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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

poli patrizia

Grumo

2 Aprile 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #poesia

Coagulo di dolore
condensa di passione
che non si scioglie
non si dilava
ma grava
piange negli occhi
annoda la gola
stringe le mani
ferite.
Gesto aspro
ingiusto
mille volte rivissuto
sofferto e inferto.
Oscenamente violenta
di paura mi scaglio
mi scheggio
mi frango.

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Tempo inutile

1 Aprile 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #poesia

Tempo inutile


Bambole
immobili
sguardo fisso
occhi incollati
fila di mummie
in cripte di cartone rosa
conigli neri di Pinocchio.
Ora su tutto
le luci dell’ikea
alogene
livide
ferme come cuori fermi
come anime serrate
e bocche cucite.
Non è più la foto
non sono gli oggetti
ma uguale il muso di topo sperso
la montatura delle lenti
anche in mezzo a tutta questa carta bianca
in mezzo ai rotoli
ai pacchi
sei tu
come allora
senza speranza
e senza più gioventù.
Ogni fiocco, ogni stella, ogni candela
ti dice quanto tempo è passato
inutile.

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Pietro Mascagni

30 Marzo 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #musica, #personaggi da conoscere

Pietro Mascagni (1863 - 1945) era nato in piazza delle Erbe, suo padre aveva un'avviata panetteria sotto casa ed era molto conosciuto a Livorno. Alto, dinoccolato, sempre rasato, con l'aria da ragazzo, gli occhi chiari, il ciuffo ribelle, Pietro aveva un'anima labronica spontanea, immediata, incapace di tacere e poco diplomatica. Oscillava fra l'entusiasmo e l'abbattimento, l'euforia e la malinconia. Per tutta la vita si mostrò esuberante, lottando per non far trapelare la tristezza, il malumore.

Suo padre non fu contento quando decise di dedicarsi completamente alla musica e s'iscrisse al conservatorio di Milano, dove divise una stanza con Giacomo Puccini, contribuendo a creare, forse, l'atmosfera goliardica e l'ambiente che furono d'ispirazione per la "Boheme". In conservatorio si trovò male, seguiva i corsi con irregolarità, ebbe a ridire col direttore Ponchielli, alla fine se ne andò e cominciò a lavorare come direttore d'orchestra in giro per l'Italia finché non gli fu offerto un posto fisso a Cerignola. Nel 1888 s'iscrisse a un concorso, indetto dalla casa editrice Sonzogno, per un'opera in un singolo atto. Chiese la collaborazione dell'amico Giovanni Targioni Tozzetti e di Guido Menasci, che riadattarono un dramma tratto dalla novella "Cavalleria Rusticana" di Verga. L'opera fu terminata il giorno della scadenza del concorso e vinse su 73 partecipanti. Fu un successo immenso, ripetuto in ogni teatro in cui fu presentata e mai più uguagliato da nessuna opera successiva, né "Iris", né "L'amico Fritz", né "Le Maschere" etc. Peccato che Verga accusò Mascagni di plagio, vinse la causa e ottenne un forte risarcimento. "Cavalleria Rusticana" è la prima opera musicale verista a pieno titolo, della "Giovane scuola italiana" - come "I Pagliacci" di Leoncavallo e la "Boheme" pucciniana - laddove le altre opere mascagnane sono, prima vagamente decadenti, secondo il gusto dell'epoca, poi espressioniste, soggettive, tese a riprodurre la realtà con gli occhi dell'anima. La sua musica è definita esasperata perché ricca di acuti e di declamato. Mascagni morì nella camera del suo albergo a Roma, nel 51 il suo corpo fu traslato al cimitero della Misericordia, dove si può ammirare il mausoleo.

Pietro Mascagni (1863 - 1945) was born in Piazza delle Erbe, his father had an established bakery downstairs and was well known in Livorno. Tall, lanky, always shaved, with a boyish air, clear eyes, a cowlick, Pietro had a spontaneous, immediate, unsophisticated and undiplomatic soul. It oscillated between enthusiasm and despondency, euphoria and melancholy. All his life he was exuberant, fightingagainst sadness, and bad mood.

