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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

poli patrizia

Mauro Biancaniello, "Hai smesso i pantaloni corti"

9 Febbraio 2013 , Scritto da Patrizia Poli e Ida Verrei Con tag #poli patrizia, #ida verrei, #recensioni

Mauro Biancaniello, "Hai smesso i pantaloni corti"

di Patrizia Poli e Ida Verrei

Sono molti e universali i temi che attraversano la raccolta di liriche “Hai smesso i pantaloni corti” di Mauro Biancaniello: l’amore, la memoria, la guerra, il dolore, il fulgore dell’estate, un eros fantasticato e represso in un legame concreto e maturo.

“Il ricordo è poesia e la poesia non è se non ricordo”, recitava G. Pascoli. Ed è attraverso la rievocazione di un vissuto recente, attraverso quella facoltà affascinante e misteriosa che è la memoria, che Mauro Biancaniello ci regala nel verso un flusso d’immagini, quasi fotogrammi di un film a colori. Cattura frammenti di vita quotidiana e li trasfigura in messaggi poetici, ingenui e lievi, ma palpitanti di emozioni. E così si dispiega il filo dei ricordi: dalla visione onirica della nonna, che “sale le scale del paradiso”, all’immagine dolente della madre, insieme alla quale “non ha mai distolto lo sguardo”, dai balenii luminosi di un’adolescenza svanita, insieme ai pantaloni corti ormai smessi, ai sogni dell’incerto futuro di un’età adulta.

I ricordi, “l’adolescente ritorno”, appartengono a un giovane che da poco “ha smesso i pantaloni corti”, e sta ora osservando, stupito e fiero, il proprio divenire uomo. La giacca e il pantalone lungo, stesi sul letto, sembrano diventare “una persona, un adulto”. In quel “sembrano” c’è tutta l’incertezza della crescita e il timore che la maturità porti con sé il “grigio” di un vivere senza più slanci. A questo proposito, torna più volte l’immagine dell’incrocio, del “crocevia infinito”, fatto di scelte temute e non ancora compiute, mentre certezze infantili crollano, ideali perdono consistenza, affiorano cinismo, egoismo e supponenza, per essere compresi, sublimati e rimossi, in un tempo che corre, “che non è infinito” perché “si è già dopo mai ora”.

C’è tutta la freschezza della giovane età nell’opera di questo sensibile artista, che riesce a cogliere nella realtà il segno dell’umana condizione, fatta di istanti di gioia, ma anche di un tempo che “è solo attimo da mordere”, “lacrime piante senza vergogna”: non solo, quindi, dolci nostalgie, ma anche un tuffo nel dolore, forse vissuto e non solo intuito. D’altra parte, come dice Alda Merini, la poesia nasce anche dai graffi dell’anima.

Contraddistingue la poesia di Biancaniello un’estrema semplicità, che è limpidezza e purezza di parole, sgorgate dal cuore e dalla mente così come le si sente e le si pensa. Un esempio è quel “abbiamo visto tanto” rivolto alla madre, capace di racchiudere un’intera vita di amore e sofferenze patite. E ancora il dolce commiato dalla nonna, con la terra che cade sulla bara. È un linguaggio facile ma ricercato, quello del nostro poeta; il verso si fa mezzo dell’esigenza comunicativa, di voglia di narrarsi; il ricordare è un rivedere, un rivivere, un rivisitare attimi di vita, ma è anche approccio a temi universali.

Questo giovane uomo ha una speranza, una forza tutta sua. Sa che, quando “si riesce a oscurare il proprio io per dar luce a un’altra persona”, allora, davvero, “si può dire di amare.”

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Patrizia Poli, "Signora dei filtri"

8 Febbraio 2013 , Scritto da Ida Verrei Con tag #ida verrei, #poli patrizia, #recensioni

 

 

 

 

Signora dei Filtri

 Patrizia Poli

 

Marchetti Editore, 2017

 

Singolare romanzo, romanzo colto, intenso, rivisitazione del mito attraverso un’esplorazione anche di tipo psicologico.

La storia di Medea e Giasone, il viaggio degli Argonauti: storia forte e delicata allo stesso tempo; percorso di anime tormentate; personaggi potenti, scolpiti con un linguaggio che ti trasporta in terre, in mondi, in tempi ed atmosfere che affascinano ed incantano.

In una struttura narrativa robusta, costruita con grande abilità linguistica, si intrecciano mito e affabulazione, fantasia e verosimiglianza, sogno e ricordo, sempre sostenuti da una ricerca accurata del particolare, dall’aderenza al fatto storico.

Prendono vita, così, e si umanizzano i personaggi, rivisitati ma fedeli al mito; sospesi in una dimensione dove elementi fantastici e realismo descrittivo contribuiscono a dar loro spessore e concretezza.

Si intrecciano vite e destini, s’incontrano figure emblematiche, si susseguono eventi epici e drammatici, si compiono profezie ed oracoli. E ogni personaggio, ogni elemento della storia, anche minore, possiede incisività e significato.

Su tutti, giganteggia Medea, principessa della Colchide: madre-terra e lupa. Governata dai contrasti: figlia del sole, quando ama; figlia delle tenebre lunari, quando è posseduta dalle forze oscure della sua “magia”. Tragica figura, che porta in sé, sin dall’infanzia, il presagio di un destino funesto.

Sei tu la lupa che azzannò i suoi cuccioli?” chiedono, “Sei la Signora dei filtri?” “Sono io…” rispondo, “…ma un tempo, ero la Figlia del Sole”.

“…Si, Orfeo. Medea di Colchide NON SI DIMENTICA”.

 

 

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Fabio Marcaccini, "Soul"

8 Febbraio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #fabio marcaccini, #recensioni

Fabio Marcaccini, "Soul"

È arrabbiato, Soul, se la prende col mondo che l’ha tradito. Sa di attribuire agli altri anche colpe proprie, ma la rabbia trabocca, minaccia di travolgere il suo amore puro, passionale, celeste. Lui e Lei sono soli come il primo uomo e la prima donna, contro tutto e tutti. Sporcati, avviliti, scacciati nella foresta, come Ginevra e Lancillotto, fino quasi a perdersi, a confondersi, a risvegliarsi incerti e tremanti. Troppo soli per farcela, troppo stanchi. Per fortuna Lei è serena, salda nel suo amore. Asciuga sul suo seno le lacrime infantili di lui, accoglie i suoi sogni di bambino perduto, accetta le sue inconcludenze, lo rivede nel frutto del loro amore che ora dà un senso ad ogni sofferenza. Molto belle "Stella cadente" e "L’Infinito".

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Dal realismo al simbolismo: Ignazio Silone, "Vino e pane"

7 Febbraio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Vino e Pane

di Ignazio Silone

Mondadori, 1955

Vino e Pane di Ignazio Silone, al secolo Secondo Tranquilli (1900- 1978), uscito nell’edizione definitiva Mondadori nel 1955, s’iscrive nell’ambito della narrativa meridionalista degli anni ’30, molto diversa da quella verista della fine dell’800, quella cioè di Verga, di Capuana e de Roberto.

