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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

racconto

Il trascrittore

27 Febbraio 2014 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #racconto

Henri amava trascrivere. Scendeva in strada con tutto il necessario e si metteva a trascrivere su grandi fogli tutto quello che leggeva sui muri della sua città. Da un anno portava avanti questo interesse e ricopiava tutti i manifesti, senza preferenze per i contenuti. Trascriveva con grande cura e precisione, con crescente abilità, riportando fedelmente quello che vedeva; non trascurava le particolarità grafiche e gli eventuali disegni rappresentati sui vari manifesti. Sui suoi fogli trovavano posto gli avvisi delle autorità locali, di norma esposti su carta bianca e con caratteri minuti che richiedevano non poco tempo per essere riportati, gli annunci dagli aspetti vivaci di eventi commerciali come l’apertura di nuovi negozi, o altre informazioni come l’inizio della stagione lirica o la possibilità di iscriversi a dei corsi di lingue. Alcune locandine lo affascinavano particolarmente, ma il suo atteggiamento era fondamentalmente laico, nel senso che trascriveva con la stessa attenzione qualsiasi cosa. Nel caso si trovasse in una via povera di manifesti, si sarebbe accontentato di scritte fatte direttamente sui muri. Questo però capitava in rarissime giornate di magra. Henri per portare avanti il suo interesse si alzava presto, in modo da trovare le strade abbastanza vuote e da poter lavorare senza ricevere troppo disturbo. Dato che doveva muoversi a piedi, preferiva avere i marciapiedi liberi; inoltre di prima mattina c’erano i manifesti appena incollati, intonsi e ben leggibili. Gradualmente aveva iniziato a lavorare in modo sistematico, scegliendo una via piuttosto importante e percorrendola prima in un senso e poi nell’altro. Gli sarebbe piaciuto prima o poi riuscire a coprire tutta la città. Già aveva accatastato decine di raccoglitori pieni di fogli e ogni sera ne aggiungeva un altro al termine di una giornata di trascrizioni. Gli sembrava in quel modo di sentire nelle sue vene tutta l’anima della città, fatta di episodi quotidiani, commercio, cultura, comunicazioni di ogni tipo. In quella fase non pensava che forse stava scrivendo sull’acqua; anche se la sua penna instancabile avesse messo nero su bianco ogni scritta cittadina, ogni giorno ci sarebbero stati nuovi avvisi esposti nelle vie già percorse.

Ogni volta partiva con nuovo vigore. Un domani, pensava, potrò dire che la mia città è tutta nella mia casa, nei miei fogli. Non si sentiva un “catturatore” dell’effimero, ma qualcuno che voleva fissare nero su bianco quello che vedeva quotidianamente e che riteneva desse il tono della città. Aveva scelto di occuparsi della lunghissima Via dell’Alleanza e cominciò la sua attività con la consueta serietà. Si diede da fare per due giorni consecutivi, senza nemmeno tornare a casa; poi il terzo giorno rientrò prestissimo, depositò un raccoglitore zeppo e partì con un altro nuovo, accontentandosi di un breve riposo. Non aveva orari e, infatti, quando giunse quasi nel punto in cui si era in precedenza fermato, c’era poca luce. Potevano essere le sei del mattino. Con una piccola pila iniziò a darsi da fare. Riempì di slancio parecchi fogli. Era preso unicamente dal suo lavoro di riscrittura e quindi non sapeva che da sei mesi la città era stata divisa in due parti e ogni parte era retta da un governo diverso. A metà Via dell’Alleanza si trovava una piccola transenna con alcuni uomini di guardia; era il nuovo confine. Si stavano facendo lavori per mettere una struttura divisoria definitiva, ma intanto ci si accontentava di un debole sbarramento. Quando vi giunse, concentrato sul suo lavoro, andò avanti anche perché Via dell’Alleanza proseguiva oltre il confine e questo solo contava per lui. Non s’interessava di politica e anche ciò che leggeva sui manifesti raramente lo faceva riflettere. Era catturato dalla diversità degli avvisi, dai colori, dai caratteri delle parole; si poteva dire che praticasse l’art pour l’art, senza entrare nel merito di quanto leggeva. Trascriveva rapidamente prima di passare a un altro manifesto completamente diverso. Fermarsi a riflettere davanti a qualcosa, gli sarebbe costato troppo tempo. In quel momento l’unica sentinella presente dormiva: d’altronde in sei mesi non c’erano stati problemi di alcun tipo. Henri si fermò addirittura un buon minuto per riportare sui suoi fogli una serie di moniti posti vicino al corpo di guardia. Erano ormai le sette e lui si sentiva in forma. Quando si fece giorno, poté notare che in quella zona i manifesti erano in generale diversi. Colori in generale più spenti e probabilmente anche carta più scadente. Qui trovò molte segnalazioni delle pubbliche autorità, molti avvisi di tipo amministrativo e altri di genere propagandistico. Alcuni terminavano in modo solenne con motti come: “Unità e progresso!” oppure “Lavoro e Giustizia subito!”.

Era incuriosito dall’abbondanza di punti esclamativi e dai caratteri enormi. Si sentì contento di quello che stava vedendo in quanto finalmente vedeva qualcosa di nuovo. Non tardò a esaurire quasi tutti i suoi fogli e quindi iniziò a guardarsi intorno per vedere se trovava una cartoleria. I passanti erano radi e si muovevano camminando veloci. Nessuno sembrava fare caso a lui. Cercò con un gesto di richiamare l’attenzione di un signore che teneva la testa bassa e che nemmeno accennò a fermarsi. Controllò ancora il numero dei fogli rimasti e costatò che rischiava di restarne sprovvisto e quindi di perdere la giornata, proprio ora che aveva trovato nuovi stimoli. Decise di trascrivere un ultimo manifesto e poi di restare fermo finché qualcuno non gli fosse passato accanto. Il marciapiede era stretto, anche per via di alcuni grandi alberi e quindi il prossimo pedone per forza avrebbe dovuto passargli vicino e quindi l’avrebbe fermato. Così accadde poco dopo con una signora che gli arrivava appena alle spalle; Henri si era appoggiato a un albero e la donna, vedendolo all’ultimo momento, si ritrasse bruscamente. Henri non capì quella diffidenza e la inseguì per qualche metro. Poi, sconsolato, tornò ai suoi manifesti. Gli restavano quattro fogli vuoti e non vedeva nella zona dei negozi. Dovette riprendere a camminare. Poco dopo venne affiancato da due poliziotti a cavallo, forse richiamati dal piccolo trambusto che aveva creato qualche minuto prima. Henri sorrise e disse che cercava una cartoleria; i due uomini si guardarono e poi tornarono a squadrare lui. Allora il trascrittore, per spiegarsi meglio, aprì il suo raccoglitore e mostrò come fosse a corto di fogli bianchi. Uno dei due con un cenno se lo fece consegnare e per un lunghissimo minuto lo sfogliò senza mai alzare la testa. Henri cercò di rompere il ghiaccio: “Devo comprare quello che mi serve in una cartoleria. Non sono certo un malintenzionato!”. Il militare ebbe un sussulto e disse: “Ecco, se lo riprenda. Comunque decidiamo noi se le sue sono buone o cattive intenzioni. Lei cerca una cartoleria? Prenda la prossima via a destra. Il mio collega la precederà. Appena entrato nel negozio, consegni il suo lavoro alla prima persona che si troverà davanti. Faccia come le ho detto”.

Henri restò perplesso, ma poi quasi spinto dal muso del cavallo si incamminò. Non gli erano piaciute le maniere arroganti di quel poliziotto, anche se alla fine gli aveva restituito il suo raccoglitore e gli aveva comunicato l’informazione richiesta. Entrò nella via laterale che era una strada chiusa e vide che l’altro militare a cavallo lo attendeva una cinquantina di metri più avanti. Un lungo palazzo mezzo scrostato stava da un lato, mentre dall’altra parte un muro basso nascondeva un boschetto o un piccolo parco. La polvere sollevata dal cavallo stentava a sparire, dato che la strada era notevolmente stretta. Sentì che alle sue spalle stava arrivando anche l’altro cavaliere. Un gatto si rannicchiò dentro a un vecchio scatolone, poi seguì per un po’ Henri che farfugliò a bassa voce: “Siamo circondati: e non sono io ad avere sette vite”. Comunque si sentiva abbastanza tranquillo, tanto da fermarsi a ricopiare un manifesto e poi da accennare un saluto al poliziotto che lo attendeva. Entrò nell’edificio e subito un uomo gli tolse dalle mani il raccoglitore e gli chiese un documento. Scoppiò a ridere: “Serve un documento per comprare in questa cartoleria?”. Vennero altri due uomini che lo fecero entrare in una stanza, dove rimase per quasi mezz’ora da solo. Poi entrò un giovane dall’aspetto molto curato che si avvicinò a un piccolo tavolino dove pose il necessario per scrivere. Henri gli chiese spiegazioni, ma quello gli fece cenno di tacere e poi di alzarsi quando subito dopo arrivò un tipo grasso e sudaticcio. Questi teneva in mano il raccoglitore e si sedette davanti a lui. L’uomo si accese una sigaretta e poi biascicò all’improvviso: “Queste cose che leggo le avete scritte voi?”.

“Certo”.

“Con quale scopo?”.

“Con lo scopo di farlo e basta. Lei fuma, io invece trascrivo, tutto qui. Mi piace farlo”.

“Siete autorizzato?”.

“Autorizzato? Da chi? Non capisco. Serve un’autorizzazione?”-

“Lo avete mostrato a due nostri cittadini, vero?”.

“Sì, a quei due poliziotti, per far capire che cercavo una cartoleria, ma vede, ho dovuto, mi sembravano abbastanza tonti”.

“Questa si chiama propaganda. Siete un agente straniero?”.

“Non capisco”.

“Venite dall’Ovest?”.

“Ovest rispetto a dove? Abito in città”.

“Almeno ammettete di essere uno scrittore?”.

“No! Un trascrittore!”.

L’uomo era spazientito per via delle risposte ricevute, ma sembrava troppo grasso e affaticato per protrarre l’interrogatorio. Nei successivi venti minuti non successe quasi nulla. L’interlocutore di Henri borbottava tre sé mentre sfogliava il raccoglitore: sembrava interessato ai fogli all’inizio della raccolta. Là si vedeva un mondo che l’uomo non conosceva molto; grandi negozi, convegni letterari, pubblicità di agenzie di viaggi, fiere, esposizioni. Quando il giovane dal suo tavolino fece cadere la sua penna, l’altro trasalì e fece un cenno. Henri venne fatto uscire e portato in una cella. Il primo giorno fu a dir poco tedioso. Poteva solo guardare dalla finestra i grandi stormi di uccelli che animavano il cielo. Provò a chiedere qualche foglio e una penna alle guardie. Il primo giorno il diniego fu netto. Il secondo giorno invece la sua richiesta fu accolta e proprio questo poteva essere preoccupante. Voleva riprendere la sua attività anche in quelle difficili circostanze. Sulle pareti della cella non mancavano le scritte, anche se ci voleva pazienza per decifrarle. Ve n’erano di diversi tipi: espressioni di disperazione, piccoli aneddoti, insulti contro le guardie e invettive contro il governo, semplici nomi di persona e date. Alcune erano più memorabili di altre, anche se piuttosto semplici: “Se ci fosse giustizia vera, io non starei in questa galera” oppure “Ho passato qui tante primavere, fatte sempre di giornate nere”. Passò un giorno e mezzo a trascrivere; furono ore di felicità. Appena ebbe finito, riguardò alcune scritte per essere certo di averle riportate bene. Quando la guardia venne a portargli da mangiare, pensò di regalargli il lavoro fatto. La risposta fu: “Questa cosa vi potrebbe nuocere. Non lo sapete?”.

