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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

racconto

Ma quali fantastici...

25 Novembre 2021 , Scritto da Giuseppe Scilipoti Con tag #giuseppe scilipoti, #racconto

 

 

 

Federico, amico mio, non credo che i Fantastici Quattro siano così fantastici nella vita reale. Sei sicuro di volerli incontrare?

Alla Donna Invisibile, nonostante sia puntuale agli appuntamenti, risulta impossibile comparire davanti a un fan, a causa del fatto che l'invisibilità le gioca brutti scherzi, a differenza di quando affronta pericolose avventure. Ahimè, come puoi ben vedere non è possibile vederla. E mai la vedrai! 

Mr. Fantastic, il quale sembra il gemello bello di Tira & Molla, data la sua conformazione, si dice che abbia capacità kamasutriche e una particolare iperattività, unita a un filo, pardon a un elastico, di squilibrio, ragion per cui rischieresti di trovarti... in una brutta posizione. Oltre a ciò, lo reputo un conversatore eccessivo in quanto tende a tirare troppo per le lunghe. A tal proposito, tu mal sopporti le lungaggini e la gente che se la tira, quindi finiresti per annoiarti. 

Poi ci sarebbe La Cosa, quella sorta di massa rocciosa forte come una roccia e dalla testa dura, per non dire granitica. Stai attento perché oltre a essere un capoccione, con o senza peccato, avrà sempre la costante opportunità di scagliarti la prima pietra, tra l’altro sospetti fondati indicano che è un massone. Non dirlo in giro, mi raccomando.

Infine, passiamo a Torcia Umana, l'idolo delle donne delle quali non infiamma i cuori ma li brucia proprio. Se ci tieni tanto a conoscerlo, ti sfido a stringergli la mano. Inoltre, presta attenzione, dato che si scalda facilmente dinanzi a certi scottanti argomenti. Semmai dovesse succedere, meglio non buttare benzina sul fuoco. 

Morale della Marvel?

Di Quattro non ne fai Uno.

 

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Turista nella nebbia

24 Novembre 2021 , Scritto da Giuseppe Scilipoti Con tag #giuseppe scilipoti, #racconto

 

 

 

Tanti anni fa, mentre mi trovavo nei pressi di un paesino dell'Essex, una contea dell'Inghilterra orientale, una volta sceso dall'autobus e attraversata la strada, non ci volle molto perché mi addentrassi in una densa nebbia, perdendo così l'orientamento. 

La coltre bianca mi aveva letteralmente avviluppato, procurandomi un'inquietudine incredibile, tra l'altro indossavo uno zaino abbastanza pesante, che mi affaticava la schiena. Ipotizzai che riuscire a scovare una locanda o un albergo non sarebbe stato facile. 

Improvvisamente, mi apparve gradualmente un uomo avente un abbigliamento che richiamava l'epoca vittoriana. Dio, quanto era pallido! Inoltre, il suo mantello ondeggiava continuamente, contribuendo a renderlo una sorta di figura spettrale. Inspirai profondamente e cercai di non perdere la calma. 

Approfittando della mia buona padronanza della lingua inglese, gli domandai timidamente un posto dove alloggiare. Lo strano individuo, per tutta risposta, si girò di scatto e, premendo il dito sulle labbra, mi fece cenno di seguirlo, accompagnandomi in un albergo chiamato Essex, Lex and Fog. Mi voltai per ringraziarlo ma il vittoriano era già sparito.

Alla albergatrice, dopo aver fornito i documenti e pagato per una stanza, ancora frastornato le raccontai dell'accaduto.

«Quel burlone del signor Barker. È sempre il solito!» disse ridendo la signora.

«Cosa?» esclamai stupito. 

«Vede, ogni qualvolta che a Wood Town si manifesta una nebbia di tale portata, il simpaticone, coi turisti finge di essere un fantasma.»

Ah, la cara e vecchia Inghilterra col suo umorismo inglese. Sorry, in questo caso... goliardia inglese!

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L'università

20 Luglio 2021 , Scritto da Paula Martins Con tag #paula martins, #racconto

 

 

 

 

L'università che avrei dovuto frequentare era molto diversa da quella in cui, alla fine, mi sono iscritta. Ho sempre amato imparare lingue. È, da sempre, la mia passione. Avrei dovuto, quindi, iscrivermi a Lettere, dove sarei stata a mio agio.

Ho sempre pensato che una vita da studente nel posto corretto sarebbe stata così diversa, così facile! Perché l'area delle lettere era naturale per me, era la mia inclinazione. Al liceo ero una buona studentessa in  Portoghese, Inglese, Francese... cioè, lettere. Ma sono stata testarda, e, diciamolo, poco intelligente.

Al momento di scegliere sono stata colpita da una terrificante certezza: il cammino davanti a me sarebbe stato quello di una professoressa! Ed io non volevo, non potevo essere, una professoressa.

Oggi penso, oggi so, che avrei potuto iscrivermi. Non avrei dovuto, per forza, essere insegnante. Ci sono sempre altre ipotesi, altre professioni.

