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recensioni

Sandro Angelucci, "Si aggiungono Voci"

30 Marzo 2015 , Scritto da Claudio Fiorentini Con tag #claudio fiorentini, #poesia, #recensioni

Sandro Angelucci, "Si aggiungono Voci"

Tempo addietro mi capitò tra le mani una meravigliosa e antica poesia degli indiani d’America (*) che ben rappresenta quello che fu il loro profondo amore e rispetto per la terra, che li rendeva capaci di capirne i minimi messaggi. Leggendo i versi di Sandro Angelucci ho ritrovato quello spirito contemplativo, quella capacità, per certi aspetti animale, di capire il linguaggio degli elementi. E il fatto è che gli elementi parlano con un linguaggio immenso, ma così minuscolo, così piccolo, che risulta difficile fermarsi ad ascoltare. Occorre prendere le pinze da orologiaio e fare gli stessi minimi movimenti per cogliere la brevità del volo di un’ape, la dolcezza di una piuma, il respiro del vento o il tremolio di un fiore su un prato. Non parlo di tempeste, di fiori giganteschi, ma di brezza e di fiori in un prato, un prato che non ha bisogno di essere sconfinato per stupirci, perché si riassume tutto nel nostro sguardo, canta nella sua pace, vive nel suo lasciarsi pettinare o calpestare. Mi viene in mente Vivaldi, ma non la sua tempesta, non il suo allegro, semmai qualche adagio appena accennato, che però, anche nella sua delicatezza ha il potere di trasformarsi in tuono e temporale.

La poesia di Sandro Angelucci risveglia in me quelle sensazioni. Quindi anch’io prendo in mano quella realtà, con le pinze da orologiaio, perché a volte la bellezza è fatta di cose minuscole, e non puoi prenderla in mano perché le dita sono troppo tozze e grandi, occorre quella delicatezza che non hai, le cose belle sono tanto piccole che se tentando di prenderle con la mano ti cadessero per terra, si confonderebbero con la polvere del pavimento. E qui la poesia riesce nel suo intento: “sono le traiettorie / senza nessuna logica apparente / la speranza”, già, le traiettorie. Nulla vi è di più effimero, perché nell’attimo stesso in cui le esprimiamo loro non sono più, sono solo linee immaginarie, in realtà è il movimento che le traccia, ma non esistono, come non esiste la speranza, se non nella nostra mente. Ma traiettoria e speranza non possono essere separate, loro vivono sempre insieme. Quindi “saranno i voli” indipendentemente dalle traiettorie, che ci salveranno.

Cogliere quindi il volo di un merlo, il battito d’ali di una farfalla, il ronzio di un’ape, il muggito di una mucca che non vedi, perché è lì nella sua stalla, lontana dal suo antico mondo. Ma non è poesia campestre, pur se il richiamo della natura è dominante, l’autore non si discosta dal suo mondo di “Abbrutiti. Schizofrenici. Impazienti.” Quel mondo siamo noi, mentre “… l’uccello non finisce di cantare / il vento / prende a respirare con le foglie / e le montagne / (immobili, sicure) / aspettano l’arrivo della luce”. Imperturbabile, la natura, continua il suo percorso, e pur se noi insistiamo “(distratti, inebetiti) / a spargere catrame, a bestemmiare”, lei ristabilisce sempre i suoi equilibri. Quindi l’autore contempla questa natura, e dice al merlo “Se fossero di piombo le tue bacche, / se al posto del becco / avessi una mitraglia / t’inviterei a spararmi addosso”.

Ma alla fine il poeta sa che non succederà, e continua il suo volo di versi, che come “una goccia di miele / che cade nel latte bollente” si dissolvono nel lettore per diventare un nuovo pensiero, perché “un grumo di bellezza che si scioglie” ha una forza struggente e regala la speranza di un nuovo battere di ali.

(*)

Perso

Fermati,

gli alberi davanti e i cespugli di fianco a te

non sono persi.

Ovunque tu sia, si chiama QUI,

e tu lo devi trattare come un potente sconosciuto,

devi chiedere il permesso di conoscerlo

e di essere riconosciuto

La foresta respira. Ascolta. Risponde,

ha creato questo luogo intorno a te,

se lo abbandoni potresti ritornare ancora, dicendo QUI.

Mai due alberi saranno uguali per il corvo,

mai due alberi saranno uguali per lo scricciolo.

Se ciò che un albero o un ramo fa non ha effetto su dite, tu sei sicuramente perso.

Fermati.

La foresta sa dove sei. Devi lasciare che ti trovi.

Antica poesia degli indiani americani.

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Dario Pontuale, "L'irreversibilità dell'uovo sodo"

28 Marzo 2015 , Scritto da Claudio Fiorentini Con tag #claudio fiorentini, #recensioni

Dario Pontuale, "L'irreversibilità dell'uovo sodo"

Dario Pontuale

L’irreversibilità dell’uovo sodo

Non cercate una trama fatta di intrecci, dove i vari personaggi vi accompagnano dall’inizio alla fine. Non cercate un giallo, un thriller, qualcosa che viaggia su un registro esterno all’uomo. Questo bellissimo romanzo narra di un viaggio che porta Gabriele Grodo (probabilmente voluta l’assonanza con Drogo), il disincantato protagonista, a trovare se stesso.

