racconto
Natale alle vele
Luisella apre gli occhi, se li stropiccia.
Cos’è quella lucina intermittente che rompe il buio attraverso i vetri?
I gemelli dormono ancora, il respiro è pesante. Prende uno straccio dal comodino e asciuga dal mento di Pinuccio il rivolo di bava che ha inumidito il cuscino. Poi allunga una mano attraverso il suo corpo e afferra la vecchia sveglia: le sei, è ora di alzarsi. Scavalca a fatica il corpo di Giannino e con un sospiro cerca di mettere le gambe gonfie di vene bluastre giù dal letto. “Comme so’ cresciute ‘sti criature”, bisbiglia, “n’ato poco e nun ce trasimmo cchiù int’ a ‘sto lietto tutte e ttre”.
Un gesto automatico, preme l’interruttore, ma la luce non si accende: “Ah…” Sospira. Guarda le bollette sul tavolo di formica, scadute. Sospira ancora, non sa quando potrà pagarle.
Accende la candela. Strusciando le ciabatte, si accosta ai vetri; le lucine continuano a creare piccoli bagliori alternati: un filo di minuscole lampadine colorate dondola appeso ai pilastri del pianerottolo. Qualcuno si è ricordato che domani è Natale e ha voluto mettere un segnale anche in quell’inferno.
È presto, ma la giornata si presenta già cupa, gonfia di pioggia che batte e ricade sui ballatoi interni, schizzando ovunque e lasciando pantani d’acqua nerastra.
Pensa al suo vicolo, Luisella, agli odori acuti che si spargevano nell’aria nei giorni di festa, alla voce del venditore di pesce, con il bancone pieno zeppo di capitoni, lupini, vongole e cozze profumate di mare. E agli effluvi di aceto delle papaccelle che traboccavano dagli scaffali del baccalaiuolo.
Ha vissuto a lungo in quel vicolo, Luisella, con occhi inariditi e incendiati da lacrime, ma anche brillanti di una gaiezza maliziosa e misteriosa; uno di quei vicoli dove i “bassi” neri e miseri possiedono angoli illuminati da brandelli di sole; dove nelle notti d’estate un coro di fiati striscia lieve lungo i muri scrostati e anneriti dei vecchi palazzi e avvolge i corpi sudati abbandonati nel sonno.
Lì, in quel budello scuro e umido, la gioia e il dolore, la salute e la malattia, la pietà e la ferocia, sono voci così confuse tra loro, che non riesci più a distinguere bene e male, fortuna e sventura. La strada è casa, e la gente, onda del mare, quel mare che da lontano regala il salmastro a bruciare la pelle.
È stata felice in quel tempo, senza saperlo, abbandonata ai sogni di una giovinezza aspra che lievemente scivolava nella maturità.
Bastava poco, qualche metro di strada e si trovava in Via Toledo: colori, traffico delle automobili, negozi con le vetrine che invogliavano agli acquisti, l’afflusso dei suonatori ambulanti, il susseguirsi dei manifesti pubblicitari sui muri degli storici palazzi d’epoca e la folla vociante che sembrava sempre in festa.
Ora vive un altro mondo.
La candela si è spenta, prende un altro fiammifero e la riaccende, versa un po’ di cera in un piattino sbrecciato e vi poggia il moccolo quasi consumato. Si prepara il caffè nella moka annerita; lo fa lungo, il barattolo è quasi vuoto. Poi si siede accanto alla finestra, le ombre della notte si stanno diradando, qualche striscia bianca attraversa il cielo livido; ne intravede qualche spicchio tra i pilastri del ballatoio. È lo stesso cielo che la luna illuminava nel vicolo, quando, dalla finestrella della sua casa a pianterreno guardava in alto nelle sere d’inverno. Ora non guarda più in alto. Sorseggia piano la bevanda marroncina e amara. Zucchero ce n’è poco, serve per il latte dei gemelli.
Prima di uscire, dà uno sguardo a quelle due sagome immobili: dormono, sa che non si sveglieranno ancora per molte ore, rimbocca le coperte e stira con le mani la piega del ruvido lenzuolo di canapa, macchiato di ruggine.
Percorre il ballatoio, discende le ripide scale a cielo aperto, gli ascensori guasti sono ormai depositi di rifiuti; schizzi di pioggia passano attraverso i buchi del vecchio ombrello con le stecche che spuntano fuori; attraversa scheletri di giardini, passa in fretta davanti ad androni bui e scuri, schivando le “stanze del buco” e pilastri come mostri di cemento. Cento anni sulle spalle, ricordi sbrindellati negli occhi spenti, il peso di un corpo sfatto dai parti e dalla fatica.
Ha sposato il suo Salvatore, una vita fa: “Andiamo a vivere in un quartiere nuovo”, le aveva detto lui, “avremo una casa tutta nostra, con balconi e giardini per i bambini, niente più bassi, niente più vicoli stretti e scuri”. Ed era partita, ancora vestita da sposa, coi barattoli di latta che rotolavano dietro alla macchina che correva verso un infinito sconosciuto.
Ha avuto cinque figli. Tre sono morti nei primi anni di vita, sono sopravvissuti solo i gemelli, due esserini col corpo molle e la testa ciondolante. E a Salvatore è scoppiato il cuore, l’ha lasciata sola in quello strano quartiere nuovo, Le Vele, un nome che ricorda il mare, ma che del mare non ha neanche gli abissi più profondi.
Cammina per Viale della Resistenza, la strada è ancora mezza vuota, sta attenta a non calpestare cocci di vetro e siringhe sparse tra i residui d’erba inaridita.
Un tempo aveva un lavoro, Luisella, per anni si è spezzata la schiena sui pavimenti delle case dei signori al Vomero e sulle scale di uffici e cliniche. I gemelli glieli guardava l’anziana madre; poi la vecchia è morta, e lei ha dovuto abbandonare quelle attività faticose ma che le davano da vivere. Ora si arrangia col sussidio del patronato e con i pochi spiccioli che guadagna facendo la sirengaia. Ogni mattina gira per il quartiere a fare iniezioni, cinque euro ognuna, ma l’aiutano ad andare avanti e a far da mangiare a quei poveri disgraziati dei figli suoi.
Persa nei pensieri, non si accorge di essere arrivata alla prima Vela di via Labriola, la sorpassa, poi torna indietro. Arranca per le scale, ogni tanto si ferma per prendere fiato, tossisce.
All’ultimo piano, sul ballatoio uguale al suo, si somigliano tutti quelli dei mostri di cemento a Scampia, suona il campanello della prima porta. Apre Concetta, un donnone di un metro e ottanta, non ha ancora quarant’anni ma se li porta male, come tutti quelli che non hanno mai avuto tempo né voglia per la spensieratezza: i capelli striati di grigio, il corpo già sfatto, il doppio mento e un reticolo di rughe attorno agli occhi e alle labbra:
“Uè, Luisè, hai fatto tardi. Lo sai che la signora mia s’incazza se non arrivo puntuale”.
Fa lo stesso lavoro che un tempo faceva lei, va a servizio, e guadagna bene perché i suoi padroni sono ricchi e generosi. Luisella entra in cucina, sulla credenza, un piccolo albero di Natale. È da un tempo infinito che lei non lo fa più, da quando Salvatore se n’è andato, in quella torrida notte d’estate:“Tanto i gemelli neanche se ne accorgono”, pensa.