Ma all´epoca, non ho visto più niente: professoressa!

A questo proposito, ci sono due difficoltà. La prima difficoltà: non ho pazienza. Non sarei stata in grado di sopportare gli studenti, avendo sempre un aspetto simpatico, persino un sorriso. Avrei finito per essere una insegnante brusca e scortese che agli studenti non sarebbe piaciuta, e questa è la cosa più orribile che ci sia: cioè, non essere in grado di piacere alla gente.

La seconda difficoltà: non sono capace di parlare in pubblico. Mi terrorizza l'idea di essere davanti a un grande gruppo, tutti quanti che sentono le mie parole.

Questa mia caratteristica, è veramente sorprendente. E inaspettata. Perché io adoro parlare. Con qualunque persona sia: amici, conoscenti, (quelle persone che di solito salutiamo), anche sconosciuti: ho spesso voglia di parlare con estranei, ad esempio al bar. E perché ho voglia, lo faccio. Una delle mie migliore amiche, l'ho conosciuta così, al bar.

Ma parlare di davanti a molta gente, tutti quanti attenti a me, non sono capace.

Alla fine mi sono iscritta a Medicina Veterinaria, professione per la quale non avevo la minima inclinazione. Non avevo un amore travolgente per gli animali e non mi piaceva stare in clinica. Però pensavo che a Veterinaria, a differenza di quello che succedeva con il corso di Lettere, c'erano molte porte per le quali avrei potuto entrare.

Ho passato gli anni da studentessa in un angoscia senza nome, perché quelle materie non erano per me. Come le odiavo tutte! Niente era facile. Studiavo e studiavo e studiavo, niente mi era naturale. In tutto il corso mi sono piaciute solamente una o due discipline, niente più di questo. Ma studiavo così tanto che alla fine imparavo. E mi confortava l'idea che, una volta uscita dall'università, avrei smesso di studiare tutto ciò che veramente detestavo e avrei iniziato a dedicarmi solo a ciò che mi piaceva.

Alla fine ho concluso l´università. Un professore mi ha invitata ad essere assistente alla sua cattedra. Di nuovo insegnante! Adesso con il problema dell'età dei miei futuri studenti: la disciplina, erano dell'ultimo anno. Quindi gli studenti avrebbero avuto la mia età. E questo era molto più imbarazzante. Non avrei avuto nessuna distanza, nessuna superiorità sarebbe valsa. Questi studenti erano della mia stessa specie. Se ci fosse stato il caso di fare una figura debole, sarebbero stati assolutamente spietati.

Naturalmente mi sono rifiutata. Non volevo una vita intorno a cliniche o anche ad animali. Da tempo avevo deciso un'altra direzione: nel primo anno avevo avuto la disciplina che mi era piaciuta, una disciplina che si svolgeva in un laboratorio. Quindi mi ero decisa al cento per cento: non avrei avuto nella mia vita più niente a che fare con gli animali, tanto meno con la clinica. Volevo vivere lontana di tutto questo, e l'unica cosa che mi era piaciuta fin ad allora era lo studio dei microorganismi.

Sarei andata in laboratorio!

Ma la vita aveva altri progetti per me.

 

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Jean, il pittore

29 Giugno 2021 , Scritto da Giuseppe Scilipoti Con tag #giuseppe scilipoti, #racconto

 

 

 

 

 

 

 

 

Jean è un pittore parigino, dall'inseparabile basco blu e coi baffetti all'insù. È un artista di strada di quelli veri, una persona colta e sensibile. Spesso mi fermo a parlare con lui.

Oggi sta pitturando una magnifica composizione floreale, la tavolozza piena di colori rende meno grigia la nuvolosa giornata.

«Soltanto i pennelli riescono ad asciugare le mie lacrime» mi dice sottovoce con un'espressione che denota mestizia. 

Conosco il passato di quest'uomo, l'amore non lo "dipinge" mai con tonalità “accese."

«Mon cher, tu realizzi su carta, io su tela. Il bianco è il colore perfetto per esprimerci.»

Annuisco, l’azzeccato parallelismo mi lascia senza parole.

«Se unissimo penne e pennelli?» mi propone garbatamente.

«Facciamolo!» esclamo con entusiasmo. 

Sì, scrittura e pittura per provare a colorare tutto quel nero causato dalle nostre rispettive malinconie.

 

 

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Il granchio reale

28 Giugno 2021 , Scritto da Giuseppe Scilipoti Con tag #giuseppe scilipoti, #racconto

 

 

 

 

 

 

 

 

In un affollato ristorante ai carruggi di Genova, io e Francesca, la mia fidanzata, ci sediamo nell'unico tavolo libero, desiderosi di mangiare pesce. Nell'attesa che ci portino i menù, osservo pigramente la vasca dei Granchi Reali di fronte a noi. Noto che l'unico crostaceo rimasto, attraverso le chele, sul vetro sta freneticamente componendo più volte la parola "aiutami" in codice Morse, uno schema di codifica di caratteri che conosco bene in quanto l'avevo imparato nel periodo in cui ero nell'Esercito.

