Overblog
Segui questo blog Administration + Create my blog
signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

recensioni

101 ragioni per non leggere il libro “101 modi per riconoscere il tuo Principe Azzurro”

14 Giugno 2017 , Scritto da Federica Cabras Con tag #federica cabras, #recensioni

 

 

Mi sono innamorata della Federica Bosco dei romanzi. Empatica, attenta ai personaggi, innovativa nei finali. In particolare Innamorata di un angelo e Il mio angelo segreto mi colpirono parecchio. Sì, è vero, si trattava di storie che parlavano di adolescenti – e forse ad adolescenti dirette – però mi avevano rapita, malgrado avessi più di vent’anni e i brufoli da quattordicenne mi fossero passati da un po’; alla fine del primo libro, di quel Pat un po’ dolce e un po’ tenebroso mi innamorai anche io. Nel secondo libro, piansi a lungo per lui e per lei e per quell’amore che non poteva avvenire. Ecco perché qualche giorno fa, alla ricerca di una lettura un po’ meno pesante delle ultime, mi sono illuminata vedendo il nome della Bosco.

Io non amo stereotipi né luoghi comuni, a maggior ragione se associati all’amore; forse già dal titolo avrei dovuto capire che il libro ne sarebbe stato pieno zeppo. Che mi aspettavo?

101 modi per riconoscere il tuo principe azzurro (senza dover baciare tutti i rospi) è probabilmente entrato nella rosa dei libri più brutti che io abbia mai letto. Sono una lettrice onnivora, generalmente finisco tutto quello che inizio. Di rado abbandono un libro a metà. Non mi pare corretto. Verso l’autore, sì, ma anche verso chi l’ha letto dandone una buona opinione. Poi io ho l’animo buono: anche quando un testo non mi ha convinta – non appieno, almeno – voglio sempre trovare un motivo perché venga letto. Che sia per l’uso interessante delle parole, per qualche analogia divertente, per la punteggiatura impeccabile... non mi accontento se non lo “salvo” almeno un pochino.

Questo non ho potuto. L’ho piantato in asso a metà.

Quindi voglio sottolineare che la mia recensione riguarda la prima metà del testo, la parte di testo che sono riuscita a leggere prima che un buco nero inghiottisse la mia pazienza.

La Bosco fa sostanzialmente una lunga lista di “tipi da evitare”, esortando noi donne, le principesse, a cercare il principe azzurro. Ma sì, sapete quale? L’uomo perfetto, quello che si ricorda compleanni e anniversari, che non russa e non puzza, che ti chiama quando vorresti essere chiamata e non ti chiama quando hai la sindrome premestruale; l’uomo che dorme accanto a te, che non guarda film porno – giammai! – e che si finge morto se tu parli del tuo peso.

Noi principesse, dice la Bosco, incappiamo spesso in brutti a cattivi ceffi. Ecco, dopo aver letto questo libro, saremo tutte salve.

Dai consigli più scontati – “Se è sposato” – ai più sciocchi – “Se guarda troppi film porno” o “Se non vuole dormire con te” – la Bosco si dimostra una donna noiosa che vorrebbe un uomo perfetto, che non esca mai dalle righe che lei ha diligentemente tracciato. Un uomo barboso che fa sempre quello che la sua compagna vorrebbe, senza se e senza ma.

Ora, ci sta se mi dici che bisogna evitare gli uomini sposati o violenti o prepotenti – e ci credo, non pensavo nemmeno servisse un libro così strutturato per capirlo – ma come fai a dirmi che devi lasciarlo se non vuole dormire con te fin dai primi appuntamenti? Uno può anche voler riservare quella parte di intimità per il futuro della coppia, se mai ci sarà. Mica dal secondo appuntamento si può dormire abbracciati a cucchiaio come nelle migliori pubblicità di deodoranti, eh. Che consiglio sciocco. Io ad esempio soffro di insonnia. Come potrei dormire con uno sconosciuto – perché questo sarebbe, dopo due appuntamenti – così, senza nessun problema? Mi girerei e rigirerei nel letto per ore, facendo passare a lui tutta la voglia di vivere e di rivedermi. Ora io ho preso l’insonnia, ma ci sono almeno un milione di altre ragioni valide per non voler dormire insieme all’inizio di una relazione. Che la Bosco dica che è una cosa carinissima a prescindere offende un poco la mia intelligenza... macché!

 

Non mi ricordo di aver mai letto che il Principe, dopo aver sedotto Biancaneve, se ne saltasse in groppa nel suo cavallo bianco nella notte per raggiungere il castello da solo, perciò se non se la sente, molto probabilmente riesce a dedicarsi a te solo per un tempo breve.”

 

Un Principe, ragazze. Delle favole. Favole che non esistono e che vengono raccontate alle bambine sotto i dieci anni affinché prendano sonno.

Anche la storia del peso. Signori, siamo noi donne quelle ad essere super extra preoccupate del proprio peso. Ne parliamo continuamente, lamentandoci di quel grissino che ci ha fatto prendere mezzo grammo. Mettiamo che io passi due ore a lamentarmi di avere due chili in più e che il mio uomo, dopo aver ascoltato con grande pazienza tutti quei vaneggiamenti, mi faccia notare che quei due chili si potrebbero perdere facendo una camminata ogni giorno all’alba per venti giorni... sarebbe un insensibile? Andrebbe lasciato perché non mi ha abbracciata per dirmi che quei due chili sono belli, dolci e morbidosi? Perché non mi ha detto quanto impazzisca per quei due chili? Perché non mi ha proposto di correre con me e di mangiare anche lui solo insalata per tre mesi, tre settimane e tre giorni?

Io non mi sono mai considerata una principessa. Ho un carattere scostante, un umore spesso altalenante, un equilibrio psico-fisico molto poco stabile... potrei mai io – proprio io –, io che sono spesso cinica anche verso me stessa e un po’ insensibile, parlare del principe azzurro?

Che il principe azzurro non esista l’ho capito più o meno a sette anni. Non vedo perché alcune donne dovrebbero cercarlo da adulte. Non so, è quasi un’idea malsana, almeno secondo me.

Ragazze, se posso darvi un consiglio io, be’... state insieme a lui se gli occhi vi diventano lucidi e il cuore batte forte, anche se a volte non chiama. Anche se non vuole ancora presentarvi la mamma.

Se state insieme da un mese e mezzo, poi, amatelo anche:

“Se d’estate vuole fare vacanze separate”, “Se ti porta fuori solo il mercoledì” – che sarebbe, secondo un’amica dell’autrice, il giorno delle “donne brutte” –, “Se preferisce il suo lavoro”, “Se è troppo competitivo”.

D’altronde ognuno ha il suo modo di affrontare la vita.

Poi, riguardo il punto 37, se sua mamma lo chiama più di sette volte al giorno a voi che importa? Non siete costrette a sentire.

Non fidatevi dei luoghi comuni trovati nel libro come: “Gli uomini sono semplici, a volte dicono le cose senza pensare e senza il vero intento di ferire, quindi se lui ti ha detto che sei un po’ ingrassata, ma non intendeva altro che questo, informalo che per te non è piacevole che lui te lo faccia notare, perché lo sai benissimo da sola, e che saresti contenta se lui ti sostenesse magari stando a dieta insieme o andando a correre la domenica mattina” – che poi, veramente abbiamo bisogno che lui stia a dieta con noi?

