racconto
L'esca
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La piccola Giusy se ne stava seduta con le gambe penzoloni su un molo tenendo tra le mani una canna da pesca.
«Sei qui da ore e non sei riuscita a prendere nemmeno un misero pescetto» osservò il padre, deridendola, dietro le sue spalle.
«A dirla tutta vorrei catturare una balena» gli rispose Giusy, imbronciata.
«Che cosa hai agganciato all'uncino?»
«Un dito mozzato!»
La figlioletta, non volendo passare per bugiarda, riavvolse la lenza per far vedere l'esca al costernato genitore per poi rilanciare con nonchalance l'amo in acqua.
«Dove hai "pescato" quel pollice?» gli chiese il padre, sentendo lo stimolo di rimettere.
«Nel cimitero vicino casa nostra, mentre scavavo nel terreno» spiegò Giusy. «Stavo cercando dei lombrichi però alla fine ho trovato dieci dita sparse qua e là. Le altre nove le tengo in questa scatoletta metallica assieme ai vermi.»
«Vorresti mangiare un pesce catturato tramite un pezzo di cadavere?» urlò il padre dopo aver vomitato.
«La balena non è un pesce, semmai un cetaceo!» precisò candidamente la bambina.
«Ah già, è vero. Vabbè, dai, se ti servirà, emh, una... una mano per issarla, ti aiuterò io.»
La capanna dello zio Tommaso
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Cinque anni fa la buonanima di mio zio mi ha lasciato in eredità questa deliziosa capanna situata nel bosco. In quel periodo stavo affrontando momenti difficili in quanto ero oberato dai debiti causati da un fallimentare matrimonio e da una cattiva gestione dell'azienda di famiglia. Ciò mi costrinse a vendere di tutto, dall'appartamento alla macchina, per far fronte ai guai, tranne questo rifugio, nonostante le numerose e cospicue offerte ricevute.
Stamattina ho sentito il bisogno di venire qui, in primis per staccare la spina dalla tediosa quotidianità di città.
Bene, la legna per il camino è pronta, ed essendo quasi sera mi accingo ad accendere un antico lume a petrolio. Guardandomi intorno, rievoco per l'ennesima volta i miei verdi anni legati a questo posto. Mi ricordo che con lo zio trascorrevo liete giornate a parlare, a giocare a carte, a preparare gustose focacce e tant'altro. «Mi manchi!» esclamo tra me e me, divorato dalla malinconia e osservando sulla parete la sua fotografia incorniciata che pende sbilenca. Odio le cose "storte", altra caratteristica ereditata da lui.
Nell'atto di raddrizzare la cornice, casca un foglio di carta da dietro, scivolando lentamente sul pavimento. Capperi, si tratta di una stringatissima lettera. Nel leggerla, inizio a piangere, coprendo la bocca con una mano.
--- Carissimo e adorato nipote, se non hai ceduto alla tentazione di vendere la capanna, sotto il parquet su cui stai poggiando i piedi ci sono nascosti centomila euro, soldi ottenuti dalla liquidazione di quando lavoravo in qualità di sottoufficiale dei carabinieri.
Con affetto.
Zio Tommaso. ---
Nota dell'autore: il titolo di questo racconto si rifà a La capanna dello zio Tom un celebre romanzo di Harriet Beecher Stowe.
La lista della spesa del boomer
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Ma 'ste scarpe le vuoi o non le vuoi?
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Il concetto d'infinito
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Walter, durante la lezione, alzò la mano e chiese al nostro eccentrico professore di matematica se poteva fornire una definizione globale e semplificata del concetto di infinito.
La risposta che ricevette fu la seguente: «Il concetto di infinito è inteso come ciò che non è compiuto, o come ciò che non ha limite.»
Il mio compagno di banco, essendo duro di comprendonio, mise a dura prova l’“infinita” pazienza dell'insegnante con una sequela di domande.
Il docente improvvisamente scoppiò in una risata isterica, poi prese un gessetto bianco per tracciare una linea continua sul pavimento della classe. Sotto lo sguardo sbigottito del bidello, l'ente geometrico proseguì imperterrito nel corridoio, arrivando persino all'esterno della scuola. Assai stupiti, dalla finestra guardammo il professore allontanarsi.
Da quel giorno non lo vedemmo più.
La mascherina
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--- Nessuna mascherina, nessun ingresso, nessuna uscita ---
Così recitava l'insegna al neon sopra l'hotel. A rendere la situazione maggiormente tediosa, un agile drone volante di nome Nikita dalla robotica voce ammonitrice che ripeteva agli ospiti le stesse identiche parole nell'eventualità in cui fossero stati privi del dispositivo di protezione.
A volte, per prevenzione, quell'apparecchiaccio volante attivava un congegno di sicurezza che isolava i trasgressori in specifici ambienti, fino a quando non avessero indossato le stramaledette mascherine. In caso di assenza delle suddette, bisognava attendere qualcuno del personale per poterne ricevere almeno una.
