, però, che i "cambiamenti rivoluzionari", quelli che aprono nuovi orizzonti culturali, sono stati portati avanti non da avventurieri, da speculatori di borsa o immobiliari, da spacciatori di droga, bensì da poeti, commediografi, musicisti, filosofi.
E’ per questo - Bruner conclude - che "che in un regime di tirannia i primi ad andare in prigione sono i romanzieri , i poeti, i filosofi, i pensatori. E' per questo che io li voglio in una classe democratica: perché ci aiutino a vedere ancora, in modo nuovo".
E come dargli torto?

( Intervista realizzata sulla base dell’opera di J. Bruner: “La cultura dell’educazione”, Feltrinelli, Milano, 2000)

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Pietro Mascagni

30 Marzo 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #musica, #personaggi da conoscere

Pietro Mascagni (1863 - 1945) era nato in piazza delle Erbe, suo padre aveva un'avviata panetteria sotto casa ed era molto conosciuto a Livorno. Alto, dinoccolato, sempre rasato, con l'aria da ragazzo, gli occhi chiari, il ciuffo ribelle, Pietro aveva un'anima labronica spontanea, immediata, incapace di tacere e poco diplomatica. Oscillava fra l'entusiasmo e l'abbattimento, l'euforia e la malinconia. Per tutta la vita si mostrò esuberante, lottando per non far trapelare la tristezza, il malumore.

Suo padre non fu contento quando decise di dedicarsi completamente alla musica e s'iscrisse al conservatorio di Milano, dove divise una stanza con Giacomo Puccini, contribuendo a creare, forse, l'atmosfera goliardica e l'ambiente che furono d'ispirazione per la "Boheme". In conservatorio si trovò male, seguiva i corsi con irregolarità, ebbe a ridire col direttore Ponchielli, alla fine se ne andò e cominciò a lavorare come direttore d'orchestra in giro per l'Italia finché non gli fu offerto un posto fisso a Cerignola. Nel 1888 s'iscrisse a un concorso, indetto dalla casa editrice Sonzogno, per un'opera in un singolo atto. Chiese la collaborazione dell'amico Giovanni Targioni Tozzetti e di Guido Menasci, che riadattarono un dramma tratto dalla novella "Cavalleria Rusticana" di Verga. L'opera fu terminata il giorno della scadenza del concorso e vinse su 73 partecipanti. Fu un successo immenso, ripetuto in ogni teatro in cui fu presentata e mai più uguagliato da nessuna opera successiva, né "Iris", né "L'amico Fritz", né "Le Maschere" etc. Peccato che Verga accusò Mascagni di plagio, vinse la causa e ottenne un forte risarcimento. "Cavalleria Rusticana" è la prima opera musicale verista a pieno titolo, della "Giovane scuola italiana" - come "I Pagliacci" di Leoncavallo e la "Boheme" pucciniana - laddove le altre opere mascagnane sono, prima vagamente decadenti, secondo il gusto dell'epoca, poi espressioniste, soggettive, tese a riprodurre la realtà con gli occhi dell'anima. La sua musica è definita esasperata perché ricca di acuti e di declamato. Mascagni morì nella camera del suo albergo a Roma, nel 51 il suo corpo fu traslato al cimitero della Misericordia, dove si può ammirare il mausoleo.

Pietro Mascagni (1863 - 1945) was born in Piazza delle Erbe, his father had an established bakery downstairs and was well known in Livorno. Tall, lanky, always shaved, with a boyish air, clear eyes, a cowlick, Pietro had a spontaneous, immediate, unsophisticated and undiplomatic soul. It oscillated between enthusiasm and despondency, euphoria and melancholy. All his life he was exuberant, fightingagainst sadness, and bad mood.

 

His father was not happy when he decided to devote himself entirely to music and enrolled at the Milan conservatory, where he shared a room with Giacomo Puccini, helping to create, perhaps, the goliardic atmosphere and the environment that were the inspiration for the "Boheme". In the conservatory he was not happyl, he followed the courses with irregularities, he quarreled with the conductor Ponchielli, at the end he left and started working as a conductor around Italy until he was offered a permanent place in Cerignola.