Alvaro, Brancati e, in parte, Silone, accompagnano il loro grido di protesta sociale con un moto di nostalgia verso un mondo che va scomparendo. La città, nella fattispecie Roma, rappresenta la realtà, il vero, mentre la campagna abruzzese dei cafoni ha connotazioni ancora tardo romantiche, liriche, è popolata di figure ottocentesche e attraversata da un senso della natura panico e mistico.

Laddove, fra ottocento e novecento, il reale perde senso, si fa simbolo e decadenza, l’opera dei meridionalisti oscilla fra naturalismo e simbolismo. Possiamo dire che Verga passa attraverso d’Annunzio, che i Malavoglia s’intridono del lirismo delle Novelle della Pescara.

Il prete tardò a tornare nella locanda. Si sedette sul ciglio erboso della strada, oppresso da molti pensieri. Voci perdute si udivano in lontananza, richiami di pecorai, latrati di cani, sommessi belati di greggi. Dalla terra umida si levava un leggero odore di timo e di rosmarino selvatico. Era l’ora in cui i cafoni rientravano gli asini nelle stalle e andavano a dormire. Dai vani delle finestre le madri chiamavano i figli ritardatari. Era un’ora propizia all’umiltà. L’uomo rientrava nell’animale, l’animale nella pianta, la pianta nella terra. Il ruscello in fondo alla valle si gremiva di stelle. Di Pietrasecca sommersa nell’ombra, non si distingueva che la cervice di vacca con le due grandi corna arcuate sulla sommità della locanda.

È nostro convincimento che brani come questi non si possano né spiegare né insegnare, il lettore deve sentirli da solo, dentro di sé.

Vino e pane descrive l’angoscia dell’intellettuale di sinistra che vede crollare tutti gli ideali, ridotti a schemi e regole di partito, malvagi quanto il potere al governo che sfrutta e opprime la popolazione, i cafoni, ora rinominati “rurali”. La differenza fra il protagonista Pietro Spina e le altre figure letterarie di ribelli, immaginate da autori contemporanei di Silone, è l’inazione. Spina è costretto dalla malattia all’inattività, la sua rivolta è tutta interiore, sta nel passaggio da un nome all’altro, da Pietro a Paolo, don Paolo, (non a caso entrambi nomi di apostoli) per poi tornare di nuovo a Pietro senza preavviso. Pietro è il rivoluzionario, Paolo il finto prete, alla disperata, ma autentica, ricerca di Dio. La sua ribellione è interna, morale, intellettuale, per questo “Vino e pane” si configura come testo incerto fra romanzo d’azione e d’idee.

La figura di Luigi Murica, il giovane comunista infiltrato tra i fascisti ucciso dalla milizia, ha connotazioni fortemente cristologiche. Un intero capitolo, il penultimo, è dedicato al suo martirio che richiama la crocifissione, dove il vino e il pane sono quelli della comunione e rappresentano, com’è esplicitamente detto, l’unità, la fraternità, la solidarietà fra uomini.

Cristina Colamartini, l’aspirante novizia di cui Pietro s’innamora, raffigura l’innocenza, l’agnello sbranato dal lupo, e la sua morte ha tratti decadenti e sensazionali.

Matalena, Cassola, Sciatàp, Magascià e tutti gli altri protagonisti, sono figure realistiche ma anche simboliche, attingono al naturalismo di Zolà ma anche a d’Annunzio, a Mistral e allo stesso Verga di Storia di una capinera e di La lupa, bestia evocativa di lussuria, di pulsioni rimosse.

Egli mostrò sulla collottola della bestia il segno dell’amore, il morso profondo di una femmina. L’amore dei lupi è serio. Banduccia sapeva riconoscere da lontano gli urli dei lupi: l’urlo del pericolo, che il lupo lancia quando è attaccato con le armi; l’urlo della carnaccia, che vuol dire che ha trovato qualche bestia da sbranare e chiama i compagni, perché alle bestie non piace mangiare da sole; l’urlo dell’amore, che vuol dire che avrebbe bisogno di una femmina e non si vergogna di farlo sapere.

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Riferimenti bibliografici:

Ignazio Silone, Introduzione a Vino e pane, Oscar Mondadori, 1970

Romano Luperini, Il Novecento, 1981

Salinari Ricci, Storia della Letteratura italiana, 1978

Rita Verdirame La Rosa di Gèrico, La Sicilia fantastica da Linares a Brancati, Dimensione Cosmica anno 7, luglio/agosto 1991

 

Bread and Wine by Ignazio Silone - Secondo Tranquilli (1900- 1978) - published in the definitive Mondadori edition in 1955, is part of the southernist narrative of the 1930s, very different from the realist narrative of the late 1800s that is Verga, Capuana and de Roberto.

Alvaro, Brancati and, in part, Silone, accompany their cry of social protest with a movement of nostalgia for a world that is disappearing. The city, in this case Rome, represents reality, the truth, while the Abruzzo countryside of cafoni still has late romantic, lyrical connotations, is populated with nineteenth-century figures and crossed by a mystical sense of nature.

Where, between the nineteenth and twentieth centuries, the real loses its meaning, becomes symbol and decadence, the work of the southernists oscillates between naturalism and symbolism. We can say that Verga passes through d'Annunzio, that the Malavoglia are intruding on the lyricism of the Pescara novels.

 

The priest was late returning to the inn. He sat on the grassy side of the road, overwhelmed by many thoughts. Lost voices could be heard in the distance, the calls of shepherds, the barking of dogs, the low bleating of flocks. A slight smell of thyme and wild rosemary rose from the damp earth. It was the time when the peasants returned the donkeys to the stables and went to sleep. From the windows, the mothers called their latecomers. It was an hour conducive to humility. Man re-entered in the animal, the animal in the plant, the plant in the earth. The stream at the bottom of the valley was full of stars. Of Pietrasecca submerged in the shade, we could only distinguish the cow's cervix with the two large arched horns on the top of the inn.

 

It is our belief that passages like these cannot be explained or taught, the reader must feel them alone, within himself.

Bread and Wine describes the anguish of the leftist intellectual who sees all the ideals collapse, reduced to party schemes and rules, as evil as the government power that exploits and oppresses the population, the peasants, now renamed "rural". The difference between the protagonist Pietro Spina and the other literary figures of rebels, imagined by contemporary authors of Silone, is inaction. Spina is forced by sickness into inactivity, his revolt is entirely internal, lies in the passage from one name to another, from Peter to Paul, don Paolo, (not surprisingly both names of apostles) and then back again to Peter without notice. Peter is the revolutionary, Paul the fake priest, desperate, but authentic, in search of God. His rebellion is internal, moral, intellectual, which is why "Wine and bread" is configured as an uncertain text between action and ideas novel.