Apre lo scatolo dei medicinali già pronto sul tavolo, prende una fiala, la sbatte un po’, poi la spezza e riempie la siringa, controlla che non ci sia aria e con un batuffolo di ovatta imbevuto di alcool in una mano, si gira verso Concetta. La donna è già pronta, la natica bianca e molliccia scoperta. Un attimo, qualche secondo e tutto è finito.
“ Sì sempe brava, Luisè, tieni ‘na mano ch’è ‘na piuma. Manco me ne accorgo quanno butti l’ago int’a coscia.” Luisella sorride, piccole soddisfazioni.
Concetta apre il borsellino, prende cinque euro e glieli mette in mano, poi ne prende altri cinque e dice: “Questi sono per Natale, accatta qualcosa per le creature”. Le “creature” hanno quasi vent’anni, ma nessuno se ne ricorda, e neanche lei.
“E questo è per te”, aggiunge, prendendo un panettone dalla credenza. Luisella arrossisce, ringrazia, ed esce a testa bassa.
Nello stesso edificio, tre piani più sotto, c’è ‘o scugnato, sessant’ anni, magro, basso, senza neanche un dente, il viso scavato e la bocca che sembra una ferita. Ha la bronchite da un mese e non può portare il pane casa per casa come fa di solito. Ex carcerato, è uscito dal “giro”, si arrangia, fa il garzone per il fornaio e, quando serve, aiuta l’unico pizzaiolo del rione. Vive con una sorella zitella che fa la bidella nella scuola elementare. È tifoso della Juventus, e per questo ha anche abbuscato più di una volta dagli ultras del Napoli.
Anche da lui Luisella si sbriga in fretta: fa l’iniezione e scappa via; le dispiace un po’ prendere i cinque euro da ‘o scugnato, ma poi pensa che la sorella guadagna bene e che lei non può proprio permettersi di rinunciare a quei pochi spiccioli.
Fa ancora un giro nell’edificio accanto, compra le verdure per i gemelli e poi ritorna verso casa. Le gambe le fanno male, se le trascina a fatica. Ha smesso di piovere ma si è alzato un forte vento che solleva foglie secche e cartacce sporche.
Sul ballatoio di casa viene avvolta da un forte odore di fritto: “Ninuccia sta preparando il pranzo della vigilia”, pensa e sospira. Per lei sono solo lontani ricordi.
I gemelli dormono ancora. Si accosta al letto e li sveglia con una carezza, poi li scopre, hanno il pannolone fradicio di urina; il fetore invade la stanza. Li lava, li cambia e poi, uno alla volta, se li carica sulle spalle e li sistema sul seggiolone. Apre la finestra per far passare un po’ d’aria ma un colpo di vento la fa sbattere e un vetro si rompe. “E addò ‘o trovo mò, a Natale, uno che me lo acconcia?” Cerca un pezzo di cartone e prova a rattoppare il buco. Raccoglie i frantumi sul pavimento, i gemelli brontolano, hanno fame, emettono suoni rauchi e si sbavano schioccando la lingua.
Riscalda il latte, vi scioglie dei biscotti e uno alla volta, li imbocca, mentre loro sbattono le mani a pugno sul ripiano del seggiolone. Li sistema davanti al vecchio televisore, poi si ricorda che non funziona perché non c’è la luce e allora dà loro dei pezzi di carta da tagliuzzare, è il loro passatempo preferito; lei, alla luce della mezza finestra, si siede a rammendare.
Fa buio presto d’inverno, e le ore passano veloci.
E’ già sera, prepara il passato di verdure per i gemelli e poi li mette a letto.
Lei non può guardare neanche un po’ di tv, ma pensa che intanto i programmi natalizi le mettono tristezza. Sbocconcella una fetta di panettone, è la sua cena. Fa freddo, dalla porta e dalla finestra rattoppata di cartone entrano spifferi d’aria gelida. La fiammella della candela oscilla. Non funziona neanche la stufetta. E allora pensa di accendere tutti i fuochi del gas e anche il forno, che lascia aperto: faranno un po’ di luce e un po’ di calore.
Si spoglia, infila la camicia di flanella, mette le calze di lana e si sdraia in mezzo ai gemelli. Li tira accanto a sé, così stretti sentiranno meno freddo.
Chiude gli occhi, le sembra che le pareti si stringano; intravede un azzurro lontano, ma è solo un ricordo atroce vicino ai bagliori rossastri delle fiammelle che ardono nella stanza; i muri si accostano sempre di più, formano un pozzo viscido e nero, vede, al di sopra del soffitto, la notte e lo strazio che imperversa fuori. È talmente stanca che vorrebbe che il corpo sprofondasse. I ricordi si affollano brucianti, ma non scaldano. Un colpo di vento più forte, il cartone si stacca dal vetro, i fuochi si spengono. Non se ne accorge, la mente sta viaggiando; passa dal nero cupo al giallo di un sole lontano, dall’angoscia mortale ad una gioia folle, troppo grande da contenere. Come pesano gli occhi! Cerca di aprirli, intravede le pareti che schiacciano, ma ora si sente leggera, vola, oltre i muri, oltre i ballatoi puzzolenti, con i suoi gemelli per mano. Forse domani sarà tutto come ieri, forse i fuochi che vanno in cenere diventeranno sole.
L'incontro
Le parole sono colorate diceva Eduardo, “…tu liegge e vide ‘o blu, vide ‘o cceleste, vide ‘o russagno, ‘o vverde, ‘o ppavunazzo…”
Ma le parole sono anche suoni, immagini, musiche dell’anima.
Talvolta la parola, una sola, un’unica parola, “quella parola”, è un incontro, un avvicinarsi inaspettato tra sconosciuti, tra diversi, tra chi avrebbe potuto anche non trovarsi mai. E quando alla parola si accompagna lo sguardo, allora due mondi si fondono, si ri-conoscono, vite che si sfiorano e restano legate da un filo sottile che avvolge, stringe e impedisce di dimenticare. Una traccia indelebile nell’anima.
È così che è accaduto mentre camminavo di corsa per le strade di una città infreddolita ma frenetica, volgarmente addobbata per un Natale che bisogna a ogni costo festeggiare, illuminata in modo sciatto, così, quasi per forza, perché “a Natale si fa”, a Natale si truccano strade e piazze, si mascherano miserie e squallori. A Natale, i colori artificiali non sono quelli delle parole.
Macchine che sfrecciano e strombazzano, passanti carichi di pacchi che ti urtano indifferenti, con occhi vuoti, il sorriso stampato su volti di pietra, finto, come le luci, come i colori. E, a un incrocio, l’unico buio, addossata al muro, una grande macchia scura accartocciata; ai suoi piedi, un largo panno che intravedi sporco, carico di cianfrusaglie, radioline, statuette, portafogli: un piccolo bazar.
Passo oltre, uno dei tanti uomini-sacco, come li chiamano ora. Ho fretta, ho freddo, devo compiere il solito rituale dei regali, non ne ho voglia. Ma, qualcosa mi blocca, qualcosa mi spinge a tornare sui miei passi, una insolita curiosità, o forse no, forse il richiamo per quell’”invisibile” che sta lì, muto, rassegnato, in un luogo inconsueto. “Ecco”, penso, “ecco che come sempre mi intenerisco per un derelitto e faccio il solito gesto di generosità pelosa. Non sfuggo alla regola, a Natale si diventa tutti più buoni ed altruisti, come se, con un po’ di elemosina, ci si lavasse le coscienze”.