Strabuzzo gli occhi, incredulo. Ciononostante, con un cenno d’intesa, gli faccio capire che ho captato i suoi “SOS”.
«Se riesci a portarmi fuori di qui, ti rivelerò dove trovare un forziere pieno di oro e di gioielli, nascosto sotto la sabbia di una delle spiagge di Sanremo» detta quell'essere marino.

Chiamo un cameriere per cercare di ordinare quel Granchio Reale, non per farmelo cucinare ma bensì per averlo vivo e avvolto in della carta. Male che vada, quando torneremo a casa, alla mia fidanzata spiritosamente le dirò così: «Ho preso un granchio!»

Cribbio, proprio adesso uno dei camerieri afferra velocemente il crostaceo per portarlo in cucina.

«Porca puttana!» esclamo con tono stizzito, battendo i piedi sotto la sedia.

«Che c'è amore?» mi chiede Francesca con aria perplessa.

«Niente tesoro!»

Il "niente tesoro!" senza virgola è tutto dire.

 

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Amiche

21 Giugno 2021 , Scritto da Daniela Lucchesi Con tag #daniela lucchesi, #racconto

 

 

 

 

La sensazione è quella del freddo sulle cosce nude, freddo come un ventre che si ostina a rimanere vuoto.

Irene è seduta sul bordo della vasca da bagno, tra le dita un oggetto inutile.

La stessa sensazione di freddo e inutilità si ripete ogni mese negli ultimi tre anni. Eppure ci sperava anche questa volta, ogni volta il miracolo sembra possibile.

Per le altre è facile, le altre rimangono incinte anche se non vogliono.

Lei no, lei non è fertile. Lascia cadere dalle dita il tester con quell’unica linea sbiadita nel mezzo. Si alza, si infila frettolosamente i jeans e guarda quell’esile striscia rosa pallido che le sembra una bocca dalla linea derisoria e con un gesto deciso lo butta nella pattumiera.

In camera dà un’occhiata al mucchio di vestiti che ingombra le sedie, hanno invaso perfino il ripiano del cassettone, mentre sotto il mobile una decina di scarpe fa bella mostra di sé.

Ci vorrebbe un ripostiglio in questa casa o il lusso di una stanza in più. Cambiare casa, un altro sogno irrealizzabile, almeno per il momento, forse fra qualche anno, quando io guadagnerò di più come illustratrice e magari anche Davide riuscirà ad affermarsi con qualche gallerista.

Apre l’armadio per cercare qualcosa per la serata. Sceglie una gonna grigia aderente e corta, calze colorate a righe viola e un maglione color malva. Passa le dita tra la lana angora, vellutata come il piumaggio tenero di un uccellino, indossa la maglia e si sente al sicuro come in un nido.

Questa sera si festeggia il compleanno di Claudia, la prima tra le amiche dei tempi della scuola a compiere 40 anni.

Irene dedica un’attenzione premurosa al trucco, si passa un secondo strato di rossetto sulle labbra e si osserva allo specchio con aria critica: le gambe snelle fasciate di righe, le braccia lunghe e sottili, il petto esile, ma la maglia voluminosa avvolge la sua magrezza rendendola più morbida. Gli occhi, velati d'inquietudine, galleggiano nelle ombre delle occhiaie che il correttore non è riuscito a nascondere. Con dita nervose riavvia i capelli castano-mogano, una massa di ricci indisciplinati che ricadono disordinati ai lati del viso.

Ci tiene ad apparire bella questa sera, non vuole sfigurare nel confronto.

Sale nella sua Kalos blu elettrico, si dirige verso il quartiere residenziale a sud dove una sfilza di bifamiliari nuove, uniformi per stile e colore, sembrano l’opera di un bambino che ha disposto ogni pezzo delle sue costruzioni in modo ordinato e diligente creando un quartiere perfetto e un po’ surreale in questa piccola città del nord-est.

Accende la radio e nell’auto si diffonde la voce di Loredana Berté: “Non sono una signora/Una con tutte stelle nella vita/Non sono una signora/Ma una per cui la guerra non è mai finita …” Irene alza il volume al massimo e si ricorda quando adolescenti lei e le altre ascoltavano la canzone nella sua vecchia A112 e cantavano a squarciagola il ritornello. Un’ultima occhiata nello specchietto e scende con un sospiro. 

Elena le apre la porta col piccolo Leo attaccato al seno: “Scusami Irene, entra un istante, è sempre un problema staccarlo”, le dice l'amica con un sorriso infastidito che diviene una specie di smorfia.

Irene è ipnotizzata da quella minuscola bocca a ventosa che succhia voracemente un seno florido, traboccante di latte e passa le dita sulla testa del bimbo con una carezza leggera.