Certo, prendendo in esame altri punti, se è sempre ubriaco, se ti ruba i soldi, se ti tratta male di fronte agli altri e se non ti rispetta forse non è quello giusto. Be’, anche se è capo di una setta, anche se credo sia meno frequente, in effetti...

Se poi fa sesso con la tua migliore amica o con tua sorella – punto 23 – forse nemmeno l’amica e la sorella sono il top, no?

Va be’, detto questo, siamo giunti alla metà che ho letto e su cui posso dare un parere. Quindi, passo e chiudo.

Ah, aspettate. Leggetelo se siete insicure, se pensate di essere principesse incomprese, se pensate di avere bisogno di una relazione con un uomo perfetto, se pensate di essere perfette voi. E auguri, soprattutto.

 

Mostra altro

Parte un nuovo progetto: radioblog, ovvero le nostre audioletture!

11 Giugno 2017 , Scritto da Chiara Pugliese Con tag #chiara pugliese, #recensioni, #radioblog, #poli patrizia

 

 

Un saluto a tutti voi. Come sicuramente la quasi totalità dei frequentatori di questo blog, sono una grandissima appassionata di lettura e, come molti appassionati di lettura, mi piace, al termine di un libro, poterne discutere con altri lettori o addirittura, cosa non sempre facile, direttamente con chi ha scritto quel libro!

Purtroppo la frenesia della vita quotidiana non sempre ci consente di poterci ritrovare tutti insieme in un luogo fisico, magari una bella libreria, un rilassante caffè, a discutere amabilmente dei nostri testi preferiti ed è proprio per questo che la mia idea sarebbe quella di creare virtualmente questo luogo, di dare vita ad un angolo dove ci scambieremo idee, impressioni, opinioni su ciò che abbiamo letto.

La mia idea sarebbe di scegliere ogni mese o ogni due mesi un libro di scrittori che si stanno affacciando nel panorama letterario italiano, i cosiddetti scrittori emergenti.

Io vi farò una breve presentazione del libro e vi leggerò qualche brano che ritengo possa farvene respirare l’atmosfera e farvi nascere la curiosità di leggerlo.

A quel punto entrerete in gioco voi: servendovi dello spazio che avremo a disposizione nel blog potrete fare domande, commenti, osservazioni sulla lettura da condividere con gli altri e potrete fare tutte le domande che vi piacerebbe fare a chi quel libro l’ha scritto.

Dopo un mese circa infatti faremo una chiacchierata con lo scrittore che costituirà il coronamento della nostra esperienza di lettura ed io cercherò di fare in modo che tutte le richieste, quesiti e dubbi che emergeranno abbiano una riposta e vengano condivisi con l’autore.

Detto questo vorrei sapere prima di tutto se questo progetto vi interessa, vi stimola, se lo trovate utile e, naturalmente, se avete, idee, spunti, riflessioni, fatevi avanti!!

Scrivete a chiara1312@gmail.com

 

 

Iniziamo subito con L'Uomo del sorriso, di Patrizia Poli, Marchetti Editore

 

Musica: http://www.bensound.com

 

 

 

Parte un  nuovo progetto: radioblog, ovvero le nostre audioletture!
Mostra altro

Ella M. Scarlett, "L'albero della vita"

9 Giugno 2017 , Scritto da Federica Cabras Con tag #federica cabras, #recensioni, #fantasy

 

 

L’albero della vita - La Genesi

Ella M. Scarlett

 

Genesis Publishing

 

In origine il giardino venne creato per ospitare l’uomo e la donna: quella bizzarra mescolanza di carne e spirito che Dio aveva creato di fronte agli occhi attoniti della stirpe celeste.”

 

Tra passato e presente, mentre la realtà si mescola alla fantasia, i nostri occhi si perdono in vicende antiche e recenti, conosciute e sconosciute.

Eva è lontana dall’Eden, nello spazio e nel tempo; ora è una ragazza condannata a vivere per sempre, nei secoli dei secoli, lontana dal suo Adam, nella speranza di incontrarlo, di riunirsi al suo ish. I suoi sigilli si sono rotti, ecco perché ricorda tutto. Vive una vita simile a quella delle ragazze mortali, normali – quelle che non hanno mangiato una mela scatenando le ire del Signore – però è incompleta, infelice. Lui è la metà della sua mela, il suo senso. Lo ama profondamente, con un’urgenza fuori dal comune. Lo ama perché sono stati creati insieme e insieme sono stati puniti e condannati. Lo ama ma non può abbracciarlo, assaporarne l’odore. Lo cerca, soffre.

Fino al giorno in cui lo vede. È Adam, benché arrogante e strafottente. Lei è la sua ishà. Ma i sigilli di lui sono saldi, ancora integri. Ecco perché non la riconosce. Nel frattempo, mentre lei cerca disperatamente di avvicinarlo, una lotta imperversa. Bene e male. Inferi e Paradiso.

Gli arcangeli e il loro eterno bisogno di servire il Padre.

Lucifiel e la rabbia verso gli umani, la voglia di ucciderli.

Lilith, prima moglie di Adam, e la sua brama di vendetta.

Una lotta che dura da secoli, che per secoli potrebbe durare.

In questa storia, malvagità, vendetta, dolore; anche amore, però, e lealtà.

Regno Celeste e Inferi in guerra.

Chi riuscirà a vincere? A che prezzo?

Arcangeli saggi, demoni urlanti.

E abbiamo il Padre, così amareggiato da una lotta tra fratelli. Così triste per l’arroganza umana. Così saggio e un po’ annoiato. Così poco presente nella vita degli uomini, ma per giusta causa. Così perfetto seppur, è evidente, nell’imperfezione.

 

Il Signore era ferito e addolorato a causa sua, a causa della loro lotta e delle perdite che questa aveva provocato. E, anche se aveva ottenuto tutto ciò che pensava di volere da sempre, in quel momento Lucifiel avrebbe dato la propria vita per poter tornare indietro e cancellare ogni cosa.”

 

Lucifiel è carico di rabbia, è pronto a distruggere quelli che sono i suoi stessi fratelli. Odia gli umani, li disprezza; non capisce perché il Padre li ami così, di un sentimento profondo e autentico. Lui, quegli ingrati, li ucciderebbe. Ma è capace di provare rimorso? Che prezzo ha la sua battaglia?

Morte e vita. Cattivi presagi e speranza. Male e bene.

 

 

Mostra altro

Marco Saverio Loperfido, "Memorie di un bugiardo"

8 Giugno 2017 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

 

 

Memorie di un bugiardo

Marco Saverio Loperfido

 

Annulli Editori, 2017

pp 225

13,00

 

Chissà perché, leggendo Memorie di un bugiardo di Marco Saverio Loperfido, mi è venuto in mente Il cimitero di Praga, forse per l’atmosfera strana e cupa. Ma qui Praga non c’entra, qui è Venezia che giganteggia e rappresenta la parte più riuscita dell’opera.