 

The figure of Luigi Murica, the young communist infiltrated among the fascists killed by the militia, has strongly Christological connotations. An entire chapter, the penultimate one, is dedicated to his martyrdom which recalls the crucifixion, where wine and bread are those of communion and represent, as is explicitly said, unity, fraternity, solidarity between men.

Cristina Colamartini, the aspiring novice with whom Pietro falls in love, depicts the innocence, the lamb torn to pieces by the wolf, and his death has decadent and sensational features.

Matalena, Cassola, Sciatàp, Magascià and all the other protagonists, are realistic but also symbolic figures, they draw on the naturalism of Zolà but also on d'Annunzio, Mistral and  Verga of Storia di una capinera and La lupa, an evocative beast of lust, of impulses removed.

 

He showed on the scruff of the beast the sign of love, the deep bite of a female. The love of wolves is serious. Banduccia was able to recognize from afar the screams of wolves: the scream of danger, which the wolf casts when attacked with weapons; the scream of flesh, which means that he has found some beast to tear and calls his companions, because the beasts don't like to eat alone; the scream of love, which means that he would need a female and is not ashamed to let her know.

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Giuseppe Benassi, "Omicidio a Calafuria e altri putiferi"

6 Febbraio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Giuseppe Benassi, "Omicidio a Calafuria e altri putiferi"

Omicidio a Calafuria e altri putiferi

Di Giuseppe Benassi

Bastogi 2011

pp. 210

15.00

Rischia volutamente l’insofferenza del lettore, Giuseppe Benassi, in questo “Omicidio a Calafuria e altri putiferi”, giallo destrutturato, senza inchieste e senza deduzioni logiche, ambientato in una Livorno dove di vero ci sono solo strade e monumenti, popolato da un sottobosco di personaggi erotomani che praticano orge e scambi di coppia.

Sull’omicidio di Filippo Bondelli - rampollo di famiglia nobiliare con villa ad Antignano, trovato morto, nudo e unto d’olio, sugli scogli sotto la torre di Calafuria - indaga l’avvocato Borrani, personaggio sgradevole, cinico, irriverente, dalla sessualità volgare e dionisiaca. Borrani getta in padella pesci vivi per il gusto di osservarli mentre guizzano e si contorcono, prova soddisfazione alla vista di un gatto spiaccicato sull’asfalto, è profondamente misogino, non ama il suo mestiere né i colleghi avvocati, non ama l’umanità e il suo prossimo, fa e dice cose che c’infastidiscono perché sappiano vere.

“Si vede che siamo proprio dei fuscelli al vento basta un niente e diventiamo diversi io per esempio non ho ancora capito se sono un uomo serio o un buffone se sono intelligente o un coglione” (pag 71)

Attorno all’omicidio si muove una folla di caratteri che sembrano usciti dalla Torino di A che punto è la notte di Fruttero e Lucentini o dalla penna di un Dickens iperrealista. Personaggi di cui seguiamo il flusso di coscienza in lunghi capitoli che non sviluppano la trama ma la attorcigliano su se stessa senza sbocco, in modo involuto. La maga Gilda aleggia su tutta la storia senza mai concretizzare il suo peso nell’intreccio, attempato travestito che legge i tarocchi alle madame con le quali un tempo copulava. Silvana Oldini, la fidanzata casta del morto, sembra appartenere a una poesia del suo amato Gozzano, sorta di signorina Felicita d’altri tempi, incarnazione del femminino puro cui tutti i libertini in fondo tendono, donna irraggiungibile, angelicata, stilnovista. Solo a lei, alle sue lettere appassionate, sono affidati gli unici momenti lirici di tutta la storia. Mafalda, la madre del giovane praticante dell’avvocato, vive persa nelle sue credenze esoteriche che vanno dagli angeli alla New Age. Artemisio Cocci, scultore blasfemo e dissacrante sta per partecipare alla biennale di Venezia. Marcello, il praticante senza stipendio, è alla disperata ricerca di una ragazza. C’è, più in generale, una folla fatta di avvocati, pretori, giudici, giornalisti, una moltitudine ghignante, onirica, oscena come in un quadro surreale.

E per cercare chi ha ucciso Bondelli, si riflette sulla reliquia del santo prepuzio, sulla possibile clonazione di Gesù, sull’energia vitale della Kundalini, sull’astrologia, sulla musica e sulla pittura.

I capitoli hanno stili diversi, come se Benassi stesse ancora cercando il suo e ne sperimentasse più di uno, anche per mostrarci la sua versatilità. Dal lirismo delle lettere di Silvana, si passa alla mimesi ironica del linguaggio della critica e del giornalismo. Grande spazio è dato a fitti ed estenuanti dialoghi, ricchi di giochi di parole, di aforismi quasi wildiani, “sposarsi vuol dire prendere una persona e farla diventare la peggiore delle nostre abitudini”, di botta e risposta da teatro dell’assurdo, di volgarità scatologiche e ironiche citazioni colte, fra narrazione in terza persona e flusso di coscienza, fra presente storico e passato, in un tentativo di riscatto da una perenne, frustrante, alienazione dal resto del mondo. Borrani è descritto per sentito dire, “c’è chi dice che”, ma anche, e soprattutto, tramite il suo incessante monologo interiore.

E stare ore a pescare non vuol dire per l’avvocato cercare di prendere pesci, vuol dire stare ore a vedere nel galleggiante una parte di sé che vaga fra l’aria, l’acqua del fiume, l’acqua del mare. Vuol dire inebetirsi nel sole del pomeriggio, dimenticarsi di sé e del mondo e raggiungere uno stato animale, una consistenza di vegetale, una natura minerale" (pag 22)

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La "Signora dei filtri"

5 Febbraio 2013 , Scritto da Fabio Marcaccini Con tag #fabio marcaccini, #poli patrizia

Patrizia Poli nasce a Livorno nel 1961 e qui risiede. Laureata in lingua e letteratura inglese con una tesi su Il Signore degli anelli di Tolkien, ha vinto il premio Guerrazzi con il suo racconto "Quand'ero scemo", a sua volta pubblicato anche sulla rivista "La Ballata". Attualmente responsabile della sessione "Arte e Cultura" per la nostra rivista LivornoMagazine.it e del relativo social forum su facebook, collabora a "CriticaLetteraria" e gestisce, insieme a Ida Verrei, la pagina "Laboratorio di Narrativa" su Facebook.

Ha scritto "Il Respiro del Fiume", "Signora dei Filtri", "Bianca come la Neve", ed è autrice di una lunga serie di racconti. Insieme ad un gruppo di autori livornesi ha anche pubblicato "La Livorno che c'è", una raccolta di storie brevi e poesie.