Ma quel cartoccio umano ha su di me uno strano fascino. Mi accosto, vorrei dargli dei soldi e poi scappare via, ma ho paura di offenderlo, e allora fingo di interessarmi a un piccolo portamonete, quasi perfetta imitazione Gucci. Lo prendo e guardo l’uomo. Senza parlare, lui alza una grande mano dal palmo rosa e mi mostra le cinque dita. Faccio il conto che, se tutto va bene, a lui andrà la metà; gli porgo una carta da dieci euro. Lui cerca in un sacchetto di pezza il resto, sempre senza parlare gli faccio cenno che va bene così, non voglio il resto.
E allora avviene l’incontro. Il giovane alza su di me due immensi occhi neri e liquidi, “occhi di paglia bruciata”, avrebbe detto Pasolini, “…occhi di poveri cani dei padroni”. Mi guarda serio per un lungo istante. Quegli occhi non sorridono, “vedono”, mi riconoscono, quegli occhi sanno. Sanno il segreto di una vita che rotola ancora alla ricerca di un senso, sanno, sanno di un Natale, di mille Natali mai arrivati. E anche io so, e vedo. Vedo tracce della sua storia antica, vedo la sua crudele innocenza, vedo lui, vero testimone dell’Avvento.
”Alì, uno dei tanti figli dei figli…” “essi che ebbero occhi solo per implorare…” “essi che si adattarono ad un mondo sotto il mondo…” (1)
Abbassa il capo, Alì; prende dalla tasca qualcosa e me lo porge: è un piccolo ciondolo d’avorio, una minuscola testa d’elefante. Io compro, lui dona.
Apre la bocca, le sue grosse labbra si stirano sui denti bianchissimi. La voce dura, roca, un’aspra carezza: AMICA, dice, solo AMICA.
Avrebbe potuto pronunciare altre parole: “grazie” per esempio , oppure “ciao”, o anche: “è per te”. E invece sceglie di dire: AMICA. E quella parola ha il colore di tutti i mondi lontani, il colore di tutti i Natali del mondo.
Sono tornata a quell’incrocio, ci passo spesso, ma lui non c’è.
Altre strade, altri marciapiedi, altri incroci lo vedranno, grande ombra scura dagli occhi brillanti, neri e lucidi come la sua pelle, porterà altrove la sua storia, la storia dei figli di “Alì dagli occhi azzurri”, pronuncerà ancora “quella parola” ad orecchi sordi, guarderà sempre in fondo a occhi ciechi, e la profezia di un Vate rimpianto, non troverà ancora echi. “Se egli non sorride, è perché la speranza per lui non fu luce, ma razionalità”. (1)
Ida Verrei.
(1) da “Profezia” di P.P.Pasolini
Cena di Natale
Il camino ardeva in cucina scoppiettando. I bambini correvano e giocavano a nascondino nelle fredde stanze dell’ampia casa per tenere a freno i gorgoglii dello stomaco, a mala pena riscaldato il mattino con pizzette con le acciughe salate e frittelle di cavolfiore. Il digiuno doveva essere rispettato anche dai più piccoli, in compenso la cena di Natale sarebbe stata più gradita e più apprezzata. Cena di magro, anche quella. Baccalà in bianco, condito con olive, pezzetti di peperoni sottaceto, prezzemolo, aglio e abbondante olio. Una vera e propria prelibatezza il baccalà fritto in abbondante olio bollente, croccante fuori e morbidissimo e gustosissimo dentro. Ancora peperoni imbottiti di mollica di pane, prezzemolo, acciughe o in alternativa con mollica di pane imbevuta di mosto per chi non adorava le alici. Gli spaghetti col sugo di vongole, pezzi di anguilla al forno o arrostita chiudevano la prima parte della cena. Le seconde mense era tutto un brulicare sulla tavola di castagne secche e morbide, noci, mandorle, confettini colorati, torroni e torroncini morbidi, duri fino a spaccare i denti, croccante e mandorle pralinate: una vera cuccagna per i piccoli, anche per riempire lo stomaco spesso riluttante verso le pietanze dei grandi.
Stranamente il cielo era di un intenso azzurro che si confondeva col biancore dei monti lontani. Nei prati qualche rada macchia bianca di neve recente. Faceva freddo, ma il sole pungeva gli occhi, già segno di primavera.
I piccoli decisero di andare alla chiesa, la piccola chiesa del paese. In fondo il gran presepe. Poggiati alla balaustra due freddolosi pastori nelle ampie giacche di bianchi velli, ansimanti alle cornamuse. Suono dolce che tenne estasiati i bambini per qualche minuto. Poi via a sistemare i pastorelli in bilico su monti di sughero e muschio. Alla luce rossastra delle candeline, nella capanna di cartone sorrideva il biondo Bambino e all’entrata gli zampognari con le labbra attaccate alle cornamuse mute. Nel cielo blu di carta velina il tremolare delle stelline di latta d’argento.
L’ora cominciò a farsi tarda. Una nebbia sottile incominciò ad avvolgere la massa nera degli alberi accanto alla sagoma grigia della chiesa senza lume. Tenebre sempre più nere coprivano le case del paesello e dalle finestre lontane vibravano lumicini come stelle in una notte cupa. Si intuivano voci dolci, tenui, accorate, di uomini e donne protesi nel mistero.
Toni non arrivava. Nessuno sapeva il motivo di tanto ritardo. Aveva fatto sapere tramite cartolina postale dagli Abruzzi che sarebbe arrivato, neve permettendo, nel primo pomeriggio della vigilia di Natale.
Con la voce tremante di pianto represso la nonna radunò i piccoli intorno a sé e avvio la recitazione di antiche giaculatorie per propiziare l’arrivo del caro figlio. Il più piccolo dei nipotini, come un convolvolo su vecchio muro coperto di muschio oscuro, affondò il minuscolo viso tra le pieghe disfatte sul grembo della vecchia come a cercare il molle tepore di un seno. Col viso quasi esangue, i capelli bianchi fuori dal fazzolettone che le copriva il capo la donna si chinò a pronunciare nel soffio lievissimo d’un bacio la parola più dolce: figlio mio! Il piccolo subito si aggrappò con la manina sottile al suo dito, la guardò in volto, vide che non era quello della mamma sua e subito ritrasse la manina, mentre già il caldo umidore delle lacrime aveva bagnato il ricamo di venuzze azzurre sul piccolo pugno. Gli occhi del piccolo divennero allora per il pianto come lembi di cielo gonfi di pioggia scrosciante e come un fiordaliso sferzato dal vento si dilegua lieve nell’azzurro del cielo, così il bimbo riparò di corsa dalla mamma.
Sospiri frammezzati a singhiozzi, tristezza sui volti, parole accorate era tutto quello che preludiava a una serata tristissima. Il capo ricciuto dei bimbi più piccoli già ciondolava dal sonno, inutilmente le mamme tentavano di tenerli desti con il gioco della tombola o con la promessa dell’arrivo a notte fonda del buon vecchietto che in cambio di castagne e fichi secchi avrebbe lasciato qualche dono.
Con quanta ansia tutti a casa avevano atteso la sera e quanto a lungo lo sguardo di Toni aveva errato in cielo per la lunga distanza.