Un’agenzia investigativa va maluccio, la segretaria se ne va, il socio se ne va, rimane Grodo, con il suo factotum ucraino, e una pianta grassa che Grodo si ostina ad innaffiare fino ad affogarla. Grodo non è un uomo raffinato, anzi, direi ignorante e superficiale, forse non ha mai letto un libro in vita sua, è disincantato e demotivato, crede di aver sbagliato tutto. Un suo amico, ex libraio ora gestore di una birreria, gli consiglia di leggere Conrad. Il giorno dopo Grodo riceve un incarico da parte di Arduini, uomo facoltoso, appassionato giocatore di scacchi, condannato sulla sedia a rotelle, che gioca una partita per corrispondenza da oltre dieci anni, ritenendo che il suo avversario sconosciuto sia uno dei più grandi giocatori mai apparsi sulla terra. Questa partita sembra che sia stata vinta dall’Arduini, che vuole averne la certezza, e incarica Grodo di andare a cercare il suo avversario in Argentina. Il birraio e Arduini sono i primi sognatori che si incontrano nel libro, ma il refrattario Grodo non appartiene a quella categoria. Sta di fatto che compra un libro di Conrad e accetta l’incarico senza neanche pensare alla retribuzione.

Inizia il viaggio, e Grodo entra in un crescendo di sensazioni e di consapevolezza. Incontra i personaggi più strampalati: il venditore ambulante di libri che recita a memoria tutti gli incipit, il collezionista di bolle di sapone che è figlio di un collezionista di ragnatele, il ritrattista greco che invece di usare matite e pennelli usa le parole, i fratelli contrabbandieri di alcol che litigano sempre, e infine Neto, il marinaio appassionato di modellismo che ritiene che nulla sia importante, che fugge dai ricordi e che si chiede perché l’uovo bollito invece di ammorbidirsi, diventa sodo, e non torna indietro. A quel punto Grodo ha capito che i sogni sono il vero senso della vita, le minuscole soddisfazioni, e investiga su questa realtà, per regalare, come dono di saluto, al suo amico Neto la spiegazione.

Un viaggio di quasi 3000 chilometri su mezzi di fortuna, da Buenos Aires a Ushuaia, seguendo una logica simile alle mosse degli scacchi. Un viaggio ricco di incontri in cui il nostro Grodo si rende conto che forse la sua vita può essere ancora salva, forse un senso alla sua esistenza lo può ancora trovare, ed inizia piano piano a sognare di fare il guardiano del faro.

Il libro vanta un linguaggio molto fluido, ed appassiona sin dalla prima parola. Si ha all’inizio la sensazione di perdere contatto con i personaggi, che appaiono quasi come quadri in una galleria d’arte che impone un percorso, visto e dimenticato, ma non è così, perché quei personaggi iniziano un lavoro nell’anima di Grodo, ed è lì che bisogna leggere. Un libro che va dentro, dove il fuori sono stimoli per crescere, e così succede, anche attraverso le splendide metafore che riassumono i momenti di crescita in equilibro tra poesia e filosofia e che rendono il libro degno della più alta letteratura latinoamericana.

Ci si conosce veramente quando si rifiutano limiti ai sogni. Ci si annulla completamente quando si pone un margine ai desideri. Speranza e smarrimento, tra questo si oscilla, schieramenti opposti, città antitetiche, ma indivisibili perché anelli della stessa catena. Catena alla quale ognuno è cinto, che passa intorno al collo, lambisce la gola, toglie e concede aria a seconda dei casi.

Claudio Fiorentini

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Francesco Verso, "La morte in diretta di Fernando Morales"

22 Marzo 2015 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni

Francesco Verso, "La morte in diretta di Fernando Morales"

Francesco Verso

La morte in diretta di Fernando Morales

Future Fiction - E-book Kindle euro 0,99

www.futurefiction.org

Fernando Morales non prova più interesse per la vita, non ce la fa ad andare avanti senza la moglie, in solitudine, attendendo il giorno della sua dipartita naturale. Non si cura più, vive con indolenza, trattiene i ricordi del passato in un cofanetto immaginario e per lui sono più preziosi del denaro. Un giorno - navigando su Internet nei social network affettivi - scopre un’occasione irripetibile. Decide di morire affidandosi a un’eutanasia assistita che gli consentirà di diventare famoso grazie alla morte in diretta. Chi è il signor Fernando Morales? Ha raccontato la sua vera storia ai funzionari che dovranno occuparsi della sua morte in diretta oppure ha mentito spudoratamente? Non aggiungiamo altro, perché il racconto è breve, gli sviluppi imprevedibili e la suspense fantastica rappresenta il vero sale della storia.