“Cambierebbe qualcosa per me a questo punto?” chiese il prigioniero. Il secondino abbassò la testa e accettò il dono. Rimasto solo, si chiese cosa gli sarebbe potuto capitare se invece di essere un semplice trascrittore, fosse stato addirittura un valente scrittore. Che cosa gli avrebbero fatto in quel caso?

Nel terzo giorno vennero a prenderlo e lo fecero scendere lungo una scala. Uscirono in un cortiletto chiuso dove una decina di soldati attendeva. Da una finestra al secondo piano un uomo ancora mezzo svestito guardava con aria pigra. Henri fu condotto vicino a un muro, mentre i soldati andavano disponendosi. Il cortile era stretto e lungo: all’inizio lo fecero avvicinare al muro più lungo e quindi i soldati si trovarono troppo vicini a lui. Il sergente che li comandava se ne accorse e non senza fatica fece ruotare di quarantacinque gradi i suoi uomini. Il condannato finì sul lato più corto del cortile. A un soldato cadde il fucile. Il trascrittore osservava il muro dove aveva adocchiato delle scritte. Poi si concentrò a osservare il cielo. Quando il sergente si avvicinò con la benda, gli sussurrò indicando con la testa in alto: “Vedete quelle rondini? Le sto osservando da due giorni e sono certo che vengano dall’Ovest. Vi consiglio di avvisare subito i colleghi dell’aviazione”.

La frase sorprese l’ufficiale che indietreggiò e si scordò di legarlo. Il plotone di esecuzione era troppo numeroso per lo spazio a disposizione. Due soldati furono allontanati e si misero a discutere con l’uomo della finestra che si era acceso una sigaretta; diceva di non averne altre. Non gli credevano. Altri tre soldati furono spostati davanti e fatti inginocchiare dal sergente. Protestarono perché avrebbero voluto tirare stando in piedi.

L’uomo alla finestra fece cadere qualcosa e urlò a uno dei soldati di raccogliere e rilanciargli l’oggetto finito a terra. Un uomo che era già posizionato tra i tiratori si spostò. Si capì che pretendeva una sigaretta in cambio della restituzione di ciò che era caduto. Si presero a male parole. Intanto, durante queste operazioni, Henri rimase tranquillo: si godette fino all’ultimo il suo tempo, potendo trascrivere su un taccuino alcune scritte trovate lì accanto. A suo modo, morì come quegli attori o interpreti che sognano di spegnersi mentre recitano sul palcoscenico. Fu in un certo senso una morte da artista.

Il suo raccoglitore fu lasciato nel deposito delle prove del tribunale, come prevedevano le disposizioni di legge. Spesso però, un ometto grassoccio veniva a prenderlo, ufficialmente per ragioni di servizio. Soleva tenerlo aperto in un cassetto e spiarlo con cautela quando non c’era nessuno nel suo ufficio. Ben presto dovette riportarlo perché alcune voci non positive si stavano diffondendo sul suo conto. In generale, era raro che passasse molto tempo prima che quel raccoglitore venisse richiesto di nuovo da qualche magistrato o poliziotto.

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Valentino vestito di nuovo

14 Febbraio 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #racconto

Valentino vestito di nuovo

Ore 8. Fai finta di non capire. Cos’è questo traboccare di cuori di cioccolata, peluche dall’aria attonita, caramelle con sopra appollaiati i fidanzatini di Peynet? Ma è San Valentino, la stupida festa, nella quale devi per forza sentirti innamorata, anche se non hai quindici anni, non li ha più nemmeno tua figlia, ed il tuo matrimonio ha il sapore di un chewing gum masticato per ore.

Ore 8,15. Decidi di mandargli un SMS.

Digiti: Ti amo

Ci ripensi. Cancelli.

Ti voglio tanto bene. No, troppi caratteri.

T v t b. Ohibò, adolescenziale.

Ti voglio bene. Cioè, insomma.

Provo ancora qualcosa per te. Se mi sforzo.

Lasci stare, tanto lui il cellulare lo tiene sempre spento.

Ore 9. Contagiata dall’atmosfera zuccherosa, compri: a) torta a forma di cuore. b) vassoio di pasticcini a forma di cuore. c) ½ kg di ravioli a forma (guarda un po’) di cuore. Più che la lista della spesa sembra l’elettrocardiogramma.

Ore 9,15. Le mise nella vetrina del negozio d’intimo farebbero arrossire persino Alex Comfort. Irrompi, affascinata da un body rosso e nero. Ti assicurano che è identico a quello indossato da Nicole Kidman in Moulin Rouge. E’ sorretto, spiegano, da autentiche stecche di balena. Costa quanto la rata del mutuo, ma tu non sai resistere e ci abbini pure un reggicalze coordinato. Intanto, pensi a quand’è stata l’ultima volta che lo avete fatto. Forse tre mesi fa, la sera del compleanno di nonna Rosina? Oppure quattro mesi fa, per festeggiare l’automobile nuova? Controlli sull’agenda ed eccola lì, bene in evidenza, la crocetta rossa che indica l’avvenuta attività sessuale, depositata fra le 15 e le 16 di sabato scorso. Ma forse perché la cosa si è svolta fra la telefonata della zia Pina e il rinnovo della tappezzeria del divano, proprio non la ricordi per niente.

Ore 10. La tua collega arriva in ufficio con aria trasognata. Come Violetta nell’ultima scena della traviata, stringe al petto un mazzo di fiori. Ha le guance soffuse, gli occhi luminosi. Agita freneticamente le pratiche, caso mai tu non avessi notato il solitario che le sfavilla all’anulare. Alla fine non si trattiene più. “Guarda cosa mi ha regalato lui!” E tu, candida: “Quale dei tre?”

Ore 11. Immersa nella lettura di un manuale di ricette afrodisiache, stai per scoprire come si stecca il filetto col pepe di cayenna, quando ti becca il capo. Avvampi e balbetti frasi sconnesse sull’importanza dell’aggiornamento quotidiano in campo amministrativo. Si allontana scuotendo la testa e tu capisci che non l’ha bevuta nemmeno stavolta. Il resto della mattina lo passi a scrivere (sopra un originale biglietto a forma di cuore) quanto contino, nel rapporto di coppia, rispetto, stima e complicità. Cerchi di dimenticare quando, da fidanzati, correvate nudi ed ubriachi nel parco.

Ore 17. Ti catapulti dal parrucchiere, il quale ti esamina disgustato ed affonda immediatamente le forbici. Rinunci con un sospiro alla maschera al ginseng, perché hai già speso tutto lo stipendio e siamo ancora al 14 del mese.

Ore 18. Stecchi l’arrosto con doppia dose di arrapante pepe di cayenna. Rovesci i cassetti in cerca di quegli stampini a forma di cuore, che tua sorella ha gettato via, dopo aver scoperto suo marito a letto con la migliore amica. Metti in frigo lo spumante ed apri le ostriche.

Ore 19. Accendi più candele di monsignor Milingo durante uno dei suoi esorcismi, stendi sul letto le lenzuola leopardate comprate a ferragosto dal marocchino, t’immergi in un bagno di schiuma holliwoodiano.

Ore 19, 10. Squilla il telefono. Come una fontana, sguazzi per tutta la casa alla ricerca del cellulare. “Topina”, bisbiglia lui, “sono in riunione, arrivo appena posso”. Tu vorresti urlare, ma lo sai che giorno è oggi? invece mordi la cornetta e tubi: “Va bene, ti aspetto.” Poi, infuriata, asciughi le pozze d’acqua sul parquet.

Ore 19,30. Più che ricordare Nicole Kidman ed il can can, addosso a te il body rosso e nero, con le stecche d’autentica balena, fa l’effetto raccordo anulare. Deve essere per via di quei rotoli di ciccia che sbuzzano dai fianchi. Frughi nell’armadio alla ricerca di quel vestitino di shantung scollato dietro, che quest’estate ti stava così bene. Scopri che da Natale sei ingrassata di cinque chili. Le stecche di balena ti si conficcano nello stomaco e ti accorgi di non riuscire più a respirare. Ti arrampichi su un paio di sandaletti argentati con il tacco a stiletto. Li allacci sulle gambe nude e depilate come quelle delle star di Holliwood, (che, per altro, è in California, dove fa caldo anche a Febbraio.)

Aspetti.

Ore 20,45. Senti il rumore della sua chiave nella serratura. Illividita dal freddo, gridi: “Sorpresa!” Traballando sui tacchi di 10 centimetri, indichi estasiata la tavola apparecchiata con la tovaglia delle grandi occasioni, i flute che spumeggiano, ed i canapè a forma di cuore ormai stecchiti nel piatto. Lui ti guarda imbambolato. Si slaccia la cravatta con aria distrutta, “buon compleanno, Topina”, esclama. A testa bassa, tu gli porgi il bigliettino su cui ti sei scervellata tutta la mattina. Lui lo prende in mano, lo soppesa, poi lo mette giù, estenuato. “Lo leggo domani”, ti dice. Sbottona la camicia, si toglie i pantaloni e, in mutande, fa scorrere la pagina sportiva del televideo, mentre tu schiumi di rabbia in cucina, davvero molto, molto tentata di offrire le ostriche al gatto.

Ore 21,05. Con gli occhi incollati al Gabibbo, lui addenta distrattamente un trancio di peperoncino ed ulula dal dolore.

Ore 22. Siete entrambi sul divano. Tu sei scesa dai tacchi e ti sei tolta il vestitino. Indossi le pantofole e la tua vecchia, confortante, vestaglia. Sotto hai ancora il body di Nicole Kidman, con le autentiche stecche di balena. E’ davvero la mise ideale, rifletti, per fare quello che, in effetti, state facendo.

Cioè guardare un documentario sui panda in tv.

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Deafblind

9 Febbraio 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #racconto

My father had to push to get me through the wrought-iron gate, surmounted by TV cameras. I was surprised to see that the whole interior of the wall was covered with a thick foam.

- Dad, why is the son of Simonti not coming to school?

- It is none of your business! Go to school, and study.”

My father was very angry with me. When I brought home my votes I was forced to follow him in his work as a gardener for the whole summer. That day it was the turn of the villa Simonti .

I wanted to ask confirmation of the rumors that were circulating in the classroom. It was said that the Simonti held a monster in the house and he never came out.

While my father poured gasoline in the mower, and busied himself to turn it on, panting and pulling the rope of the engine, I was still looking for the answer to my question.

Then the mower was set in motion and its noise drowned out every other noise. My father, grim, nodded at the first rake and then at a large tree near the house, and I knew that I had to collect all the leaves that had fallen.

I took the rake and walked reluctantly toward the tree in the middle of the garden. I began to rake a few leaves in here and there, chewing on a piece of candy.

Then a hiss caught my attention.

On the lawn in front of the house, there were a woman and a child.

The woman had blonde hair, tied with a rubber band. The child was as tall as me. But he did not walk like me. He lolled with his hands outstretched .

The woman kept a little distance, ready to support him, but silent.

The child was advancing barefoot in the grass.

Forward, forward , forward ...

Cold feet , because I have nothing to cover the things down. Under, wet ice of thin mushy wires. Next on soggy, wet.

Tickling, thrill ... Perfume, air .

Breath. Breath.

Heat pinches, and I like. I raise my head towards the heat that stings and I like.

I raked mechanically, but I kept looking at the two. They were strange, but just strange strange .

The child bobbed forward, then stopped, opened his mouth sucking breath, as if he were drinking the air and he liked it a lot .