Una sera, in seguito a una rilassante sauna, mi trovavo sdraiato in posizione prona su una panca, con un asciugamano avvolto intorno alla vita. All'improvviso, un tizio grassoccio, arrivando di soppiatto, mi sgraffignò sia la mascherina - che tenevo momentaneamente abbassata sotto al mento - sia il marsupio appeso allo schienale di una sedia, contenente la carta d'identità, i soldi e le carte di credito. Seminudo, mi cimentai a rincorrere il ladro, certissimo di acciuffarlo in quanto non era esattamente una scheggia. Purtroppo ebbe la meglio!
Il furfante, oltrepassando l'uscita a pochi metri dal sottoscritto, provocò la chiusura immediata della porta metallica.
In quel preciso istante, alle mie spalle, udii la solita e odiosa tiritera di Nikita: «Nessuna mascherina, nessun ingresso, nessuna uscita.»
Medusa
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Chi non conosce Medusa, una delle tre Gorgoni che ha il potere di trasformare in pietra chiunque incroci il suo sguardo? La suddetta, nonostante sia quella che è, qui in Grecia ha diritto all'assistenza sanitaria. A tal proposito, secondo il nuovo ordinamento emanato dall'Olimpo, i diritti valgono per tutti, compresi i criminali della peggior specie, le figure leggendarie e i mostri della mitologia.
Ma perché Medusa fra i tantissimi oculisti di Atene ha scelto proprio me? Sono rimasto "paralizzato" per non dire "pietrificato" appena ho letto il suo nome sulla ricetta che mi ha fatto pervenire la segretaria.
Sento un sibilo di serpenti, la donna-mostro sta quasi per entrare nel mio studio, nel frattempo sulla scrivania piazzo lestamente un paio di occhiali da sole e una iconografia nella quale è raffigurata la protettrice dea Atena.
Una cosa è certa: terrò gli occhi ben aperti!
The First Memory
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Il mio primo ricordo è di quando avevo suppergiù tre anni. L’immagine iniziale che si materializzò davanti ai miei occhi fu un orologio quadrato con cornice in legno appeso al muro.
Tic tac, tic tac, tic tac…
Imbambolato e con sguardo alzato, fissai quello che definii un giocattolo, ed ebbi il desiderio di prenderlo cosicché potessi divertirmi a scassare le povere lancette. Ecco, se fosse stato un orologio a cucù, sicuramente avrei voluto acchiappare l'uccellino.
Con le braccia alzate, salticchiai davanti alla parete con l'intento di afferrare l'orologio. Ma piccino com'ero non ci riuscii.
Mi resi comunque conto di essere padrone del mio corpo e di poter interagire con l’ambiente circostante, tra l’altro giungendo ad una riflessione esistenziale. A tal proposito, mi chiesi come ero giunto in quella cucina irradiata da una meravigliosa luce solare che proveniva da una porta finestra spalancata. Tale apertura conduceva al balcone dove un triciclo di colore rosso mi invitava a giocare.
Quell'atmosfera mi procurava una fantastica suggestione, addirittura gli oggetti presenti sembravano brillare: le tazze, la caffettiera, le pentole, il tavolo...
Un po' come la volpe con l'uva, decisi di lasciar perdere quell'affare "ticchettoso", e girandomi notai mia madre che rideva.
Quanto era bella la mia mamma! Praticamente una ragazza poiché aveva circa venticinque anni. I lunghi capelli neri ondulati che le scendevano sulle spalle, gli occhi grandi e castani, e il suo vestito a fiori furono i dettagli su cui mi soffermai con attenzione.
«Vieni qui, monellino!» esclamò con dolcezza.
Mi prese in braccio e riempiendomi di bacetti mi comunicò che papà stava tornando dal lavoro. Pochi minuti dopo rincasò mio padre con addosso l’uniforme della polizia penitenziaria e con la sigaretta in bocca che spense quasi subito in un portacenere. Appena ci avvolse tutte e due in un abbraccio, avvertii un indescrivibile calore famigliare.
Improvvisamente, da sotto sentii ben altro tipo di "calore", visto che avevo riempito il pannolino di pupù e di pipì.
Di quel giorno, non rammemoro nient'altro.
The Beast
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Un colpo di Walther Pkk 7.65 alla tempia è l'ultima cosa che ricordo. Buio, buio e ancora buio, per interminabili momenti che forse perdurano da ore, giorni, o chissà quanti anni.
Finalmente riacquisto la vista, l'udito, l'olfatto, il gusto, il tatto e le capacità motorie. Dove mi trovo? È un posto così terrificante, una selva tenebrosa animata da angoscianti rumori e strilla dall'ignota origine, tra cui un mostruoso muggito.