Francesco Verso si prende gioco dei reality show e della società contemporanea, consumistica e televisiva, costruendo una storia ambientata in un ipotetico futuro, che non è poi così distante dalla nostra realtà. Un racconto dotato di una forma perfetta, una scrittura nitida, cristallina, asciutta, senza tempi morti, ma anche di un contenuto politicamente scorretto. L’autore usa lo schema del racconto fantastico per stigmatizzare l’uso smodato dei social network - nella società del futuro trasmettono persino affetto - mettendoci di fronte al problema delle cose che tramandano soltanto loro stesse in una società priva di valori che rende l’uomo sempre meno umano. Fernando Morales è il simbolo dell’individuo solo di fronte alla morte, incapace di dare un senso terminale alla propria vita. Il racconto è una parabola decadente sulla situazione dell’uomo contemporaneo, scritto con la pessimistica consapevolezza che il futuro può metterci di fronte persino alla spettacolarizzazione della morte. Tra l’altro -pensandoci bene - in parte sta già accadendo…

La morte di Fernando Morales è stato adattato in forma teatrale e messo in scena all’interno dello spettacolo The Milky Way di Katiuscia Magliarisi e Chiara Condrò, con musiche di Simone De Filippis. Trovate qui alcune notizie sull’autore: http://www.futurefiction.org/francesco-verso/, un esperto del fantastico - che scrive e traduce - tra l’altro vincitore del Premio Urania 2009 con il romanzo e-Doll.

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

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Nazario Pardini, "I canti dell'Assenza"

16 Marzo 2015 , Scritto da Claudio Fiorentini Con tag #claudio fiorentini, #recensioni, #poesia

Nazario Pardini, "I canti dell'Assenza"

Vedo l’angolo di una casa a sinistra, e davanti campagna libera che digrada a valle come la voglia di correre di un bambino. Va, quella voglia, nel sogno che incarna un tempo che fu e che continua ad essere. Non vedo una città con le sue borgate, con i suoi centri privilegiati. Lo spazio che mi accoglie è ben lungi dal proporsi chiuso e grigio. I colori che dominano sono il verde e il giallo della primavera, il bianco dei fiori. Questi canti non chiudono la percezione in un magazzino, semmai da lì escono per correre con il pensiero, quel pensiero libero, giovane, pensiero spensierato.

Così, leggendo questi canti vivo l’assenza, eppure le immagini sono presenti, le stesse immagini che ho visto in altre poesie dello stesso autore. Prati sconfinati che ospitano la giovane libertà, viva nel poeta e vivace nel lettore, libertà che mi prende per mano e che nei versi diventa musica. Ed io “attratto dai richiami del meriggio” volo quel volo che Icaro visse in parte. E anche se “è un naufragio per la nostra essenza” non naufrago, semmai mi ritrovo il giallo autunnale di un novembre che insiste, poi “ascolto i silenzi dell’anima” e vago alla ricerca di me stesso.

Queste poesie, molto intime, molto personali, mi chiedono di diventare Nazario bambino, e vedo che nel fondo dell’anima il poeta è rimasto quel Nazario bambino, non si è perso, e corre nei prati, vive in un ricordo di un tempo che in tutta la sua crudeltà scompare per lasciar spazio ad altro tempo.

È una poesia molto naturale ma non naturalistica. Gli odori della natura ci sono tutti, e sono forti, presenti. Torno ai miei otto, dieci anni, e quel regalo della vita è di nuovo in me, non è stato sommerso dagli anni, semmai è tornato in primo piano facendomi giocoliere incauto.

E infatti “Non sarà la sera che calante / annuncia solo un giorno che va via / coi suoi colori vecchi. Declinante / il segno non sarà della mia vita / volta a rammemorare. Alla natura / riaprire le finestre di un ostello / non varrà che annunciare alle mie mura / colori di serate ritrovate.” Mi dona questa ribellione.

Ma il seguito, questi canti vanno letti in ordine, è un “presto ritornerò”, perché si torna, sempre. Il tempo è un ciclo che consuma le forze, ma che torna sempre all’inizio, l’istante in cui non si è e non si sa. Prima e dopo. In mezzo c’è la vita, e tutta intera va vissuta.

E non basta, perché il poeta ci invita, ci sfida, ci rende partecipi quando ci dice “E tu che fai, non suoni? A cosa pensi, / perché resti da te?”. Allora percepisco il messaggio di questo canto come uno scuotimento dove il poeta mi prende per mano e mi sprona a cantare con lui, ma con il mio canto, con quello che posso fare, perché io sono come lui, insieme stiamo giocando nei campi, insieme “immaginiamo di essere un’orchestra / di veri musicanti che in concerto / suonano melodie per la platea”

Vado avanti, sono ancora con il poeta, vedo che “Poi giunto è ottobre a mietere le foglie / di una stagione che ha reciso il sole”, e pur sapendo che “Il frutto cade / del giorno ormai maturo ed è la notte”, non vado a dormire, perché lui con me rimane a contemplare il mondo, perché “se restava solo, nella sera, / si abbandonava un po’ alle sue memorie. / cespiti in boccio / voci di sorgente / occhi indomiti da equino all’età / che aveva gli anni della primavera.” Ecco la ribellione all’abbandono, gli occhi che indomiti guardano quel bambino e lo fanno vivere ancora.

Così “Giovinezza: / sortivi il tuo profumo / intento ad un sorriso dolce amaro.”, sei sempre lì, giovinezza, anche se ti abbandoni al flusso del tempo e “ti trattieni con aria indifferente / sulla panchina della piazza verde / a seminare amore.”

Insomma, non voglio parlare della tecnica poetica, della fluidità dei versi, della musicalità di questi canti. Posso solo dire quale effetto ha su di me la poesia, e in questo caso, i canti di Nazario Pardini. Mi sono quindi lasciato guidare, non ho pensato alla storia del poeta, non ho cercato il suo vissuto, perché le poesie, secondo me, non devono essere lette come un diario, ma vissute come uno sprone. Quindi ho rivissuto la mia storia, perché questi canti parlano al mio IO profondo, diventano quasi un alter ego, una guida che mi scuote, e che stimola la mia creatività, facendomi migliore.