Leggere Patrizia ha senz'altro qualcosa di magico. Le sue narrazioni ti afferrano con delicata prepotenza e ti proiettano da subito in un tourbillon di emozioni, le stesse che molto probabilmente la scrittrice vive quando dà vita a personaggi, ambientazioni e situazioni. Mai banale, mai distaccata dai suoi racconti, è un perfetto cocktail di maestria e creatività. E di creatività dimostra di averne davvero tanta, visto gli innumerevoli racconti prodotti dalla sua mente, con storie sempre nuove e dai contenuti mai abusati. Nel racconto, il protagonista dimostra di avere sempre un cuore ed un anima: un contraddittorio di emozioni buone e cattive, come poi si riscontra sempre nella vita di tutti i giorni. Sentimento, amore, odio, pietà si mescolano tra loro. Così è per il bambino down (Quand'ero scemo), lo stesso vale per il boia che deve sopprimere la vita di un efferato criminale (Dead Man Walking), ma lo è perfino quando il protagonista della storia è una macchina di ferro computerizzata ed inviata dalla Terra ad esplorare il pianeta Marte (Solo il rumore del vento).

Ciò che resta difficile da spiegare è perché in una letteratura che dà spazio e fama anche ad orrende creazioni, non sia ancora stato riconosciuto il valore che si deve ad una scrittrice vera come la nostra Patrizia. O forse, molto più semplicemente, le cose stanno come la stessa scrittrice ci insegna nel suo articolo "Caro aspirante scrittore...".

Insomma per farvi capire meglio il tutto e darvi la possibilità di apprezzare o meno, vi invitiamo a leggere alcuni dei suoi racconti che segnaliamo a seguito con accanto il nostro personalissimo giudizio.

- Asili ****

- Bugie e fantasie ****

- Di spalle ****

- Dona Sol ****

- Effimera ****

- Gli Angeli di St. Jeremy ****

- Il bastone e la conchiglia ****

- Il campo di mais ****

- Il figlio dell'uomo *****

- Il vento libero ****

- Incompiuta ****

- Io e Evelyn *****

- Io e te ****

- La corda e la pietra ****

- La scelta ****

- La terza notte ****

- L'inchiesta ***

- Marta ci vede ****

- Nessun dolore ****

- Quand'ero scemo *****

- Solo il rumore del vento *****

- Sordocieco *****

- Ultime ore prima dell'alba *****

- Un'estate sola ****

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Piero Paniccia, "Chernobylondon"

5 Febbraio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Piero Paniccia, "Chernobylondon"

Chernobylondon

Piero Paniccia

Edizioni del Faro, 2012

Pp 338

15,00

Non si fa notare per lo stile, che è corretto, lineare, documentaristico - seppure viziato da un uso non sintattico né ritmico bensì personale della punteggiatura - ma piuttosto per il contenuto, Chernobylondon di Piero Paniccia.

La storia ha come protagonista una famiglia italiana che vede intrecciarsi il suo destino con quello di un’altra famiglia bielorussa. Al centro di tutto, al nucleo della vicenda è proprio il caso di dirlo, c’è il disastro di Chernobyl.

“Mia madre, quando venne la prima volta in Italia e conobbe mio padre, era venuta come accompagnatrice dei bambini bielorussi, che avevano sofferto per le radiazioni conseguenti il disastro di Chernobyl. Lo sai cos’è Chernobyl, no? Ora tu pensa: grazie a quel disastro sono nato io. Se tanta gente non avesse sofferto, io non sarei mai nato, ci pensi?” (pag 284)

È a causa di Chernobyl se Alessandro e Natasha s’incontrano in Italia, si amano e mettono al mondo Yuri. Natasha è un’accompagnatrice di bambini contaminati dalle radiazioni, accolti in Italia per una vacanza disintossicante. A Senigallia incontra Alessandro, del quale s’innamora e che sposa, facendo conoscere a lui e a tutta la sua famiglia la città di Minsk, spalancando le porte di un mondo fino ad allora sconosciuto, quello della Bielorussia.

Il racconto è costruito in modo volutamente spiazzante, con flash back, avanzamenti e ritorni al passato, incursioni nei ricordi di entrambe le famiglie. La storia copre un arco temporale che va dal giorno in cui si ebbe per la prima volta sentore del disastro, nell’aprile del 1986, a un futuro 2040 con scenari da fantapolitica. I blocchi di contenuto sono essenzialmente tre: il disastro di Chernobyl e le sue conseguenze sulla salute, la scherma di cui diventeranno campioni Yuri e suo cugino Mirco, la Bielorussia.

L’ombra della radioattività aleggia su tutto il racconto, dal titolo fino alla tragica conclusione. Yuri nasce “a causa di” Chernobyl ma a essere contaminato non è lui bensì suo cugino. Mirco si ammalerà di leucemia e sarà proprio Yuri, nato da Chernobyl, a salvarlo donandogli il suo midollo. E tuttavia, per una vita che si salva, ce ne sarà una da restituire alla fine del romanzo, per la felicità ricevuta, qualcuno comunque dovrà pagare.

Attorno all’atomo si svolge il racconto, dal disastro fino agli studi di fisica nucleare ai quali Yuri si dedicherà da adulto, grazie all’amore per Felicia. L’utilizzo della fusione fredda porterà, nel 2040, alla sostituzione di tutte le centrali con nuovi impianti puliti.

Il secondo blocco è costituito dalla scherma. Questa passione attraversa tutto il romanzo, dai primi contatti dei due cugini con le palestre e gli insegnanti, fino alle medaglie conquistate nelle Olimpiadi di Londra del 2012 che, quando il libro è stato scritto, ricordiamo, ancora non si erano svolte. S’intuisce l’amore del Paniccia per questo sport, e la sua competenza, al punto che il libro è stato presentato nell’ambito dei festeggiamenti per Valentina Vezzali, jesina come l’autore e medaglia d’oro olimpica. Nell’incontro finale, descritto minuto per minuto, punto per punto, luce verde per luce rossa, fra Yuri - che il destino beffardo ha portato a gareggiare sotto la bandiera bielorussa - e suo cugino Mirco, rappresentante l’Italia, si può per contrasto evidenziare la nascente amicizia di due nazioni.

E qui giungiamo al terzo - e secondo noi al migliore - dei tre nuclei di contenuto: la Bielorussia. Nessuno, prima di Paniccia, ci aveva descritto la vita in quella nazione con tanti particolari, con così grande e affettuosa partecipazione. Scopriamo boschi di alti alberi frondosi e cespugli di bacche succose, automobili come la Lada Zighuli, cibi e profumi, ma anche la burocrazia arcigna e pachidermica, aggirabile con un cesto di leccornie ben confezionato, la corruzione, il retaggio di poca democrazia e il vuoto lasciato dell’ex Unione Sovietica. Scopriamo anche pagine nere e sconosciute della storia europea, come l’eccidio di Kathyn, evento controverso, orribile massacro di cui Paniccia attribuisce la totale responsabilità ai nazisti ma che gli storici hanno rivelato essere stata opera dei sovietici.

L’interrogativo esistenziale, che accompagnerà il protagonista Yuri Mancini per l’intero romanzo, è se anche da una sciagura come quella di Chernobyl possa scaturire il bene, se sia lecito sentirsi felici in conseguenza di una disgrazia, se non si debba ricompensare il destino che ci ha regalato gioia traendola dal male.