Nella seconda metà dell’Ottocento un truffatore sbarca il lunario spacciando penne, a suo dire appartenute a personaggi famosi. Così facendo viene in contatto con molte figure rappresentative della cultura del tempo, da Melville a Wagner, da Dumas a Nietzsche a Dostoevskij etc. Loperfido è laureato in filosofia e si sente che in questo libro ha riversato molte delle proprie conoscenze. La trama artificiosa e similpicaresca è fin troppo un pretesto per spaziare in campo intellettuale, a scapito della scorrevolezza.

Il protagonista è un amorale che s’imbeve di nichilismo grazie alle sue frequentazioni culturali. La sua vita è un’immersione nella cultura, suo malgrado. C’è, però, un alter ego, il debole prete Gioacchino, che vive per interposta persona e probabilmente non esiste nemmeno. Egli si comporta come una sorta di Bignami della letteratura. Chiuso nella sua stanza, legge al posto del protagonista e riassume per lui, assorbendo avidamente, attraverso narrazioni scritte ed orali, una realtà che la sua condizione claustrale gli impedisce di vivere. Ma è tutto un gioco di specchi, narratore e prete si odiano come possono odiarsi due differenti parti di una stessa persona, quella intellettuale e quella pratica, quella che vive e quella che contempla. Così come nel precedente romanzo di Loperfido, i due protagonisti lentamente si avvicinano fino a confluire, fino a chiamarsi con lo stesso nome, fino a scrivere l’uno la storia dell’altro.

Ma, ripetiamo, il personaggio più riuscito non è il protagonista, né il suo riflesso clericale, né alcuna delle tante figure in cui si imbatte, bensì la città che fa da sfondo, da culla e da cornice, alle vicende, fra calli umide e lo sciacquio delle onde lungo le banchine.

 

Venezia è l’unico luogo al mondo per il quale io riesca a provare la stessa cosa che provo per la musica. In queste calli sembra che aleggi sempre una musica, non credete? Venezia è un silenzioso ma incessante concerto a cielo aperto. Visitare Venezia è come calarsi dentro a una sinfonia.” (pag 191)

 

La città è magica e fantasmagorica, può illuderci e farci vedere quello che non è, creando sosia, riflessi, “false verità”, “falsi amici” e “claude glass”, per tornare al precedente romanzo dell’autore. Senza dimenticare che tutto è narrato, appunto, da un bugiardo.

 

Per chi vive a Venezia questo è abbastanza normale e inconsciamente lo sappiamo tutti: la città sull’acqua può, in un istante e grazie ai suoi riflessi, diventare magicamente un vaneggiamento sotto il cielo traslucido.” (pag 68)

 

Così due personaggi finiscono per chiamarsi con lo stesso nome, così un manoscritto compare, scompare e poi viene riscritto da capo, così una prostituta è smerciata per fidanzata. “Forse anche i fiori, pensai, non sono altro che ingannatori di api”. (pag 115) E nella natura umana, anche nella più elevata, si nasconde sempre quella animale.

 

 

 

Mostra altro

Lina Maria Ugolini, "Fuad delle farfalle"

4 Giugno 2017 , Scritto da Federica Cabras Con tag #federica cabras, #recensioni

 

 

Fuad è una ragazza speciale, è dolce, ed è immensamente forte, benché abbia solo sedici anni. Le farfalle la cercano, volano attorno a lei, le fanno dono della loro leggiadria. Lei le tocca, senza rovinare le ali fini e preziose, e sembra dialogare con loro. Ha l’animo libero, Fuad, è come un soffio di vento impossibile da imbrigliare in regole, convenzioni, restrizioni. Ha vissuto già una vita dura. Ha conosciuto la malvagità umana, quella che porta oscurità e male – male puro e perverso – tuttavia non si è arresa. Lontana dalla sua mamma e tradita da suo padre e dai suoi fratelli, vive con la berbera Kanica. Kanica è saggia, sa sempre cosa dire. Ha tre lune, in fronte, ognuna di esse rappresenta un amore. Pazientemente, si siede con la giovane e le rivela la potenza di quegli amori. Si sofferma sull’ultimo, quello per Naghib, il vecchio con un solo dente e un buffo naso con il quale odorava di tutto. Il loro fu un amore esploso violentemente ma impossibile da attuare, e forse per questo ancor più doloroso. Ora il vecchio Naghib riposa perpetuamente con quella che fu la sua sposa legittima; nelle memorie di Kanica, ormai quieto e denso di malinconia, giace quel sentimento che fu forte quanto il vento che soffia durante una tempesta. Fuad non sa dove sia la sua mamma, ma ben presto sa che è viva. Maisa è viva, la ama, la attende. Sarà difficile raggiungerla, ma Fuad intraprende un percorso per unirsi a quella donna che combatte per rendere il destino delle donne musulmane meno duro, crudo.

 

«Sono Maisa, il mio nome vuol dire Colei che avanza con passo fiero, colei che non ha paura di nessuno. Lotto da anni per difendere i diritti dei deboli, dei bambini, delle yazide e di tutte le donne. Combatto perché le donne possano sciogliere al vento i propri capelli, studiare, imparare dai libri per migliorare questa nostra terra. […] Noi non siamo nate solo per unirci in matrimonio e servire gli uomini, ma per essere rispettate nell’amore. Sono brocche, le donne, i nostri fianchi conoscono il disegno elegante delle dune, la quiete dell’oasi. Siamo ceste, canestri, ghirlande di verità e mistero.»

 

Ma presto sorge un problema. Lo sceicco Omair vede in lei una sposa, malgrado la giovane età. È attratto da quella sua leggiadria, da quel suo rincorrere le farfalle. La sua giovinezza lo tenta, lui che di giovane non ha più nemmeno il cuore e l’animo. Sta per prenderla con la forza – e le grida di lei non lo scuotono – quando un misterioso uomo la salva.

È un tuareg, e l’indaco è il suo colore.

Ma soprattutto è Jamil, il suo amico d’infanzia. Ben presto i due si rendono conto che si possono perdere uno negli occhi dell’altro e che il contatto tra le loro mani genera qualcosa di più forte dell’elettricità. Si amano.

 

«Mi ami, Fuad?» le chiese di nuovo Jamil.

Fuad lo guardò e l’azzurro dei suoi occhi toccò la pelle di Jamil.

«Se l’amore è un fiore io ti amo perché sui fiori si posano le farfalle. Se l’amore è il cielo ti amerò solo se le mie farfalle potranno volare.»

 

Sarà difficile. Sono in cammino e gli ostacoli sono dietro l’angolo. C’è guerra, disperazione, c’è restrizione. C’è repressione.

In questa storia che si legge con un groppo in gola, c’è coraggio, forza – la forza delle donne.

Donne che non possono esistere, se non per i bisogni dell’uomo; donne che vengono maltrattate, umiliate, violentate, uccise; donne delle quali il parere non vale.

Donne che potrebbero vivere al pari degli uomini ma che non possono farlo, relegate in un angolo e defraudate della propria dignità. Donne senza un’identità.

Donne che combattono, impavide e forti. Donne come Maisa, combattenti nate. Senza timore, sfida le leggi del suo popolo. Mette la sua vita a disposizione affinché le cose cambino, affinché le donne possano essere come gli uomini, possano essere libere.

Si parla anche di uomini: si sa, chi non si conforma alle regole non ha buona vita, in certe parti del mondo.