Ringrazio Nazario Pardini per l’opportunità di leggere queste belle pagine

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AA.VV, "Gol Mondiali"

5 Marzo 2015 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni

AA.VV, "Gol Mondiali"

AA.VV

Gol Mondiali

Edizioni Incontropiede

Pag. 150 - Euro 14,50

Ho già avuto modo di apprezzare il buon lavoro di questa giovane Casa Editrice specializzata in libri sportivi, con una certa predilezione per il gioco del calcio. Ragazzi appassionati che hanno del coraggio, perché, come ho avuto modo di sperimentare in prima persona gli aficionados del calcio non sono dei grandi lettori, ma si limitano a sfogliare uno dei tre quotidiani sportivi che ancora si trovano nelle edicole del nostro strano paese. Ci sono le dovute eccezioni, chiaro! Ho giocato al calcio, ho arbitrato in serie C, ho fatto il quarto uomo in A e B, ma in ritiro mi portavo Thomas Mann, Proust, Calvino, Cassola e persino Cabrera Infante. Purtroppo, esiste anche lo snobismo opposto. I pochi italiani che amano leggere, gli intellettuali in genere, snobbano il calcio e tutto ciò che riguarda quel mondo, libri e film compresi. Ne sa qualcosa Arpino, che con Azzurro tenebra ha scritto una bella pagina di letteratura, poco considerata per l'argomento calcistico. Ne sanno qualcosa i cineasti che hanno provato a girare film seri sul calcio, da Pupi Avati (Ultimo minuto) al giovane Zucca (L'arbitro). Non funzionano. O meglio, vanno bene solo le parodie e le farse come I due maghi del pallone, L'arbitro con Buzzanca, Mezzo destro e mezzo sinistro con Gigi e Andrea, L'allenatore nel pallone con Lino Banfi (vittima di un pessimo remake modernizzato)...

Basta divagare. Gol mondiali è un bel prodotto. Diciannove autori - alcuni abbastanza noti nell'ambiente letterario - affrontano la storia della Coppa del Mondo da Uruguay 1930 a Brasile 2014, prendono spunto da un gol e narrano vicende umane - sportive collegate al campionato mondiale. Gli autori: Bacci, Ballestracci (lanciato dal mio Foglio Letterario con Compagno di viaggio e Bluespadano), Bassi, Bedeschi, Facchinetti (consigliamo la lettura de Il romanzo di Julio Libonatti), Favretto, Ferrio, Ghedini, Grassi, Impiglia, Longhi, Lorenzetti, Mastrolli, Paliotto, Pompei, Puppo, Sica e Taccone. La storia del campionato Mondiale 2014 conclude un agile volumetto ed è affidata alle 19 penne impegnate nella raccolta che realizzano un esperimento di scrittura collettiva. Il gruppo di scrittori si è dato un nome: Sport in punta di penna, esperimento letterario nato nel febbraio 2013. Tra i titoli più recenti sfornati dalla giovane Casa Editrice ricordiamo Arrigo di Jvan Sica, un romanzo sulla parabola calcistica e umana di Arrigo Sacchi, Il calciatore stanco di Gino Franchetti, ma anche Rumble in the Jungle di Luigi Guelpa. In preparazione: Memorie dell'Europa calcistica - L'Erasmus del pallone, a cura di Federico Mastrolilli. Per il catalogo completo e le iniziative, consultare il sito www.incontropiede.it.

Gordiano Lupi

www.infol.it/lupi

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Giulia Madonna, "Amata Tela".

24 Febbraio 2015 , Scritto da Ida Verrei Con tag #ida verrei, #recensioni

Giulia Madonna, "Amata Tela".

Amata Tela

Giulia Madonna

edit. MUSICAOS: ED SMARTLT 07

pp.221

8,00

Una telefonata inattesa, una voce sconosciuta, un incontro.

Due vite si incrociano e nasce un amore. È storia di tutti i giorni, ma nel romanzo di Giulia Madonna diventa quasi miracolo, magia, una vampata che travolge e non lascia respiro.

Due protagonisti: Francesca, brillante studentessa in architettura, Eugenio, giovane artista squattrinato, un po’ folle, nevrotico, con un passato difficile alle spalle e tanti sogni di gloria. È una relazione morbosa, quasi incontenibile, una passione che l’autrice definisce più e più volte “sfrenata, folle”; un intreccio di turbamenti, impulsi irrazionali e sentimenti contrastanti, dove la felicità confina con l’ansia, l’angoscia della perdita, il timore di una libertà smarrita: fragilità e complessità interiore che travolgono, consumano, distruggono. E, come tutte le emozioni estreme, quest’amore finisce col trasformarsi: diviene lotta, competizione, una sorta di tentativo di sopraffazione, dolce e violenta insieme. Sicché i due protagonisti si tramutano in antagonisti, fino alla disperata rottura. Ma non sarà definitiva, c’è qualcosa, o meglio, qualcuno, che sarà il filo rosso che li terrà comunque uniti, il “segreto” legame che impedirà il distacco definitivo, e che si rivelerà soltanto nel finale.