With both hands, the child began to rub the wall of the house, running his fingers along some sort of plastic bar that led to the door.

I hid behind the trunk of the great tree, but I was close enough to see every detail. The child's fingers were too corroded by probing and rubbing everything he encountered. There was blood on his fingertips.

The woman was silent as if the words were useless, she did not touch anything, did not smile, and her eyes were as sweet as those of my mother when she looked at me. No, more than that.

Then the child reached the door .

I tend arms. Touch round, icy rough. Straight ahead, straight up to the hole with tips that I know about .

The woman and the child came into the house, but from the large open windows I could still see them. They had stopped in the first room. There were a wardrobe, a bed with bars, soft toys. There was a table without corners. There were no pictures on the walls, there was no poster of "The Lord of the Rings" or of a soccer team, like in my room. Each object was covered with foam like the wall outside.

The woman crumbled cookies and turned them into the child’s mouth with her hands, then poured him a glass of water.

Here is my smell , my things.

Even if it is pungent, it is sweet . She is here with me.

Saliva, I'm hungry. I open my mouth , I pull out my tongue and she puts in taste, sweet on the tip, more salty down, soft , soft.

I chew , I swallow . Now water , fresh , fizzes.

Cough, cough ...

Fingers inside my finger , fingers that go up and down, up and down , flying , patting, caressing , clasping . Fingers, smooth, soft , scented .

I'm glad she's here. I raise my hands up, up toward her, toward the head, mouth , globes .

Trembles , trembles , I think she's tired . Water, water on my finger , I lick salt water , water ...

My mother, at times, beats on my back when the water goes through me, too . My mother caresses me, too, but she does not put my fingers in her mouth, she does not wash the blood from my fingertips with her kisses . She does not cry like that.

Now next to me was my father. I had not even noticed that the mower had stopped, the garden was silent again, and my father had put a hand on my shoulder . - Oh , son, such a tragedy ...

When my father finished his work, the sun was setting . We walked back home together, hand in hand. For some reason, now he no longer seemed so angry .

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Nemesi

7 Febbraio 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #racconto, #valentino appoloni

Racconto molto carico, con termini duri che si susseguono (sputare, stuprare, graffiare), la violenza è esacerbata, oltre che appunto dai termini e ovviamente dalla brevità del testo, anche dal luogo domestico che si immagina ristretto e di cui si focalizzano solo alcuni punti (come l’angolo della stanza); nello stesso tempo la dialettica tra la presunta serenità della casa in cui si sta e di cui si pensa di avere controllo quasi totale (come sarebbe in un contesto di normale quotidianità) e il repentino e angosciante svolgersi dei fatti, ridisegna il luogo del proprio vivere assegnandogli una pesante nuova dimensione. Il tutto senza che la protagonista possa più intervenire, potendo ormai solo subire e avere un ruolo passivo .. Un racconto che non lascia indifferenti. (Valentino Appoloni)

Il primo è stato l’aspirapolvere. Ha sputato invece di inalare.

Poi la lavapiatti ha cominciato a opacizzare tutte le stoviglie. Poi un piatto nuovo nuovo è caduto giù dal pensile di taglio sopra il tuo piede. E l’albero è crollato un numero sospetto di volte con tutte le palle che si sono frantumate e tu lì a ricomprarle come una cogliona a metà prezzo che ormai mancavano solo tre giorni a Natale.

Poi c’è stato il robot e hai avuto la conferma. Ha staccato a bella posta un pezzo di battiscopa, l’ha trascinato sul parquet appena fatto rilucidare e, con un chiodo, ha rigato tutto il pavimento. In modo coscienzioso, chiaramente intenzionale. Ora le rigature si vedono bene, sembrano ghirigori di una mano inviperita.

Il parquet… il parquet dove è successa la cosa. È successa lì perché era il posto più illuminato e occorreva luce per rasare il pelo, per inserire la cannula dell’ago in vena. È successa lì ma non doveva succedere lì, doveva essere sul letto, nell’incavo del tuo braccio, come avevi disposto, immaginato. Ma la realtà ci stupisce, ci previene, ci prevarica. L’incavo del tuo braccio si è trasformato in un pavimento di legno mai abbastanza caldo. Le lacrime concepite c’erano, sì, anche tante, ma c’erano anche discorsi fuori luogo, convenevoli, mezzi sorrisi, e quel tentare di convincerti che è giusto così. Ti hanno dovuto chiamare persino perché ti eri allontanata, perché non eri dove dovevi stare, lì con lui, a stringerlo, a carezzarlo, ti eri arresa al fatto che le cose non stavano andando come avresti desiderato. E non lo hai abbracciato che dopo, quando la testa già ciondolava, quando gli occhi erano sbarrati, quando dalla bocca usciva sangue. Ma poco, non quanto avresti voluto e dovuto, non con quella rassegnazione, quella dolcezza sfinita e infinita che avevi avuto con gli altri, piuttosto con un senso di azione irrimediabile, crudele, fredda. Col senso di rendertene conto solo a cosa conclusa, col senso di non essere in pace con la tua coscienza, di voler riportare le lancette indietro di un’ora e non farne più nulla.

Ti sei chiesta se lo hai fatto perché ormai era programmato, perché il veterinario aveva guidato per mezz’ora col tempaccio, perché non ce la facevi più a reggere l’agonia dell’incertezza, perché subentra un egoismo per il quale vuoi che tutto finisca, perché c’era da fare l’albero di Natale e venivano i parenti e tu, ancora, non avevi comprato nessun regalo.

È morto incazzato, ringhiando fino all’ultimo istante. Così, poi, di certo te l’ha fatta pagare, anche se ti ama ancora, anche se gli hai chiesto perdono mille volte. Perché di te si fidava come di nessuno, perché eri stata tu a salvarlo, ad allattarlo, perché non voleva morire anche se soffriva, perché voleva rimanere ancora abbracciato con te su quel letto e ti aveva messo la testa nella mano e si era pure sforzato di alzarsi, di mangiare, ti aveva fatto le fusa.

Ecco, da allora, le cose hanno cominciato a ribellarsi, a vendicarsi, si sono arrabbiate. La punta aguzza di uno sportello ti si è conficcata nella caviglia come l’ago nella vena, il mouse saltella e cerca di sfuggirti come lui per tutta la casa mentre lo rincorrevano con la siringa e, alla fine, il robot si è incaricato di stuprare il pavimento.

Sì, forse qualche rumore strano lo avevi sentito, forse c’era stato il suono dell’allarme quando un oggetto rimane incastrato fra le ruote e magari potevi anche alzarti e andare a vedere cosa succedeva. Ma non l’hai fatto, non ti sei voluta accorgere, ti sei tenuta a distanza anche lì. E così quel chiodo del battiscopa non era più fra le ruote (zampe?) del robot, ma era come fosse fra le tue dita, stretto fra i tuoi polpastrelli, a graffiare e rigare e incidere.

E vendicare.

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Before dawn

2 Febbraio 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #racconto

You’re looking out of the window, tears wet your throat and mix with the sweat on your chest, you writhe with stomach pain, you shudder. Nothing is as it was believed, she even hated you and you had not noticed. It was real hatred, otherwise she would not have said those horrible things, she would not have called you a failure. Wait, what did he say exactly? Ah, yes, “You’re a borne failure, you're a loser by nature, Thomas, and he is worth a thousand times more than you in bed."
You implored her while she was detaching from the wall the picture of her aunt - the disgusting crust you've always had to keep to please her – please, do not take away Chicco, you shouted, while she dressed him in a hurry and his lower lip trembled.
"The child is frightened, Anna, for the love of god."
But she could not see her son anymore. Then you were the first to fell silent, to pull her heavy suitcase up. "Ok, love, now mother takes you for a few days to granny, so you can play with the dog. How is the dog? How, Chicco, tell me! Make boo to Dad, like a puppy.”
But she turned as if to hide the child with her body, as if to protect it from you, from you, that love him like you've never loved anything in this shit of your life. You swore that your child would never have suffered, that you would always be at his side, he would have a father and a mother, yes, he, at least.
"You have no aspirations, you have no ideals", she told you. Yes you have it, shit, you have one. Chicco is your aspiration, your ideal. She doesn’t know what love you're capable of , you've never had a family of your own, you only imagined your parents, night after night, in an institute, sobbing, while the big ones leapt towards you or you were trying to escape the knocks, waiting the age of eighteen to go out, to learn a trade, to find a girl, to have a family.
Anna and Chicco no longer need you, they have abandoned you like those motherfuckers, yes, just like your parents, you are left alone in this ugly city, with your ugly work shop, and there is no return, there is no future, every gesture is useless.
You leave the window, you go to the bathroom. There is still Chicco’s jumpsuit across the edge of the tub. You grab it, you rub it on your face, it is soft, you feel the pee smell. You hold it on your nose with your left hand while, with your right one, you take a razor blade. You cut your left wrist, and then you cut also the right one.
You look at the blood that comes out and jump on the bed, thinking how long does it take. Your wrists hurt, but only a little.
And you are afraid.
Oh, yes, until recently, when you went up there to cut your veins, you just wanted to put an end to your pain, but now you are scared. It's a strong feeling that makes you think not so much of her and Chicco anymore.
You close your eyes, thrust your head into the pillow, but then you open your eyes again, yes, you let them open wide. The sky is clearing on the buildings, where the hills begin. You hear the noise of the newspapers van.

In June. A group of trees and a wall with too many windows, the creak of a swing. You are lying belly up in the meadow, smoking a prohibited cigarette. They have cut the grass and you know that it will stinge on the uniform, you' ll take a scolding from father Matthew, but you do not care, because the grass is cool and you like its tickle.
You look at the sky, at the white trail left by the aircrafts, a bumblebee buzzes on your head. You think the heat has a noise, and it is the sound of the bumbleb
ee.

Asshole. You're dying and you’re thinking of you as a boy, of classmates - but were they not all pedophiles? – you’re thinking about the workshop colleagues, especially Mariotto who always brings you the mortadella and the wine that his father makes in the country. You also think of your parents: before they gave you in, they have offered you your life.
You are cold, your forehead is covered with ice sweat. There is a glass on the bedside table, you see the water, you want it on your cardboard tongue.
Are you thirsty, huh? You had to think of it before, you know that when it bleeds to death it is so.
Thirst ... Thirst ...
Holy Christ ...
You think of the water that drips down the gutters and washes the machines. You raise your arm, you try at least. It remains there, caked to the sheet, like a stone, already half dead.
You know, asshole, you know that now you can’t pick up the phone anymore?