 

His father was not happy when he decided to devote himself entirely to music and enrolled at the Milan conservatory, where he shared a room with Giacomo Puccini, helping to create, perhaps, the goliardic atmosphere and the environment that were the inspiration for the "Boheme". In the conservatory he was not happyl, he followed the courses with irregularities, he quarreled with the conductor Ponchielli, at the end he left and started working as a conductor around Italy until he was offered a permanent place in Cerignola.

In 1888 he enrolled in a competition, organized by the Sonzogno publishing house, for a work in a single act. He asked for the collaboration of his friend Giovanni Targioni Tozzetti and Guido Menasci, who adapted a drama based on the novel "Cavalleria Rusticana" by Verga. The work was completed on the day of the competition deadline and won out of 73 participants. It was an immense success, repeated in every theater in which it was presented and never again equaled by any subsequent work, neither "Iris", nor "Amico Fritz", nor "Le Maschere" etc. Too bad that Verga accused Mascagni of plagiarism, he won the case and got a strong compensation.

"Cavalleria Rusticana" is the first fully-fledged verista musical work of the "Young Italian school" - such as "I Pagliacci" by Leoncavallo and the "Boheme" by Puccini - where the other Mascagni works are, at first vaguely decadent, according to the taste of the era, then expressionist, subjective, aimed at reproducing reality with the eyes of the soul. His music is defined exasperated because it is rich in high notes and declaimed.

Mascagni died in the room of his hotel in Rome, in 51. His body was moved to the Misericordia cemetery, where you can admire the mausoleum.

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Giovanni Fattori

28 Marzo 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #pittura, #personaggi da conoscere

Giovanni Fattori

"Il disegno del Fattori”, dice l’Argan, “non è il disegno accademico, generico ed evasivo; è, com’era nella cultura figurativa toscana del Quattrocento, un disegno che penetra, definisce, incide.”

Giovanni Fattori (1825 – 1908) è nato a Livorno ma si è poi trasferito a Firenze, entrando in contatto con il gruppo dei pittori che si riuniva al caffè Michelangelo, in via Larga (ora via Cavour).
Parte come romantico ma la sua maturità artistica e il suo momento più prolifico si concentrano dopo i quarant’anni quando, insieme a Telemaco Signorini e a Silvestro Lega, diventa uno dei principali artisti macchiaioli. Il fenomeno è precursore dell’impressionismo e si lega al quadro ideologico risorgimentale, del quale il pittore fa parte come fattorino del Partito d’Azione e del cui assedio di Livorno conserverà memoria indelebile.
Secondo la teoria macchiaiola, il pittore deve rendere il vero come lo percepisce il suo occhio, con chiazze colorate di luce e di ombra, senza pregiudizi culturali. Fattori, infatti, si considera “uomo senza lettere”, capace di cogliere il presente, il momento in atto. E, tuttavia, l’identificazione dell’artista col soggetto non si raggiunge mai, si ha sempre una testimonianza, un commento, una valutazione etica. Uno dei suoi temi preferiti è la vita militare, colta nella quotidianità, l’altro grande soggetto è il paesaggio rurale della Maremma, con butteri, erbaiole, acquaiole, buoi e cavalli.
Nella sua vita, Fattori è spesso in difficoltà economiche, torna a Livorno per assistere la moglie malata la quale, poi, muore di tubercolosi. Il pittore, allora, si dà a viaggiare, visitando l’Europa, gli Stati Uniti e il Sudamerica. Dalle nostre parti, soggiorna anche a Fauglia e a Castiglioncello, ospite di amici.
Verso la fine della sua carriera artistica si dedica all’acquaforte, tecnica consistente nell’incisione di una lastra di metallo tramite acido.
Muore a Firenze nel 1908.