G. Madonna è voce narrante, racconta in terza persona, ma sembra quasi che ci siano due livelli di narrazione, quella della protagonista femminile, e quella del comprimario maschile. Ognuno dei due è narrato, non descritto: situazioni, comportamenti, atteggiamenti, emozioni, vengono interpretati, dilatati, rivissuti; quasi un diario intimo, in cui si annotano e si fissano piccoli e grandi eventi quotidiani. Scarseggiano, invece, dialoghi e descrizioni d’ambiente, molto è lasciato alla fantasia del lettore; tutta la narrazione, nella prima parte del libro, è incentrata sulla psicologia dei personaggi, sulle loro percezioni fisiche ed emotive, raccontate, tratteggiate, spesso con enfasi e veemenza.

La seconda parte del romanzo appare più fluida, più strutturata; l’introduzione di altri personaggi vi aggiunge maggiore spessore; un intreccio di relazioni che non fa solo da sfondo, ma è elemento portante del resto della storia personale dei due protagonisti:

L’architetto Carlo Dell’Olmo, ricco di umanità e intuito; il giovane Eros, solare e talentuoso; la dolce Anita, paziente e fiduciosa; e poi i successi, l’evoluzione di entrambi i protagonisti nella professione, i gruppi di giovani artisti arrabbiati: tutto ci dà un quadro d’ambiente più articolato e accattivante.

Particolare suggestione acquista la presenza di un quadro misterioso, l’Amata Tela, opera di Eugenio, una sorta di ritratto di Dorian Gray alla rovescia: l’immagine di Francesca, ricostruita nel ricordo, che sembra sprigionare il potere di ricondurre indietro nel tempo, ai tempi del grande amore, mai finito.

E lì, di fronte a quel dipinto che non invecchia mai e che sembra parlare, Eugenio, diventato ormai “il vecchio saggio”, dà sfogo alla sua nevrosi, ma ne trova anche sollievo e cura. Dialoga con l’immagine, trae ispirazione per la sua arte, racconta, ricorda e rimpiange quel passato che crede perduto per sempre: “Eccoti, sei qui, finalmente! Sei tornata da me! Sì, quegli occhi sono proprio i tuoi e quelle labbra rosso fuoco che mi chiamano con insistenza sono proprio le tue… Hai visto che successo?... e tutto grazie a te che sai darmi i migliori consigli. Questo brindisi è dedicato a teSiamo ormai un’ottima squadra…”

Sono struggenti e farneticanti monologhi che rivelano l’animo tormentato dell’artista, ma anche l’amante appassionato, mai rassegnato all’assenza.

Nel complesso un romanzo piacevole, che acquista potere di coinvolgimento man mano che si prosegue nella lettura. Scritto con un linguaggio un po’ antico, classico, ricco di aggettivazioni ed espressioni enfatiche, ma con ottima padronanza e correttezza linguistica.

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Yoram Kaniuk, "1948", un libro dallo "stomaco della guerra"

18 Febbraio 2015 , Scritto da Patrizia Bruggi Con tag #patrizia bruggi, #recensioni

Yoram Kaniuk, "1948", un libro dallo "stomaco della guerra"

1948

Yoram Kaniuk

Traduzione di Elena Loewenthal

Edizioni La Giuntina, 2012

ISBN 9788880574453

Uno squarcio di storia che non lascia scampo, vissuta sulla propria pelle attraverso le immagini di un teleobiettivo montato su una steadycam. Anche se la steadycam, negli anni ’40 del secolo scorso, ancora non era stata inventata.

Può essere anche questo il romanzo autobiografico “1948” di Yoram Kaniuk (1930 – 2013), scrittore, critico teatrale, giornalista e pittore israeliano.

«Ero uno sbarbatello che andava a fare il soldato per suonarle al nemico. Ecco quello che ero. Mi ero arruolato così presto, a diciassette anni e mezzo perché ero un eroe o perché avevo paura e fuggivo da qualcosa?», così scrive Kaniuk nelle prime pagine del libro, rievocando l’inizio di quel percorso idealizzato - ma che si rivelerà un’impietosa incognita - che l’autore decide di intraprendere nel novembre del 1947, a soli diciassette anni e mezzo, rinunciando di punto in bianco a terminare gli studi al liceo. Arruolatosi come volontario nel Palmach - la forza ebraica di combattimento regolare istituita nel 1941 in Palestina dall’esercito britannico e dalla formazione paramilitare ebraica Haganah – si ritrova a combattere nel primo conflitto arabo-israeliano: la Guerra di Indipendenza.

«[…] insomma, un giorno qualunque avevo mollato quell’amabile scuola con una dichiarazione che non convinceva neanche me, e cioè che con la radice di tre non avremmo mai cacciato via gli inglesi dal paese, e mi ero arruolato nel Palmach, perché avevo detto che avrei portato i sopravvissuti sulle coste del paese senza pensare sul serio dove sarebbero approdate le navi con i profughi.»

Yoram Kaniuk sarà catapultato nella crudezza e nella barbarie del conflitto e insieme a lui moltissimi suoi coetanei, impreparati e male equipaggiati, che, ogni giorno, rimarranno sul campo.

«Durante quei mesi amari, sino alla prima tregua, eravamo soli, affamati e assetati.»