 

Ab aveva imparato a non rispondere a suo padre, la musica rappresentava il suo mondo, un mondo dove essere libero. Si sentiva una donna sigillata in un corpo inopportuno. Era questo dolore che la sua voce cantava, il lamento di una prigioniera chiusa in una torre alta fino alle nuvole, un canto che negli anni aveva cessato d’essere tormento per accogliere il languore della rassegnazione.

 

C’è anche molta saggezza, in questo testo che odora di mistero, di comprensione, di verità.

L’amore di Jamil per Fuad va oltre ogni credenza musulmana. È puro, vero. È un amore dolce che si nutre di dialogo, di occhi negli occhi e di mani che si stringono con forza. È un amore che odora di per sempre e di giuramenti non ancora pronunciati. È la sua sposa pur non essendolo, non ancora.

 

«Un giorno dovrai giacere con una donna» gli aveva detto una volta il beduino Gedin «ti stringerai al suo corpo e lei al tuo. Ricorda però che devi essere ciò che sei, senza inganno, perché non basta essere nudi per mostrarsi nudi. Amerai veramente solo se saprai chi sei ed è questo segreto che dovrai confessare nell’estasi del tuo cuore, così che la tua donna confesserà a te il suo amore e questo amore diventerà nettare di vita per entrambi.»

 

È crudo, è vero, è una fiaba fatta di realtà.

È la storia di una combattente, Fuad, una combattente che amava le farfalle.

 

 

 

 

Mostra altro

Miriam Bruni, "Credere nell'attesa"

3 Giugno 2017 , Scritto da Angela Caccia Con tag #angela caccia, #recensioni, #poesia

 

 

Da Le lettere di Berlicche di Clive Staples Lewis

Caro Malacoda - è il diavolo Berlicche che scrive al nipote imbranato per addestrarlo al male-, se tenti gli uomini al piacere non fai nulla di utile per noi, in quanto soddisfi anche il nostro Nemico, poiché il piacere fa parte della sua creazione; tenta invece l’uomo all’aridità, all’apatia, portalo adagio adagio nel deserto, e quando è nel deserto impediscigli di pregare: allora avrai vinto anche l’ultima battaglia.

 

E inizio da qui a parlare di questo libro/scrigno, Credere nell’attesa di Miriam Bruni, Terra d’Ulivi Edizioni. Un qui molto lontano e ancestrale, com’è solo la preghiera, e il brano di Lewis la dice lunga, seppur implicitamente, sull’origine e motivazioni del pregare. Il deserto è sempre dietro la porta di casa, né l’abitudine a sgranare rosari immunizza da quell’aridità: ci vuole un cuore pulsante e un digiuno che graffia perché consapevole di potersi placare solo in quel dire e ribadire a Lui la nostra fiducia – da pag. 5

 

Solo Tu, solo Tu mi vedi intera e sai

lenire l'incomprensione amara, che ci

 

rode e a tratti ci sbrana. Non credessi

all'invisibile, Signore, una fossa avrei

 

scavata, quante volte, a seppellirmi

viva. Ma sei tu l'Oltre che vado cercando.

 

Che sento, che vedo, è a Te che io chiedo

protezione profonda, l'incursione del Bene

 

nelle mie piazze, e la pace tua dolce

sulle mie pene. E un poco di luce, quel

 

tanto che basta per avanzare senza

troppa paura e a sera renderti ogni mia

 

cosa, sia essa gaia e fiduciosa, oppure

triste e polverosa. Che vita vien fuori,

 

sarai Tu a dirlo, alla mia fronte

imperlata di Cielo, e alle mie mani

 

tese a raccogliere del tuo splendore

l'eterna manna, mio Redentore.

 

Si dice che la poesia non preghi ma faccia pregare, eppure in questo libro, tra queste pagina, sembra di cogliere l’hic et nunc in cui s’aggruma una sofferenza tra le più acute che l’autrice spande sul foglio affinché, alchemicamente, attraverso i segni che ribolliranno sul bianco, si trasformi nella meta più ambita: la speranza. È un filo sottilissimo a separare questa dall’illusione: il rischio è di adagiarsi troppo nell’attesa di tempi migliori e crogiolarsi non attivandosi, o di scattare troppo in avanti sostenuti da una visione che non appartiene al presente.

È necessario quindi rimanere ben radicati alla realtà, per quanto dolorosa e inaccettabile, perché la speranza sia sempre più credibile e si concretizzi in un ventaglio di possibilità. Una strada tutta in salita: è sperare la cosa più difficile, a voce bassa e vergognosamente. La cosa facile è disperare ed è la grande tentazione (Charles Peguy)

Ecco che “vedo” Miriam chiamare per nome il suo dolore e, pensosa ma ritta, affrontarlo … - da pag. 59

 

E' agosto e ho iniziato la chemio.

Nello sforzo costante alla pazienza

le mie labbra sono chiuse.

Devi guardarmi

come una muta nube, madre.

Agli uccelli di cui odo il suono

cerco di dare un nome,

come col verso delle bestie

di fattoria o di cortile. Ma qual è

il verbo dei cortei celesti?

E' da sola che lo imparo,

nella pace che mi coglie

se li guardo, come quando

sul finire del fuoco puntualmente

mi ristoro di brace

 

e ancora – da pag. 12

 

Spoliazione

 

Dei due massimi emblemi

del femminile: capelli e seno;

caduti entrambi in una

manciata di settimane.

 

Ma resto donna e a tratti

mi assale una pena

che mi schiude e poi richiude

come il sogno che non si fa

 

reale. Fossi di pietra, ora,

non sentirei dolore

per le miriadi di cellule

programmate a morire.

 

Non sentirei pesantezze,

fastidi, nausee, timori.

Ma nemmeno questa musica

o le vostre preghiere.

 

Ma faremmo un torto a questo bel libro, alla sua autrice, se non mostrassimo anche il “lato rosato” delle sue parole. Rosata com’è la quiete, una modalità altra di essere felici. In essa non si soffre più la resistenza, l’assenza di fatica nella vita normale è inedia, ma nella quiete diventa l’attimo più vicino all’infinito – da pag. 62

 

Le foglie d'ottobre

cominciano a cadere, sì,

a scricchiolare

sotto le suole, mentre noi

di felicità

fatichiamo anche solo

a parlare. Invece

del cielo

gli stormi d'uccelli

fan piste di ghiaccio

su cui eseguire

-beati e veloci -coreografie

da lasciare estasiati.

Ancora la calura

non raggiunge

i piani alti.

Si irradia mansueta

la sera e San Luca

è una torta illuminata.

Sono tornate

le rondini

a graffiare la luna,

a suonare

i tasti del cielo

-spensierate.

 

E ancora – da pag. 35

 

Per chi può volare alto

il pervinca

è un aperto nascondiglio,

non li puoi vedere in cielo,

ti accontenti

dei rubini tra le spighe verde-luce,

delle api a crogiolarsi,

strofinarsi

dentro i fiori. Per chi è povero

di sogni realizzati è ricchissima

miniera la natura; le colline

a inizio giugno

ricoperte da criniere

e le nubi a incoronare

l'orizzonte così belle che vi affondi

con la mano della mente,

mentre foglie, fili d'erba

e petali leggeri, tutto ti ricorda

che da un vento

di carezze tu nascevi.