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Kindergarten

31 Gennaio 2014 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #racconto

Now you know what I do, I put on my coat and cap, sit on the bench in the locker room, and wait for mom. Please, please, Lord, make so that that Mom comes to pick me up! At least to eat. The dough is soft, the egg sucks. Yesterday I threw up, they made me get up, they took me to the center of the room, left me standing there alone while they went to get something to clean me, because I had the apron all dirty of vomit. I called Mom, I was wet, I was ashamed because they were all staring at me, pointing their fingers at me, laughing with those toothless faces.
Why mom does not come for me? So I go home and eat purè, which mother makes good, and then watch TV.
This morning they gave me a paper and a pencil. “Draw, Gina,” they said. I pointed the pencil on the paper, I drew an arc with one hand. The one who gave me the paper asked: “What is it, Gina?” “It’s a bridge, all right?” I said. So, if nothing else, they stop forcing me to draw. I cannot draw, I do not like to draw. I wish they would let me read all the books they have in that room over there. But perhaps I cannot read.
Yesterday they made us sit in a circle. “Gina, tell us something about you,” they said. I did not come with anything to say, I seemed to have a shoe box for a head. I was sweating.
“Fear not, Gina, here you have lots of new friends.”
Mom told me that two people become friends when they have known each other for a long time and they love. I do not know how long I have been here. I’m here, but these are not my friends and I do not love anyone. No, really, these are not my friends, they stink and piss on themselves. If I get close, they give me a push. One told me: “Go away, bitch.” Mom does not want me to say certain words, she does not want me to listen to them either.
Mom, please, come.
***”

“We smoke a cigarette, Joan?”
“Yes, Angela, but in a haste, because soon the director will be here.”
Joan and Angela rely on the external glass and smoke quickly, inhaling large gulps. The air is refreshing, the sun goes down and hides behind the hills. A third nurse passes close to them pushing an empty wheelchair. “Hurry up, the viper is coming.”
“How did you see them today?” Asked Joan.
“Well … as usual, some peaceful, others not.”
“It ’s absurd how bad they can be at their age. They hate Gina, poor thing, they push her aside. ”
“Gina says little, does not open, it is not collaborative … “
“Yeah, today I tried to make her draw, but nothing.”
A bell rings, the two nurses quickly extinguish their cigarettes under the soles of their shoes. “Come on, let’s work.”
Back in the big common room. “Do you empty the pans?” says Angela, in a loud voice to be heard by the director who, at that moment, is coming down the stairs from upper floors.
”Yes, and you go get the diapers, medium and large size, please.”
The director has stopped at the foot of the stairs. “Joan, Angela,” she says with a snake smile, “our guests need you. You are not here to have fun. This is not a kindergarten, girls, remember, is a nursing home."

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MNEMAGOGHI di PRIMO LEVI (Torino 1919 – ivi 1987)

12 Gennaio 2014 , Scritto da Valentino Appoloni Con tag #valentino appoloni, #racconto

Primo Levi, noto per le opere legate alla drammatica esperienza nel lager (Se questo è un uomo, La tregua, Sommersi e Salvati), fu anche un abile narratore. Chimico prestato alla letteratura (oppure semplicemente chimico e scrittore), nei suoi racconti tratta spesso di vicende legate al mondo del lavoro (pensiamo tra gli altri alla raccolta dal titolo Il sistema periodico). Fu un grande lettore di Lucrezio, Rabelais, Darwin.

Vediamo da vicino il racconto Mnemagoghi, nell’edizione Einaudi.

Il dottor Morandi raggiunge il paese di cui è diventato medico condotto. Deve innanzitutto passare dall’anziano Ignazio Montesanto dal quale rileverà la condotta. Sente un lieve disagio; la gente del posto mostra di sapere già chi è lui. Gli si legge in faccia che è un dottore. Un’identità che sembra avere uno spiacevole aspetto totalizzante.

Levi mostra subito belle qualità narrative; “un silenzioso e rapido guizzare di lucertole” accoglie il nuovo arrivato quando raggiunge l’abitazione dell’ormai ex-collega. Viene abilmente costruito il personaggio stravagante del vecchio medico che “si muoveva con la sicurezza silenziosa e massiccia degli orsi” e indossava una “camicia sgualcita e di dubbia pulizia”. La casa di Montesanto è palesemente trascurata e l’uomo non sembra voler parlare di temi concreti. Inizia quello che diventa presto un soliloquio sulla sua vita personale e professionale, mentre il giovane nota varie cose: in particolare, “un lungo filo di ragno pendeva dal soffitto, reso visibile dalla polvere che vi aderiva”. Inoltre, in un armadio c’erano “poche boccette in cui i liquidi avevano corroso il vetro segnando il livello”.

Il padrone di casa denota un palese disinteresse verso l’attualità; racconta i suoi inizi nelle trincee durante la guerra e poi parla del rapido sopravvenire di una certa apatia che lo ha portato al volontario esilio nella condotta sperduta del paese. Morandi non riesce a farlo parlare di questioni pratiche, come il suo alloggio o la situazione dei pazienti dei quali come nuovo dottore doveva farsi carico. Ci ricorda certi personaggi kafkiani, nascosti nell’ombra, evasivi, quasi diafani, eppure in qualche modo necessari perché depositari di qualcosa di importante. A un certo punto il vecchio sembra assopirsi, ma non è del tutto silenzioso; il soliloquio probabilmente continuava nel suo interno, immagina il suo ospite.

Alla fine emerge la specializzazione dell’anziano medico: i ricordi. Qui si coniugano Proust e la chimica. Montesanto parla con passione di “adrenalinici assorbiti per via nasale”. E’ riuscito, con le sue conoscenze, a ricostruire in forma conservabile un certo numero di sensazioni. Ha racchiuso degli odori in boccette numerate e ciascuno di essi lo riporta a un momento del passato; l’odore della scuola e della sua aula, quello indefinito della pace provata dopo aver raggiunto una meta in montagna, quello di una persona conosciuta e forse amata. Si chiamano “mnemagoghi”, ossia suscitatori di ricordi. Mostra i suoi segreti al suo successore che all’inizio sembra incuriosito.

Levi mette insieme amore per la vita e scienza, proponendo in questo ritratto pittoresco e un po’ inquietante, un culto del ricordo mantenuto razionalmente, accuratamente classificato in specifici recipienti, dal contenuto molto personale. Quelle boccette sono la mia persona, dice infatti Montesanto. Il giovane medico a un certo punto avverte il bisogno incontenibile di andare via e abbandonare quella casa. Ha letteralmente bisogno di respirare odori diversi. Parte bruscamente. La sua è quasi una fuga e quindi un rifiuto per il rigido razionalismo del collega.

Forse solo la memoria involontaria proustiana può, con la sua naturalezza, riportare in modo piacevole il ricordo. Sta al caso, ossia alla vita farci riassaporare ciò che è stato; la madeleine di Proust allaccia presente e passato e permette un dialogo tra ieri e oggi, a differenza dell’impostazione “passatista” del vecchio. La scienza di Montesanto è artificio; sacrifica troppo il presente sull’altare del passato in funzione del quale non si può vivere se non rinunciando all’oggi. Il ricordo nato da una circostanza accidentale, invece, costituisce una piccola vittoria sul tempo e sulla morte. Si tratta di un ricordare fecondo perché crea o meglio ricrea un momento del passato, attraverso, ad esempio, il casuale assaggio di un dolce (come capita nella Recherche), senza boccette numerate o “adrenalinici assorbiti per via nasale”.

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Dolce come il miele

7 Gennaio 2014 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #racconto

Il Brigadiere stava parcheggiando la sua vecchia auto davanti alla caserma dei Carabinieri. Aveva affrontato il lungo viaggio da Casoria a Castel San Pietro Terme, paese di nuova assegnazione dopo l’avanzamento di grado in carriera, in cinque ore senza sosta. Sceso dall’auto si fermò a massaggiarsi le reni cercando di sciogliere il dolore sottile e persistente che lo colpiva al nervo sciatico quando restava seduto per lungo tempo. Contorcendosi e stirandosi non si era accorto che il maresciallo comandante della caserma si era affacciato al portone e lo stava guardando incuriosito:

“Mi scusi, lo sa che è proibito fermarsi qui davanti?”

Preso alla sprovvista il brigadiere ebbe un sussulto, automaticamente scattò sull’attenti, portò la mano tesa alla fronte per salutare militarmente e battendo i tacchi, rispose pronto:

“Brigadiere Raffaele Di Martino a rapporto. Comandi maresciallo!”

“Ma quale comandi, Di Martino ti stavo aspettando vieni dentro.”

Il maresciallo, dopo avergli mostrato gli alloggi e presentato alcuni colleghi, lo invitò a sedersi nel suo ufficio per le prime disposizioni:

“Allora sentimi bene Di Martino, questo è un paese tranquillo, non agitarti e non andare in giro a fare lo sceriffo come siete abituati giù a Napoli”

“Casoria marescià…!”

“Che c’entra Casoria?”

“No. Io stavo a Casoria per la precisione.”

“E va bene Casoria, Napoli sempre lo stesso è! Attieniti al tuo ordine di servizio e non sgarrare se vuoi andare d’accordo con me, chiaro? Da domani andrai di pattuglia e per oggi sei in libertà”

Si avviò a piedi verso il centro del paese per sgranchirsi un po’ le gambe e per cominciare a conoscere i luoghi dove avrebbe dovuto operare. Le strade si presentavano diritte, larghe, alberate e soprattutto pulite. Non si trovava a terra una cartaccia nemmeno a pagarla e via via che camminava il brigadiere sempre più stupito guardava in basso, ispezionando il territorio incredulo e dando l’impressione, a chi lo incontrava, di essere all’affannosa ricerca di qualcosa smarrito in precedenza. Arrivò così lungo il viale che portava allo stabilimento termale e rimase colpito dall’abbondanza di prati verdi, di aiuole fragranti e fiorite che costeggiavano la strada. Sul lato sinistro di fronte a una fontana, Fegatella, questo nome compariva sulle colonne di marmo della sorgente, si estendeva un enorme parco fluviale con alberi, ponti e giochi per bambini. Si inoltrò respirando l’aria profumata di erba fresca e cominciò a sentirsi rilassato. Gli piaceva questo paese ed era certo che si sarebbe trovato bene. Era ormai l’imbrunire, le ombre si allungavano e i colori dei prati si tingevano di verde più scuro.

Il brigadiere stava per riprendere la strada del ritorno quando fu colpito da una macchia di colore rosso in una grande aiuola sull’argine del fiume che attraversava il parco. La sua indole curiosa gli impedì di andarsene, si avvicinò e rimase senza parole scoprendo, seminascosto da un cespuglio di lavanda, il corpo di una donna. Era riversa nel folto dei fiori e si scorgeva soltanto, da lontano, un lembo del suo gabardine color rosso fuoco. Il brigadiere impietrito, per un attimo, si limitò a osservare attentamente la scena, memorizzando tutti i particolari, senza toccare nulla come aveva appreso alla scuola per allievi sottufficiali, poi telefonò in caserma e dette l’allarme.

“Si può sapere che ci facevi qui Di Martino? Ti avevo detto di stare lontano dai guai, mi pare” il maresciallo era giunto sul posto e non sembrava contento del ritrovamento.

Il gruppo dei carabinieri mandati dalla compagnia di Bologna fece tutti i rilievi necessari e, giunto il magistrato, dispose la rimozione del corpo e l’autopsia per l’indomani stesso.

“Potrei presenziare?” chiese il brigadiere spinto dalla sua invincibile curiosità

“Di Martino, tu domani sei di pattuglia 7-13….” Il tono del Maresciallo non ammetteva repliche e il brigadiere si allontanò.

Nei giorni successivi, tramite i giornali, sbirciando di nascosto tra i verbali raccolti in caserma, Di Martino venne a sapere che la donna si chiamava Melania Varani, trentacinque anni, separata dal marito, era una biologa e lavorava presso il laboratorio di analisi del dottor Condello Alfredo. L’autopsia non lasciava adito a dubbi: colpita da malore, probabilmente mentre faceva footing, era caduta nel cespuglio ed era morta all’istante per arresto cardiocircolatorio.

Il brigadiere, tra un 7-13 e un 13-19 di pattuglia, continuava ad interrogarsi su quella morte, che per lui non era così chiara e senza misteri come lasciavano intendere i colleghi.

Ricordava benissimo quel corpo con gli occhi ancora stupiti, spalancati verso il cielo, e ne era rimasto impressionato, come se in essi avesse raccolto una muta richiesta di aiuto e dal resoconto freddo e sintetico dell’autopsia qualcosa gli stonava con ciò che ricordava.