“Maledetta Chernobyl, disse nostro nonno quando nacqui io, credendo che fossi stato ricoverato in ospedale per colpa delle radiazioni. Lui pensava che mia madre fosse stata contaminata. Così mi hanno raccontato più volte mio padre e mia madre. Nel mio caso, invece, Chernobyl non c’entrava niente. Ma oggi Chernobyl mi sta presentando il conto. Prima mi ha fatto nascere. Perché è inutile nasconderlo: io sono nato grazie a Chernobyl e non lo dimentico. Ora la maledetta Chernobyl si vendica; mi sta portando via una delle cose più care che abbia mai avuto.” (pag 315)

Intorno a tutto, avvolgente e rassicurante, pronta a sostenere e consolare i due cugini, c’è la famiglia, sia quella italiana che quella bielorussa, formata da genitori, nonni e zii, da persone oneste, capaci di strappare un sorriso e asciugare una lacrima con un semplice gesto pieno di amore come la preparazione di una teglia di lasagne, la stessa che l’autore vuole immortalata sul suo sito.

Alla fine questo romanzo con molte anime non sempre amalgamate fra loro si congeda da noi con una nota metanarrativa.

“Forse è giusto così, mica un autore può seguire una storia all’infinito. A un certo punto, quando ha detto quello che si sentiva di dire, la smette. Poi l’autore può lasciare la storia aperta o chiusa, non ha importanza. Questa credo che possa essere una prerogativa. Mica lo obbliga qualcuno. Saranno poi i suoi lettori a giudicare se per quella storia fosse la giusta fine” (pag 325)

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Rai Eri: la televisione da leggere

4 Febbraio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #educazione

Rai Eri: la televisione da leggere

Chi ha una nonna con il grembialetto come armatura e il mestolo brandito a mo’ di spada, si sarà forse accorto che il leggendario Artusi è stato sostituito ormai ai fornelli dai libri de La prova del cuoco, a marchio Eri Rai. Eri è il marchio editoriale con il quale la Rai pubblica libri, riviste e prodotti multimediali connessi con la sua programmazione, sfornando una media di cinquanta testi l’anno e definisce se stessa “La Rai da leggere”.

L’inizio dell’attività editoriale della Rai risale al gennaio del 1925, con la pubblicazione del settimanale “Radio Orario” che riportava i programmi delle stazioni radio italiane ed europee. Nel 1930, “Radio Orario” con l’EIAR divenne il Radiocorriere e nel 1954 il Radiocorriere TV.

Il 15 settembre del 1949 si costituì la società ERI Edizioni Radio Italiana che produsse molte collane. Si spaziava dall’arte alla letteratura, dai libri per ragazzi ai corsi di lingue. Scrissero per la Eri autori del calibro di Emilio Cecchi, Carlo Emilio Gadda, Mario Praz, Folco Quilici, Natalino Sapegno, Giorgio Saviane, Giani Stuparich, Demetrio Volcic. Al Radiocorriere si aggiunsero riviste specializzate fra le quali “L’Approdo letterario” e “L’approdo musicale”.

Dagli anni 90 Eri pubblica i libri delle trasmissioni più importanti e reportage giornalistici a firma Enzo Biagi, Bruno Vespa, Sergio Zavoli, Piero Angela, Antonio Caprarica. Dal 1996 ha ceduto l’attività editoriale alla capogruppo Rai.

In particolare vogliamo riferirci qui a un periodo in cui la Rai ancora assolveva diligentemente il suo compito di funzione pubblica, di alfabetizzazione di massa, di didattica popolare.

Nel 1970 uscì un libro collegato strettamente a una trasmissione molto seguita dagli adulti ma anche da qualche bambino curioso e precoce. Il testo s’intitolava En Français, era una coedizione con Le Monnier, e si legava all’omonimo corso di lingue, basandosi su una serie di film pedagogici prodotti dal Ministero degli Affari Esteri francese per l’insegnamento della lingua nel mondo.

Era un’epoca, quella, in cui il francese ancora contendeva il primato all’inglese come lingua straniera indispensabile, sebbene l’inglese cominciasse ad avere quell’ammiccante bagliore di modernità che tanto ci affascinava, collegato alla swinging London, ai Beatles e alle minigonne di Mary Quant.

Il libro si articolava in due volumi, riportando i dialoghi dei micro film della trasmissione, piccoli sketch ambientati nella Francia tradizionale. C’era un intermezzo in cui veniva illustrato il contenuto lessicale del testo e una parte successiva in cui i vocaboli erano inseriti in un contesto più moderno. Seguivano poi esercizi linguistici e grammaticali.

“Né le trasmissioni, né il libro”, è spiegato nell’introduzione, “hanno lo scopo di insegnare una grammatica. Gli esercizi stessi non sono esercizi grammaticali, ma tendono, attraverso la ripetizione, alla “fixation”delle forme studiate.” (pag. 4)

Pur con molta cautela, possiamo trovare qui il nucleo del moderno insegnamento delle lingue, quello che non si basa più sull’apprendimento di regole grammaticali, bensì sull’immersione con uso contestuale delle formule linguistiche. A nostro avviso, questo metodo, portato poi alle estreme conseguenze, ha creato più danni che benefici, impedendo la destrutturazione delle frasi, l’analisi logica e grammaticale, la distinzione fra soggetto, predicato e complemento, riportando l’apprendimento a un pre-razionale incamerare frasi fatte, valido per chi operi davvero in un contesto di full immersion (o per i bambini molto piccoli dal cervello plastico) ma non nelle poche, sbrigative, ore concesse dal ministero alla didattica delle lingue straniere.

Il corso di francese andava in onda nel primo pomeriggio ed univa adulti e bambini, le mamme lo seguivano rispolverando ricordi di scuola, ai ragazzi piacevano le scenette - fra pecorelle e fiere di paese, fra trattorie campestri e ricette di cucina – guardandole assorbivano parole e modi di dire, affascinati dalle storie ironiche, dalla vita quotidiana, dal ragazzino che nell’intermède girava le caselle del quadro a pannelli mobili.

Non mancavano, alla fine di ogni lezione, pezzi scritti in italiano (per essere ben comprensibili a tutti) sulla Francia contemporanea, volti ad attirare il turismo internazionale, denunciando forse quale fosse, in realtà, il vero scopo della pur lodevole iniziativa. Ma a noi non interessa questo, a noi piace ricordare l’ansia con la quale aspettavamo l’inizio della trasmissione nel dopopranzo, la gioia con la quale prendevamo in mano il librone ad essa collegato – pesante tomo bianco bordato di giallo col profilo della Francia in copertina – la soddisfazione quando riuscivamo a capire tutti i brani che ritrovavamo scritti dopo averli uditi in televisione, arrivando a leggerli, a pronunciarli correttamente, a ricordarli, a farne un patrimonio personale al quale poi avremmo sempre attinto.

Insomma, il corso di francese Eri Rai (Le Monnier) appartiene al quel bagaglio di conoscenze che, una volta acquisite, non ci lasciano più per la vita.