 

Ciò che barra il cammino è sempre la paura - s’incarna, stravolge, sa come sradicare i piedi dal reale - così la strada si biforca: da una parte la disperazione, quello stare nel deserto che è fissità e attesa dell’ineluttabile di cui parla il vecchio diavolo Berlicche; l’altra… l’altra esige un colpo di reni per approdare al coraggio della vita e della sua difesa estrema: e la preghiera, qui, non è l’auspicio di una maggiore energia che ci faccia approdare al coraggio di cui sopra, ma è già quel colpo di reni.

E termino con una breve poesia che, a mio avviso, appartiene a tutti noi, a me che mi diletto di poesia sino a scriverne più o meno indegnamente – da pag. 9

 

Sono loro ad ordinare

“Fammi fiume, fammi pane”.

 

Sono loro, le parole

a farsi vive, necessarie.

 

E quanto siano necessarie e salvifiche a Miriam, a tutti noi che continuiamo a proteggere la parte migliore, l’essenza, quella, forse, più vicina all’anima, lo spiega ancora e mirabilmente Shakespeare

 

Dà al tuo dolore le parole che esige. Il dolore che non parla, sussurra
bensì a un cuore troppo affranto l'ordine di schiantarsi.

 

 

 

Mostra altro

“Dillo tu a mammà” di Pierpaolo Mandetta: l’amore è sempre una faccenda di famiglia

19 Maggio 2017 , Scritto da Federica Cabras Con tag #federica cabras, #recensioni

 

 

"Sono sul treno che mi trascina al Sud dopo tre anni di assenza. Una volta non avrei visto l’ora di tornare alle melanzane imbottite di mamma, ai cavolfiori sott’olio della vicina. Ai muratori sudati e senza maglietta, agli anziani che giocano a carte sui tavolini di plastica, nei bar ancora pieni di fumo. Ai gatti randagi sui muretti, ai segnali stradali sbiaditi. A parlare con la panettiera che già a diciotto anni mi chiedeva quando mi sarei sposato. Al caffè a ottanta centesimi, al profumo notturno di forno acceso. Alla brezza che sa di temporale, al vento che soffia dalle masserie e sa di fieno. Ai turisti senza fronzoli, alle pagliette messe di fretta, al trucco che non serve, ai mojito a mezzanotte. Ai baci sotto la luna, alle risate in macchina con i finestrini aperti, ai pianti trattenuti davanti ai treni che vorremmo perdere."

 

Samuele è su un treno che lo porta al Sud, dalla sua famiglia. Vive da anni a Milano ma adesso deve tornare. L’amore è sempre una faccenda di famiglia e lui si sta per sposare. Deve annunciarlo a mammà, deve sputare il rospo con quelli che sono sangue del suo sangue e deve farlo subito. Saranno presto fiori d’arancio, ma non pronuncerà il “sì, lo voglio” dinanzi all’algida e spietata trentenne milanese che è al suo fianco sul treno – la stessa che lo sopporta e lo supporta da anni –, pronta ad accompagnarlo in quel viaggio all’insegna delle rivelazioni, bensì con Gilberto, suo compagno e uomo del suo cuore. È proprio lui che ha insistito affinché Samuele andasse dalla sua famiglia. L’appoggio della propria casa, quella in cui si nasce e si cresce, è fondamentale per ogni passo quotidiano, figurarsi quando ci si lega finché morte non ci separi. Ma non è semplice, e Samuele lo sa. È invaso dal terrore, dall’inquietudine; i suoi non sanno che è gay. Non è facile, nella realtà di un piccolo paese, essere se stessi. Dire ciò che si pensa e quel che si prova. Mostrarsi senza fronzoli né bugie. È per veri impavidi, la verità, quando le case di un borgo si contano nelle dita di una mano e si è – malgrado non lo si ammetta – molto, troppo interessati al parere dei suoi abitanti.

Scoprire il proprio cuore in un paesino di nemmeno duemila anime può essere doloroso, può portare conflitti e smarrimenti, può ferire. Può dilaniare. Samuele lo sa. Come reagiranno i suoi compaesani?

Lui, poi, non ha chiuso con i fantasmi del passato. È insicuro, bisognoso di attenzioni come un cucciolo ferito. Il passato gli ha fatto male, l’ha messo a dura prova, e lui non ha ancora preso un respiro di sollievo sul mondo. Tachicardico, perennemente avvolto da paturnie di ogni tipo, dipendente da calmanti e da mille altri stratagemmi per sentirsi al sicuro, al caldo, preservato dal gelo del mondo, è un uomo ancora un po’ bambino. È ironico e divertente, nei suoi eccessi di un’infanzia che ritorna.

 

"Dovevo pensarci io al cibo, lo sapevo. Vuoi capirlo che il riso mi rende stitico? Ho un equilibrio delicato, c’è già la colite spastica a darmi problemi, devo assumere fibre, non riso. Poi mi tocca prendere le pastiglie di erbe lassative, ma mi scombussolano l’organismo. Potevi fare un panino integrale con la frittata, come tutti."

 

È uno scrittore, adesso; il suo blog galoppa che è una meraviglia. La gente parla di lui, si affida ai suoi consigli, alle sue frasi che hanno una saggezza che ci si aspetterebbe da un vecchio sul letto di morte. Il mondo è suo. Tenace e caparbio, con le sue stesse forze è giunto all’apice. È un grande. Ma allora perché non sa essere felice? Perché non comprende il suo valore?

Claudia è al suo fianco, come sempre negli ultimi anni. Lo sprona con un po’ di forza, con veemenza, con foga. Sa che rispondergli con dolcezza alimenterebbe le sue paure, le sue angosce. Poi lei è una donna di città; è fredda e ambiziosa, si è presa ciò che voleva dalla vita. Ha carattere. È la persona giusta per Samuele: incontrandosi nel mezzo, entrambi sono capaci di diventare persone migliori.

 

"La sua missione è prevedere il meglio per se stessa, perciò parole come smarrimento o confusione le fanno alzare gli occhi al cielo fino a roteare le pupille verso il culo. È single da quando la conosco. Prova a suggerirle il rossetto più adatto alla sua carnagione, che piatto ordinare al ristorante o anche solo di non attraversare col rosso e ti spacca la faccia."

 

Tra una lamentela e l’altra, i due arrivano a Trentinara. Piccolo borgo del Sud, è immerso in quella che è un’aura di passato e di magia. Bloccato, congelato, qui il tempo sembra essersi fermato. E Samuele si ritrova a casa. In quella casa da cui era fuggito, la stessa che non lo ha protetto, agevolato, spronato, lasciato volare verso il mondo. La stessa che ama e odia, consapevole che l’amore e l’odio siano i motori dell’universo e certo che non per forza si escludano l’un l’altro.

C’è donna Luisa, sua madre, pratica e dolce di una dolcezza ruvida che non ha certo sapore di piagnistei né di carezze smielate sul capo; c’è Santina, la sorella con cui ha un rapporto pietoso, assente, indifferente; c’è suo padre, egoista e anche, perché no, un po’ grullo nei suoi tentativi maldestri di adattare il figlio ai suoi desideri; c’è sua nonna, una donnina con le spalle larghe e una avvedutezza che deriva un po’ dall’età e un po’ da un carattere forte, pratico, da matrona che sa risolvere ogni problema con un cenno della mano.