In 1888 he enrolled in a competition, organized by the Sonzogno publishing house, for a work in a single act. He asked for the collaboration of his friend Giovanni Targioni Tozzetti and Guido Menasci, who adapted a drama based on the novel "Cavalleria Rusticana" by Verga. The work was completed on the day of the competition deadline and won out of 73 participants. It was an immense success, repeated in every theater in which it was presented and never again equaled by any subsequent work, neither "Iris", nor "Amico Fritz", nor "Le Maschere" etc. Too bad that Verga accused Mascagni of plagiarism, he won the case and got a strong compensation.

"Cavalleria Rusticana" is the first fully-fledged verista musical work of the "Young Italian school" - such as "I Pagliacci" by Leoncavallo and the "Boheme" by Puccini - where the other Mascagni works are, at first vaguely decadent, according to the taste of the era, then expressionist, subjective, aimed at reproducing reality with the eyes of the soul. His music is defined exasperated because it is rich in high notes and declaimed.

Mascagni died in the room of his hotel in Rome, in 51. His body was moved to the Misericordia cemetery, where you can admire the mausoleum.

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Massimo Bontempelli e Giuseppe Verdi

29 Marzo 2013 , Scritto da Roberto Oddo Con tag #musica, #saggi, #roberto oddo

La materia di quella creazione essendo la passione umana, quell'arte, sincera fino all'estremo sacrificio, è e deve rimanere sempre e tutta immersa nella vita: la vita non come sostanza ignota ma come fenomeno manifesto: la vita come natura, perché la passione altro non è che natura e natura vuol rimanere: è sangue, vegetazione; è anche paura, paura dell'intemperia e della sofferenza, paura dell'aldiquà. Di teatro o da camera, sacra o profana, da Palestrina a Scarlatti e a Rossini tutta la musica era stata un tentativo di sfuggire alla vita o con la contemplazione, o col trionfo del numero e del ritmo come sola verità raggiungibile, o con l'assorbimento solare. Avere voluto servirsi degli ultimi portati dell'esperienza musicale di tre secoli per esaltare la vita mortale (perché senza dubbio di là dall'uomo verdiano non esiste immortalità) fu impresa di coraggio immane. Lo sforzo di questo sacrificio è l'atto che mantiene la musica di Verdi in continua febbre.

La prolusione su Verdi che Massimo Bontempelli (Como 1878 - Roma 1960) pronunciò il 2 febbraio 1941 al Teatro La Fenice, corona i Sette discorsi raccolti dall'editore Bompiani nel 1942. L'attività "accademica" di un italiano progressivamente corroso dal fascismo - che in un primo tempo lo aveva convinto - sembra dunque, in quel volume, addirittura chiudersi nel nome di un musicista che ha attraversato tutta la sua opera. Vero è però che, nello stesso 1942, Bontempelli dà alle stampe anche un breve saggio sull'opera di Malipiero (sempre per Bompiani) con illustrazioni musicali di Raffaele Cumar; ed è vero anche che, sempre nei primi anni del secondo conflitto mondiale, l'autore offre il suo estro per altri incontri (A Galileo poeta, Apocalisse di San Giovanni, Al non possedere quadri, Alla lirica italiana, ma anche A Pergolesi). Verrà solo nel 1958 il volume Passione incompiuta (Mondadori), raccolta degli scritti musicali più originali (tra cui lo stesso su Verdi), sorta di doppio di quell'antologia di meditazioni sull'arte figurativa, Appassionata incompetenza, che intanto aveva pubblicato con Neri Pozza (1950). Né l'incompetenza né l'incompiuto possono dar ragione al pudore e al desiderio esplorativo (e - in definitiva - passionale) di un autore che alla musica e alle arti ha dedicato buona parte della sua esperienza intellettuale, facendone in «900» uno dei baluardi della cultura moderna. Basti, a confermarlo, ciò che Bontempelli dice nell'incipit del discorso pronunciato (il 15 settembre 1940) in memoria degli Scarlatti:


Il mondo è fatto di pittura e avviluppato di musica. [...] Il mondo di spazi plastici creato dalla pittura l'uomo lo vien avvolgendo in serie di suoni, che sono porzioni del tempo scelte e individuate cioè fatte anch'esse espressive: e questa è la musica.

Poggiati i piedi sulla pittura e fasciato il capo di musica, l'umanità può correre con affetto al suo ultimo fine.