Lui si separa con uno schiocco dal seno materno lasciando un capezzolo rosso e umido così grosso che ad Irene ricorda stranamente un proiettile. Per una frazione di secondo gli occhi del bimbo incrociano i suoi, poi si rigira svelto verso la madre, pronto a riacciuffare il suo capezzolo. Elena, veloce, si è tirata su la spallina del vestito e Leo le rivolge uno sguardo sconcertato e furioso prima di scoppiare in un pianto convulso.

“Sembra che senta quando devo uscire, diventa intrattabile e appiccicoso.” e di nuovo ricompare quella leggera smorfia sulle sue labbra scarlatte; decisa e distante deposita il fagotto recalcitrante in un seggiolino, mentre urla al marito: “Scendi che io devo uscire, c'è un biberon di latte pronto in cucina, daglielo fra un'oretta.”

Dalle scale proviene uno scalpiccio di piedini scalzi e frettolosi e compare Mirko che lancia un aereo in direzione della madre, ignorando sfacciatamente il saluto di Irene.

“Tu sì, che sei l’amore della mamma, l’ottava meraviglia del mondo.”

Irene osserva l’amica che guarda con occhi innamorati il suo primo rampollo e una piccola fitta le stringe lo stomaco: “Dai, andiamo che le altre ci stanno aspettando.”

Elena distende le pieghe dell'abito nero sui fianchi, si aggiusta i lunghi capelli biondi raccolti in uno chignon alto sulla nuca. Getta un'occhiata distratta allo specchio che riflette due grandi occhi azzurri e un corpo dalle forme armoniose, anche se ora i seni gonfi premono eccessivi la stoffa che sembra dilatarsi sul petto.

 

Claudia ha scelto un ristorante chic, appena fuori città, per questa cena intima tra vecchie amiche. Ora sta sorseggiando un aperitivo con Samuela, le sue dita lunghe e affusolate accarezzano il calice mentre ondeggia il capo in segno di assenso alle parole dell'amica.

La risata allegra e contagiosa di Samuela accoglie Irene ed Elena.

“Oh, eccovi qua - con un gesto elegante Claudia fa oscillare lievemente il polso della mano sinistra e getta un’occhiata all’orologio - il ritardo è accettabile, cominciavo a preoccuparmi.” Le donne si salutano con un abbraccio.

Dopo un po’ arriva Renata: “Salve ragazze, scusate ma stasera la riunione con l’amministratore delegato non finiva più, ragazze... si fa per dire, ehi Claudia - e le si avvicina, i volti si sfiorano - cos’è la ruga dei quarant’anni quella che vedo in mezzo alla fronte?” e scoppia in una risata.

“Sei sempre la solita sciocca. Vedi di contenerti stasera.” ribatte Claudia.

“A quanto pare stai facendo carriera” afferma Elena gettando un’occhiata all’abito Armani verde militare di Renata, ai capelli ramati tagliati a spazzola e al fisico modellato dall’abitudine quotidiana alla palestra. 

“Già, sono finiti i tempi in cui sgobbavo dietro le quinte, finalmente il capo si è accorto di quanto io sia capace, affidabile e intelligente, modestamente parlando...”

“Ragazze non potrò fermarmi molto - esordisce Samuela - ho la piccola con 38 di febbre, temo si sia presa la scarlattina, l'asilo in questo periodo sembra un lazzaretto. Tengo le dita incrociate perché non se la becchino anche le altre due.”

Irene teme una serata in cui si parlerà solo di poppate, di malattie infantili e di problemi scolastici delle figlie più grandi, ma è decisa a godersi la cena. Si abbandona sulla sedia dallo schienale alto foderato di raso, il vino rosé si diffonde dolcemente nel palato lasciando una lieve nota amara come retrogusto e un leggero frizzantino nelle narici.

Ascolta distrattamente le voci delle amiche che parlano di asili nido.

Il cameriere porge i menu, con un'occhiata esperta passa in rassegna le donne e si attarda su Claudia. Irene segue la traiettoria di quello sguardo e invidia l’eleganza innata dell’amica: slanciata, capelli castani foltissimi che le scendono in morbidi riccioli sulle spalle, occhi a mandorla dalle ciglia lunghe, jeans Moschino aderenti, tacchi alti, maglietta di strass nera attillata.

“Renata ma quanto sei dimagrita.” esclama Samuela.

“Hai notato? La palestra fa miracoli, anche perché il mio personal trainer, per di più strafigo, non mi molla un istante.

“Strafigo? E si è preso una cotta per te?”

“Ma va là Irene, semplicemente lo pago con il mio abbonamento mensile e lo pago profumatamente, mia cara.”

“Ci vorrebbe anche a me la palestra con personal trainer ma, vi giuro che, con il lavoro in ufficio e tre figlie piccole, è un lusso perfino andare in bagno e poi mi piace troppo mangiare” sospira Samuela mentre addenta con soddisfazione un croccante cavolfiore pastellato.

Irene sorride, vedere mangiare Samuela le ha sempre messo buon umore, le piacciono la sua allegria e la sua semplicità raffinata.

“Non vedo l’ora che crescano, così anch’io potrò concedermi la palestra e la carriera.”