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Shelley a Livorno

27 Marzo 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #poesia, #personaggi da conoscere

Il poeta inglese Percy Bysshe Shelley (1792 – 1822), complice l’eredità del nonno e per ovviare alla salute malferma dovuta alla tisi che lo minava, scelse di trascorrere molta parte della sua vita in Italia, luoghi di elezione furono Napoli, Pisa (dove lo raggiunse Byron) e Livorno. A Livorno soggiornò tre volte, nel 1918, nel 19 e nel 22, anno della sua tragica morte in mare. Fu ospite di amici inglesi ma alloggiò anche a Villa Valsovano, dove compose la tragedia “The Cenci”, pubblicata nel 1819 - cui attinse anche il Guerrazzi – e le famose odi “To a Skylark” e “To Freedom”. Da giugno a settembre del 1819 Shelley e Mary Wollstonecraft si stabilirono a villa Valsovano. Mary era molto abbattuta, avendo visto morire due dei suoi tre figli in un anno. Solo nel maggio precedente erano venuti a Livorno con tutti e tre i bambini e due domestiche ma ora la casa era molto più triste. Shelley cercò rifugio nel lavoro e quell’estate, sul tetto della villa, compose “The Cenci”, tragedia dal gusto gotico, basata sulla storia di una famiglia realmente vissuta nel cinquecento. Ne furono stampate nella nostra città 250 copie, poi spedite a Londra. L’estate dopo erano nuovamente a Livorno e Shelley compose la famosa ode “All’allodola” della quale riportiamo alcuni versi centrali particolarmente belli e già, in pieno romanticismo prima maniera, precursori di quello che sarà il nostro decadente Gelsomino Notturno e di alcune liriche wildiane cariche di sensualità estetizzante.

“Like a rose embowered In its own green leaves, By warm winds deflowered, Till the scent it gives Makes faint with too much sweet these heavy-wingéd thieves: Sound of vernal showers On the twinkling grass, Rain-awakened flowers - All that ever was Joyous and clear and fresh - thy music doth surpass.”

Villa Valsovano si trova in via Venuti 23 e una lapide del 1962 ricorda il soggiorno di Shelley: “In questa casa già villa Valsovano dimorò da metà giugno a fine settembre 1819 nel suo più lungo dei soggiorni livornesi Percy Bysshe Shelley tornato a ritemprare le forze e lo spirito nella pace della nostra amena campagna a lui ispiratrice di stupendi carmi. Scrisse allora tra l’altro la tragedia “I Cenci”e nell’estate seguente alloggiando poco lungi la poetica epistola a Mary Gisborne e la celebre ode “a un’allodola.” Fu nel golfo di La Spezia, davanti a Lerici, che, tornando in barca proprio da una gita a Livorno, l’8 luglio 1822, Shelley naufragò in una tempesta. Il suo cadavere fu ritrovato dieci giorni dopo su una spiaggia nei pressi di Viareggio.

The English poet Percy Bysshe Shelley (1792 - 1822), thanks to his grandfather's legacy and as a result of the consumption that undermined him, chose to spend a large part of his life in Italy, the places of election were Naples, Pisa ( where Byron joined him) and Livorno.

He stayed in Livorno three times, in 1918, 19 and 22, the year of his tragic death at sea.

He was a guest of English friends but also stayed in Villa Valsovano, where he composed the tragedy The Cenci, published in 1819 – on which also Guerrazzi drew - and the famous odes "To a Skylark" and "To Freedom".

From June to September 1819 Shelley and Mary Wollstonecraft settled in villa Valsovano. Mary was very downcast, having seen two of her three children die in a year. Only in the previous May they had come to Livorno with all three children and two servants, but now the house was much sadder. Shelley sought refuge in work and that summer, on the roof of the villa, he composed "The Cenci", a tragedy with a Gothic taste, based on the story of a family that really lived in the sixteenth century. 250 copies were printed in that city, then sent to London.

The following summer they were back in Livorno and Shelley composed the famous ode "Allodola" of which we report some particularly beautiful central lines and already, in full romanticism first way, precursors of what will be our decadent Gelsomino notturno and some lyrics in the spirit of Wilde,  full of aestheticising sensuality.

 

"Like a rose embowered

In its own green leaves,

By warm winds deflowered,

Till the scent it gives

Makes faint with too much sweet these heavy-wingéd thieves:

Sound of vernal showers

On the twinkling grass,

Rain-awakened flowers -

All that ever was

Joyous and clear and fresh - thy music doth surpass. "

 

Villa Valsovano is located in via Venuti 23 and a plaque from 1962 recalls Shelley's stay:

In this Villa Valsovano lived from mid-June to the end of September 1819 in his longest stay in Livorno Percy Bysshe Shelley returned to restore his strength and spirit in the peace of our pleasant countryside inspiring him with wonderful poems. Among other things, he wrote the tragedy "I Cenci" and in the following summer, staying a short distance,  the poetic epistle to Mary Gisborne and the famous ode "to a lark."