(Non mi domandate quale ufficio può avere in una distribuzione di questo genere la sola arte che non ho nominata, voglio dire la poesia, o arte dello scrivere nelle sue varie forme. Per quanto ci abbia spesso pensato, non sono mai riuscito a capirlo.)

La musica non può essere dunque considerata un'occorrenza sporadica nella vita e alla penna di Massimo Bontempelli, che per molte sue commedie aveva anche composto da sé l'accompagnamento. Si direbbe, anzi, che era un'occasione di confronto continuo, un campo nel quale versarsi con intelligente arte di candida, quanto ostinata, meraviglia. Forse privo del pudore sornione o dell'affilatissima penna chirurgica da specialista del suo amico Alberto Savinio, Bontempelli vanta però una dimestichezza invidiabile con una propria ricerca comunicativa e con il proprio linguaggio comunicativo (era Luigi Baldacci, il suo più grande critico, a riconoscergli questa dote). Siamo, cioè, di fronte a un autore che vantava un preciso registro espressivo e sapeva benissimo cosa selezionare nelle altre arti in funzione di un proprio disegno letterario, estetico e culturale. All'interno di questo percorso centripeto, l'opera di Giuseppe Verdi, ora nell'irrinunciabile confronto con Wagner, ora nella preferenza accordatagli rispetto al più moderno Puccini, occupa un ruolo di primo piano.

Addirittura, oserei dire che, se torniamo un attimo al discorso tenuto in onore di Scarlatti, ci rendiamo conto anzi che sotto molti aspetti questo è una preparazione a quello su Verdi:

... noi stiamo da quasi mezzo secolo vivendo alle spalle del teatro musicale dell'Ottocento. Ma una buona parte del melodramma ottocentesca è tuttora viva anche nella sua funzione di spettacolo, per la ragione che dopo il Falstaff non è più nato tra noi un teatro musicale che non sia epigono del più recente passato ed è meno peggio vivere di parassitismo che di epigonismo.

Nel teatro dell'Ottocento, Verdi viene selezionato quale irrinunciabile punto d'arrivo per il nuovo secolo: Bontempelli sa benissimo, però, che sul nome del Cigno di Busseto pesano insieme una cappa di inamovibilità mistica e una forma espressiva ormai superata. Verdi soffre, in sostanza, di una asfissiante classicità, che quasi impedisce al suo ascoltatore di prendere posizione e ascoltarlo a cuore libero. Prova ne sia che, nel proporre la sua visuale sul compositore, il poliedrico "accademico d'Italia" (come prima Savinio) sente il bisogno impellente di argomentare la formula di apertura del suo discorso. A differenza di quanto accade in altri discorsi, dove lo la scaletta è ben più fantasiosa, Bontempelli si diffonde qui in un lungo ragionamento, che altro non è se non lo sviluppo del celeberrimo incipit (al quale allude perfino la Breve storia della musica di Massimo Mila): Giuseppe Verdi è quello che un giorno ha portato di colpo la musica dal cielo in terra.

La sintassi non lascia adito a dubbi e qui lo scrittore sembra voler dire che il Novecento ha trovato la musica sul suo percorso terrestre, dopo il lungo trasporto metafisico che l'ha segnata, e che questo risultato è opera di Verdi. Bontempelli individua in Verdi la svolta improvvisa e risolutiva, che consiste nell'avvolgere l'uomo in una bolla fatale: al suo interno, l'uomo vive e amplifica le sue passioni nell'immanenza, senza alcuno spiraglio possibile per il trascendente, ovvero per smorzare il dolore. Lo stesso Miserere del Trovatore, dove pure sembra di poter accedere a un senso di superiore rassegnazione, vede i singhiozzi dei due innamorati e il mondo fosco e febbrile (insieme romantico e barocco, ma non medievale...) in vantaggio rispetto a qualsiasi salvifico misticismo. L'uomo dell'opera di Verdi è un uomo senza speranza di essere redento, la sorgiva forza creatrice del suo demiurgo lo sprofonda in travagli materiali e grevi.