Ci sono loro, sì, il nucleo della sua famiglia. Ma ci sono molte altre persone, persino. L’amore è una faccenda di famiglia, ricordate? Samuele lo sa, e noi lo sappiamo con lui.

 

"Zia Cherubina. Ha cinquantasei anni ma ne dimostra centotrenta: chignon nero con ricrescita grigia impreziosito da una retina dorata, orecchini di topazio e vestaglia di chissà quale antenata ripescata da una capsula del tempo. Vedova. […] è una timorata di Dio. Non ha preso bene il fatto che, invece di bere birra con gli uomini davanti a una partita dell’Inter, io me li porti a letto."

 

Proprio quando Samuele riesce a confrontarsi con quelli che sono i suoi familiari, tirando fuori quella che è, per loro, una verità un po’ scomoda, le cose si complicano. Si mostrano dalla sua parte, questo un po’ lo sconvolge e un po’ lo stranisce. Le domande si affollano nella sua mente. È la cosa giusta? Sarò felice? Amo Gilberto?

Le persone, soprattutto nei periodi di calma piatta, amano soffrire, chiedersi se tutto va bene, rovinare il momento. È come se una forza disumana, proprio quando tutti i tasselli tornano al proprio posto, ci imponesse di non essere sereni, di non accontentarci. Perché la vita è rischio, è dolore, è corsa con il tempo e contro di esso. Chissà perché quando ci sentiamo così, è sempre il passato a farci visita.

Nel caso di Samuele, il passato ha il sapore agrodolce di un amore giovanile, quando tutto sembrava perfetto. Quando il primo amore torna a farci visita, il sapore delle lacrime è più salato. Nel suo caso, ha un nome. Peppe.

 

"Mi guarda, lo guardo. I suoi occhi, scolpiti nel faccione invecchiato dalle bugie e dai pomeriggi torridi a spalare calce sotto il sole, sono al contempo buzzurri e letterari. Mi raccontano una storia malinconica, che mi fa diventare malvagio e, subito dopo, intenerire. Lo odio e lo adoro."

 

È sempre lui – un uomo che ha imparato a soffrire e a risollevarsi – ma è confuso. Nella sua fragilità c’è la sua forza, è vero, ma ora è crollato. E nemmeno tutto il Valium del mondo può esimerlo dal prendere in mano la sua vita.

 

"Sento che la mia vita sta andando a rotoli. Là fuori c’è gente che arriva a fine mese con mille euro e due figli all’asilo, e io sono qui con il mio Valium, il collirio per la secchezza da bulbo oculare e una tachicardia che mi fa affogare in problemi di cui neppure conosco la natura."

 

È vero, è dolce, è umano e per questo è imperfetto. Ama. Del resto è un uomo del Sud e come tutti gli uomini del Sud è fatto di carne e di cuore. È istintivo. È passionale. È innamorato dell’idea dell’amore, di quel calore che ti ruba il sonno e che ti culla nel contempo.

Pierpaolo Mandetta ci catapulta nel suo mondo, nella sua fantasia densa di ironia e di verità – pungente quanto il freddo inverno –, in questa sua testa piena di comprensione, di saggezza, di umanità.

Tramite Samuele, ci fa ridere, ci accompagna, ci guida, mamma presente e premurosa, in quello che è un mondo che spesso è difficile. Quando si cresce, quando si buttano in un angolo gli abiti dell’adolescenza, be’, si perde un po’. Ci si sente spaesati. Si è adulti, sì, e le prime rughe attorno agli occhi lo dimostrano. I capelli bianchi sono lì per ricordarci che non abbiamo più quindici anni. Però non è facile prendere in mano la propria vita. Essere grandi richiede una forza immane, soprattutto in questo mondo che ci vuole così perfetti. Sempre all’altezza.

Ironia.

 

"«Mamma, secondo te qui c’è il wifi?» chiedo.

«Siamo a casa di zia Cherubina, Samue’. Qui ci stanno i crocifissi.»"

 

Convinzioni, più o meno deleterie.

 

"Crescendo, ho associato lo stare insieme alla sopportazione. Alle grida. Alle questioni in sospeso che non fanno dormire. Alla mancanza di rispetto. All’attesa che un altro giorno finisca in fretta. Non riuscivo proprio a collegarlo a un episodio felice."

 

Frammenti di vita, quella vera – dette tramite la voce di una vecchina che ne sa una più del diavolo.

 

"«Però una cosa l’ho detta, a mia nipote Vera, prima che se ne andava a studiare a Pisa» continua zia. «Una cosa tenevamo buona, noi che siamo nati settant’anni fa. Non potevamo fuggire dai problemi, come oggi, che pigli e cambi vita se una cosa non ti piace. Allora le ho detto: “Vedi che non ti devi difendere dalle cose brutte. Lascia che ti travolgano. Fatti scassare, piangi, goditi il dolore. È un privilegio, tesoro di zia, vuol dire che sei viva. Perché quando non ti succede niente, quando tutto fila liscio, o quando fai solo quello che hai deciso di fare, che hai da ricordare, poi? Non ti ricordi niente. Il dolore ci irrobustisce, ci migliora. Se non soffri, non puoi imparare a superare il dolore. Se soffri, poi non ti metti più paura.”»"

 

Lieto fine che però lascia una lacrima in sospeso negli occhi.

 

"Li guardo e li amo per la prima volta, di nuovo. Come si ama chi viene al mondo, chi è appena nato e lo si guarda con candore, senza filtri e pregiudizi. Sono perfetti così come sono e devo obbligarmi a fare i conti con i sentimenti che un saluto comporta."

 

Mandetta ci ruba, ci strega, ci trasporta in un universo che tutti abbiamo dentro – soprattutto noi, gente del Sud – ma che non sappiamo descrivere.

E ci ridona l’amore, quello nel quale tutti – anche i più cinici, i più freddi, quelli che si mettono le dita in gola quando vengono pronunciate le parole “matrimonio” e “per sempre” – credono. Quello che fa piangere e ridere e nuovamente piangere – consapevoli che in amore tutto è perfetto ed è permesso. Quello che fa pensare che, dai, in fondo va tutto bene. Quello che ci fa sentire talvolta ammaccati, è vero, ma vivi. Soprattutto vivi.

 

"L’amore. Credevo che se ne fosse andato. Partito. Espatriato. Che io non fossi la nazione giusta per la sua permanenza. […] E invece l’amore era in letargo. E adesso si è appena svegliato, sta sbadigliando, è vigile."

 

 

Mostra altro

Storia di Tönle di Mario Rigoni Stern

16 Maggio 2017 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #recensioni, #storia

 

 

Con Storia di Tönle Mario Rigoni Stern ci fa percorrere una vicenda tra storia e romanzo; il protagonista è un uomo che incarna la cultura e la mentalità della gente della zona di Asiago, tra fine Ottocento e primi anni della Grande Guerra.