It was in the Gulf of La Spezia, in front of Lerici, that, returning by boat from a trip to Livorno, on July 8, 1822, Shelley was wrecked in a storm. His body was found ten days later on a beach near Viareggio.

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Riccardo Marchi

26 Marzo 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #personaggi da conoscere

Riccardo Marchi (1897 – 1992) è davvero un personaggio dimenticato nel panorama letterario italiano, cercando in rete si trova pochissimo su di lui, addirittura, digitando il suo nome sui principali motori di ricerca, ci siamo imbattuti, fra i primi risultati, nella nostra stessa citazione sulla pagina Facebook di Livorno Magazine. Eppure, Riccardo Marchi è stato paragonato dalla critica a Tozzi, a Verga e a Capuana, per il realismo della descrizione e per il suo essere studioso del folclore e delle tradizioni livornesi. Telegrafista nella prima guerra mondiale, gestì con successo la fabbrica di sapone del padre, portando avanti, contemporaneamente, l’attività di giornalista, di scrittore e di attivista politico. Nel 1921 partecipò al convegno socialista che vide la nascita del partito comunista. Oltre ai versi e a numerosi romanzi, molti dei quali di stampo rievocativo e genericamente autobiografico, ottenne anche un discreto successo via etere come autore di radiodrammi e radio fiabe. Divenne membro, insieme a Corrado Alvaro, di una autorevole commissione dell’E.I.A.R. Nel secondo dopoguerra si dedicò alla cronaca e critica cinematografica per “IL Telegrafo” e “Il Tirreno”. Sul finire degli anni sessanta si ritirò a vita privata a Livorno, dedicandosi esclusivamente alla scrittura. Morì nel 1992. I suoi romanzi più conosciuti sono: “Circo Equestre”, “Lo sperduto di Lugh” ma, soprattutto, “Via Eugenia, 1900”, dove rievoca la vita della sua famiglia, la fabbrica del sapone, la figura di Zio Tide, galantuomo d’altri tempi.

Un galantuomo! Vallo a cercare al giorno d’oggi. Zio Tide lo fu? Sicuramente lo fu. Il discorso mi riporta necessariamente alla memoria di lui, di zio Tide, abbreviativo di Aristide, fratello di mia madre, esempio di galantomismo non gratuito o di poco costo, pagato anzi a caro prezzo. Com’era nel fisico? Aitante con un volto bruno come scavato sulla scorza di un vecchio albero. Di apparenza burbero; in realtà bonario, rivelato nell’intimo da un non frequente sorriso che, schiarendolo, gli animava assieme allo sguardo, i cespugli arruffati degli scopettoni e i baffi da quarantottino. “ (pag.7)

Marchi aveva “il tratto dell’incisore”, come si afferma nella prefazione a cura dell’editrice Nuova Fortezza, e sapeva rendere le strade di Livorno con animata vivacità:

E la strada della fanciullezza com’era? Pressappoco come oggi, più decorosa, più Eugenia, da un Eugenio magistrato civico. Allora, nonostante la saponeria e la fonderia limitrofa al termine di quel tratto di strada, nonostante qualche stallatico e due o tre botteghe di artigiani ed una modesta canova, nei sedici edifici che la compongono, fra i quali due palazzine padronali, via Eugenia ospitava con signorile dignità impiegati, artigiani e Liberi Imprenditori come noi. Ora è trasandata, decaduta, coi muri scrostati e fioriti di erbacce, butterati dalle guerre; ma ai tempi di zio Tide, come garriva! Di panni al sole, di voci attestanti una vitalità calda; perfino di ricchezza. La ravvivava dall’alba al tramonto, il cantare degli ambulanti: le erbaiole, l’arsellaio, il pesciaiolo, il pollaiolo, l’ombrellaio, l’arrotino, il ramaio di Prato, un cenciaio e così via dicendo. Polifonia alla quale, per solleticare il buon cuore, si univano le tiritere degli organetti. A questi Tide faceva l’elemosina di un soldo purché se ne andassero altrove a infastidire con “La vergine degli angeli” o “La donna è mobile”. Tornassero, magari, col repertorio nuovo e lo strumento accordato.” (pag. 19)