Solo il fremito delle stelle gli aveva tenuto compagnia e il desiderio rimasto nel cuore di giungere in tempo per celebrare il Natale, dischiusosi ormai alla speranza. Mancavano solo pochi chilometri e si sarebbe tuffato tra i suoi con la passione di un amante troppo a lungo tenuto lontano dalla donna amata. Tutto quello che la vita gli aveva dato sotto forma di dolore l’avrebbe tuffato nella nebbia opaca della malinconia e del ricordo. Ormai dal suo cuore zampillava gioia pura come una vena limpida dalla nascosta roccia. E nella sua voce rotta tra i sassi e affogata tra l’erba, vi era il riso della gioia anche se nel fondo muto dell’animo i lineamenti scomposti del volto dei compagni caduti grondavano il pianto di un sogno ormai morto.
L’ombra cupa del fogliame sembrava tremolare di voci conosciute. Il silenzio pauroso ed infinito del lungo viaggio era diventato dolce poesia, ora che la sua casa appariva piccina in lontananza, nel cielo ovattato di nebbia, al tremulo canto di rari uccelli notturni. Man mano, passo dopo passo, sempre più grande la casa allo sguardo e sempre più gonfio il cuore di gioia. Non gli mancò la voglia di scherzare. Girava carponi intorno alla casa, lo seguiva pian piano stupito, da un salto all’altro, dalla finestra il viso di un bimbetto il quale corse ad avvisare che era arrivato il vecchietto dei doni. Tutti accorsero al portone: urla, grida di gioia, lacrime, abbracci. Toni era finalmente arrivato. Il vecchietto sarebbe arrivato più tardi con i doni. Intanto ebbe inizio la cena.
Adriana Pedicini
Dossier 2090
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10 ottobre 3062
Egregio professor Cefa(lù) Pesca(tori?),
come da accordi telepatici le invio –debitamente corredati di alcune mie note esplicative in corsivo– i documenti preparatori e di consultazione sui quali intendo basare la mia tesina.
Dal momento che il mio Matter Teleportation Fax mi dà noie ultimamente, la prego di confermarmi l’avvenuta ricezione del presente messaggio.
Grazie e a presto risentirci,
Peter Pan(camo)
Elenco dei documenti allegati:
- N. 1 brani tratti da un giornale inglese.
- Lo slogan principale della campagna promozionale 2089-90.
- Una delle mail arrivate in Vaticano dal febbraio del 2090 in poi.
- Una delle risposte da parte del Vaticano.
- N. 1 stralci da un’intervista audio.
***
Traduzione e trascrizione parziali di un articolo uscito sul quotidiano di Liverpool «Daily Bread» il 27 gennaio 2090.
“La cosiddetta “Sacra sindrome” è il morbo psichico che ha contagiato i Paesi cattolici e consiste nel desiderio “sfegatato” di comprarsi uno o più di quei Gesù artificiali, e concepiti in laboratorio, che i biochimici vaticani hanno di recente prodotto in serie, cioè per clonazione, a partire dai vari segmenti di DNA, contenuti nel sangue rappreso che macchia da millenni la Sindone di Torino.
Sin da quando il Pontefice Prospero Rockefeller II li ha lanciati sul mercato il 25 dicembre scorso, questi Messia, figli della scienza, sono andati letteralmente a ruba. Merito della campagna pubblicitaria ideata dalla Curia romana, ma anche del prezzo, naturalmente: gli Unti del Signore “made in humanity” costano infatti trenta euro cadauno (denaro più denaro meno). Insomma una cifra per nulla esorbitante ed anzi assai conveniente (tanto che ormai quasi tutti i cattolici hanno in casa il loro bravo PC o Personal Christ!)”.
Lo slogan principale della vasta e capillare campagna promozionale che, scatenando ad arte la “Sacra sindrome”, fruttò alla Chiesa, tra la fine del 2089 e l’inizio del ’90, uno strabiliante successo di vendite:
“Personal Christ
e di miracoli
ne avrai un poltergeist!”
Da una delle numerose mail che, dal febbraio del 2090, cominciarono ad affluire in Vaticano.
“Sua Santità,
con questa mia sono ad esigere la restituzione, con effetto immediato, dei trenta euro da me investiti nell’acquisto della App. non analogica o digitale, ma biochimica, denominata “Personal Christ”. Essa si è infatti rivelata. Già, si è rivelata guasta e mal funzionante: prova ne sia che, invece di farmi risparmiare sulla spesa moltiplicando i pani e i pesci, o meglio ancora le banconote presenti nel mio portafogli, perde tempo ad annunciarmi il Vangelo.
Essendo la situazione insostenibile sul serio, rimango in attesa di sue nuove al riguardo.
In fede (cattolica),
Giuda Iscarioti
Via della Tamerice, 1
070430 Israeltown, Roma - Italy”.
Da una delle mail che il segretario del Papa, avendo ricevuto ordine di respingere in toto le richieste di risarcimento, non mancava d’inviare a coloro, ed erano sempre di più, che si lamentavano del proprio Personal Christ.
“Gentilissimo Iscarioti,
lei non sarà mai rimborsato. Il motivo? Semplicissimo: per Gesù no, ma per denaro noi preti faremmo qualunque cosa (persino immolarci per il prossimo, ad esempio, o magari opporci finalmente all’Islam fondamentalista). Dunque il denaro, e solo il denaro, ci rende davvero cristiani e degni di chiamarci uomini di Dio. Ecco perché la sua richiesta di risarcimento non verrà esaudita. Ed ecco perché, altresì, essa non può fare a meno (tanto per riprendere il suo “simpatico” giochino di parole) di rivelarsi, e soprattutto tradirsi, per ciò che realmente è: un’orrida e sacrilega bestemmia, dinanzi alla quale il mio cuore (e, ne son certo, anche quello di Sua Santità) si riempie d’una rabbia immensa e legittima, che mi spinge a risponderle, caro Iscarioti: «Anathema sit!» o, tradotto, «C’at vègna on cancher!».
In fede (cattolica),
Padre Emiliano Romagnoli”.
Trascrizione parziale di un audio-file, contenente un’intervista rilasciata a marzo del 2090 da un non meglio identificato parroco di Ostia Lido che, sotto lo pseudonimo di Don Melisso P., aveva pubblicato proprio allora un instant e-book di successo intitolato Cento dosi di coca prima di veder morto Gesù.
“Don Melisso: Anch’io mi son trovato a rigettare, seccamente e senz’appello, non ricordo più quante istanze di rimborso o indennizzo. Tuttavia confesso che quasi la capisco questa gente inviperita, che protesta un giorno dopo l’altro, a voce o per iscritto, con tale e tanta indignazione. Infatti –come lei sa bene, Eccellenza– agli ecclesiastici d’ogni ordine e grado, il Papa ha regalato, dimostrandosi assai magnanimo, un Gesù gratuito: un Gesù omaggio! Io il mio l’ho prevosto (pardon... preposto) a farmi da sagrestano, perpetua e chierichetto. Ma non sono granché contento; a servire Messa e tener pulito se la cava persino abbastanza, se vogliamo; però quando gli chiedo di far comparire –non so... da uno dei miei cappelli– la colomba della pace o lo Spirito Santo, lui proprio non ci riesce.
Padre Claudio Cardinale (l’intervistatore; era un eminente prelato-giornalista e dirigeva il prestigioso mensile «CEI Today»): Oh martirio e dannazione, anche lei!... Ebbene, continuare a nasconderlo è inutile, oramai: dal DNA –come del resto è addirittura ovvio, se ci si pensa– è stato possibile sintetizzare, del Cristo, solo la componente umana.
Don Melisso: Ah, ecco perché i PC sono così negati per i miracoli!