Il Cigno di Busseto ha, dalla sua, una forza estranea al melodramma che si lasciava alle spalle: si tratta del coraggio e della capacità di innovare l'arte fin dalle sue fondamenta senza guardare ai modelli, e forse senza preoccuparsene. Dell'Ottocento (il secolo duro a morire), Verdi non raccoglie i principi estetici e i manifesti programmatici, bensì il senso più immediato dell'opera, l'eredità sana e sanguigna del teatro più popolare. Bontempelli - che ha alle spalle abbastanza esperienza per dialogare con i suoi lettori e i loro presunti capricci - cerca perciò di prevenire le proteste e immagino che non sia estraneo in lui il ricordo della propaganda didattica fascista con spettacolini di strada. In ciò è forse piuttosto frettoloso nell'assimilare i burattini alle marionette: gli uni, guanti sagomati che gli animatori conducono dal basso attraverso la scena, le altre, sagome a tutto corpo guidate dall'alto attraverso i fili; figure nobilitate dalla tradizione epica e poi simbolo di potere accentratore queste, ombre servili e davvero popolane quelle, oggetto talvolta di raffinatissime rivisitazioni.

Poco importa, però, il malinteso filologico, perché l'autore, che lo liquiderebbe con caustici commenti, è chiarissimo nel collegare l'opera di Verdi con la forza istintiva del genio che guarda al suo secolo e lo sintetizza nei personaggi e nel dramma, più che nell'ascesi lirica della musica. E, del resto, l'abbiamo visto, il teatro di figura era più che trasparente anche nel ritratto che di Verdi traccia Alberto Savinio. Più sorprendente è, semmai, l'insistenza di Bontempelli sul termine barocco, che la convenzione moderna - almeno in musica - vuole semmai antitetico rispetto al romanticismo verdiano. Vediamo, però, che lo scrittore riesce quasi a convincerci quando dice:

Il barocco è scatenamento della immaginazione, traboccamento, predominio dell'avventura sull'estasi, del fasto sull'intimo, del prepotere sul convincere; e, nella forma, della voluta sul rettilineo. Il barocco è fervido e ingegnoso, naturalista e antimetafisico, ama l'ebbrezza ma non raggiunge il dio Dioniso, perché è il trionfo del sensibile terrestre. Vedete quanto siamo vicini al centro e all'apice della musica di Verdi? In fondo, il barocco è una forma di disperazione. E la musica di Verdi è volentieri disperata.

Ognuno dei termini usati ha una sua storia nella prosa di Bontempelli e i suoi lettori ricorderanno senz'altro quel senso dell'avventura che, da La vita intensa e La vita operosa ai suoi più maturi romanzi, attraversa la narrativa dell'autore. C'è, in esso, tutto il retaggio (dialettico finché si vuole, ma pur sempre retaggio) futurista della velocità, dell'incanto metropolitano, come metropolitano è il Verdi di Bontempelli, un personaggio tra gli altri di un panorama ampio e policromo in rapida fermentazione. Forse la voce, tra tutte, meno propensa allo slancio metafisico dell'estetica, ma puro genio e miniera d'innocenza e, soprattutto, energia, grazia e poesia. Non è forse un caso se, nell'opera di Bontempelli, il ritratto di Verdi prende corpo soprattutto durante la seconda guerra mondiale. Fatto sta che, nella sua opera, il "contadino tagliato giù alla buona" sembra strafare, lasciare il mondo esangue al cospetto della sua forza tellurica: e questa sarebbe proprio la misura della sua sovversione terrestre.

In questa febbre appaiono flussi cupi, una tristezza che non sa farsi malinconia, sfugge ogni zona di solitudine. La passione non ama la solitudine. Malinconia e solitudine assorbirebbero l'uomo in quel piano aereo ove si finisce col convincersi che azione e passione sono inutili travagli. Fatta di passione (e la passione è sentimento che vuol farsi azione) la forza della poesia verdiana è spesso prepotenza; non la prepotenza ferma di Rossini ma quella tempesta che travolge, prepotenza della natura dal cielo in giù. Tutte le esuberanze, i folgoranti corrucci di cui vive l'opera verdiana, sono d'indole orgogliosamente tellurica. E sebbene quel mondo sia tutto natura, non è l'intera natura; il cielo e il mare vi sono tempestosi a ogni ora (anche quel mare e quel cielo che ogni uomo ha dentro sé nell'anima); vi manca il sole del gran mezzogiorno, vi manca il mare immobile senza respiro, vi manca il nero della notte tra stella e stella; che sono le tre note trascendenti della natura.

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