“Via Eugenia 1900” è una finestra sul nostro passato, sulla Livorno appena uscita dal Risorgimento. Ci viene in mente l’angolo nascosto del cimitero dei Lupi con le tombe garibaldine crepate, inselvatichite, ed è spontaneo associarle – e confrontarle – con certe descrizioni del Marchi:

Ah, tempi gagliardi, bellissimi e feroci! Li ricordo ancora per i cortei, riti del popolo che se ne nutriva, come il pane. I funerali dei garibaldini cui partecipavo tenuto per mano dallo zio. Grande sfoggio di bandiere e camicie rosse; folla di severi uomini in nero, come lo zio: tutti quanti con una rappa di acacia all’occhiello.” (pag 41)

Riccardo Marchi (1897 - 1992) is truly a forgotten character in the Italian literary scene, in internet you find very little about him. Yet Riccardo Marchi has been compared by critics to Tozzi, Verga and Capuana, for the realism of the description and for his being a student of the folklore and traditions of Livorno.

Telegraphist in the First World War, he successfully managed his father's soap factory, simultaneously pursuing the activity of journalist, writer and political activist. In 1921 he participated in the socialist conference which saw the birth of the communist party.

In addition to the verses and numerous novels, many of which are reminiscent and generally autobiographical, he also achieved a good success over the air as an author of radio plays and radio fairy tales. Together with Corrado Alvaro, he became a member of an authoritative commission of E.I.A.R. After the Second World War he devoted himself to news and film criticism for "IL Telegrafo" and "Il Tirreno".

At the end of the sixties he retired to private life in Livorno, dedicating himself exclusively to writing. He died in 1992.

His best known novels are: "Equestrian Circus", "Lo sperduto di Lugh" but, above all, "Via Eugenia, 1900", where he recalls the life of his family, the soap factory, the figure of Uncle Tide, gentleman of other times.

 

A gentleman! Go look for him  nowadays. Was it Uncle Tide? He0 certainly was.

The speech necessarily brings me back to the memory of him, of Uncle Tide, short for Aristide, my mother's brother, an gentleman that is not free or cheap, even paid dearly.

What was he like in the physical? Handsome, with a brown face as if carved on the bark of an old tree. Seemingly grumpy; in reality good-natured, revealed by an infrequent smile that, lightening him, animated him along with his eyes, also the ruffled bushes of the whiskers and the mustache in the style of the 48. "

 

Marchi had "the stroke of the engraver", as stated in the preface by the publisher Nuova Fortezza, and he knew how to render the streets of Livorno with animated liveliness:

 

"And what was the path of childhood like?

Just like today, more dignified, more Eugenia, by a civic magistrate Eugene. Then, despite the soap factory and the foundry at the end of that stretch of road, despite some manure and two or three artisan shops and a modest canova, in the sixteen buildings that compose it, including two main buildings, via Eugenia housed with noble dignity employees, craftsmen and free entrepreneurs like us.

Now it is unkempt, decayed, with the walls peeling and full of weeds, pockmarked by wars; but in the time of Uncle Tide, how it fluttered! Of clothes in the sun, of voices attesting to a warm vitality; even of wealth.

The singing of the street vendors livened it up from dawn to dusk: the herbaria, the clams seller, the fishmonger, the chicken seller, the umbrella maker, the knife grinder, the coppersmith of Prato, a cenciaio and so on. Polyphony to which, to tickle the good heart, the rigmaroles of the accordions joined. To these Tide gave alms ofr a penny as long as they went elsewhere to annoy people with "The virgin of the angels" or "La donna è mobilee". Maybe they would come back with the new repertoire and the tuned instrument. "

Via Eugenia 1900 is a window on our past, on Livorno just out of the Risorgimento. We are reminded of the hidden corner of the Lupi cemetery  with the cracked, wild-faced Garibaldi tombs, and it is spontaneous to associate them - and compare them - with certain Marchi’s descriptions.