La guerra si fa sempre più aspra e le battaglie si trasformano in massacri. Yoram Kaniuk, dopo un anno di combattimenti, viene gravemente ferito e trasportato in un ospedale della città di Gerusalemme, sotto assedio. Inizialmente i medici, date le sue condizioni, temono di dovergli amputare una gamba, ma poi, grazie al coraggio dei dottori e ai lanci aerei di medicinali e penicillina avvenuti con successo, Kaniuk riuscirà a salvarsi. Ormai inabile per combattere in prima linea, una volta dimesso dall’ospedale, opererà sulle navi di profughi che, scampati all’Olocausto, approdano in Israele.

Ma il romanzo di Kaniuk non è solo questo. Anzi, forse, non è affatto questo. E’ il ricordo di quegli avvenimenti, vissuti da un’intera generazione nella carne e nel sangue. Ricordo che spoglia di qualsiasi retorica ed eroismo la guerra, quella guerra, qualsiasi guerra: le istantanee trattenute per sempre dalla memoria di Yoram Kaniuk poco più che diciassettenne che, pur imbracciando un mitra Sten, è ancora capace, nonostante tutto, di ricordare i suoni, i colori, gli odori del suo paese e della sua età prima del conflitto. Di chiedere ancora ai suoi commilitoni cosa è giusto e cosa no. Un’innocenza trattenuta a stento, ma poi persa, un’amarezza e un dolore da percorrere, incubi con cui convivere. Quei terribili fotogrammi ripresi coraggiosamente in età adulta e, a distanza di sessant’anni, narrati da un Kaniuk ormai maturo che non ha dimenticato le immagini incalzanti del “teleobiettivo e della steadycam” che si portava nell’anima, con i quali è riuscito a riproporre (e a riproporsi) un pezzo di storia fatto di uomini, donne, interi popoli.

“1948” è stato pubblicato nel 2010 e nel 2011 ha vinto, del tutto inaspettatamente persino per lo stesso Kaniuk, il premio letterario israeliano “Mifal Hapais – Sapir Prize for Literature”.

In un’intervista rilasciata al TG1 nel 2012, Yoram Kaniuk racconta come è nato “1948”. Nel 2005, in seguito a un cancro, Kaniuk entrò in coma e vi rimase per 3 settimane. I medici disperavano di poterlo ormai salvare. «Invece», racconta Kaniuk, «in un modo o nell’altro ne sono uscito. E quando ne sono uscito è stato come un nuovo inizio. Mi ero svegliato dalla morte che quasi mi aveva preso durante la guerra e che tentava di prendermi ora che ero vecchio. E questo mi ha permesso di tornare alla mia storia. E ho scritto un libro “dalla” guerra

Un generale dell’esercito che lesse “1948” dopo la sua pubblicazione, ebbe modo di dire a Kaniuk che gli era capitato di leggere molti libri “sulla” guerra, ma “1948” era stato scritto “dallo stomaco” della guerra.

«Ci sono libri. Ci sono film. Dotti saggi sulle battaglie cui ho partecipato eppure non riconosco quello che sta scritto lì. Pitturano il passato in modo che ci si ricordi. I combattenti, che ormai non sono più il Palmach, i combattenti superstiti sono ancora oggi occupati a sanare le loro ferite, a fuggire dagli incubi rimasti dentro di loro dopo la guerra. Ben pochi hanno fatto qualcosa che qualcuno sappia o si sono fatti un nome. Noi siamo una goccia fetida in un mare di ricordi degli eroi del Palmach. Quei grandi soldati sono diventati autisti, marinai, minatori nel Neghev e nei porti. Il loro ricordo s’è cancellato ma solo i ricordi restano loro.»

«Sessant’anni fa, dal dicembre del 1947 fino alla fine del 1948, eravamo di “bella chioma e bell’aspetto”, così siamo stati per davvero. Giuro che eravamo davvero così.», questo scrive Yoram Kaniuk nel suo romanzo “1948”, un caleidoscopio di immagini e sorti tragiche che si intrecciano. Cosmologie di umanità che vogliono vivere e sopravvivere e una giovane vita che pretende di essere vissuta fino in fondo e ricordare.

Personalmente, una volta terminato il libro, ho ricordato altre pagine di guerra, quelle descritte da Beppe Fenoglio, da Curzio Malaparte e dal film di Mario Monicelli “La grande guerra”. Un accostamento che potrà sembrare a prima vista azzardato, privo di qualsiasi coerenza storica. Per quanto mi riguarda, invece, non è così.

In tutte queste opere, così come in “1948”, è descritto il salto mortale compiuto nel secolo scorso dall’umanità nelle trincee e sui campi di battaglia. Sorti scagliate alla rinfusa nell’orrore dalla fionda invisibile degli avvenimenti storici. E dietro alle sorti, persone, immagini, vissuti, sensibilità che hanno tentato di sopravvivere. Epoche nelle quali l’umanità ha condannato se stessa a riflettere la propria immagine in specchi deformanti. Arrivando addirittura, in certi casi, a pensare, come scrive Yoram Kaniuk, che «di Dio a quell’epoca ci si fidava solo con una pistola in mano.»