Nudo come un verme, attraverso alcune stradine sterrate, fino ad arrivare in una cittadella dall'aspetto antico, credo medievale, protetta da mura imponenti dalle quali posso distinguere le innumerevoli macchie di sangue. Avverto un'atmosfera cupa e morbosa, inoltre ad accrescere il mio raccapriccio ci sono le aleggianti e vaporose nubi rossastre. Avanzo lentamente, finché non vengo scaraventato a terra da una forza sconosciuta.
Scheisse! Mi ritrovo ad annaspare in una nerissima fanghiglia dall'olezzo pestilenziale che mi fa contorcere lo stomaco. Mi rialzo penosamente in piedi e scorgo dapprima un'ombra, sino a delineare un'orripilante figura somigliante al Minotauro che se ne sta con le braccia conserte in fondo a una viuzza disseminata da torce accese. Sembra proprio che mi stia aspettando.
All'improvviso, un lampo scagliato dal cielo nerastro rischiara per un solo istante la cittadella come per ammonire la mia iniquità e quella di altri dannati che corrono freneticamente lungo un'intricata rete di passaggi.
Sopraffatto dal terrore inizio a correre, ma è tutto inutile, la nefasta creatura mi raggiunge agilmente tirandomi per il collo per poi scarificare una svastica sulle mie spalle con i suoi unghioni acuminati.
“Mein gott!” esclamo dolorosamente.
“Adolf, qui non c'è Dio, qui ci sono Io. Da queste parti si soffre e si patisce continuamente, il tempo non esiste, semmai il tormentoso eterno sempre" mi sussurra con tono mefistofelico, abbassando il capo.
Rassegnato alle crudeli tribolazioni che mi aspettano, in quest'Inferno sto pagando per l'inferno che avevo causato in Terra.
Lo straniero senza nome
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Lo Straniero Senza Nome, giunse a El Fica, una tranquilla cittadina del Colorato.
L’uomo, affamato come non mai, entrò in un McLeone’s e si fece preparare Il Panozzo di Terence Hill, un pagnottone farcito di carne di cavallo e fagioli con salsa di pomodoro che divorò avidamente, per di più tracannando un lattinone di gazzosa al cactus.
Uscì dal locale, indeciso se dirigersi in un'armeria ad acquistare una scatola di munizioni per il suo revolver LeMat oppure cercare una locanda per riposarsi, dopo cinque estenuanti giorni a girovagare per monti e per dune a pigliare il cocentissimo sole, tranne lì dove non batteva.
Dato che aveva la gola secca come il deserto per via dell’arsura, non ritenne urgente nessuna delle due opzioni. Pertanto preferì andare a bere qualcosa di fresco e dissetante da qualche parte.
Il paese era disseminato di saloon, il cowboy ne scelse uno a caso ovvero il Salo'on e le 120 giornate di Sodoma, titolato così in merito a Sodoma, il nome della proprietaria che gestiva il pubblico esercizio per 120 giorni all'anno.
Lo Straniero Senza Nome stava quasi per entrare nel locale quando la sua attenzione e quella di un nugolo di astanti venne catturata da uno sceriffo panzone letteralmente sbracato e da un individuo guercio, dagli indumenti sporchi e lacerati. Entrambi, collocati nella corsia delle carovane a pochi metri di distanza l'uno dall'altro, assunsero una posa da duello.
Lo Straniero Senza Nome pensò che una bella Yucca con ghiaccio poteva aspettare dal momento che non si sarebbe perso la sfida nemmeno per tutto l'oro del Klondike.
Nel frattempo, i due duellanti si studiarono, accarezzando l'impugnatura delle rispettive pistole.
«Questa città è troppo piccola per tutti e due!» gridò il guercio.
«Hai ragione! Preparati ad essere sconfitto!» esclamò lo sceriffaccio.
I due contendenti si guardarono con intensità, immobili come due rocce del Gran Canyon.
«Perché nessuno chiama il becchino?» chiese Lo Straniero Senza Nome a uno dei curiosi seduto sopra una cassa di legno.
«Non ce n'è bisogno» gli spiegò il tizio, un mezzo indiano d'America e mezzo indiano dell'India. «Si affrontano al chi viene per primo da ridere, perde. Si stanno giocando la stella e il posto da sceriffo.»
Passarono circa cinque minuti.
Il grassone scoppiò a ridere, vinse il guercio, grazie a una serie di provvidenziali inarcamenti delle sopracciglia da far suscitare il riso persino ai presenti, al contrario dello Straniero Senza Nome, tutto paonazzo a causa del Panozzo di Terence Hill che gli procurò un terribile mal di pancia dalla conseguente rumorosa scoreggia. Il guercio non ci vedeva bene; tuttavia ci sentiva benissimo, credeva che quel forestiero volesse fregargli il lavoro con un confetto di piombo. Il neo sceriffo, estraendo velocemente la Colt dalla fondina, rispose allo "sparo".
Lo strabismo dello sbrindellato zozzone gli impedì di centrale il cowboy, ma bensì l'insegna del saloon che cascò in testa a quest'ultimo.
E fu così che lo Straniero Senza Nome divenne lo Stranito Senza Nome.