“Eh cara mia, non credere sia facile, io ho dovuto vedermela con un dirigente stolto e pure maschilista, pensa che dopo la maternità ha avuto la sfacciataggine di propormi il part-time! Figurati, sono tornata al lavoro quando Chiara aveva tre mesi, le ho tolto il latte e l’ho messa al nido, ma almeno così ho salvato la carriera.” Renata getta uno sguardo poco convinto a Samuela come se dubitasse della sua grinta nel lavoro.

“Menomale che nella scuola pubblica non ti fanno pesare le gravidanze! - dice Claudia- Invece io per mantenermi in forma vado spesso a sciare. Marco quest'anno ha deciso di fare la stagione a Cortina, e devo confessarvi che anche il mio maestro di sci non è affatto male. Sebbenne io non tradirei mai Marco, ovviamente”.

“E se lui tradisse te?”

“Nooo Irene, ma che dici! Sì, le guarda le altre, ma non credo proprio che...” per un istante Claudia rimane a bocca aperta, alla ricerca delle parole che le sfuggono.

Irene la osserva, ha un aspetto impeccabile eppure il volto è contratto, rigido, grigio.

“Ehi Claudia, come stai? Tutto bene?” s’informa Irene.

“Certo che va tutto bene, va tutto a gonfie vele” e nei suoi occhi castani passa un'ombra di malinconia mentre li socchiude, ma quando li riapre sono di nuovo impenetrabili.

Lo sguardo di Irene galleggia sulla maglia di Claudia, ipnotizzato dal luccichio intenso e vibrante delle paillettes nere, ora intensamente illuminate, ora buie come un buco nero, minuscole perline che sembrano liquefarsi sotto i suoi occhi, per un istante le pare che si allontanino aprendo degli squarci nel tessuto.

E’ una sottile breccia ma sono riuscita a entrare nel tessuto che avvolge i nostri  fragili  sogni esistenziali.... se dovessi disegnare Claudia, non avrei dubbi. La vedo mentre cammina spedita su un lago ghiacciato. A tratti il ghiaccio s’incrina appena sotto i suoi passi, si potrebbe spezzare... ma lei scaccia il pensiero inopportuno e affretta il passo. Sorride, gli angoli della bocca sono tesi, lei si sforza di tirarli su e sul suo volto si disegna un sorriso ambiguo come quello di un clown... Ecco l’immagine che mi ci voleva per il libro! Solo che un clown dall’espressione inquietante non è indicato in un libro per l’infanzia. Il mio lavoro è fermo, forse dovrei smetterla di illustrare libri per bambini, non in questo periodo almeno.

“Ah, non vi ho detto che stiamo comprando un attico, 200 metri quadri ristrutturati alla perfezione. E’ stato un affare, Marco mi ha chiamato al lavoro chiedendomi di andare a firmare il contratto. Pensa, non l’ho neppure vista la casa, ma mi sono fidata: una favola, in pieno centro storico, con vista sulla piazza. Marco ha fiuto per gli affari.”

Ma all’improvviso il ghiaccio si spezza…. Vedo il cameriere che deposita un vassoio di crostini, mentre con la coda dell’occhio guarda Claudia, lei  posa il tovagliolo sulla tavola, si alza e si dirige con passo calmo e sicuro ai bagni. Prima di entrare si volta e lo squadra con i suoi occhi felini. Lui la segue nella toilette femminile, chiude la porta e vi appoggia la schiena. Claudia gli afferra il colletto della camicia e avvicina la sua bocca, lo bacia, un bacio famelico, le unghie affondano nella nuca e poi tutto avviene velocemente, lui le slaccia i jeans, lei si gira di schiena, le mani al muro, lui entra mentre un piacere stravagante e sconosciuto la travolge”.

Magari riuscisse a perdere così il controllo Claudia... E forse io ho sbagliato mestiere, avrei dovuto scrivere, avrei guadagnato di più con le storielle hard.

“Ehi Irene dove sei? - la riscuote Samuela - avevi lo sguardo perso.”

Renata si gira appena verso di lei prima di rivolgersi a Claudia: “Ben fatto Claudia! Anch’io sono contenta di abitare in centro, è un ottimo investimento e ci sono tutte le comodità, ti consiglierò io la scuola per Alice.”

“A proposito di scuola, datemi un consiglio, sono indecisa se mandare Mirko all’asilo dalle suore o nel pubblico, forse le suore me lo seguono di più.”

“Ma scusa Elena, cosa stai aspettando? Perché non l’hai ancora iscritto? Ha compiuto 3 anni da un pezzo. Lo stai viziando troppo il tuo adorato primogenito, sempre con la nonna e la sua mammina. Scommetto che non ti farai tanti scrupoli col piccolo Leo” replica Renata con malizia.

“Ehm, infatti l’ho già iscritto alla scuola pubblica, vicino all’ufficio di Andrea, così al mattino lo porterà lui.”