Una donna che sta facendo footing non va con un bell’impermeabile rosso firmato Versace a correre sul fiume e non porta un paio di decolté dello stesso colore. Pensò fra sé. Poi ricordava benissimo quel viso piacente, leggermente truccato, pieno di punture di api. Questo sì, era compatibile con la caduta nel cespuglio, che brulicava di insetti. Aveva ancora in mente, infatti, il ronzio insistente che aveva sentito quella sera quando si era avvicinato.

Le api sono ghiotte del nettare dei fiori di lavanda, ma qualcosa non mi convince.

Continuava a interrogarsi e a elaborare le sue teorie su cosa invece fosse successo. Così, di turno in turno, essendo capo pattuglia, faceva passare il collega davanti al laboratorio dove aveva lavorato la vittima, si fermava al bar vicino a fare quattro chiacchiere con i pensionati e raccoglieva quante più informazioni gli fosse possibile.

Si vociferava in paese che la donna fosse di piuttosto facili costumi e che avesse lasciato il marito, un serio apicoltore della zona, per diventare l’amante del suo titolare, sposato a sua volta con un’altra imprenditrice del settore. Un giorno, mentre apparentemente distratto sorseggiava un caffè, carpì frammenti di una conversazione di due ragazze inerente la morta e la sua attività su Facebook.

Così nel pomeriggio stesso, finito il turno, aprì un profilo sotto mentite spoglie: Giovanna Liguori, anni 30, castellana. Su Facebook, si sa, l’amicizia non si nega a nessuno e nel giro di pochi giorni era già una delle tante ragazze facenti parte del gruppo di amiche a cui era appartenuta la morta.

Non gli era mai piaciuto quello strano modo di comunicare e di fare conoscenza, lo aveva snobbato, quando qualcuno gli aveva proposto di iscriversi, ma dovette ammettere con se stesso che era molto efficace e molto più “vero” di quanto non avesse immaginato. Le persone si parlavano, si confrontavano e si confortavano a vicenda. C’era, insomma, da fare amicizia sul serio, fermo restando prendere con le pinze ogni cosa detta e ogni persona contattata. Infatti lui era un impostore.

Questo gli consentiva, fingendo di sapere molto dicendo poco, di chiedere alle amiche qualcosa sulla povera Melania. E, di confidenza in confidenza, scoprì, ad esempio, che la donna aveva pubblicato, sul suo profilo, nei giorni precedenti il decesso, una lettera d’amore del suo titolare, nonché amante Alfredo Condello. Scoprì inoltre, grazie ai racconti delle nuove amicizie, che la relazione tra i due non era più tanto segreta. Da quando lei lo aveva lasciato, lui, incapace di accettarlo, aveva cominciato a minacciarla di licenziamento e la tormentava giorno e notte con telefonate e messaggi. Le amiche ravvisando un vero e proprio caso di stalking, l’avevano incoraggiata a denunciarlo, ma lei aveva preferito vedersela da sola e aveva reso pubblica la lettera in cui l’implorava di non abbandonarlo, accompagnata dalla descrizione “SE NON LA PIANTI, LA MANDO A TUA MOGLIE”

La moglie del dottore infatti non era su Facebook e da pochi giorni anche Condello stesso aveva prontamente tolto il suo profilo.

Essere su facebook sotto mentite spoglie, farsi scambiare per una donna addirittura, il brigadiere pensava cosa sarebbe successo se il maresciallo lo fosse venuto a sapere. C’era però qualcosa che lo tratteneva, che lo spingeva a continuare, quel mezzo di comunicazione a lui inviso e sconosciuto fino a poco tempo prima, gli procurava una sorta di richiamo, come per Ulisse il canto delle sirene e la sera, la notte, in qualunque ora del giorno, non appena aveva un momento libero, correva ad accendere il computer. C’era fra le sue amiche una certa Anna Benfanti che risultava essere la più ciarliera, la più disponibile verso il tipo di chiacchiera che a lui interessava e sembrava anche molto informata sulla vita del dottor Condello. Insospettitosi, il brigadiere decise di chiedere un favore personalissimo a un fidato amico, carabiniere come lui, ex compagno di corso. Un esperto informatico, abilissimo con i computer e, sapendo che per lui la rete non aveva segreti, gli domandò di svolgere un’indagine su quella donna che a lui sembrava sapere più cose di quante dicesse in realtà.

“Ma tu si’ pazzo? Io non posso farlo. Se lo viene a scoprire il colonnello son guai e poi serve il mandato del magistrato per un’indagine del genere!”

Il brigadiere, conoscendolo, sapeva però di aver già stuzzicato la sua anima di “hacker” e gli ci volle poco a convincerlo, così che, trascorsi appena due giorni, era stato l’amico stesso a richiamarlo:

“Rafe’, ho i risultati ma non ti dico nulla per telefono, incontriamoci per un caffè”

La sorpresa più grande fu che aveva scoperto che dietro Anna Benfanti altri non vi era che Luisa Forti in Condello, moglie del dottore titolare del laboratorio ove aveva lavorato la povera Melania e la soddisfazione per il brigadiere fu doppia perché in tal modo capì anche che il suo fiuto non si era sbagliato.

C’era qualcosa di strano dietro la morte, apparentemente naturale, della Varani, ne era sempre più certo. Ragionando provò a tirare le somme di quanto aveva fino ad allora scoperto: Il dottore, dopo essere stato lasciato, aveva molestato la ragazza, lei lo aveva minacciato di informare la moglie sulla loro relazione e lui avrebbe potuto desiderare di ucciderla. In più, ora, si era aggiunta alla lista dei suoi sospetti anche la moglie del dottore che, contrariamente a quanto gli altri credevano, era informata di tutto e spiava su Facebook marito e amante.

C’è puzza di bruciato lontano un miglio rimuginava il brigadiere i colpevoli ci sono a bizzeffe, i moventi pure… l’unica cosa che manca è l’omicidio!

Fino a prova contraria infatti da tutti i referti non si era potuti risalire che a una morte naturale, improvvisa. Ciononostante il brigadiere pensò di andare a far visita alla signora Forti presso la sede della sua azienda di apicoltrice.

Luisa Forti era una donnina gracile dal sorriso dolce, sempre indaffarata a correre tra un’arnia e l’altra, gli occhi azzurri e lo sguardo sereno. Il brigadiere si era presentato con la sua qualifica e aveva spiegato di essere arrivato da poco in paese, di aver saputo che lei produceva un ottimo miele e di volerne acquistare un po’. Mentre gli faceva visitare la sua azienda e gli spiegava come avveniva la produzione, procedimenti ai quali lui si mostrava molto interessato, la donna gli raccontò della sua vita spesa dietro le api e a ogni piè sospinto nominava il marito, ottimo dottore, grande amante della natura, che conosceva le api come e meglio di lei, mostrandogli tutto il suo amore senza vergogna verso il coniuge e soprattutto di esserne totalmente succube.

L’impressione che aveva avuto il brigadiere, andandosene col suo barattolino di miele di acacia in mano, era che la donna fosse incapace di nuocere a chiunque. Secondo lui era il classico tipo che seguiva di nascosto il marito, magari lo vedeva con l’amante e la sera a casa faceva finta di niente per paura di perderlo definitivamente. Spiarlo su Facebook le era servito solo a soffrire di più. Aveva scoperto anche, fra una chiacchiera e l’altra, che il mestiere di apicoltore non era sempre rose e fiori. La signora per esempio soffriva di allergia al veleno delle api. Allergia che si era acuita praticando quel mestiere e che, ogni volta uno dei suoi amati insetti la pungeva, lei si gonfiava come un mostro e il marito la curava con unguenti e pomate varie, da lui stesso preparate nel suo laboratorio.

Tutto questo però non gli era di nessun aiuto per la sua testarda indagine, qualora anche la Varani avesse sofferto di un’allergia al veleno delle api e fosse stata proprio una puntura a causarne la morte, un eventuale shock anafilattico sarebbe stato facilmente evinto in sede di autopsia. Cominciò a pensare che il maresciallo avesse ragione, che non c’era nulla da scoprire e che tutto si era svolto esattamente come gli investigatori avevano ricostruito.

Non andare in giro a fare lo sceriffo ricordava bene le parole con cui era stato redarguito il primo giorno, dunque pensò di arrendersi e che già a partire da quello stesso pomeriggio, fattosi un bel thé, avrebbe spalmato quella delizia di miele fresco su una fetta biscottata e si sarebbe messo davanti al computer, cancellando il suo falso profilo. Voleva iscriversi con il suo vero nome, “postando” anche una fotografia che aveva scattato l’estate prima al mare e lo ritraeva bello, abbronzato e con la camicia bianca aperta sul petto.

Hai visto mai che faccio qualche conoscenza per trovare un po’ di compagnia! Pensò fra sé sorridendo.

Invece quella sera stessa, come sempre, non seppe tenere a freno la sua curiosità e si mise a navigare su Internet e a cercare di capire se il veleno delle api si poteva usare in altro modo e di veleno naturale in veleno naturale, si trovò di fronte a una notizia che lo lasciò perplesso:

Nel 1984 un giovane scienziato di nome Wade Davis riuscì a procurarsi con poche difficoltà ad Haiti la misteriosa polverina usata dagli stregoni…. Facendola analizzare scoprì che conteneva tetradotossina, estratto di pesce palla, un veleno potentissimo che uccide un uomo per arresto cardiocircolatorio con soli 1-2 mg.…” seguiva una pagina di informazioni su come riuscire ad acquistarlo.

Dunque si poteva comprare attraverso Internet un veleno sconosciuto ai più, che uccideva senza lasciare traccia! Nulla poté distoglierlo dall’idea di approfondire anche quella ulteriore ricerca. E chi meglio del suo amico informatico avrebbe potuto aiutarlo di nuovo a cercare di far luce nella sua testarda idea che si trattasse per forza di un omicidio?

“No, Raffaele. Assolutamente non è possibile questa volta.”

Il brigadiere sapeva che se l’amico lo chiamava col suo nome per intero erano guai, sarebbe stato difficile smuoverlo dal suo diniego, ma dopo un tira e molla durato qualche giorno riuscì a farlo crollare:

“Va buo’ Rafe’ , facimm’ come vuo’ tu!”

“Cerca se un tale Condello Alfredo di Castel San Pietro ha acquistato veleni via Internet, anche per uso medicinale, sai lui è medico, titolare di un laboratorio e… po’ te prumett’ ca nun me sient’ chiù!”

Il brigadiere nel dargli le ultime direttive gli assicurò che non lo avrebbe mai più messo così in difficoltà. Cominciava a far fresco la sera, la fine dell’estate era alle porte e i viali si coprivano di foglie gialle e rosse che svolazzando piano piano cadevano a terra. Lui si intristiva sempre all’arrivo dell’autunno, fra poco sarebbe arrivato un altro compleanno, l’ennesimo, senza che avesse incontrato l’amore. In più in questo periodo aveva anche l’assillo di quel caso irrisolto. O meglio che lui si era convinto fosse irrisolto, ormai da giorni nemmeno più il suo amico lo chiamava per dargli notizie fresche. Decise così di andare a trovarlo:

“Rafe’, meno male che sei qui , ti avrei cercato. E’ stato lungo e difficile, ma ci sono riuscito. Eccoti i risultati dell’ultima ricerca che ho fatto per te” e calcò sulla parola ultima a ricordargli la sua promessa, poi continuò “Come puoi vedere nessun Condello ha ordinato veleni in nessuna parte del mondo via Internet.”