Padre Claudio Cardinale (meditabondo e con un sospiro): Già, i miracoli... i mancati miracoli –che Dio, nella sua bontà, perdoni le asfissianti e petulanti pretese di risarcimento– sono una delusione niente male per i fedeli. E anche per lei, a quanto capisco. (Dopo un attimo di silenzio e con sospetto; forse guardando storto Don Melisso) Mi dica –e glielo domando soprattutto a nome degli alti porporati che costituiscono il pubblico di «CT»[1]–, adesso che le ho svelato l’arcano, cioè la questioncella del DNA, la scandalizza molto che noi vertici vaticani abbiamo cercato di truffare il mondo per soldi?
Don Melisso: Nemmeno un po’, Eccellenza. Il denaro è la scorciatoia, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di esso[2].
Padre Claudio Cardinale: Questo sì che è Vangelo: autentico Vangelo per le mie orecchie!
Don Melisso: Ma non per quelle del mio PC, purtroppo: si figuri che, quando mi sfianco a spacciar droga ai parrocchiani per arrotondare le questue e l’otto per mille, invece di darmi una mano –una benedettissima mano, che il Signore lo strafulmini!–, insiste a blaterare parabole, ammonimenti e discorsi vari della montagna.
«Insomma, sei cieco? Hai gli impasti d’argilla sugli occhi?» – mi capita di urlargli, nei momenti di esasperazione – «Non lo vedi che abitiamo al mare?».
Padre Claudio Cardinale: Giusta osservazione. E lui?
Don Melisso: Beh, cito testualmente dall’e-book: «Lo vedo! Acciderba se lo vedo!», mi ha risposto una mattina, ringhiando di rabbia. Solo che era quello vero, non il mio PC. Sì, una mattina il Gesù vero m’è apparso dinanzi dal nulla (o forse da un cappello, finalmente!) e mentre io ancora lo fissavo a bocca aperta, frastornato com’ero dal tono furente con cui m’aveva appena apostrofato, lui si è girato di scatto ed è corso via a precipizio. Dal telegiornale ho poi saputo che era andato sul Calvario a crocifiggersi di nuovo. «Stavolta, però, in segno di suicidio!», sembra che abbia gridato a squarciagola, in preda all’accesso d’ira che lo ha colto, un istante prima di morire[3]”.
Pietro Pancamo (pipancam@tin.it; pietro.pancamo@alice.it)-
[1] Abbreviazione di «CEI Today».
[2] Probabile rielaborazione del versetto biblico “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14, 6).
[3] Di morire per sempre.
Soltanto la collera può ispirare un cupio dissolvi, tale da convincere Gesù stesso a ricusare la propria natura divina ed eterna. Questa almeno è la teoria che m’impegno, sin d’ora, a sviluppare nella tesina.
Albert & Andy
C'era una volta uno scienziato di nome Albert, che passava intere nottate in laboratorio, in compagnia di Andy, il suo fidato e intelligente robot che non aveva il dono della parola, tuttavia si faceva capire. Talvolta, all'automa venivano innestati altri componenti con amorevole cura, al fine di ricevere dei potenziamenti.
I due avevano stabilito un forte legame, tant'è vero che il robot ricambiava con affetto, offrendo prestazioni efficienti, ad esempio mostrando o risolvendo complessi calcoli matematici, contribuendo quindi alle ricerche di nuovi pianeti e di civiltà extraterrestri.
Un giorno Andy prese un bruttissimo virus che gli procurò svariati malfunzionamenti, con un conseguente stand by, dal quale si riattivava solamente per alcuni minuti per emettere dei ronzii con l'altoparlante di emergenza. Per quanto provasse, l'inventore non riusciva a "guarire" il prezioso compagno e, ben presto, fu preda di una cupa mestizia.
Lo scienziato provò di tutto: estrasse ogni singolo componente, provando a rimontarlo con modalità diverse, sostituì i cavi, eliminò la polvere che si annidava nelle ventoline, rimaneggiò la scheda hardware… ma fu tutto inutile. Albert si disperava dolorosamente al capezzale del robotico amico, adagiato sopra un'apparecchiatura, per di più imprecando contro astronomi famosi e aggirandosi per l'intero laboratorio con i pugni in aria.
In vista delle imminenti festività natalizie, mentre un po' tutti gioivano, riscaldati dall'atmosfera briosa e festosa, lo scienziato era caduto nella depressione. Si affidò allora alle poche preghiere acquisite da bambino durante un obbligato catechismo e le due ore di religione a scuola. E pregò, pregò incessantemente. Sì, lui che fino a poco prima non credeva in niente tranne che negli alieni e… nelle stelle. E proprio una di esse gli apparve, sfrecciando la notte del 25 dicembre, nel momento in cui si trovava sul terrazzo dell'osservatorio.
– La cometa di Halley! No, la Stella Cometa! – esclamò, correggendosi subito.
Improvvisamente l'uomo udì un’emozionante “bzzzzz!” e, non fece in tempo a girarsi, che una mano metallica gli si posò sulla nuca per accarezzargliela. Era Andy completamente ristabilito.
– La grandezza dell’Universo è pari a un granello di sabbia in confronto alla grandezza di Dio – disse Albert piangendo e abbracciando teneramente l'automa.
Morale della favola: bisogna avere fede nelle proprie capacità e soprattutto Fede in Dio nostro. Affidiamoci per primo al Cielo e poi allo spazio.
A Christmas Diary
Per gli amici che ci seguono dall'estero, e che ringraziamo e salutiamo, un raccontino in inglese, basato sui miei natali di qualche anno fa.
December 19. Brrr, cold. I get dressed.
Warm and comfortable underpants. (Read: that is capable of curbing any sexual initiative)
Triple padded bra, able to emerge from countless layers of clothing.
Long-sleeved doggie-style wool sweater.
Turtleneck sweater worked in giant ribs with knitting needles from size 12.
Thickest tights.
Peruvian hat lined with ecological rabbit.
I look at my hands.
Nail curvature is from acute lung failure and there are unmistakable vertical streaks from excess bleach. I think of the Night of Perversion nail polish that I bought for the evening of the 31st. Will the golden specks creep into the furrows? The skin looks like the Gobi desert in a particularly dry season. I don't have time to put the cream on, I opt for gloves.
I look at myself in the mirror.
I see a flaccid being, with a mortuary pallor, bundled up in a shapeless sweater. Will I be able to transform myself into a fascinating creature in time for the party?
I go out to buy the gift for my mother-in-law. (Better get rid of bad thoughts quickly.)
In the window I see a perfume that costs € 40. I think about when she pointed out to me that her son deserved more. I'm looking for something less.
I examine a € 30 scarf. Um ... I remember the time she announced that her son's ex-wife cooked better than me.
I propose a panettone plate for € 20, with Santa Claus fluttering in the starry sky, surrounded by snow crystals.
I phone him for confirmation. He objects that the purchase seems out of place, since this year we don't celebrate Christmas at his mother's. (I clearly catch the note of disappointment in his voice.) What's the use, he says, of a panettone dish for my mother now? Giving it to her would be tantamount to reminding her of her loss of centrality and power within the family and throwing her into a state of depression from which she would emerge only in April with the organization of her son's birthday.
And it seemed just a dessert dish to me.
At this point I remember that cologne, given to me by Aunt Severina three years ago, and thrown into the bottom of the sock drawer. I decide to recycle it to the mother-in-law and with the € 20 I buy three sheep for the crib and a sheet of rock paper.
December 20. I fill out the guest list.
Therefore. I
He
His daughter (Although in June she told me that the new bikini marked my hips. Grrr)
His mother
My mother
My brother
Aunt 'Melia
Uncle 'Milcare
My friend Alice. (The husband ran away in the Philippines with the maid.)