"Ah, vigorous times, beautiful and fierce! I still remember them for the parades, rites of the people who fed on them, like bread. The funeral of the Garibaldi soldiers in which I attended held by the hand of my uncle. Great display of flags and red shirts; crowd of severe men in black, like uncle: all of them with a patch of acacia in their buttonhole. "

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Byron a Livorno

25 Marzo 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #poesia, #personaggi da conoscere

Nel 1822 per lo spazio di sei settimane dimorò a Montenero Lord Giorgio Byron, il più celebre fra i poeti della moderna Inghilterra. Egli abitò la villa Dupouy ora De Paoli, e secondo quello che si dice, la camera in cantonata tra il fronte principale e il lato occidentale della villa medesima. In fondo a questa camera è una piccola alcova dove trovavasi il letto occupato dal Byron. (…) Insieme al Byron era venuto a Montenero il conte Ruggero Gamba con suo figlio Pietro e la figlia Teresa maritata al conte Guiccioli, con seguito di domestici delle parti di Romagna, sui quali tutti, perché appartenenti alla società segreta dei Carbonari, teneva una gran vigilanza la polizia toscana, per la quale era ospite poco gradito anche Lord Byron di cui si conoscevano non solo le idee ardentemente liberali, ma altresì la vita disordinata e scorretta e l'indole intollerante di ogni freno e di ogni sottomissione” Pietro Vigo.

George Gordon Byron (1788 – 1824) da Pisa, dove risiedeva sui Lungarni, venne a Montenero nel 1822. Lo storico Pietro Vigo, nella sua guida di Montenero, ne dà ampio resoconto. Al prezzo di cento francesconi il mese, Byron prese in affitto villa Dupouy, dal banchiere Francesco Dupouy, con stalle, rimesse, giardini, cisterne e pozzi d’acqua pulita. A Montenero Byron scrisse parte del suo “Child Harold” e l’iscrizione per la tomba della figlia allegra. Un gruppo di americani ancorati al porto di Livorno lo invitò a bordo e gli tributò onori da grande celebrità. Pietro Vigo riporta una contesa scoppiata il 28 giugno, verso le 17, fra le persone al servizio di Byron e quelle al servizio della contessa Guiccioli. Furono coinvolti anche i Gamba, s’impugnarono coltelli e pistole, Pietro Gamba rimase contuso. Questa rissa diede occasione alla polizia toscana di sfrattare gli invisi conti Gamba, col pretesto di clamori e intemperanze che disturbavano il quieto villaggio di Montenero. A tal proposito, Byron scrisse al governatore la seguente lettera, che Vigo dichiara di aver trovato solo nella traduzione italiana.

“I miei amici conte Gamba e famiglia hanno ricevuto l'ordine di lasciar la Toscana in termine di quattro giorni, come pure il mio corriere, svizzero di nascita. Non farò alcuna osservazione sopra quest'ordine, almeno per ora. Io lascerò in lor compagnia questo territorio, non essendo luogo di dimora adatto per me quel paese che ricusa un rifugio agli sventurati ed un asilo ai miei amici. Ma siccome io ho qui un capitale considerabile in mobilia ed altri articoli che richiedono qualche tempo per disporre l'allontanamento, sono a pregarla di una dilazione di qualche giorno in favore dei miei amici, come pure del mio corriere, il quale mi accompagnerà se ciò vien permesso, ed io suppongo che un giorno o due di più sarà cosa di piccolissima conseguenza. Siccome io accompagnerò i miei amici qualunque volta essi partano, chiedo il permesso di pregarla d'onorarmi d'una sua risposta.” Ma il poeta inglese non ottenne ciò che chiedeva. Come non la ebbe vinta nella disputa dell’acqua. Byron era molto difficile in fatto d’acqua, la digeriva solo se purissima e cristallina, ma la siccità portò all’esaurimento dei pozzi. Byron, allora, si rifiutò di pagare la pigione e fece causa a Dupouy, nel tribunale di Livorno. Perse e dovette pagare le rate arretrate, gli interessi e le spese giudiziarie. Mentre ancora era a Montenero, ricevette una lettera in versi da Goethe, che si fece tradurre da Enrico Mayer, giovane scrittore di padre tedesco. Rispose che sarebbe partito presto alla volta della Grecia, dove si combatteva per l’indipendenza. Partì, infatti, dal porto di Livorno sull’Ercole e raggiunse Missolungi, dove morì nel 24, ma non in battaglia, bensì di meningite. Nel 1900 gli fu intitolata una via di Montenero.