Irene non le segue più, sta pensando con tenerezza alle amiche di un tempo, alle risate tra i banchi di scuola, alle corse sfrenate del sabato sera nella sua prima auto, alle nottate brave in discoteca e agli anni dell’università con una Claudia comunista sfegatata che ora, magari vota pure a destra.

Si sta chiedendo, mentre assapora un ossobuco con riso basmati allo zafferano, come mai non si "afferrino" più e perché, sempre più spesso, negli appuntamenti rituali dei compleanni, nel bel mezzo di una conversazione perfetta nella sua disarmante banalità, abbia voglia di urlare.

Sono le mie amiche di sempre, che ora sono diventate donne, soddisfatte della loro vita, o almeno sembra. Si sono sposate all’età giusta, con l’uomo giusto, hanno trovato il lavoro sicuro, hanno fatto figli, mentre io mi dibattevo nelle mie inquietudini, sempre alla ricerca di qualcosa d’indefinibile e intanto lasciavo un lavoro e un uomo dopo l’altro. Forse loro, più mature e più pragmatiche di me, hanno capito tutto.

Sento una nota stonata questa sera, le parole galleggiano vuote… C’è un velo che nessuno osa sollevare su vite così perfette, neppure io che sono sempre stata l’eccentrica del gruppo.

Perché rovinare la festa con domande inopportune: dove si trova la felicità, in un lavoro socialmente apprezzato, una famiglia, una bella casa? O forse sarebbe meglio vivere sole e indipendenti, libere di esplorare la vita in tutta la sua imprevedibilità? Un figlio ora mi assicurerebbe la felicità... O sono un’ingenua a pensare che con un figlio tutti i tasselli incompleti della mia confusionaria esistenza andrebbero a posto, come per miracolo.

 “Allora cosa dite - propone Renata - lo organizziamo questo viaggetto per i nostri 40 anni a Barcellona?”

“A Barcellona?” fa eco Irene.

Il vino è delizioso, un passito dolce con una nota acida che pizzica il palato.

Forse è meglio partecipare alla conversazione, fingere interesse, cullarsi in un sogno roseo dove la vita di ognuna è perfetta così com'è, perfino la mia.

Un figlio, anzi una figlia, per la precisione, riempirebbe sicuramente quel vuoto, quel buco nero che a tratti mi divora. E non mi basta l'amore di un marito affettuoso, quell’avido buco nero ora si sta risucchiando anche la mia tiepida felicità matrimoniale.

“Ehi, Irene, sei sempre la solita tu, viaggi tra le nuvole” la risveglia Renata.

All’improvviso dalle casse stereo del locale si diffonde la voce della Berté: “Non sono una signora…”

Che curiosa coincidenza... E la voce della loro cantante preferita di un tempo, copre quella delle sue amiche: “È un volo a planare/ Per essere inchiodati qui/ Crocefissi al muro...”

“Ehi ragazze la sentite? Vi ricordate quando la cantavamo tutte insieme nella mia A112?”

Ma nessuno sembra fare caso alla musica, né alle sue parole.

Samuela sta parlando dell’ingresso alla scuola materna di Francesca, la figlia minore:

“Per fortuna ha cominciato la scuola, non ne potevo più. “Io che sono una foglia d'argento/ Nata da un albero abbattuto qua/ E che vorrebbe inseguire il vento/ Ma che non ce la fa/ Oh ma che brutta fatica/ Cadere qualche metro in là/ Dalla mia sventura/ Dalla mia paura...”

“Pensate che ero così stufa di averla a casa che l’altro giorno l’ho mandata a scuola con la febbre.”

Irene mormora fra sé: “Povera piccola” ma Renata le rivolge uno infastidito: “Eh, ha parlato quella che non ha figli. Mi dispiace cara mia ma tu non sai proprio cosa voglia dire stare dietro ad un marmocchio ventiquattro ore su ventiquattro e forse non lo saprai mai!”

Irene sente le sue labbra piegarsi in un sorriso imbarazzato mentre le spalle s’irrigidiscono. Una frase, detta con noncuranza, una stilettata che le arriva dritta allo stomaco con la forza di un coltello dalla lama affilata. Una parola le sale e le rimane strozzata in gola: “Stronza”.

Ma perché pronunciarla a voce alta e rovinare a tutte questa deliziosa serata?

 

 

 

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L'università 1

19 Giugno 2021 , Scritto da Paula Martins Con tag #paula martins, #racconto

 

 

 

 

L'università che avrei dovuto frequentare era molto diversa da quella in cui, alla fine, mi sono iscritta. Ho sempre amato imparare lingue. È, da sempre, la mia passione. Avrei dovuto, quindi, iscrivermi a Lettere, dove sarei stata a mio agio.

Ho sempre pensato che una vita da studente nel posto corretto sarebbe stata così diversa, così facile! Perché l'area delle lettere era naturale per me, era la mia inclinazione. Al liceo ero una buona studentessa in  Portoghese, Inglese, Francese... cioè, lettere. Ma sono stata testarda, e, diciamolo, poco intelligente.