Gli passò i fogli con i risultati dell’ indagine condotta e aggiunse “A Castel San Pietro, nell’ultimo anno solo un ordine è andato a buon fine” continuava a sfogliare, a cercare “aspetta, l’ho messo qua, mo’ non lo trovo più, comunque si tratta di un’azienda che fa uso di veleni per l’apicoltura”

“Apicoltura? Chi è il titolare? Una donna?”

“No. Perché me lo chiedi? Ah ecco qua l’ho trovato è un certo Mariano Silenzi. Lo conosci?”

“No. Cioè so chi è ma non l’ho mai visto e che veleno ha ordinato? “

“Tetadrotossina”

Aveva lasciato tutto sul tavolo e si era precipitato via di corsa senza nemmeno salutare e ringraziare l’amico. Doveva correre dal maresciallo, questa volta avrebbe dovuto ascoltarlo, troppe erano le coincidenze per non coinvolgerlo direttamente nella sua indagine. Appena giunto nell’ufficio del suo superiore però fu preceduto dallo stesso:

“Di Martino, proprio te cercavo, mi devi accompagnare a fare un colloquio con l’ex marito della donna che hai trovato morta, hai la macchina pronta?”

“Qui fuori signor maresciallo, ma perché andiamo da lui? “

“Un ultimo, superfluo controllo. Dai tabulati telefonici risulta che il giorno del rinvenimento avevano parlato per qualche minuto la mattina.”

Il brigadiere tacque, essere presente all’interrogatorio di Mariano Silenzi, nonché ex marito della vittima, era più di quanto si sarebbe aspettato in quel momento e non voleva rinunciarvi per nessuna ragione.

“Lei ha telefonato a sua moglie la mattina del giorno in cui poi è stata trovata morta?” il maresciallo aveva cominciato il colloquio e il brigadiere fingendosi distratto, scrutava l’ufficio in cui erano stati ricevuti, cercando di trovare qualcosa che potesse colpire la sua curiosità.

“Sì “

“E come mai?”

“Siamo, eravamo anzi, separati ma ci sentivamo spesso.”

“Come stava sua moglie quel giorno?”

“Bene che io sappia”

“Non glielo chiese? Siete stati al telefono per più di qualche minuto, cosa vi siete detti?”

“Veramente “ l’uomo sudava visibilmente senza motivo dato che non faceva assolutamente caldo ”io l’ho invitata ad assaggiare l’ultimo miele che avevo preparato. Lo facevo sempre ogni volta che riuscivo a produrne un nuovo tipo. Lei era un’ottima assaggiatrice”

“E la signora venne poi da lei?”

“Sì certo”

“A che ora?” intervenne il brigadiere

“Poco dopo aver terminato la telefonata, diciamo verso le undici ”

Il brigadiere si era informato bene. La tetadrotossina, una volta ingerita nel giro di qualche ora comincia a dare i primi sintomi: intorpidimento della lingua e delle labbra per arrivare a una paralisi progressiva che porta la vittima ancora cosciente a non potersi muovere fino al completo arresto cardiocircolatorio.

“E cosa le ha fatto assaggiare? Questo? ” chiese. E gli sbatté sul tavolo il piccolissimo barattolo di miele che aveva notato poco prima poggiato su una mensola seminascosto da una pila di libri.

L’uomo visibilmente nervoso e agitato si era alzato di scatto e gli aveva tolto di mano il barattolino

“No, no, questo no!”

“Le spiace assaggiarne un po’?”

Il maresciallo non sapeva dove volesse arrivare il suo collaboratore, ma capiva bene quando un colpevole mentiva o era in difficoltà e continuò sulla stessa strada, senza battere ciglio:

“Allora ha sentito cosa le ha chiesto il brigadiere? Perché non vuole assaggiarlo?”

“Non posso farlo” si metteva le mani davanti la faccia, si massaggiava i capelli e si fermava stringendo i pugni quasi se li volesse strappare. Iniziò a piangere e crollò:

“Mi aveva tradito, umiliato, deriso. E io niente, sono stato sempre comprensivo, ho cercato di esserle amico, sperando che un giorno sarebbe tornata da me, ma il tempo passava, lei non mi voleva più. In me cresceva la rabbia, la voglia di vendicarmi e di fargliela pagare una volta per tutte. Così ho ordinato del veleno via Internet, l’ho chiamata con una scusa e le ho fatto assaggiare il miele in cui avevo sciolto la polverina. L’ho seguita da lontano, volevo godermi lo spettacolo e quando ha iniziato a sentirsi poco bene deve aver pensato che le serviva un po’ d’aria, perché si è incamminata lungo il fiume. Erano le dodici e mezza, non c’era nessuno, ha cominciato a muoversi a fatica poi è caduta nel cespuglio e da lontano si scorgeva solo il suo gabardine rosso. Mi sono avvicinato e l’ho vista cosciente, incapace di reagire, che implorava aiuto con gli occhi, mentre alcune api le pungevano il viso, per aver invaso il loro territorio. In quel momento ho avuto la mia rivincita, finalmente era lei che soffriva…….”

Il caso era stato risolto, l’omicida portato dal giudice e poi in carcere. Il brigadiere Di Martino pensò a quanto male può fare l’amore. Gli mancava il dolce e amaro sapore di una relazione importante. Sapeva che forse non sarebbe mai riuscito ad averne una, la cercava e la sfuggiva al tempo stesso da sempre, e amaramente concluse:

la mia donna sarà bella, sarà in gamba, sarà dolce….sì dolce come il miele.

(f.p.)

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Uno sporco lavoro

3 Gennaio 2014 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #racconto, #poli patrizia, #ida verrei, #Laboratorio di Narrativa

La protagonista di “Uno sporco lavoro” di Franca Poli è una poliziotta come se ne vedono tante nei telefilm americani: è tosta, è scabra, è maschia nei modi di fare. Però è italiana e si ritrova alle prese con la triste, purtroppo ben nota, realtà degli sbarchi clandestini a Lampedusa. Si chiama Rachele e questo la dice lunga sull’ambiente in cui, probabilmente, è cresciuta, sulla sua ideologia di fondo. Compie il proprio dovere considerandolo dall’ottica del pre-giudizio, inteso come giudizio antecedente, a priori. Il lavoro che è costretta a fare non le va, subisce l’immigrazione, vive a disagio il contatto con il diverso, con l’altro da sé, sente insofferenza per la divisa che la infagotta, non sopporta i continui e improvvisi cambiamenti di programma, i colleghi maschi che ironizzano sulla parità pretesa dalle donne. E sfoga il proprio malumore con un “linguaggio da caserma”: “È un lavoro del cazzo…”, quasi si rammarica di aver vinto il concorso.La spediscono a Lampedusa, ad accogliere la massa di disperati che lei non accetta. È imbevuta di pregiudizi, Rachele, di rabbia e intolleranza verso i “diversi” che arrivano a gonfiare le fila della malavita organizzata e che considera dei “rompicoglioni”. Ma quando si trova a dover soccorrere un gruppo di clandestini, “stremati, le guance incavate, gli occhi fuori dalle orbite, per la prima volta non brontola nel fare il proprio lavoro, e quando, poi, il caso la conduce ad affrontare l’emergenza di assistere una partoriente di colore, Rachele sente vacillare le proprie certezze, sente crollare difese e pregiudizi, e riscopre, attraverso le lacrime, la propria umanità negata. Sarà proprio a causa della prossimità con ciò che non conosce e non le piace, che capirà quanto il fenomeno immigrazione sia impossibile da contenere in un solo sguardo e in un solo parere. Il mondo con cui viene a contatto forzato è fatto, sì, di uomini dalla mentalità maschilista, arretrata - non molto diversa, tuttavia, da quella dei suoi stessi colleghi - ma comprende anche donne dall’aspetto elegante, dagli occhi tristi, dal coraggio animalesco, istintivo.La donna nera partorisce una creatura indifesa, piccola, che ci sfida con l’audace caparbietà del suo stesso venire al mondo in mezzo a chi la rifiuta, addirittura dalle mani di chi la rifiuta. La mamma le imporrà il nome Rachele, legandola a chi l’hai aiutata a nascere, compiendo a ritroso un percorso inconsapevole che lega la nuova bimba a vecchi echi, fatti di guerre d’Africa, di regine nere, di veneri abissine. La madre stessa, da oggetto di derisione, assurgerà al ruolo di prima Madre, di Madonna col Bambino. È un racconto ben strutturato e dal contenuto attuale che rende perfettamente le diffuse resistenze all’accettazione di realtà che ancora provocano rifiuto e diffidenza. Ci sono la rabbia, l’ansia, la paura, il sospetto che spesso dilagano di fronte al “diverso” sconosciuto, ma c’è anche la pietas, l’insopprimibile impulso al “dono di sé”, che va oltre il pregiudizio, oltre ogni irrazionale chiusura di mente e cuore. La storia è compiuta nel suo insieme, procede da un punto all’altro, da un inizio a una conclusione, lasciando intendere che esiste un prima e ci sarà un dopo, uno sviluppo, una trasformazione. Lo stile è funzionale alla narrazione, con qualche immagine forte che colpisce, come la vagina che sembra “inghiottire il bambino” invece di espellerlo.