While I'm putting a question mark next to my stepdaughter's name, in the secret hope that she won't come, my mother-in-law calls. She says she would have thought of inviting us this year. I reply that he has been doing it for ten years. She says that she has already prepared the dough for the croutons. I reply that I already have the capon in the freezer. (It looks like the last scene of a weatern film.)
As soon as I hang up, Aunt 'Melia calls. She says she would like it if we all went to her countryside cottage this year. Read: farmhouse sunk into thin air, wood stove broken csince 1950 and never repaired, fireplace without draft, internal temperature - 15. I'll answer, thank you, um, maybe next year.
Lastly, my brother shows up. He is sickened by all this consumerism, he says, and Christmas is just a sinister commercial operation. He is thinking of a spiritual retreat in a hermitage, with the friars cooking organic food and singing the midnight mass. For New Year's Eve, however, he is planning a trek in the Himalayas. He would really need a tent, he adds.
December 21. Aunt 'Melia calls back. She announces that her cataracts have suddenly fallen out and that Uncle 'Milcare has high blood pressure. Recommends a low-sodium menu. I think of the huge Prague ham I just bought, when my husband's ex calls. She insists that, really, this year she just can't do without her little girl. (Who is 22 years old.) I enthusiastically agree but my husband a little less.
The doorbell rings. With an acid smile, my neighbor gives me an invisible thorny plant with an asphyxiated appearance, dotted with fake ruscus’ berry and smothered by a layer of golden spray. I thank. I detach the mistletoe from the previous year from the door, refresh it under the tap, and slam it in her hands with best wishes.
December 22. My friend Alice calls. She keeps me on the phone for two hours to tell me that her husband doubts, hesitates and maybe he will come back repented to celebrate Christmas with her. I sympathize and meanwhile I think of the box of rose-shaped handkerchiefs that I bought her. I decide to replace it with a leopard-print lace thong.
Together with the thong for Alice, I choose a fire red outfit for my stepdaughter. I am tempted to ask for three more sizes, to give her the impression that I too see her as fat. In a specialized shop, I buy a canadese (in the sense of tent) for my brother. They explain to me that this is the original used by Messner during the ascent of K2.
I mount it in the living room to see if anything is missing and find a box of condoms inside. As I check the tie rods, it occurs to me that I have not yet bought anything for Aunt 'Melia, then I remember that she can't see and I leave it alone.
Very pleased, I buy for my man a tie studded with raccoons disguised as Santa Claus, each with a comic that comes out of his mouth and screams MERRY CHRISTMAS !! Really very, very, very original.
December 23. I take down the tent to make room for the Christmas tree. I can't get it back into the special case, so I make a ball and wrap it as it is, with pickets and everything. The result is the bulkiest gift I've ever seen. When I have finished wrapping, I discover I have forgotten to remove the condoms.
I place the Christmas tree. Two and a half meters of pure polyethylene. I try to hang up three branches that broke off the previous year. They don't stick anymore and then I hide the void against the wall. I spray branch by branch with a mountain pine aroma spray. Now the tree tastes of anchovy paste and the cat appears very interested.
I weave 15 sets of flashing lights, hoping that maybe one turns on. Nothing lights up and I spend the rest of the afternoon looking for electrocuted lights. I attach all the balls (I put the broken ones behind, hanging the Burano glass bird on the highest branch, away from the cat. Standing on the ladder, I try to insert the tip. It is 55 centimeters long and has the shape of a disturbing angel with outstretched wings. It doesn't stand straight. I borrow a knitting needle from the neighbor. she hands it to me with the air of wanting to pass me through. I anchor the tip with iron and half a meter of silver wire.
December 24th. Supermarket.
I buy.
2 salami, one coarse-grained one fine-grained.
6 hg of bacon.
10 sausages
½ kg of soppressata
(Prague ham is already there)
I think I'll finally get rid of the hypercholesterolemic mother-in-law, then I regret it and, at the last minute, I also buy a seafood salad tray for her.
And also.
Caviar substitute for salmon allergic brother.
Smoked salmon for uncle 'Milcare allergic to caviar.
Frankfurters for my mother who is allergic to both.
Tortellini for broth. Nobody eats them but they are tradition.
(The capon has already been in the freezer since last year Christmas.)
Lentils. (My mom says they bring money.)
25th December.
12 noon. At the end they all came. My brother has overcome the mystical crisis already at the aperitif. My husband's ex left for the Caribbean on a charter and phoned us at midnight on the 24th, asking us from the airport if we could keep the baby.
The little girl in question is in my room, in front of my mirror, with her ear glued to my cell phone for an hour, striding out in my outfit, which unfortunately makes her look like Megan Gale's beautiful sister. She gave me a pair of red culottes that read, "Come on, old lady."
With a purple nose and shining eyes, my friend Alice drowns her sorrows in a glass of martini. Her husband decided at the last minute to see the dawn of the new year in Manila.
1.30 pm. I bring the capon to the table. The tip chooses this moment to plunge and pierce it exactly in the center. The cat climbs the tree and slaughters the glass bird of Burano.
3.30 pm. Aunt Melia has already broken, in sequence, 3 Bohemian goblets, 1 salad bowl and 2 rock crystal jugs. Now she is conscientiously sucking the nougat, while she screams in the ear of uncle 'Milcare, who is singing at the top of his voice silent night.
At the head of the table, my husband proposes a toast with a dazed air. He has five identical ties around his neck, accompanied by raccoons screaming MERRY CHRISTMAS !!
In the air there is a strange smell of anchovy paste, dates with mascarpone and burned-out lights. The cat has stolen the bones of the capon and munches them under the table. Amelia sobs with her nose buried in the sparkling wine. My mother and my mother-in-law, at the bottom of the table, squabble over possession of the only nutcracker.
I do not know.
It will be the emotion. It may be the Christmas spirit, but I feel like I'm going to cry.
La partita di calcio di Natale
Amici lettori del blog che a Natale non vi lascia soli, tempo fa vi avevo parlato di un libro fotografico, il cui autore, Neville Gabie, era andato in giro per il mondo a fotografare le porte sui campi da calcio improvvisati. Vi ricordate che avevo dipinto una serie di quelle porte da calcio? Per me, e sono sicuro che la pensi così anche l’autore del libro fotografico, queste porte da calcio sono una finestra sul mondo, e giocare al calcio è un bel modo per essere felici.
Molto bene, oggi vorrei portarvi in Paraguay, si disputerà una partita e i giocatori saranno molto speciali. Per questa partita natalizia saranno schierati in campo, da una parte una squadra di ragazzini paraguayani, dall’altra, eccezionalmente solo per questa occasione - perché a breve avranno molto lavoro da svolgere - avremo Babbo Natale e i suoi elfi.
- Ehi, Walter, posso giocare anche io?
- Mario, tu sei un fantasma! (Per chi non sapesse chi è, Mario è il fantasma di un benzinaio, al quale piace leggere i libri e suonare il sassofono, l’ho conosciuto per una coincidenza in una casa dimenticata e da allora siamo diventati amici).
- Ma anche io voglio essere felice!
- Hai ragione, ma questa partita è fra ragazzini e la squadra di Babbo Natale.
- E allora io che faccio?
- Non posso farti fare l’arbitro perché sei invisibile, però posso farti stare con me e commentare in diretta la partita per i nostri amici lettori, ti piace l’idea?
- Cosa ci guadagno?