Al momento di scegliere sono stata colpita da una terrificante certezza: il cammino davanti a me sarebbe stato quello di una professoressa! E io non volevo, non potevo essere, una professoressa.

Oggi penso, oggi so, che avrei potuto iscrivermi. Non avrei dovuto, per forza, essere insegnante. Ci sono sempre altre ipotesi, altre professioni.

Ma all'epoca, non ho visto più niente: professoressa!

 

 

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Perdita di contatto

11 Giugno 2021 , Scritto da Paula Martins Con tag #paula martins, #racconto

 

 

 

 

Ho perso contatto con tutte le amiche in Mozambico. Ci siamo sparpagliate per vari paesi, varie città, vari continenti. Persino quelle che sono venute a Lisbona, essendo state collocate in altri licei, non le ho più viste. È vero che le amicizie che si fanno quando siamo molto giovani sono molto forti; anni e anni più tardi, se rincontri quella persona, l'amicizia può ricominciare, intonsa.

Però, continuare a essere amici tutti i giorni, è un'altra storia. Per questo è necessaria la permanenza continua nella tua vita. Per me è stato così. E a quest'età è stato tanto facile fare amicizie, stabilire nuovi ponti, nuovi rapporti. Non ho mai sprecato tempo guardando indietro (ero tanto nuova). C'erano sempre, sempre, delle altre amicizie!

Ovviamente ho sofferto quando, all'improvviso, una mia grande amica si è allontanata. Inspiegabilmente. Non ho mai capito perché. E all'epoca, eravamo quasi sorelle.

Ma quel sentimento per l'amicizia perduta, quando siamo molto giovani, è come la pioggia in Mozambico: batte fortissima, e prestissimo se ne va.

Un po' più tardi nella vita ci si rende conto di come l'amicizia vera sia preziosa, di quanto debba essere travagliata.

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Nonno sprint

5 Giugno 2021 , Scritto da Giuseppe Scilipoti Con tag #giuseppe scilipoti, #racconto

 

 

 

 

Mio nonno materno. Che personaggio!

Separato da tempo immemore, incallito donnaiolo e grande girovago, con i suoi ottant'anni passati, sprizza “arzillosità” da tutti i pori.

Un dongiovanni, quindi? Eh sì, tant'è vero che in famiglia l'abbiamo da sempre soprannominato Don Giovan"Nuccio", derivante dal diminutivo di Nuccio.

In proposito si lancia con nonchalance all'avventura, nel prendere treni o autobus per raggiungere le sue conquiste, spesso rimorchiate tramite quelle cosiddette rubriche Cuori Solitari, oppure semplicemente per farsi delle belle e spensierate gite.

Bene, arrivati a questo punto è necessario tornare indietro di quasi trent'anni, ovvero a quando il nonno era più giovane e, per i suoi spostamenti, utilizzava un unico e insostituibile mezzo: uno sgangherato ma stranamente funzionale Piaggio Si con il quale aveva girato un po' tutta la Sicilia orientale e occidentale. A quei tempi, io e la mia famiglia abitavamo a Trabia, in provincia di Palermo, lo “sprintoso” ci veniva a trovare due volte l’anno per rimanere ospite da noi per circa una settimana. Talvolta spuntava in maniera inaspettata, vale a dire a sorpresa.

Più ci penso e più mi stupisco per via di quel Si, un mezzo non proprio comodissimo per viaggiare. In breve, provo a descrivere il tragitto. E che tragitto!

Partenza all'alba, dal messinese al palermitano, giungendo in tarda serata, attraversando strade, stradine, paesi, paesini, campagne etc., sfidando persino avverse condizioni meteo, sebbene per ovvi motivi il girandolone scegliesse prevalentemente l’estate o le giornate soleggiate.

Io e mia sorella, se sapevamo del suo arrivo, ci piazzavamo sul balcone ad aspettarlo. Non ci portava mai dei regali, al massimo un vassoio di piparelle.

L'ingresso a casa nostra da parte di nonno Nuccio lo consideravo di tipo trionfale, un mix tra il folle e l’eroe, tra l’altro con gli immancabili risvoltini (per non sporcarsi i pantaloni, o almeno così si giustificava) e con addosso un cascaccio color marrone senza visiera che con la fantasia identificavo da aviatore. 

Una sera, quasi al termine della cena, avvenne un simpatico episodio degno di nota. In sostanza a Don Giovan"Nuccio" domandai da cosa traesse origine quel suo spirito da avventuriero, e il perché prediligesse l’utilizzo di quel catorcio.

«Vedi caro nipote» mi spiegò, «da ragazzino amavo leggere i giornaletti e… sognavo di girare il mondo. Ed eccomi qua!» 

«E qual è il tuo preferito?» gli chiesi nuovamente con slancio, poiché a sette anni ero un avido lettore di fumetti.

«Tex Willer!» esclamò e con le dita fece finta di sistemarsi un immaginario cappello da cowboy.

«Ah ecco, ora tutto si spiega!» intervenne mio padre con sottesa ironia.