Tönle è un archetipo; rappresenta uno dei tanti uomini che vivevano sul confine, una persona semplice e laboriosa, senza tenerezze particolari per l’uno o l’altro dei due nemici storici, ossia l’Austria e l’Italia. Vive arrangiandosi; ex suddito asburgico, ex soldato di quell’impero, era diventato italiano quando dopo il 1866 il Regno d’Italia si era allargato fino ai suoi paesi. È contrabbandiere, ma capace di fare il pastore e il contadino, oltre ad altri mestieri. Come tanti di quelle parti, viaggia, si sposta per lunghi mesi, torna a casa per ripartire appena possibile.

Non è solo la necessità a spingerlo dall’altipiano alle città dell’impero. È un fatto di cultura e di istinti. È un abito mentale a guidare i suoi spostamenti:

 

Come c’erano forze che lo spingevano ad andare in primavera, così c’erano quelle che lo facevano tornare alla fine dell’autunno; forze superiori a ogni volontà” .

 

Una certa irrequietezza da viaggiatore si accompagna quindi al piacere di percorrere le proprie contrade, descritte a menadito; infatti protagonista del libro è anche l’amore per il paesaggio insieme alla cultura locale.

Ecco che la guerra del '15-18 fa a pezzi il suo mondo, impone leggi, mette reticolati, crea nuovi obblighi. La vita di Tönle va in frantumi; lui parla anche tedesco ma non si sente tedesco e nemmeno italiano. Subisce come una violenza il non avere la libertà di muoversi. Ma la guerra, i militari e soprattutto lo stato sono ormai pervasivi; nessuno può stare ai margini del conflitto senza essere sospettato di essere una spia.

Lo scontro tra Tönle e gli apparati statali è quello tra un vaso di terracotta e uno di ferro. Con la Grande Guerra lo stato dilagò nella società; tutto fu asservito allo sforzo bellico, dall’economia alla stampa.

Non c’è più spazio per gli uomini di confine, per persone difficili da controllare, non incasellabili, partecipi di più culture, a loro agio ad Asiago come a Praga. Per i Tönle non c’è più posto.

Mostra altro

Tre volte te, il terzo capitolo di Babi e Step

14 Maggio 2017 , Scritto da Federica Cabras Con tag #federica cabras, #recensioni

 

 

Ci siamo innamorate di Step quando aveva il fascino del ribelle, del forte, del picchiatore. Quando era un po’ delinquente e un po’ scansafatiche. Quando passava le mattine a dormire e la notte a bere e a combinare guai. Ero ragazzina, ma il libro e il film fecero scalpore, cambiarono quella che era l’idea dell’amore per gli adolescenti. Era tenebroso quanto bastava per lasciare un alone di mistero, Step, ma il suo cuore non era impenetrabile. Io ho odiato Babi fin dal primo istante, però. Era snob e un po’ noiosetta, con quella sua mania di perfezione e quell’aria da ricca che traspariva da ogni sua frase.

In più di un’occasione mi ritrovai a pensare che no, non lo approvavo affatto questo amore – un amore dove lei scappava sempre – salvo poi innamorarmi anch’io dell’idea dell’amore che questo film promuoveva: malgrado le differenze ci si può innamorare follemente, senza respiro. La scritta sul ponte, le rose, la casa abbandonata in riva al mare… chi di noi non si è addormentato, a quindici anni, sognando tutto questo? Chi non ha immaginato un finale da favola?

Ricordo di aver letto il finale del libro con un nodo alla gola. Un amore che pareva non dover terminare mai, che sembrava più saldo di qualunque altra cosa nell’universo, che dava l’impressione di essere vero e puro e infinito… be’, terminò lo stesso. Lasciando l’amaro in bocca. E lei con un altro, e lui che soffriva.

Poi, con Ho voglia di te le cose sono mutate: lui è più grande. La ama ancora ma è stato fuori per tanto, troppo tempo. Si sa, il tempo lenisce i dolori. Un po’ è cambiato. Ha imparato a svegliarsi al mattino, a lavorare. Sa cosa vuole e si muove per averlo. Non è più un violento che passa le notti nei locali.

Tre volte te è il terzo capitolo, il capitolo conclusivo.

Se nel precedente la nostra mente si è dovuta abituare a uno Step più grande di due anni, più maturo, ora deve proprio impegnarsi: non pare rimasto nulla del primo Step, quello dei giubbotti in pelle, del tatuaggio e dello sguardo da duro. Oltre a essere cresciuto, è tollerante e dolce con chi incontra. Le vicissitudini della vita lo hanno portato a togliere quella corazza che faticosamente si era costruito da ragazzo, quella stessa corazza che allora lo aveva salvato.

Ma a che punto siamo? Be’, con Gin le cose vanno a gonfie vele tanto che i fiori d’arancio si possono toccare con le dita. È sereno, finalmente e dopo tanto tempo. La ama. Ha chiuso con il passato. Una bella casa, un impiego che frutta in televisione. Cosa si può desiderare di più?

Babi, però, l’ha dimenticata? Il primo amore si scorda mai? E se ricomparisse, proprio in questo momento che lui è in pace con se stesso?

Devo dire che in questo libro Babi mi piace di più. È umana, sa che nella sua vita ha fatto tanti errori e ne soffre. Piange, si dispera, capisce. Era quasi una cosa impossibile, per quella che credevo avesse il cuore di pietra. Abituati a vederla attaccata all’agio, ai soldi, ora si rende conto di quanto sia inutile una vita passata a rincorrere l’apparenza.

Non sopporto Gin, in compenso. Malgrado sia quasi inevitabile provare empatia per lei a causa di quello che le accade, questo suo modo di avere sempre ciò che vuole quando lo vuole è frustrante. Fastidioso. Antipatico. Lei dice A e vuole che A si avveri, nessuno le ha mai spiegato che una decisione va presa in due. Lei decide che ci si deve sposare, e guai se Step non arriva con la proposta. Lei decide che un figlio è una cosa meravigliosa, e guai se Step si permette di dire il contrario. Una ragazzina viziata, insomma.

Il cambiamento di Step è grande, immenso. È grande. Quasi tutti lo chiamano Stefano. È un grande, nel suo lavoro, è amato e rispettato. È cresciuto, ma è possibile cambiare così? Un amore finito può svegliare una persona al punto di cambiare totalmente il proprio essere?

Per tutto il testo ci chiederemo come finirà. Babi o Gin? Razionalità o cuore? La ragazza che lo fece innamorare la prima volta, lei così bimba e donna, oppure il suo chiodo scaccia chiodo (perché purtroppo Gin mi è sempre sembrata questo)?

Una ha dimostrato già una volta di non accontentarsi dell’amore, l’altra non lo lascerebbe per nulla al mondo.

Senza svelarvi nulla, vi dico solo che sarà un finale strappalacrime. E, in un certo senso, tutti verranno accontentati.

Il divario con Tre Metri Sopra il Cielo è evidente, però è anche vero che si cambia, ci si trasforma. Si cresce. Questi tre libri parlano di un amore infinito, è vero, ma sono anche testimoni di quella che è la crescita di un ragazzo che diventa uomo. Di una donna che capisce ciò che vale nella vita.

Ora attendiamo il film. Sperando ci sia Scamarcio, ovviamente.

Mostra altro

Fiore di fulmine: la storia della Roggeri che odora di morte, di leggenda e di Sardegna

11 Maggio 2017 , Scritto da Federica Cabras Con tag #federica cabras, #recensioni

 

 

Siamo a Monte Narba, piccolo villaggio minerario, e corre l’anno 1899.