Patrizia Bruggi

Fonti consultate:

“The Jewish Sabra” di Rochelle Furstenberg - The Jerusalem Post Arts And Culture, 7.10.2011

Intervista di Claudio Pagliara a Yoram Kaniuk del 7.10.2012 per TG1 Billy, reperibile su YouTube

“Yoram Kaniuk: Ich war ein Abenteurer”, di Frauke Meyer-Gosau – Cicero, 10.6.2013

Nella foto: Yoram Kaniuk (secondo da destra) insieme ad alcuni commilitoni nel 1948 – foto reperita nell’articolo pubblicato dalla rivista online “Cicero” - www.cicero.de

Nella foto: Yoram Kaniuk (secondo da destra) insieme ad alcuni commilitoni nel 1948 – foto reperita nell’articolo pubblicato dalla rivista online “Cicero” - www.cicero.de

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Massimo Moscati, "Breve storia del cinema"

12 Febbraio 2015 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni, #cinema

Massimo Moscati, "Breve storia del cinema"

Massimo Moscati

Breve Storia del Cinema

Bompiani - Pag. 480 - Euro 10

Un libro straordinario, scoperto per caso in una libreria di Livorno, acquistato come una folgorazione, scritto così bene che non riesco a staccarmene e vado pensando da giorni che andrebbe studiato, non soltanto letto. Un testo indispensabile per chi ama il cinema e vuole cominciare a capirlo, soprattutto perché non è scritto in critichese, lingua incomprensibile - molto vicino al politichese - di cui si nutrono tanti saccentoni di casa nostra. Scrivere di cinema non significa essere giocoforza astrusi e complessi, usare un italiano colto e forbito, cercare di non farsi capire se non da pochi eletti. Scrivere di cinema vuol dire raccontare la fabbrica dei sogni all'uomo della strada, al cittadino comune, al ragazzo che vuole avvicinarsi a un fenomeno culturale fruibile da tutti. Bravo Moscati - giornalista e sceneggiatore, autore tra l'altro di un manuale di sceneggiatura e di un dizionario dei film - che parte dagli albori del cinema, ci racconta Wells, Chaplin, Bergman, Wilder, la commedia all'italiana, il melodramma, la nouvelle vague, il surrealismo, il neorealismo, il realismo poetico francese, il cinema giapponese, cinese, sovietico, persino messicano e cubano, in una suggestiva carrellata di ricordi. Moscati compie un ben preciso percorso critico privo di omissioni, non trascura il gusto personale, racconta Hollywood, Cinecittà, il cinema indiano e palestinese, il periodo del muto, la comparsa del sonoro, il 3D e l'animazione, finisce per analizzare oltre mille film con passione e competenza. Un libro enciclopedico senza la pesantezza di un dizionario ma scritto con la leggerezza di un romanzo popolare, divulgativo e scientifico, di facile comprensione e al tempo stesso tecnico. Prima edizione 1999. Seconda edizione ottobre 2014. Costa soltanto dieci euro per quasi 500 pagine. Cosa aspettate a comprarlo?

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Andrea Biscaro, "Il vicino"

8 Febbraio 2015 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Andrea Biscaro, "Il vicino"

Il vicino

Andrea Biscaro

Safarà editore

pp 194

12, 50

Fino agli ultimi due capitoli, “Il vicino”, di Andrea Biscaro, è un thriller che t’inchioda dal primo rigo.

Situazione angosciosa in crescendo: il protagonista - un pittore di qualche fama che vive in campagna con una gatta dopo aver divorziato - riceve un film snuff nel quale appare protagonista. Si tratta di un video amatoriale pornografico, in cui vengono mostrate torture, culminanti con la morte della vittima, nello specifico una donna alla quale lui, dopo il sesso, mozza la testa con una sega. Diciamo che le varie sequenze di delitti nel romanzo sono fin troppo splatter ma comunque funzionali al genere. Il pittore, che non ricorda di aver compiuto mai niente di così efferato, vive isolato nella campagna della Tuscia, vicino ad un paese riconducibile a Pitigliano, bello quanto inquietante retaggio di antiche testimonianze etrusche. Accanto a lui è venuto ad abitare da poco uno strano personaggio, un architetto dai modi affascinanti ma ambigui. Pagina dopo pagina la paura cresce. Biscaro è bravissimo a rendere il dilatarsi dell’orrore, la sensazione di essere sempre più in trappola, la minaccia.

Il finale non possiamo svelarlo, anche se vi sarà una specie di contrappasso, una punizione per antichi peccati. Nonostante la spiegazione razionale, intuiamo che non tutto è come sembra. C’è comunque molto inconscio, molto rimosso, dietro le vicende/allucinazioni di cui è vittima il pittore protagonista della storia.

Intravedo i loro becchi neri che grondano sangue. Io non posso muovermi. Non è soltanto la paura. È impossibile spostarsi in mezzo a questa invasione, a questa violenza di ali, a questa tempesta nera.(…) I loro becchi raggiungono la mia gola, la squarciano, mi tranciano la carotide. I loro becchi invadono i miei occhi, bevono i miei bulbi. I loro becchi si fanno strada nelle mie carni, nel mio petto, scavano nelle ossa e nei nervi, trovano il mio cuore e lo divorano, lo beccano, lo spolpano, lo fanno scomparire nelle loro gole gracchianti.” (pag 156)

Ciò che gli capita non è un caso, ciò che prova nasce dal rimorso e dal tormento interiore. E questo, nel finale, meriterebbe di essere sviluppato meglio.