Guardammo papà con aria divertita, pronosticavamo che avrebbe aggiunto una postilla umoristica.

«Praticamente tutti e due in sella. Tex, col cavallo andando per dune e per monti, mentre lui... col Si!»

Scoppiamo a ridere.

«E se piove? Come fai?» domandò mia sorella rivolgendosi al nonno.

«Non si pone il problema perché l'Uomo del Vento... non teme la pioggia.»

 

 

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The Legionary

4 Giugno 2021 , Scritto da Giuseppe Scilipoti Con tag #giuseppe scilipoti, #racconto

 

 

 

 

Alcuni mesi fa venni operato di settoturbinoplastica, un'operazione finalizzata al riallineamento del setto nasale, alla correzione dei turbinati e l’asporto di svariati polipi, un trattamento chirurgico necessario per una corretta respirazione. L’intervento andò a buon fine, un intervento gestito da un chirurgo di veterana esperienza e da un’equipe ineccepibile; tuttavia, l’anestesia totale mi aveva totalmente sfibrato, al punto che i sanitari ebbero complicazioni a risvegliarmi. Nei due giorni successivi, un forte mal di testa non mi diede tregua per non parlare della costante spossatezza. 

Dormii moltissimo, malgrado qualche difficoltà, in quanto le cavità nasali risultavano ostruite dalle medicazioni. Gli infermieri e gli O.S.S. si presero cura di me in maniera attenta, per di più mostrando cortesia ed empatia. Per la prima volta capii cosa si prova ad essere l’assistito, visto che da circa tre anni esercito in qualità di Operatore Socio Sanitario in una Comunità Alloggio, fornendo assistenza sociale e sanitaria agli anziani.

Durante i giorni di degenza, a causa delle restrizioni legate alla pandemia Covid-19, le visite di parenti e amici non erano consentite, dovendomi quindi accontentare delle chiamate sul cellulare o dei messaggi ricevuti su WhatsApp e su Messenger, messaggi pieni di affetto, di solidarietà e di sostegno da parte della mia amata fidanzata, della mia famiglia, dei miei colleghi di lavoro e di Enrico, il mio migliore amico.

A Enrico, oltre le dovute risposte o le considerazioni inerenti all'intervento, in forma esclusiva inviai un selfie nel quale giacevo sul letto, tenendo il pollice rivolto verso l'alto. Chiaramente si notava l’espressione stravolta, il naso gonfio come quello di un orco e gli occhi da comatoso. Nell'autoscatto allegai la seguente frase: --- Non sono allettante, tutt'al più allettato. ---

Il mio amico, tramite WhatsApp, riempì il display del mio dispositivo di faccine sghignazzanti per poi scrivermi che in realtà si dispiaceva nel vedermi in quello stato, tra l'altro esternando ammirazione, poiché ero riuscito ad affrontare l'operazione con uno spirito battagliero, conservando al contempo il mio solito humour

La mattina dopo, Enrico mi comunicò che mi aveva dedicato un brevissimo racconto intitolato The Legionary e che desiderava inoltrarmi il file su cellulare nel primo pomeriggio. Appena mi fece pervenire il documento elettronico, lo lessi con estrema attenzione, trovandomi in quel momento (ed anche adesso) impossibilitato nel descrivere le sensazioni ricavate.

A Enrico mostrai stupore, gratitudine e stima. Mi rispose che mi considerava un legionario, uno di quelli tosti, prendendo come riferimento persino i miei tediosi e sofferti trascorsi. Confesso che tale pensiero mi  commosse. Successivamente gli mandai un audio con voce roca, date le mie deboli condizioni.

--- Compare, e pensare che mi sono sempre sentito un Cavaliere, non intendo un Cavaliere della Tavola Rotonda ma bensì un Cavaliere della Tavola da Pranzo. --- 

 

Cari lettori, desidero importare The Legionary su signoradeifiltri.blog, avendo avuto il permesso di Enrico, grande autore e grande amico.

 

The Legionary

 

Stava disteso a terra dolorante, ricoperto dal fango e dalla pesante armatura di battaglia. Lo scontro era stata duro, l'alluvione aveva sconvolto i piani operativi, causando moltissime perdite tra gli assedianti. Le torri si erano incagliate nella palude, lasciando i suoi compagni in balia delle frecce. Ma egli era ancora vivo, tra i commilitoni fu uno dei pochi a non farsi scoraggiare. Nonostante le difficoltà partecipò all'assedio con fierezza, Varanga andava presa a tutti i costi. E fu proprio grazie a lui, che l'ariete riuscì ad abbattere le robuste porte della fortezza. Col cammino spianato, ciò che restava dell'orda romana penetrò nella piazzaforte, catturandola e issando la grande aquila al cielo. Era fatta, pensò esausto Flavio Giuseppe. E sorridendo, chiuse per un attimo gli occhi, la sua dedizione aveva portato alla vittoria. Molte altre battaglie lo avrebbero atteso, in un futuro lontano. Ma per il legionario, adesso era il momento di riposare.

 

 

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