- Biscotti e cioccolata calda alla fine della partita.
- Se in serata aggiungi una cena al miglior ristorante del luogo ci sto.
- Ma sei pazzo? E chi paga, Babbo Natale?
- Non avere paura, al momento del conto rendo invisibile anche te e ce ne andiamo.
- Non ci posso credere! In quale film lo hai visto fare?
- Non fare troppe domande, allora che facciamo?
- Ok, prendi il microfono e cominciamo!
- Signore e signori di questa nostra splendida platea denominata signoradeifiltri, benvenuti all’incontro di calcio fra la rappresentativa dei ragazzini paraguayani e il team magico di Babbo Natale. Le due squadre sono schierate e, novità fra gli elfi, Babbo Natale giocherà in porta. Walter, sai perché?
- No.
- Perché ha un po’ di pancia e porta gli occhiali.
- Eh già, succede sempre così.
- La partita inizia, gli elfi da subito sono indisciplinati, sono piccoli di statura e non rispettano la tattica di gioco, Babbo Natale è molto arrabbiato e, infatti, i ragazzini ne approfittano e in pochi minuti segnano tre goal. Questa partita si preannuncia come una goleada.
- Mario, hai ragione, gli elfi dovrebbero giocare di più in difesa, i ragazzini corrono come saette, ma c’è di bello che sembra che a tutti non importi. Io vedo molta felicità in campo. Mario, non pare anche a te?
- Sì, tutti ridono e non si preoccupano del risultato, infatti ora la squadra di Babbo Natale è sotto di ben 6 a 0 e pare che i ragazzini non si accontentino, continuano ad attaccare e superano i poveri elfi come birilli. Sembra che non ci sia partita, ora le reti sono 10 a 0.
- Povero Babbo Natale!
- Ma no, Walter, lui è troppo buono! Ecco, ora i goal sono 15 a 0!
- Mario, il gioco del calcio è un divertimento e poi, per chi perde, c’è sempre una rivincita.
- Walter, penso che la squadra degli elfi dovrebbe cambiare qualcosa in campo, ora i goal a loro sfavore sono 20 a 0!
Ma cosa vedo? Ma quella non è la Befana?
- Sì, ha posato la scopa a bordo campo e sta entrando al posto di un elfo stanco.
- Infatti, nonostante sia una vecchietta, corre come una saetta, prende la palla, la passa a un elfo dal nome impronunciabile, chiede lo scambio, salta gli avversari con un pallonetto, con un tunnel sotto le gambe, ora scatta sulla fascia, arriva a fondo campo, crossa a centro area, un elfo colpisce di testa e restituisce la palla alla befana che, con un perfetto colpo al volo, realizza un bellissimo goal. Tutti festeggiano, ora il risultato è di 20 a 1. Ma, Walter, che fanno?
- Mario, sembra che tutti i giocatori in campo si stiano abbracciando e ridano felici! E’ un immagine molto bella, vedo che ora lasciano il campo e vanno a mangiare biscotti e dolcetti, ci sono anche molti regali da scartare, offerti da Babbo Natale. Ma questa è una bellissima e magnifica scena di sport!
Signore e signori, la partita fra ragazzini paraguyani e la squadra di Babbo Natale è terminata 20 a 1, vi salutiamo e vi diamo appuntamento alla prossima partita.
- Walter, che ne dici di andare?
- Dove?
- A cena, io avrei fame!
- Ma veramente al ristorante puoi rendermi invisibile?
- L’ho già fatto anche altre volte!
- Posso invitare qualche altro amico?
- Perché no?
Amici lettori della signoradeifiltri, se non avete paura di un pazzo fantasma, che ne dite di seguirci? Ceneremo nel miglior ristorante del luogo, per il conto non abbiate paura, lo pagherà la fantasia. Allora che fate, venite con noi?
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Quella notte di dicembre faceva un gran freddo
Quella notte di dicembre faceva un gran freddo, la città era tutta addobbata per le feste. Eravamo alla vigilia di Natale e io, leggendo il giornale seduto al bar, bevevo il mio drink bollente al latte. Lo ammetto: sono un artista sfigato e con le donne non sono di certo fortunato, quella notte ero solo e avevo la testa dentro le ultime notizie del quotidiano. Mi ero preso una notte di relax, nel bar suonavano e tutto il giorno avevo dipinto e disegnato molto, ora volevo solo ascoltare un po’ di buon jazz e rilassarmi.
All’improvviso una bellissima donna mi guarda e mi chiede: - E’ tuo il taxi parcheggiato qui di fuori?
- No, non sono un tassista ma un artista, mi dispiace.
- Sei un artista?
- Sì, ma non sono famoso e neanche quotato. Se cerchi un taxi penso che a quest'ora potrebbe essere difficile trovarlo.
- Tu non potresti aiutarmi?
- Come?
- Mi daresti un passaggio con la tua auto?
- Dove sei diretta?
- Devo arrivare in centro.
- Ok.
- Cosa stai bevendo?
- Un drink al latte.
- Latte? Ma non sei troppo grande per bere latte?
- Veramente mi piace anche con la menta.
- Vuoi farmelo assaggiare?
Immediatamente, con un gesto al barista le offrii un latte caldo con la menta, lei lo bevve lentamente e, con un sorriso, lasciò l’impronta del suo rossetto scarlatto sul bicchiere. Non ve lo avevo detto, ma questa bellissima donna aveva anche uno strepitoso profumo da farti sognare. E già per me sembrava proprio un sogno parlare con lei. Il jazzista con il sax in mano, vestito da Babbo Natale, mi strizzò l’occhio; il suo ok era senza dubbio incoraggiante, come a dire “che aspetti?”
- Scusami, non mi sono neanche presentata, mi chiamo Pamela.
- Io Walter, è un piacere conoscerti.
Io e Pamela parlammo per più di un'ora, era veramente una donna affascinante, portava, in tema natalizio, uno stretto vestito rosso, con una scollatura sul seno così eccitante, e le scarpe nere evidenziavano una caviglia fina e sensuale. Le parlai della mia arte e dei miei sogni nel cassetto. Lei era una top model, stava tornando da un noioso party e mi parlò del suo lavoro.
Ero un artista sfigato ma in quel momento la fortuna stava girando dalla mia parte e la conversazione era molto piacevole, il jazz di sottofondo ci avvolgeva in un'atmosfera raffinata, soft e natalizia. Non è a Natale che si ricevono i regali?
- Walter, avrei fame, che ne dici di cenare insieme?
- Purtroppo sono un artista povero, forse potrei offrirti solo un panino da Mc Donald oppure, se ti accontenti, potrei cucinarti un piatto di spaghetti, e dopo accompagnarti a casa.
- Va bene, amo gli spaghetti.
Salimmo in casa mia, avevo quadri e disegni da tutte le parti, i tubetti di colore erano sul divano e i pennelli, insieme a pastelli e matite colorate, sparsi dappertutto. Sono un artista molto confusionario e speravo che Pamela non ci facesse molto caso.
Mentre lei si faceva una doccia calda, io preparai gli spaghetti, per sbaglio misi molto peperoncino, ma in compenso avevo in frigo del buon vino rosso. Apparecchiai la tavola mettendo una tovaglia che era una tela con un dipinto astratto, anche se poco natalizia non era male come effetto. I piatti erano pronti e la pasta fumante, mi piace la musica e scelsi di sottofondo Stan Getz.