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Liala, un caso editoriale del tempo che fu

3 Febbraio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #personaggi da conoscere

Dopo il 1950 viene a cadere il disprezzo vociano per il romanzo borghese, che aspira ormai a far parte della letteratura. Ma prima, nel periodo fascista e anche oltre, si ha una netta divisione fra letteratura di massa e d’intrattenimento, con romanzieri a grande tiratura (Zuccoli, D’Ambra, Pitigrilli, DaVerona) e romanzi scritti da intellettuali per altri intellettuali (Gadda, Landolfi, Bilenchi, Vittorini, Bersani).

Si ha così la formazione di un doppio mercato della letteratura. Mentre Guido da Verona vende due milioni e mezzo di copie, grazie soprattutto al successo di Mimì Bluette fiore del mio giardino, Palazzeschi, Moravia de Gli indifferenti, e Bontempelli restano sempre sotto le centomila copie. Solo Sorelle Materassi sfiora quota duecentomila.

Nella prima metà del secolo, la narrativa di successo continua a praticare strutture già sperimentate alla fine dell’ottocento, con l’aggiunta di nuovi generi come il romanzo eroico fascista, quello “pornografico” di Pitigrilli, quello umoristico di Achille Campanile e, infine, quello rosa.

È del 1931 il primo romanzo di Liala, pseudonimo di Liana Cambiasi, Negretti Odescalchi. (1897 – 1995)

“Nacqui a Carate Lario”, ci dice, “nella bella villa che i nonni avevano sul lago.” Si sposa giovane col marchese Cambiasi ma il matrimonio non funziona e Liala trova l’amore in un giovane aviatore, Vittorio Centurione Scotto, dal quale ha una bambina. Purtroppo, nel 1926, l’ufficiale muore in un incidente, precipitando nel lago con l’aereo, e Liala sfoga il suo dolore scrivendo il suo primo romanzo: Signorsì, “per non impazzire”, dice. Il romanzo ha per argomento l’aviazione, tema mai trattato da una donna prima di allora e ha un immediato successo di pubblico.

“Al mio pilota devo la celebrità. Fu per essere ancora con lui che scrissi Signorsì, che mi rese subito celebre, perché parlavo di quei voli che lui amava tanto. Ma il nome “Liala” lo ebbi da d’Annunzio. Prima ancora che Signorsì uscisse, il grande Arnoldo Mondadori aveva parlato a d’Annunzio di una giovane donna che aveva scritto un romanzo aviatorio, cosa eccezionale per quei tempi. Il Comandante volle conoscermi: andai al Vittoriale con Mondadori e, firmandomi una sua fotografia, immediatamente d’Annunzio mutò il mio Liana in Liala: perché, disse, un’ala sta bene nel nome di chi parla con tanto amore di ali. Vi mise un’ala e io volai.”

Dopo venti giorni l’editore le telefona sconvolto: la prima edizione è già esaurita.

Dal 1930 al 48 si lega sentimentalmente ad un altro ufficiale, Pietro Sordi, sebbene il marito l’abbia riaccolta e le abbia dato un’altra figlia.

Oltre all’ambiente militare, ai singoli personaggi, come Lalla Acquaviva protagonista dell’omonima trilogia, oltre alle trame, ciò che ci resta dei suoi romanzi è più l’immagine di uno stile, fatto di molteplici sfumature.

Innanzi tutto i personaggi. Che siano ufficiali come Furio di Villafranca, oppure pittori come Milo Drago o scultori, sono sempre aristocratici, alti, belli - mori con gli occhi azzurri o biondi con gli occhi neri - capaci di dominarti con lo sguardo (niente a che vedere col sadico Christian Gray) di corteggiarti con gesti galanti che hanno nel loro stesso dna.

Le donne sono modelle dai capelli color fuoco e gli occhi verdi, oppure timide fanciulle pudiche, con le trecce e lo sguardo basso. Hanno nomi altisonanti e strani – si dice presi da riviste d’ippica: Beba, Coralla, Pervinca, e aspetto più sanguigno e d’Annunziano che preraffaelita.

“Diede un’ultima spazzolata ai capelli vaporosi, leggeri e ondulati, che le sfioravano le spalle, si umettò le labbra. Infilò il soprabito. Sul turchino scuro della stoffa pesante, sfavillarono i meravigliosi capelli fulvi, d’un bel fulvo cupo, che incorniciava divinamente il volto bianco, sul quale le labbra rosse, colme di sangue sano e violento, mettevano una viva nota di ardente colore.” (Da L’Arco nel cielo)

Gli ambienti sono descritti con visiva ed estetizzante minuzia che fa appello a tutti e cinque i sensi. Di architetture, arredamenti, abbigliamento, cibo, è mostrato ogni particolare. Le tavole sono apparecchiate sontuosamente, oppure in modo campestre, il pane è fragrante, il pollo croccante. Si sentono profumi penetranti, rumori, odori, si vedono i colori risaltare l’uno sull’altro come in un quadro.

“Sopra una tovaglia bianca, di bella tela di Fiandra, aveva messo piatti e bicchieri quasi lussuosi, le posate erano di metallo vile, ma lucenti e deterse. Soltanto, in mezzo alla tavola, si ergeva un vasetto d’argento, in cui era immerso un crisantemo viola.” (da Melodia dell’antico amore)

“Un gran silenzio pesò su tutte le cose, dominò nella sala. E in quel silenzio, s’udì il ticchettio di due orologi. Quello piccolo che stava su una tavola dall’opalina color topazio, e quello grande, elettrico, incastrato nel muro dell’anticamera. Due suoni cadenzati e dissimili che davano il senso della fugacità del tempo.” (Da Come i baci sull’acqua)

La sensualità che trasuda dalle scene è prepotente quanto trattenuta.

“Camminavano vicini, vicini, quando il vento sollevava il soprabito di Mabel lo portava a sfiorare le gambe di Arno Dala. E lui, per quella carezza dell’abito della donna amata, godeva.” (Da Come i baci sull’acqua)

L’erotismo si concretizza in “sangue che scorre più veloce nei polsi”, in torbidi sguardi, in un desiderio represso ma tangibile, che faceva temere a quelle stesse madre e nonne - che ci passavano i libri sui quali avevano pianto e sognato di nascosto - che la lettura fosse troppo azzardata per delle signorinette, volendo restare in tema e citare Wanda Bontà.

“Il suo viso portava le tracce della lunga notte d’amore, ma gli occhi erano pieni di gioia. Mai, come quella notte, Beba era stata sua, mai aveva avuto così forte e terribile la sensazione del possesso. La placida sensualità di Beba aveva avuto guizzi e fremiti, le belle carni s’erano insolitamente animate, e mai il viso di Beba era stato così sciupato e devastato dai baci.” (Da Signorsì.)

Lo stile è pulito ma ridondante, pletorico, giocato sui sinonimi: “Voglio sapere che lingue parlate, quali idiomi conoscete.”