Patrizia Poli e Ida Verrei

Uno sporco lavoro

“È uno sporco lavoro. Porcaccia Eva io non ci vado laggiù. Senza nemmeno interpellarmi poi… Non ci vado. No!”Rachele si stava annodando la cravatta, era la cosa che più odiava della sua divisa. Si era già infilata i pantaloni e, come sempre, li aveva trovati larghi, deformi. La camicia era un po’stropicciata e con la giacca addosso, poi, si sentiva un sacco di patate.“È un lavoro del cazzo!” imprecava mentre stava uscendo dallo spogliatoio femminile del reparto di Polizia dove era stata distaccata. Da quando si era arruolata, aveva acquisito anche il comportamento e il linguaggio tipico “da caserma”, glielo rimproverava sempre sua madre.In mattinata aveva ricevuto l’ordine e sarebbe partita per Lampedusa. Sbarchi continui di immigrati imponevano rinforzi e, a turno, tutti i colleghi erano andati in missione per una quindicina di giorni. Ora toccava a lei.Renato, il suo compagno di pattuglia, la vide uscire come una furia e subito capì quanto fosse arrabbiata: “Avete voluto la parità? Eccovi accontentate!” Rachele non rispose, alzò semplicemente il dito medio e lo sentì allontanarsi mentre nel corridoio risuonava la sua risatina ironica.“Stronzo! È colpa di quelli come te se ogni giorno di più mi pento di aver vinto il concorso” pensò. Lei non si sentiva adatta a quell’incarico. Amava le indagini, era arguta e attenta a ogni particolare quando seguiva un caso, ma andare al centro di accoglienza per occuparsi di quelli che considerava dei “rompicoglioni” che dovevano restarsene a casa loro, lo riteneva insopportabile. Arrivata suo malgrado a destinazione l’umore non migliorò. Al contrario vedersi attorniata da nordafricani che le lanciavano occhiate lascive, la infastidiva. La mandavano in bestia i sorrisini e le battute in arabo a cui non poteva replicare. “State qui a gozzovigliare alle nostre spalle, col cellulare satellitare in mano, tute nuove, scarpe da tennis, magliette, cibo in abbondanza: ovviamente dieta rigorosamente musulmana, e pure la diaria giornaliera!” mentre si incaricava della distribuzione rimuginava e si rendeva conto senza vergognarsene che non era affatto umanitaria nello svolgimento del suo compito e non voleva assolutamente esserlo. Era sempre stata piuttosto convinta che non si potesse accogliere chiunque. La delinquenza in Italia era aumentata. I clandestini non erano prigionieri al centro, spesso alcuni se ne andavano e molti di loro finivano a rafforzare le fila della malavita organizzata. E, se era vero che non tutti i mussulmani erano terroristi, era pur vero che tutti i terroristi erano musulmani!“È un cazzo di sporco lavoro! Ma datemene l’occasione e vi faccio pentire di essere venuti fin qua.” Pensava mentre uno di loro le faceva l’occhiolino.Durante la notte segnalarono la presenza di un barcone in difficoltà al largo delle acque territoriali italiane e si doveva intervenire a portare soccorso. “Perché, dico io? Lasciateli affogare o che rientrino in Africa a nuoto…” Arrabbiata più che mai a causa di questa emergenza durante il suo turno di lavoro, salì sulla nave per obbedire agli ordini e, quando fu il momento, instancabile come sempre, aiutò chi ne aveva bisogno. Avevano soccorso un barcone con 80 clandestini per lo più somali fra cui anche alcune donne. Li avevano aiutati a salire a bordo, passavano loro coperte e acqua. Alcuni erano stremati, le guance incavate, avevano gli occhi fuori dalle orbite e, per la prima volta, Rachele non brontolò nel fare il proprio lavoro.Fu chiamata con urgenza dal medico di bordo. Una donna incinta stava partorendo e gli serviva l’aiuto di una donna.“Lo sapevo io… Solo questa ci mancava. Proprio ora hai deciso di mollare il tuo bastardo?” E imprecò, come sempre, contro i superiori e contro la scarsa volontà politica di risolvere questo annoso problema.Quando si trovò di fronte la donna con le doglie vide che era piuttosto bella. Alta, nera, ma con i lineamenti fini e delicati. Occhi grandi e scuri come la notte, sgranati per la paura e per il dolore , la fronte imperlata di sudore. Aveva gambe d’alabastro, lunghe e sinuose che si intravedevano da un caffetano di colore azzurro sgargiante aperto sul davanti, soffriva molto.Il medico si doveva occupare di alcuni feriti e le chiese di stare vicino alla donna, di controllare la distanza fra una doglia e l’altra e di chiamarlo se l’avesse vista spingere. “Calma Naomi!” le disse Rachele prendendola in giro per la sua leggera somiglianza con la bella indossatrice, “Non ti mettere a spingere proprio ora, capito?” le inumidiva le labbra con una pezzuola bagnata e quando la donna in preda a una doglia forte e persistente le strinse la mano, lei provò quasi un senso di ripulsa e voleva divincolarsi, ma la stretta era forte e allora strinse anche lei, mentre la donna emetteva un rantolo roco e continuo.A un certo punto la partoriente inarcò la schiena e cominciò a spingere. Era quasi seduta con le gambe allargate e si teneva alle sue spalle con tutta la forza.“Aiuto dottoreee! Presto venga, questa non aspetta più!!” chiamò Rachele cercando di attirare l’attenzione del medico.La donna urlava e spingeva e Rachele, guardando fra le cosce allargate, vide spuntare la testa del bambino. Compariva e scompariva a ogni respiro. Un ciuffetto di capelli neri, che spingeva e allargava quel sesso deforme, arrossato, quasi a sembrare una bocca affamata che lo stava ingoiando e non espellendo.“Dottore!! Presto...” la voce le morì in gola. Non c’era più tempo. Il bambino stava uscendo e allora Rachele prese la testina fra le mani e provò a tirare piano piano per agevolare lo sforzo della donna. Niente da fare, urlava la poveretta e parlava nella sua lingua chiedendo aiuto o chissà cosa altro. Allora si fece coraggio, infilò una mano dentro la donna, afferrò il bambino per le spalle e tirò con forza. Fu un attimo e tutto il corpo del piccolo, rosso e viscido di sangue scivolò fuori e la donna, stremata, si lasciò cadere all’indietro con un ultimo profondo sospiro. Rachele si ritrovò con quell’esserino fra le mani e lo guardò: era una bambina. Nera come la pece e con gli occhi sgranati e grandi come quelli della madre. La prese e gliela poggiò delicatamente sul petto.“Dottore!! Cazzo quando si decide a venire qua?” aveva ritrovato la voce e urlò con tutta la forza.Il medico arrivò, si occupò della madre e della figlia, mentre Rachele, rapita, continuava a fissare gli occhi di quelle due creature. Così grandi e vuoti, così imploranti e tristi. Per la prima volta non era arrabbiata con loro, con i diversi, era solidale. Una donna come loro sola e arrabbiata e si sentì percorrere da un brivido di tenerezza e commozione.“È un maledetto sporco lavoro” disse questa volta senza convinzione.Stavano caricando la donna su una barella, erano al porto e un’ambulanza col lampeggiante la stava aspettando per condurla all’ospedale. Rachele si sentì prendere per una mano. Era la giovane mamma che la guardava e le faceva cenno, indicandola con l’indice puntato e con una muta domanda negli occhi.“Non capisco… Cosa vuoi ancora?” le chiese infastidita e poi d’improvviso, un lampo d’intesa fra loro e capì. “Rachele… Mi chiamo Rachele “ rispose.Allora la donna che, fino ad allora, aveva solo urlato e pianto, sorrise illuminando la notte con i suoi denti bianchissimi. Sollevò la sua piccola bambina, puntandola verso di lei e stentando ripeté: “Rachele.”Fu allora che le lacrime sgorgarono finalmente anche sul suo viso, Rachele piangeva a dirotto e cercando invano di asciugarsi il viso bofonchiò:“È un cazzo di sporco lavoro.”

Franca Poli

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Il sorriso di Claudia

2 Gennaio 2014 , Scritto da Franca Poli Con tag #franca poli, #racconto

Ecco la povera Claudia, dondolante, seduta a terra sulle ginocchia piegate, col sorriso spento e un rivolo di bava che le scende a lato della bocca. Lì, ferma, come ogni mattina a mettere in mostra i suoi disegni. E’ il suo ultimo contatto con la realtà. Ridipinge gli stessi cerchi concentrici di vari colori. Ne ha uno per ogni giorno della settimana. Oggi è giovedì? E’ rosso infatti, domani sarà verde e sabato azzurro. Un vortice che l’ha assorbita in cui lei gira e rigira e che non la lascia uscire.

La dottoressa Michela Alibrandi, psichiatra, aveva da poco superato la cinquantina, ma era di aspetto ancora giovanile e bella presenza. Alta, bruna, i capelli raccolti in un perfetto chignon, portava sempre al collo un foulard di seta abbinato al vestito. Non si era mai sposata e aveva dedicato l’intera vita ai suoi malati. Quella mattina stava entrando nella clinica dove lavorava e rifletteva sull’incontro con Claudia. Una paziente che cercava di curare con la solita passione, ma con la quale aveva ottenuto ben pochi risultati. Nell’androne le venne incontro Paola, la sua preziosa assistente ricordandole gli impegni della mattinata.

“Buongiorno dottoressa. Oggi alle dieci ha la riunione del corpo medico col Direttore Sanitario. Poi alle dodici, l’aggiornamento professionale dei dipendenti…….”

La dottoressa commentò con un sospiro il lungo elenco di appuntamenti e poi aggiunse:

”Dato che oggi mi fermo per il pranzo, ordinami un sandwich e, nel pomeriggio, fai accompagnare Claudia in giardino.”

Paola si era irrigidita, o forse le era solo sembrato. Se non fosse stata certa della professionalità della sua assistente avrebbe detto che era gelosa di quella povera mentecatta. Ogni volta che la nominava, una nube oscurava il suo bel viso. Paola bionda, alta, intelligente era fidanzata con Sergio, l’infermiere più bello della clinica. Cosa mai avrebbe potuto invidiare a una pazza che passava le ore a scarabocchiare fogli, a guardare nel vuoto o a sorridere senza sapere perché? Michela si era convinta che il personale sanitario, alla lunga, perdesse un po’ il contatto con la realtà e si addentrasse ogni giorno di più nel mondo dei malati, vivendone le fantasie e sentendo pericolosamente addosso le loro emozioni. E questo, forse, valeva anche per la bravissima Paola, sempre così attenta e professionale.

Erano le tre, Claudia l’attendeva seduta sulla panchina, all’ombra del glicine che formava, coi suoi rami pendenti, un ampio arco di ingresso al parco della clinica. Era così minuta, pallida, la testa leggermente curvata in avanti e ciononostante esprimeva un’inspiegabile energia. La dottoressa si sentiva stringere il cuore ogni volta che ripensava alla sua triste storia.

Una notte era stata chiamata dai servizi sociali per affidarle in cura quella strana ragazza, comparsa quasi dal nulla. Era fuggita da una casa in fiamme dove, in seguito, venne rinvenuto il cadavere carbonizzato del patrigno. Il quale, con ogni probabilità, dopo essersi ubriacato, si era addormentato con la sigaretta accesa causando l’incendio dell’abitazione. Claudia era stata visitata e su tutto il corpo portava evidenti segni di percosse e sevizie.

Gli inquirenti avevano allora riaperto il caso della madre di Claudia, trovata strangolata qualche tempo prima nella stessa casa. Si era indagato, a suo tempo, per scoprire il coinvolgimento del marito in quella misteriosa morte, ma le indagini non erano approdate a nulla e Claudia, malauguratamente, era stata affidata proprio a lui, fino alla notte del tragico incidente.

Da quel giorno la dottoressa l’aveva in cura, ma non c’era stato nessun segno di miglioramento. Ora, come allora, Claudia stava seduta, immobile e guardava fisso davanti a sé, nel vuoto, inseguendo chissà quali pensieri o ricordi. Se davvero ne aveva di ricordi. Cercare di fare riaffiorare nella sua mente il passato che aveva rimosso e farle accettare la sua vita senza sofferenza, avrebbe voluto dire ridarle anche l’uso della parola, ostinatamente perso insieme alla memoria.

Michela passava ore a parlarle dolcemente, carezzandola e cercando di trovare un contatto con lei, ma Claudia sembrava non sentirla. Lo sguardo fisso e la mano posata nella sua, senza vita. Quel giorno aveva avuto, però, un guizzo e la dottoressa si era accorta di un lungo brivido che le aveva percorso tutta la pelle, alzandole i pori, quando le aveva detto :

”Ti fa bene la ginnastica. Stasera farai ancora esercizio con Sergio.”

Claudia infatti non si muoveva di sua volontà, tendeva a rannicchiarsi su se stessa, sempre ferma nella stessa posizione e questo alla lunga le avrebbe creato problemi nella deambulazione. Nella speranza di trovare vantaggio dall’attività psico-motoria, le aveva prescritto, tre volte la settimana, un’ora di ginnastica passiva che le veniva praticata dal personale di turno.

La mattina successiva la dottoressa arrivando alla clinica vide un inusuale spiegamento di auto dei Carabinieri che occupavano il piazzale. Claudia non era nell’androne coi suoi disegni e nemmeno Paola le era venuta incontro come al solito.

Fu il portiere a darle le prime spiegazioni:“Dottoressa, pare che stanotte Claudia abbia accoltellato Sergio. Che tragedia! Li ha trovati tutti e due giù in palestra l’inserviente che stamattina alle sei era sceso per le pulizie. Stanno cercando di capire cosa sia realmente successo”

Michela irruppe trafelata nella stanza del direttore sanitario, senza bussare. Claudia, tremante, era seduta in un angolo con le manette ai polsi e lo sguardo assente come sempre. Il lieve dondolio della sua testa era aumentato di intensità ma di questo se ne poteva accorgere soltanto lei che la conosceva e la curava da tempo. Nella stanza c’erano il suo direttore e tre carabinieri in divisa. Due erano in piedi di fianco a Claudia e il terzo, un giovane bruno con gli occhi penetranti, la squadrò da dietro la scrivania.