Lei uscì dalla doccia con il mio accappatoio indosso e iniziammo a mangiare. Faceva molto freddo quella notte di dicembre, ma l’ambiente si scaldò bene, forse avevo messo troppo peperoncino nella pasta e bevemmo tutto il vino rosso.
Il tempo scorreva piacevolmente lento, a un certo momento lei si alzò e fece scivolare in terra l’accappatoio. Pamela aveva due gambe lunghissime, un seno perfetto, due fianchi che sembravano dipinti da Modigliani e i capelli biondi sciolti sulle spalle nude, come la Venere di Botticelli.
- Vuoi fare l’amore con me?
Non mi diede il tempo di rispondere, mi prese la mano e mi portò a letto, quella fredda notte di dicembre facemmo l’amore e fu bellissimo, forse il merito è stato del peperoncino, la sua bocca era piccante e molto eccitante, il suo corpo fremeva di passione e io stavo vivendo un sogno. E come in un sogno ci addormentammo esausti dopo un'infinita notte di sesso.
Al mattino un raggio di sole mi svegliò, mi guardai intorno ma non vedevo Pamela, sopra le mie opere sparse a terra, solo le sue scarpe nere e ancora nell’aria il suo profumo. Mi alzai e, vicino alla tazzina di caffè fumante, trovai un biglietto dove c’era scritto…“Walter, mi dispiace, dormivi come un angioletto e non ho voluto svegliarti, purtroppo dovevo lasciarti. Ho chiamato un taxi. Fare l’amore con te è stato bellissimo ma ora non ci rivedremo più, non cercarmi, ricorderò per sempre questa notte d’amore”.
Avevo passato la più bella notte di sesso della mia vita con una bellissima donna, la più bella che abbia mai visto, e fare l’amore con lei era stato fantastico. Di lei mi rimase questo indimenticabile ricordo, il sapore dei suoi baci piccanti sulle mie labbra e un paio di scarpe nere.
Ora non mi resta che mettermi i miei occhiali rossi e sorridere alla fortuna, scenderò e andrò a mangiare del panettone al cioccolato insieme a Babbo Natale il jazzista, e poi penserò ancora a lei, alla mia più bella notte di sesso con una bellissima donna, la più bella di sempre, in quella fredda notte della vigilia di Natale.
Però ho solo un dubbio… perché mi ha lasciato le sue scarpe nere?
Chi è stato? Boh, sarà stato Pasquino
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Frutta martorana e Ossa di Morto
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Durante il periodo di Ognissanti e la Festa dei Morti nelle pasticcerie e nei bar risulta onnipresente la frutta martorana, dolci tradizionali che simboleggiano, nonché ricreano, i frutti tipici siciliani: mandarini, limoni, arance, fichi d'India etc, prodotti morbidissimi realizzati con la pasta reale o pasta di mandorle. Avendo un alto concentrato di zucchero, se divorati in grandi quantità possono causare la carie ai denti.
Da menzionare le Ossa dei Morti, caratteristici biscotti Made in Sicily, di dura consistenza, preparati con zucchero, farina, albume e chiodi di garofano. Data la croccantezza, danneggiarsi qualche dente non é affatto difficile. In proposito é “morto” probabile che annualmente i dentisti tra Ottobre e Novembre faciano affari d'oro, quindi occhio e… bocca!
Ad ogni modo sia la frutta martorana e sia le Ossa dei Morti solitamente vengono combinati insieme e venduti in vassoi o in cestini con l'aggiunta di caramelle e cioccolatini, al fine di arricchirli, rendendoli di fatto più gradevoli all'occhio e naturalmente al palato. Associare tali prodotti ad Halloween è da ritenersi una bestemmia, in quanto con la festività americana non c'azzeccano nulla, sebbene le Ossa dei Morti potrebbero far pensare il contrario.
Avevo otto anni e non avevo ancora assaggiato entrambe le tipologie di dolci. Idem per mia sorella Cettina, tant'è che tutti e due sbavavamo alla vista, con quell'incollare le nostre facce alle vetrine delle pasticcerie ,immaginando di quanto potessero essere buoni. Un pomeriggio i nostri genitori ci promisero di acquistarne un misto, a patto di pazientare una settimana in attesa del 2 di Novembre, il giorno della Commemorazione dei defunti, e con la raccomandazione di mangiarli con parsimonia sia per prestare attenzione ai i denti e sia perché molto calorici.
Per la Festa dei Morti andammo a pranzare dai nonni paterni. Fu nonno Peppino ad andare in mattinata al bar sotto casa per comprare i dolci desiderati, sostenendo che, data la confusione, il proprietario a fine giornata con i guadagni forse si sarebbe potuto permettere l'acquisto di una villetta al mare con piscina. A tavola, io e mia sorella fondamentalmente eravamo impazienti di "sconfezionare" il vassoio che stava in bella mostra sopra il frigorifero.
Dopo un gozzoviglio di pasta al forno, carne e bibite gassate, arrivammo alla frutta, ma non ancora a quella frutta zuccherata tanto ambita. Mi scoglionai e presi l'iniziativa di prendere il vassoio e di aprirlo proprio mentre la mia famiglia era distratta a parlare o a sbucciare i vari frutti posizionati, per non dire ammassati nella fruttiera. I miei familiari si accorsero di ciò che avevo fatto e per ovvi motivi si irritarono. Indifferente, afferrai un pugno di frutta martorana in una mano e un pugno di Ossa di Morto in un'altra.
«Sei uno zulu!» mi rimproverò mia madre.
«Prendine ancora, mi raccomando» ironizzò, seccato mio padre. «Stai sicuro che poi ti potrai fare la dentiera come a tuo nonno!»
I nonni sorridevano, presumibilmente non volevano unirsi alle polemiche. Sorprendentemente mia sorella rimase a guardare, sembrava aspettare il permesso dei grandi.
Assaggiai avidamente un Ossa di Morto e un dolcetto qualsiasi di frutta martorana, precisamente una pera. Restai deluso. Il primo troppo croccante, valutandolo niente di che, il secondo troppo dolce, sdegnoso e senza un retrogusto di frutta come avevo erroneamente immaginato. Con nonchalance rimisi al suo posto l’ormai inutile bottino che tenevo tra le mani, ovvero nella rettangolare guantiera di cartone.
Mia sorella cominciò a lagnarsi fastidiosamente dal momento che era decisamente schifiltosa.
«Ah, non li voglio più! Sto scimunito li ha toccati con quelle sue manacce zozze e li ha buttati lì con gli altri!»
Litigammo. Siccome la schizzinosa Cettina si trovava seduta di fronte a me, non potendola percuotere facilmente le lanciai un Ossa di Morto sulla fronte, un biscotto duro come pochi.
Mia sorella con l'intento di scendere dalla sedia per reagire allo sgarro, maldestramente fece cascare una bottiglia di coca cola senza tappo sopra il vassoio aperto; tuttavia lo strato trasparente che di norma viene inserito dai pasticceri o dai baristi nella parte superiore della confezione aveva salvaguardato quasi interamente il contenuto.
Il risultato fu il seguente: mio nonno strafottendosene della ricorrenza si lasciò andare a una serie di bestemmie, mia nonna, sospirando, provvide ad asciugare dove necessario e a gettare nella pattumiera la sottile striscia protettiva, mia madre, invece, mi guardò con espressione inviperita, mentre mio padre mi aveva semplicemente "martorato" emh, martoriato a dovere con degli schiaffoni.
E la rompi di Cettina?
«Così ti impari!» esclamò compiaciuta, sgranocchiando candidamente un agrume martorana.