Liala è una scrittrice sottovalutata, una narratrice abile, capace di farti vedere, sentire e toccare ciò di cui racconta, capace di creare atmosfere che non si dimenticano. È esponente a tutti gli effetti del decadentismo, colto nei suoi aspetti estetizzanti, barocchi, a tinte forti fatte di sesso, di amore e morte, di grandi passioni ultraterrene (Lalla che torna), di uomini libertini alla ricerca di fanciulle pure, di vergini da sgualcire.

After 1950  contempt the bourgeois novel fell, the same that now aspires to be part of literature. But first, in the fascist period and beyond, there is a clear division between mass literature and entertainment, with large-scale novelists (Zuccoli, D'Ambra, Pitigrilli, DaVerona) and novels written by intellectuals for other intellectuals (Gadda , Landolfi, Bilenchi, Vittorini, Bersani).

Thus there is the formation of a double market for literature. While Guido da Verona sells two and a half million copies, thanks above all to the success of Mimì Bluette flower of my garden, Palazzeschi, Moravia de Gli indifferenti, and Bontempelli always remain below one hundred thousand copies. Only Sorelle Materassi touches two hundred thousand.

In the first half of the century, successful fiction continues to practice structures already tested at the end of the nineteenth century, with the addition of new genres such as the heroic fascist novel, the "pornographic" novel by Pitigrilli, the humorous one by Achille Campanile and, finally , the pink one.

Liala's first novel - pseudonym of Liana Cambiasi, Negretti Odescalchi - is from 1931. (1897 - 1995)

 

"I was born in Carate Lario", she tells us, "in the beautiful villa that the grandparents had on the lake." She marries with the Marquis Cambiasi but the marriage does not work and Liala finds love in a young aviator, Vittorio Centurione Scotto, from whom she has a baby girl. Unfortunately, in 1926, the officer died in an accident, crashing into the lake by plane, and Liala vented her pain by writing her first novel: Signorsì, "not to go crazy," she says. The novel has aviation as its subject, a theme never discussed by a woman before and has immediate public success.

 

I owe celebrity to my pilot. It was to be with him again that I wrote Signorsi, which made me immediately famous, because I was talking about those flights that he loved so much. But I got the name "Liala" from d'Annunzio. Even before Signorsì came out, the great Arnoldo Mondadori had spoken to d'Annunzio about a young woman who had written an aviation novel, something exceptional for those times. The Commander wanted to get to know me: I went to the Vittoriale with Mondadori and, by signing a photograph of me, immediately d 'Annunzio changed my Liana to Liala: because, he said, a wing is well in the name of those who speak with love of wings. He gave me a wing and I flew. "

 

After twenty days the upset publisher calls her: the first edition is already sold out.

From 1930 to 48 she was romantically linked to another officer, Pietro Sordi, although her husband accepted her again and gave her another daughter.

In addition to the military environment, to individual characters, such as Lalla Acquaviva the protagonist of the trilogy with the same name, in addition to the plots, what we have of her novels is more the image of a style, made of multiple shades.

First of all the characters. Whether they are officers like Furio di Villafranca, or painters like Milo Drago, or sculptors, they are always aristocratic, tall, handsome - dark-haired with blue eyes or blond with black eyes - capable of dominating you with their eyes (nothing to do with the sadistic Christian Gray) to woo you with gallant gestures that have in their own DNA.

The women are models with fire-colored hair and green eyes, or shy modest girls with braids and a low gaze. They have high-sounding and strange names - they are said to be taken from horse racing magazines: Beba, Coralla, Periwinkle, and look more sanguine and d’Annunzian than Pre-Raphaelite.

 

"She gave one last brush to the fluffy, light and wavy hair that brushed her shoulders, she moistened her lips. She put on hes overcoat. On the dark blue of the heavy fabric, the wonderful tawny hair shone, of a beautiful dark fawn, which divinely framed the white face, on which the red lips, full of healthy and violent blood, put a lively note of ardent color. " (From The rainbow in the sky)

 

The environments are described with a visual and aestheticizing minutia that appeals to all five senses. Every detail of architecture, furnishings, clothing, food is shown. The tables are set sumptuously, or in a rural way, the bread is fragrant, the chicken crispy. You can feel penetrating perfumes, noises, smells, you can see the colours stand out as in a painting.

 

On a white tablecloth, made of fine Flanders, she had placed almost luxurious dishes and glasses, the cutlery was of base metal, but shiny and clean. Only, in the middle of the table, stood a silver jar, in which a purple chrysanthemum was immersed. " (from Melody of ancient love)

 

A great silence weighed on all things, dominated the room. And in that silence, the ticking of two clocks was heard. The small one that stood on a topaz-colored opal table, and the large, electric one, embedded in the wall of the anteroom. Two rhythmic and dissimilar sounds that gave a sense of the transience of time. " (From Like the kisses on the water)

 

The sensuality exudes from the scenes:

 

They walked close, when the wind lifted Mabel's overcoat it brought her to touch Arno Dala's legs. And he, for that caress of the beloved woman's dress, rejoyed. " (From Like the kisses on the water)

 

Eroticism takes the form of "blood that flows faster in the wrists", in murky glances, in a repressed but tangible desire, which made those same mother and grandmothers  - who passed the books on which they had cried and secretly dreamed – fear that the reading was too risky for “Signorinette”, wanting to stay on topic and quote Wanda Bontà.

 

"Hes face bore traces of the long night of love, but hes eyes were full of joy. Never, like that night, had Beba been his, never had the feeling of possession been so strong and terrible. Beba's placid sensuality had flickered and quivered, the beautiful flesh had unusually animated, and never had Beba's face been so wasted and devastated by kisses. " (From Signorsì)

 

The style is clean but redundant, pletoric, played on synonyms: "I want to know what languages ​​you speak, which idioms you know."

Liala is an underrated writer, a skilled narrator, capable of making you see, hear and touch what she tells, capable of creating atmospheres that are not forgotten. She is an exponent to all effects of decadentism, captured in his aestheticizing, baroque aspects, with strong colours made of sex, love and death, of great otherworldly passions (Lalla who returns), of libertine men looking for pure girls and virgins to crease.

 

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Michael Viewegh, "Fuori Gioco"

2 Febbraio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Michael Viewegh, "Fuori Gioco"

Fuori Gioco

Michael Viewegh

Atmosphere libri, 2012

15,00

Atmosphere Libri, non è un Eap ma penalizza, di fatto, gli italiani. Ha scelto, in particolare con la collana “Biblioteca dell’Acqua”, di far conoscere romanzi stranieri, soprattutto dell’est europeo. Traduce autori accumunati da quanto di universale c’è nell’essere umano: i sentimenti, lo sviluppo, la crescita, il senso del fallimento o della realizzazione. Così è per il ceco Michael Viewegh, da molti considerato il nuovo Kundera.