“Lei chi sarebbe?” chiese seccato

Il direttore intervenne prontamente per fare le presentazioni, ma Michela non lo lasciò finire:

“Claudia è una mia paziente e avevate il dovere di chiamarmi subito, non potete trattarla come una criminale!” gridò alzando il braccio con l’indice a indicare nella direzione dove era seduta la malata.

Il brigadiere Raffaele Di Martino la gelò con una fredda e amara risposta:

“Non deve essere molto brava come medico lei se, la notte scorsa, la ragazza che ha in cura ha fatto fuori una persona col coltello.”

Era quasi un anno che il brigadiere Di Martino prestava servizio nella ridente cittadina emiliana dove si trovava anche la clinica. Conosceva ormai molto bene gli usi e le abitudini della gente del posto. Brave persone, a cui si era nei mesi affezionato, seri lavoratori e soprattutto cittadini rispettosi della legge. Per questo motivo non riusciva a spiegarsi quel assurdo omicidio ed era piuttosto nervoso. Esattamente come quando, proprio il giorno del suo arrivo, aveva scoperto il cadavere di una donna lungo il fiume. Un caso che aveva poi brillantemente risolto e gli era valso una certa notorietà, rivelatasi molto utile per inserirsi nella vita sociale e godere della tranquilla amenità di quei luoghi.

Il brigadiere si scosse dai suoi ricordi e tornò a concentrarsi sui fatti accertati fino a quel momento. L’infermiere Sergio Ricci, mentre praticava la ginnastica passiva, con ogni probabilità, si era preso qualche libertà in più con la malata e aveva abusato di lei. La reazione di Claudia doveva essere stata fulminea perché né sul corpo della vittima, né sul suo erano stati trovati segni di lotta. Dunque il rapporto era avvenuto senza violenza e all’omicidio non era preceduta nessuna colluttazione.

“Dottoressa, lei scrive nella cartella clinica della qui presente Claudia Montorsi che la stessa è incapace di ogni tipo di reazione verso chi le fa del male. Pensa davvero che sia così?”

Il brigadiere interrogava Michela cercando di ricostruire al meglio gli eventi della notte precedente.

“Lo sostengo perché per anni ha subito le violenze del patrigno e non ha avuto reazioni di nessun genere. Anzi col passare del tempo si è sempre più chiusa al mondo esterno, ripiegandosi anche fisicamente su se stessa. Basta che la guardi. Lei può toccarla, accarezzarla, scuoterla, picchiarla se vuole, ma la reazione sarà la medesima: Claudia resterà immobile.”

“Eppure si è munita di un coltello da cucina, preso dalla mensa, lo ha portato con sé in palestra e con violenza, quando l’infermiere si è avvicinato al lettino lo ha colpito all’improvviso. Prima sul petto all’altezza del cuore e una volta a terra, lo ha accoltellato alla schiena.”

“Claudia è incapace di premeditare qualsiasi azione, figurarsi un omicidio! “ aveva strillato Michela e con atteggiamento protettivo si era avvicinata alla sua paziente, carezzandole i capelli.

“Adesso la dovete lasciar stare, la porto con me di sopra, ha bisogno di un sedativo per riposare e stare tranquilla.”

Di Martino acconsentì che la dottoressa si prendesse cura della ragazza fino a quando non avesse deciso di incriminarla e trasferirla al manicomio giudiziario. Fermo restando che i due carabinieri di guardia non dovevano perderla di vista un attimo.

Mentre guardava la dottoressa allontanarsi e prendersi cura con estrema delicatezza della ragazza, il brigadiere continuava a pensare che c’era qualcosa di strano nella vicenda e non riusciva a vedere con chiarezza la ricostruzione dei fatti. Quella povera pazza sembrava davvero incapace di ferire e uccidere un uomo robusto e forte come Sergio Ricci. Inoltre, dopo aver organizzato a mente lucida un piano così perfetto, perché sarebbe rimasta ferma in palestra, seduta a fianco al cadavere col coltello in mano, come se veramente fosse incapace di muoversi da sola?

Poco dopo, interrogando Paola Grandi, fidanzata dell’ucciso, incominciò a darsi una nuova spiegazione.

Durante l’interrogatorio la Grandi gli era sembrata nervosa, scostante, sudava anche se nella stanza non era affatto caldo e queste reazioni lui le conosceva bene. Erano una mezza confessione e l’altra metà riusciva sempre a ottenerla, incalzando e mettendo l’interrogato alle corde.

Anche lui aveva i suoi metodi, sapeva fare qualche pressione psicologica e dopo un po’ la ragazza cominciò a raccontare:

“Sergio era un porco depravato, ma io lo amavo a tal punto che non l’ho denunciato. Ho finto di non sapere che quando aveva il turno di notte si divertiva con Claudia. Tutto è cominciato qualche tempo fa quando la dottoressa ha deciso per la ginnastica passiva. Claudia è bella, giovane, vedersela così inerte, sentire la sua pelle morbida sotto le dita gli ha scatenato un’irrefrenabile libidine e ha iniziato a prenderla, provandoci sempre più gusto. ”

“Glielo ha detto lui?”

“Sì. Io mi sono accorta subito della sua sbandata e una sera, proprio mentre era a letto con me, ha avuto la faccia tosta di raccontarmi ogni cosa, nei minimi particolari. Che lui la faceva godere, che Claudia si lasciava penetrare da ogni parte. Ne era ossessionato.”

“E lei?”

“Io mi sono arrabbiata. Gli ho detto che non volevo più vederlo e che se non avesse smesso immediatamente quel gioco perverso ne avrei informato la dottoressa.”

“E poi?”

“E poi invece ho taciuto, non ho avuto il coraggio di denunciarlo gliel’ho già detto. Aspettavo che si stancasse del nuovo giocattolo e che tornasse da me, ma stavolta era una cosa diversa, non si stava divertendo come aveva fatto con altre. Lo sentivo sempre più distante. Era come rapito e non mi cercava quasi più.”

“Così ieri sera, sapendo del turno di notte, lo ha raggiunto e vedendo che stava facendo l’amore con Claudia, non ha resistito all’impulso di fargli del male, è vero?!” le urlò il brigadiere alzandosi di scatto e muovendo qualche passo in avanti. Per farle sentire di più il disagio della sua vicinanza, si era fermato dietro la sedia in modo che lei non potesse vederlo, ma avvertirne soltanto la presenza, e continuò a parlare sottovoce, stavolta, alitandole quasi sul collo:

“È andata nella cucina della mensa, ha preso il coltello e glielo ha affondato nella schiena, è così?”

Incalzante ricostruiva tutta la scena:

“Mi é chiaro adesso che la prima coltellata, contrariamente a quanto avevo pensato in precedenza, è stata quella data alle spalle. Si spiega anche il perché non vi sia stata reazione da parte della vittima. Colto di sorpresa, da dietro, ha perso l’equilibrio ed è caduto. La seconda coltellata, letale, lo ha poi raggiunto al petto. Infatti era stato ritrovato supino, così……”

Di Martino si spostava, allargava le braccia, cercando di immaginare, mimandoli, i movimenti della vittima e del suo assassino. Tornando verso la sua scrivania concluse:

”Mettere poi il coltello in mano a Claudia e andarsene senza che lei reagisse è stato fin troppo facile, la ragazza non parla e non l’avrebbe denunciata”.

Paola era incredula:

“No. Io non l’ho ucciso! È vero, mi feriva quel suo insano comportamento, ma non avrei mai avuto il coraggio di fare una cosa simile.” Piangeva, si discolpava con sempre minore convinzione e, portata davanti al Magistrato, pur non avendo reso piena confessione, venne arrestata per l’omicidio.

Ecco la dottoressa Alibrandi ,distrutta, provata dagli eventi dei giorni scorsi. Ha difeso strenuamente la “sua” Claudia ed è riuscita a evitarle l’incriminazione, ma con altrettanta veemenza non ha saputo difendere la “sua” Paola, nella quale pur credeva e per la quale nutriva affetto. Quando ha dovuto scegliere, ha preferito pensare che fosse lei la colpevole.

Claudia no. È incapace di odiare, incapace di amare, incapace di qualsiasi sentimento. Claudia lasciava che abusassero di lei senza reagire. Di nuovo un uomo che la straziava nel corpo e nell’anima. Ecco perché le sue terapie non sortivano effetto alcuno! Sergio, quel maledetto, rigirava il coltello nella piaga, risvegliando ogni volta in lei il trauma che cercava invano di guarire.

La dottoressa Michela Alibrandi, aveva ripreso il suo tran tran giornaliero e stava entrando nell’androne della clinica. Claudia era ancora lì, silenziosa, dondolante, sembrava non aver risentito dell’uragano di emozioni che si era riversato su di loro. Aveva terminato il suo disegno e, come sempre, glielo porgeva. Però, invece del solito cerchio concentrico arancione del lunedì, aveva messo fra le mani della dottoressa un disegno eseguito perfettamente. Si scorgeva chiaramente, in primo piano una grande lama, impugnata da una donna bionda, vestita da infermiera che, anche se vista di spalle, rappresentava indiscutibilmente Paola colta nell’atto di colpire Sergio da dietro.

Michela, non si aspettava nulla di simile da parte di Claudia. Eppure per tanto tempo aveva atteso invano una sua, se pur minima, reazione. La scrutò con sorpresa, cercando in lei un cenno, un sorriso consapevole. Claudia era, come sempre, impassibile. Ancora nascosta dietro le sue nebbie e il suo dondolio, ma le aveva fornito, quale unica testimone, la prova schiacciante che mancava al brigadiere e senza pensarci due volte gliela portò.

“Lo choc subito assistendo all’omicidio, le ha procurato, evidentemente, un contraccolpo emotivo che l’ha sbloccata. Ora curarla sarà più facile, si può con ottimismo pensare addirittura a una guarigione totale .” disse la dottoressa con soddisfazione mentre consegnava il disegno.

Il brigadiere Di Martino lo esaminò a fondo, senza profferire parola, ma a un tratto ebbe un sussulto e poi scuotendo il capo, sconsolato, si rivolse alla dottoressa chiedendo:

“Perché?”

“Perché?” ripeté più volte buttandole avanti sul tavolo il disegno.

Solo allora Michela, guardandolo con maggiore attenzione vide che nella lama, rappresentata in primo piano, si rifletteva, come in uno specchio, il viso di una donna bruna con un foulard al collo. Era lei che colpiva Sergio, e Claudia l’aveva denunciata.

Non provò nemmeno a discolparsi, con freddezza e precisione raccontò al brigadiere tutti i particolari. Di come si fosse insospettita dagli atteggiamenti di Paola, di come fosse rientrata non vista la sera e avesse colto l’infermiere sul fatto. Della rabbia provata a scoprire come i suoi sacrifici venivano sistematicamente vanificati e dell’irresistibile impulso a vendicare la sua paziente. Il resto era andato esattamente come lui aveva argutamente ricostruito.

Claudia è seduta nell’androne, la sua testa non dondola più, guarda fuori dalla finestra, sa che non vedrà arrivare la dottoressa questa mattina, sa che anche Paola non sarà più una rivale per lei e rivolge un tenero e timido sguardo all’infermiere che ha preso il posto di Sergio, mentre una risata trattenuta le scuote leggermente le spalle.

La povera Claudia che si innamora come tutte le donne e nessuno vuole capirlo…..ahahahahah ….povera Claudia che deve ogni volta escogitare piani per liberarsi delle sue rivali.

Franca

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