Luigia e Antonio hanno quattro figli, tre maschi e una femmina. I maschi sono molto diversi tra loro. C’è chi, più passionale ed estroverso, si lascia andare a manifestazioni d’affetto più marcate; chi, più grande e assennato, guarda le cose con razionalità e maturità; e ancora chi, introverso e ombroso, sta agli angoli, schivo e avvicinabile quanto un cane rabbioso. E poi c’è Nora, ultima della covata. Coccolata ma abituata a una vita fatta di dure rinunce, capisce il sapore della morte fin dalla tragedia che vede come protagonista – unico attore di uno spettacolo nel quale il sipario si chiude per sempre – il povero padre. Antonio è morto dentro la miniera, per colpa di un crollo, e Luigia non si dà pace, condannando a quello che è un lutto perpetuo i suoi figli. Ma Nora non perde quello che è il suo carattere. Arguta e brillante, coraggiosa e tenace, non cede a quelle che sono le spicce spiegazioni di una mamma devastata dal dolore; la sua marmorea convinzione che il padre sia nell’infinita distesa del cielo con gli angeli non si scalfisce nemmeno con le bieche parole di Luigia la quale, con un cinismo gelido e insensibile, le sbatte in faccia quella che è la sua realtà: il padre è morto inghiottito dalla terra della miniera. Avventata ma anche sognatrice, la bambina esplora e tocca con mano, complice un’irruenta curiosità, tutto ciò che risveglia la sua attenzione.

"Eppure la piccola Nora, se solo avesse potuto, non avrebbe esitato a calarsi in uno dei pozzi della miniera per scoprire quali tesori dovevano certamente celarsi sottoterra, o a salire in cima al picco più alto per vedere con i suoi occhi i confini del mondo."

Durante l’arrivo di una tempesta, Nora, incauta e impetuosa come solo lei sa essere, esce, portandosi dietro il maiale di casa e i suoi maialini.

Si trova non troppo vicino ma nemmeno troppo lontano da casa, quando la tragedia si consuma. Un fulmine colpisce quel corpo gioioso, lo alza con violenza inaudita e lo ridona alla fredda terra esanime. È gelida, Nora, e nel suo viso livido il pallore è un cupo presagio di morte. È il fratello a trovare quel corpicino inanimato, lo porta in braccio fino a casa ma le sue lacrime – e quelle della mamma Luigia, rotta in due da pianto e dolore al cuore – non la svegliano. Viene messa in una bara di legno, la piccola Nora, ed è pronta per il rituale del cenere alla cenere e polvere alla polvere. Ma poi qualcosa accade, qualcosa strappa quel germoglio dalla tristezza dell’aldilà per riadagiarla con dolcezza tra i vivi. Non è la stessa: è pallida e sempre un po’ fredda, più del normale, benché sia viva. Ha un’infiorescenza che si staglia nel suo corpo, un fiore di fulmine che le ricopre il lato sinistro del corpo, quello del cuore, dal collo alla caviglia. Il suo cuore batte, nelle sue vene scorre sangue. È comunque cambiata per sempre e alla sua famiglia tutto questo cambiamento appare chiaro come il sole in una sera che sa di tenebra.

 

«Sai che cosa penso?» continuò Teresa con occhi stretti.

«Cosa, Teresa?» domandò Luigia con un filo di voce.

«E se tua figlia fosse una di quelle che vedono i morti? Com’è che le chiamano?» Rimestò nei propri ricordi per alcuni istanti, poi schioccò le dita trionfante. «Ecco! Mia nonna le chiamava così: bidemortos», scandì con tutti i denti in bella mostra."

 

Nora è capace di vedere le persone che non ci sono più, le vede nitide come fossero composte di ossa e carne e sangue. Le vede ferme davanti al suo letto, prima di addormentarsi, una cupa riunione di anime il cui corpo giace decomposto sotto la nuda terra.

Cosa può esserne di lei in un villaggio dove un dono del genere mette paura anche a chi è dotato dello spirito più ardimentoso? La sua nuova dimora a quel punto diventa la Casa delle Figlie della Carità, un orfanotrofio per orfanelle sito a Cagliari.

La cosa che ama più di qualunque altra è il ricamo. Quando può perdersi tra stoffe e punti e disegni, il suo cuore trova pace, finalmente. Placa i pensieri, quella sua passione che fa sembrare le sue mani fatate, e quieta quella che è una profonda nostalgia di casa, di amore, di tenerezza. Nessuno la abbraccia, lì dentro, e lei vorrebbe poter stare anche solo per un secondo con la madre e i fratelli. Piano piano, la speranza muore.

 

"La punta delle dita tracciò sul tessuto un progetto segreto di linee e di forme, la pupilla seguì un sentiero fatto d’oro che alla viscontessa non era dato di percepire."

 

Il suo dono è ancora vivo, una benedizione e una maledizione insieme.

 

"I piedi di Nora però non si mossero, rimasero inchiodati come sull’orlo di un precipizio. L’improvvisa certezza che sua madre fosse morta la riempì di infelicità uccidendo ogni desiderio di correre dietro allo spettro tanto amato. La bambina avrebbe voluto piangere, ma gli occhi rimasero asciutti e i singhiozzi non giunsero a portarle sollievo. Fu così che, per la prima volta in vita sua, Nora Musa ebbe paura di affrontare l’oscurità.2

 

Un giorno, però, una ricca signora, donna Trinez, la nota e la vuole a casa sua. Così inizia quella che è la sua nuova vita.

 

"Dietro le spalle di Annica, che era mezza testa più alta di lei e copriva buona parte della visuale, Nora scorse donna Trinez incastonata come una perla nel piccolo salottino dorato che completava la camera privata della nobildonna e di suo marito. Era vestita con gonna e corpino in seta color avorio ornato di gale, una sorta di nuvola immacolata piena di grazia e compostezza."

 

Nell’abitazione dei ricchi signori, Nora si sente per la prima volta apprezzata. Ma non sa che donna Trinez l’ha notata per qualcosa di cui lei non parla mai.

In un crescendo di intensità e di suggestione, la Roggeri si insinua in ogni anfratto della nostra mente. Tesse una tela impareggiabile per precisione e bellezza, una tela che è preziosa e tetra allo stesso tempo. Un cupo mistero, un segreto che odora di perdita e di pianto, una scoperta che ghiaccia il sangue. La capacità degli umani di mentire, di ingannare, di fare del male. Volontariamente e senza scrupolo. Ma non si ferma certo solo a questo, Fiore di fulmine: è una storia di forza e coraggio, di morte e di vita. Di amore e di odio. Penetreremo nella mente della piccola Nora con le sue paure folli e le sue certezze granitiche, ma anche in quella dei personaggi secondari, tutti dipinti con maestria.

La Sardegna è presente, si sente. Si può annusare e toccare.

Un capolavoro.

 

SULL’AUTRICE

Vanessa Roggeri è nata e cresciuta a Cagliari, dove si è laureata in relazioni internazionali. Ama definirsi una sarda nuragica, innamorata della sua isola così aspra e coriacea ma anche fiera e indomita. questo è il suo secondo romanzo, dopo il successo de Il cuore selvatico del ginepro.

 

Mostra altro