“Fuori gioco” è un romanzo che si legge volentieri, che scorre da un veloce capitolo all’altro, ma che non ti lascia molto, se non l’impressione di una buona scrittura. Non è poco, direte voi, ma non è neanche tutto, pensiamo noi.

La storia si svolge attorno ad alcuni ex compagni di scuola che continuano a frequentarsi dopo la maturità, grazie anche ad annuali rimpatriate. Eva è quasi lo stereotipo della “più bella della classe”, quella che tutti vogliono, persino i professori. Sembrerebbe più un tipo che un personaggio se non fosse per il fastidio che prova portandosi appresso la sua fisicità; se non fosse che forse è vagamente bisessuale; se non fosse che l’età, alla fine, giunge anche per lei, segnandole collo e seno; se non fosse che nemmeno lei capisce cosa vuole nella vita - poiché fare quello che tutti si aspettano da lei, cioè sposare l’altro bello della classe, Jeff, che l’ha “prenotata” appena vista, seguendo le regole di un gioco infantile mai smentito - non la renderà felice; se non fosse che, alla fine, bacia Tom nel bagno del ristorante. Soprattutto non la porterà a conciliare amore e sesso, trovando la passione fisica solo nell’attempato professor Vartecky. Jeff ottiene la mano della bella che ha “prenotato”, ma il loro matrimonio si rivelerà un fallimento, minato dalla gelosia per la storia con Vartecky. Dopo il divorzio, Jeff si troverà a convivere con Tom, alcolista, a sua volta disperatamente, romanticamente, innamorato di Eva per tutta la vita, e con Skippy, ginecologo buffone, che tutti credono vittima anche lui del fascino della più bella ma, in realtà, segretamente omosessuale, incapace di fare outing e costretto a comportarsi da macho. C’è poi Hurejovà, la Saputella, a nostro avviso il personaggio più riuscito. La Saputella è la classica brutta secchiona della classe. Darebbe tutto quello che ha per avere il fisico di Eva, i suoi capelli, le sue tette svettanti, i suoi movimenti armoniosi. Invece porta le lenti, ha i capelli opachi, il sedere troppo grosso, un padre stanco e infelice.

“Per le ragazze brutte come me l’unica misura di tutte le cose diventa prima o poi la bellezza. Fin dai miei primi tre anni, alla sabbiera del parco, scelgo il punto dal quale godere la visuale migliore. Non gioco mai vicino ai bidoni della spazzatura, non io. Scelgo il gelato in base al colore, perché si abbini almeno un po’ ai vestiti che indosso. Ma vi rendete conto?Una ragazzina con gli occhiali, con addosso degli sformati pantaloni di velluto blu a coste larghe, non ordina il gelato al pistacchio, anche se ne ha voglia, perché ha paura che i colori non si abbinino … Nessuno è di così cattivo gusto, del resto, da abbinare il verde e il blu. Riuscite anche solo lontanamente a immaginare i timori di una fanciulla di dodici anni, del tutto priva di fascino, che non può permettersi nessun’altra imperfezione?” (pag. 23)

Sicura che nessuno farà mai sesso con lei, se non “verso la mezzanotte e dopo molte birre”, Hurejovà si dedica all’onanismo, mentre sogna di Tom, il compagno che ama, pur sapendolo innamorato, come e più di tutti, di Eva, e s’inventa intanto un fidanzato immaginario, Libor, di cui conosce a menadito abitudini e difetti. La Saputella assisterà il padre morente, con un amore senza smancerie, venato di tenerezza e repulsione, e perciò ancora più straziante. La Saputella sposerà Boris, amandolo in modo diverso da Tom, piangendo perché non è l’uomo dei suoi sogni, piangendo perché è solo un timido sorvegliante di metropolitana, un addetto “alla linea gialla”, che, ogni giorno, gracchia i suoi annunci con disperata rassegnazione: la rassegnazione dei vinti, degli onesti, dei buoni.

C’è anche l’Autore, fra i personaggi, che ci racconta brevi tratti della sua vita, per tanti versi simile ai quella delle sue creature, una gioventù da sfigato, amori adolescenziali, delusioni, riscatti, il bisogno di tenersi a galla.

Nessuno degli ormai quarantenni che si ritrovano alle cene di classe è felice, nessuno è davvero ciò che avrebbe voluto essere. La vita non mantiene le promesse, specialmente per chi da essa si aspetta qualcosa, sopravvivono solo i già vinti in partenza, quelli che si barcamenano. Alcuni escono di scena presto, vanno “fuori gioco”, come sostiene la nonna dell’Autore (suggerendogli l’idea per il romanzo) e l’autore stesso quando dice “ormai è cominciata anche per noi”. È la vita che è cominciata, la vita che ti delude, ti toglie, che è fatta anche di morte, come il suicidio della brutta Irena o l’incidente a Karel.

“Amo un vigilante della metro e continuo a sentire l’impellente necessità di giustificarmi. È strano: in via teorica so che la vita è imprevedibile, variegata e multiforme, che si ribella alle semplificazioni e così via, ma ogni volta che m’imbatto sul serio nel benché minimo accenno ad una reale vareità delle forme di vita, vengo di solito presa in contropiede.” (pag.160)

Questo romanzo piace a chi predilige una narrazione difficile che ti costringe a un’attenzione costante, a una ricostruzione della trama. Abilmente, portandoti da un capitolo all’altro con apparente leggerezza, non cambia solo il punto di vista e la prospettiva da cui narra, ma compie anche balzi temporali, facendo avanzare la trama in modo impercettibile ma fondamentale. Piace anche a chi vuole essere messo di fronte alla crudezza dei sentimenti, ai meccanismi della mente senza sconti per le meschinità, le invidie, le brutture, senza eroismi o romanticismi. C’è chi loda questo romanzo per l’apparente leggerezza, per l’ironia, c’è chi lo trova divertente. A noi sembra di una tristezza spietata, senza speranza, arido e amaro come i postumi di una sbronza, la stessa con cui Tom apre e chiude la storia. Ma in certi punti la narrazione fredda, tagliente, trattenuta, si lacera, è come se l’autore si lasciasse prendere la mano, ricordasse di essere uno scrittore a tutti gli effetti. Sono forse i momenti più belli, quelli più lirici, seppur disincantati e noi, seguendo l’autore e i personaggi, diventiamo come le foglie d’autunno: secchi, stridenti e, tuttavia, coriacei, resistenti, attaccati alla vita nonostante e oltre tutto.

“All’interno del complesso ospedaliero gli alberi sono ormai quasi privi di foglie e in mezzo ai rami spogli s’intravedono gli edifici un paio di settimane fa ancora nascosti. Le foglie si sono seccate e indurite, ogni raffica del vento freddo di novembre le fa stridere sull’asfalto; in molti punti ormai restano solo mucchietti di polvere marrone, ma sotto il ciliegio accanto al padiglione in cui è ricoverato papà resistono ancora gli ultimi colori vividi: un giallo caldo e il carminio. Li afferro con gli occhi come se rappresentassero la mia ultima speranza.” (pag 169)

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