Riferimenti

Pietro Vigo, “Montenero”, 1902 dal sito www.infolio.it

In 1822 for six weeks Lord George Byron lived in Montenero, the most famous of the poets of modern England. He lived in the Dupouy villa now De Paoli, and according to what is said, in the room in the corner between the main front and the western side of the villa itself. At the bottom of this room is a small alcove where the bed occupied by Byron was located. (...) Together with Byron Count Ruggero Gamba had come to Montenero with his son Pietro and his daughter Teresa, married to Count Guiccioli, with a retinue of servants from parts of Romagna. On them, because belonging to the secret society of the Carbonari, the Tuscan police was very vigilant. Lord Byron was also an unwelcome guest, of whom not only the ardently liberal ideas were known, but also the disordered and incorrect life and intolerant nature of every restraint and submission "Pietro Vigo.

 

George Gordon Byron (1788 - 1824) from Pisa, where he resided on the Lungarni, came to Montenero in 1822. The historian Pietro Vigo, in his guide to Montenero, gives ample account of it.

For the price of one hundred Francesconi a month, Byron rented Dupouy villa, from the banker Francesco Dupouy, with stables, wherehouses, gardens, cisterns and wells for clean water.

In Montenero Byron wrote part of his Child Harold and the inscription for the grave of his daughter Allegra.

A group of Americans anchored at the port of Livorno invited him on board and honoured him.

Pietro Vigo reports a dispute that broke out on June 28, around 5 pm, between the people in the service of Byron and those in the service of the Countess Guiccioli. The Gamba were also involved, knives and pistols were grasped, Pietro Gamba was bruised. This brawl gave the Tuscan police an opportunity to evict the hidden Gamba counts, on the pretext of clamour and intemperance that disturbed the quiet village of Montenero. In this regard, Byron wrote the following letter to the governor, which Vigo claims to have found only in the Italian translation.

 

My friends Count Gamba and family received orders to leave Tuscany in four days, as well as my courier, Swiss born. I won't make any observations on this order, at least for now. I will leave this territory in their company, not being a suitable dwelling place for me that country which refuses refuge to the unfortunate and asylum to my friends. But since I have here a considerable capital in furniture and other items that require some time to arrange the removal, I am praying you for a delay of a few days in favor of my friends, as well as of my courier, who will accompany me if this it is allowed, and I suppose that a day or two more will be of very little consequence.

Since I will accompany my friends whenever they leave, I ask for permission to ask you to honour me with an answer. "

But the English poet did not get what he asked for. And he did not have his way in the water dispute.

Byron was very difficult in terms of water, he only digested it if it was very pure and crystalline, but the drought led to the exhaustion of the wells. Byron then refused to pay the rent and sued Dupouy in the Livorno court. He lost and had to pay the overdue instalments, interest and court costs.

While still in Montenero, he received a letter in verse from Goethe, who was translated by Enrico Mayer, a young writer of German father. He replied that he would soon leave for Greece, where he fought for independence. In fact, he left the port of Livorno on the Hercules and reached Missolungi, where he died in 24, not in battle, but with meningitis.

In 1900 a street in Montenero was named after him.

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Francesco Domenico Guerrazzi