La narrazione, abbiamo detto, fila come un treno fino agli ultimi due capitoli che, a nostro avviso, creano un anticlimax troppo sbrigativo, tropo esplicito e perciò deludente, specialmente perché non tutto risulta credibile.

Lo stile è ottimo, l’insistita paratassi – al limite quasi della scrittura poetica – all’inizio spiazza, ma serve bene lo scopo di produrre un ritmo incalzante e feroce, una morsa che si stringe attorno all’io narrante fino a stritolarlo, ed è compensata da una scrittura perfetta che non lascia niente al caso. Intelligente la scelta di una narrazione onnisciente, con l’espediente del reiterato “se qualcuno potesse vedermi da fuori”, e la resa oggettiva dei dialoghi, riprodotti, non tanto come sceneggiature, quanto come vere e proprie registrazioni su nastro.

Se qualcuno potesse vedere il mio volto ora dall’esterno, vedrebbe le orbite dei miei occhi farsi buie, cave. Vedrebbe la pelle del mio viso tesa in una maschera di orrore. Qualcuno potrebbe pensare di vedere una sigaretta nella mia mano destra, stretta tra indice e medio. Qualcuno potrebbe persino intuire la forma di un bicchiere pieno nella mia mano sinistra.” (pag 11)

“Pensare”, “intuire” sono verbi che attirano la nostra attenzione sulla possibilità che ciò che viene descritto non sia vero, sia frutto di una illusione. Per contrasto, la messinscena architettata ai danni del protagonista appare più che mai reale, mentre ciò che egli compie, le sue azioni, sono messe in dubbio dai suoi stessi pensieri. Il pittore afferma di aver smesso di bere, di fumare e di fare le altre cose sbagliate che lo hanno portato al punto in cui è, cioè ad essere un uomo solo e braccato, ma, forse nella sua mano quel bicchiere c’è ancora, la sigaretta sta ancora fra le sue dita, il vizio è sempre dentro a rodergli il cuore come i l becco dei corvi, il male cova in attesa di un indennizzo, di una vendetta.

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Sacha Naspini, "Ciò che Dio unisce"

2 Febbraio 2015 , Scritto da Gordiano Lupi Con tag #gordiano lupi, #recensioni

Sacha Naspini, "Ciò che Dio unisce"

Sacha Naspini

Ciò che Dio unisce

Piano B Edizioni

pp. 176

Euro 14

Sacha Naspini torna a scrivere le storie che piacciono a noi, quelle con cui l'abbiamo conosciuto, in piena sintonia con I cariolanti (Elliot, 2009) e Le nostre assenze (Elliot, 2012), ma anche con L'ingrato e I sassi (Il Foglio Letterario). Storie di vita quotidiana, romanzi di formazione, narrativa letteraria ai confini con il genere, come un regista sperimentale che racconta la realtà a base di inquietanti soggettive e poetici piani sequenza. Ciò che Dio unisce ricostruisce una vicenda matrimoniale - partendo dai rispettivi addii al celibato - da due diversi punti di vista, scanditi da capitoli alterni intitolati con il nome di lui (Michele) e di lei (Marta) che seguono il filo conduttore dei diversi pensieri. L'autore riesce a calarsi bene sia nella psicologia maschile che in quella femminile, non risultando invadente e non facendo trapelare il suo pensiero. Naspini racconta tramite i personaggi e scompare in loro, dote non comune nella narrativa ombelicale contemporanea pervasa da emuli - più o meno riusciti - di Proust. La materia del romanzo è narrativa nera, alla Ammaniti dei tempi in cui scriveva storie dure e taglienti, stile Fango o Ti prendo e ti porto via, permeata da una psicologia di fondo che ricorda il Bergman di Scene da un matrimonio. Proprio come nel capolavoro cinematografico del maestro svedese, anche nel romanzo di Naspini le tensioni matrimoniali - dopo un lungo periodo di incubazione - giungono al loro culmine e a un certo punto esplodono. La gelosia di lui, i tradimenti di lei, il gruppo musicale e gli amici che imperversano, gli scherzi oltre ogni limite nella prima notte di nozze, tutto congiura verso un finale imprevedibile e sconvolgente. Naspini contamina noir e horror metropolitano, romanzo criminale e letteratura, cinema e cronaca nera. Trova una sua strada narrativa che lo distingue nel panorama contemporaneo, uno stile asciutto, freddo, senza tanti fronzoli, efficace da un punto di vista comunicativo. Ottima l'ambientazione maremmana, in una Follonica notturna e decadente, teatro insolito di una cattiva storia di provincia. Non manca un pizzico di erotismo, come è presente la musica, vera passione dell'autore, che fa capolino con il gruppo inesistente dei Paturnia (in maremmano si dice: "Non ti fare tante paturnie!", per dire di non farsi problemi inesistenti) e dal Quartiere Latino, locale follonichese che fa musica dal vivo. L'ultimo capitolo del romanzo è dedicato ai pensieri dell'amico di Michele, ai suoi ricordi, a quel che ritiene possa accadere durante la prima notte di nozze, prima di partire per uno splendido viaggio intorno al mondo. Non sa quanto si sbaglia. Bravo Naspini che sei tornato all'ovile di quel che sai fare meglio. Altro che romanzi storici!

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