24 Marzo 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #personaggi da conoscere

Avere in casa un libro di Francesco Domenico Guerrazzi (1804- 1873) voleva dire essere arrestati. Eppure, i suoi romanzi, animati da tensione patriottica risorgimentale e da spirito pessimistico, conobbero un enorme successo di popolo. Il Guerrazzi venne alla luce nel 1804, nella vecchia Livorno, mentre in città dilagava l’epidemia di febbre gialla, la sua nascita non fu ben accolta dai genitori e questo lo immalinconì per tutta la vita, contribuendo a forgiare il suo carattere triste, solitario, vendicativo, attaccabrighe. Studiò presso i Barnabiti ma non amò la scuola, considerandola tetra, litigò col padre e fuggì da casa. Fu coinvolto in risse con gli ebrei ed espulso dall’università Per tutta la sua esistenza, fece avanti e indietro dal carcere, sempre per motivi politici, subì processi, condanne e il confino. Fervente mazziniano affiliato alla Giovane Italia e ardente repubblicano, ebbe gran parte nei moti del 48, diventando persino dittatore per quindici giorni, durante la rivoluzione toscana. Fu incarcerato nel Forte della Stella insieme a Carlo Bini, con cui aveva fondato l’Indicatore Livornese, poi soppresso dal regime. Teorico della rivoluzione, ma anche piuttosto realista in politica, vide sempre disattese le sue aspirazioni, sviluppando una crescente amarezza e disillusione. Solo l’educazione dei nipoti lo distolse, in parte, dal suo impegno. Oltre che alla politica attiva, si dedicò anche alla scrittura, intesa sempre come veicolo d’idee risorgimentali e civili. Conobbe Byron e la sua poetica, soprattutto quella degli inizi, ne fu influenzata. I suoi testi più famosi sono “L’Assedio di Firenze”, “La Beatrice Cenci” e “La Battaglia di Benevento”, si può dire che con lui nacque il romanzo storico risorgimentale. “Nella sua fantasia esuberante e violenta”, spiega il Cappuccio, “nel suo gusto del truce, del macabro, dell’orrendo, nei modi stessi dell’espressione convulsa ed enfatica, si rispecchiano, più forse che in nessuno degli altri scrittori italiani dell’Ottocento, certi aspetti estremi del romanticismo europeo, da Byron a Victor Hugo”. Ciò non toglie che i suoi romanzi andavano a ruba nonostante il prezzo elevatissimo. Passavano di mano in mano, e piacevano per gli ideali ma anche per il sensazionalismo, a onta di quella che il Sapegno definisce “turgida oratoria tribunizia”. Anche Carducci fu un ammiratore del Guerrazzi, che difese la tradizione linguistica italiana, fu di orientamento classicista e non disdegnò nemmeno tratti umoristici. Il successo si attenuò nella seconda metà dell’ottocento, con l’affermarsi del positivismo. Guerrazzi visse gli ultimi anni alla “Cinquantina”, una fattoria presso Cecina, dove si prese cura dei nipoti fino alla sua morte, avvenuta nel 1873.

Having a book by Francesco Domenico Guerrazzi (1804-1873) at home meant being arrested. Yet his novels, animated by patriotic Risorgimento tension and pessimistic spirit, experienced an enormous success among the people.

Guerrazzi was born in 1804, in old Livorno, while in the city the epidemic of yellow fever was spreading, his birth was not well received by his parents and this helped to forge his sad, lonely, vindictive, brawler character. He studied with the Barnabites but did not love school, considering it bleak, he quarrelled with his father and fled from home. He was involved in fights with Jews and expelled from university

Throughout his existence, he went back and forth from prison, again for political reasons, underwent trials, convictions and confinement. Fervent Mazzinian, affiliated with Giovane Italia, and ardent republican, he had a large part in the uprisings of 48, even becoming dictator for fifteen days, during the Tuscan revolution. He was imprisoned in the Forte della Stella together with Carlo Bini, with whom he founded the Indicatore Livornese, then suppressed by the regime. Theorist of the revolution, but also rather realistic in politics, he always saw his aspirations disregarded, developing a growing bitterness and disillusionment. Only the education of his grandchildren distracted him, in part, from his commitment.

In addition to active politics, he also dedicated himself to writing, always seen as a vehicle for Risorgimento and civil ideas. He met Byron and his poetics, especially that of the beginning, and was influenced by it.

His most famous texts are The Siege of Florence,  Beatrice Cenc" and The Battle of Benevento, it can be said that the historical Risorgimento novel was born with him.

"In his exuberant and violent fantasy", explains Cappuccio, "in his taste for the grim, the macabre, the horrendous, in the same ways as the convulsive and emphatic expression, more perhaps than in any of the other Italian writers of the 'Nineteenth century, are reflected certain extreme aspects of European romanticism, from Byron to Victor Hugo ".

But his novels really sold despite the very high price. They passed from hand to hand. People enjoyed them for their ideals but also for sensationalism, despite what Sapegno calls "turgid tribunal oratory". Carducci was also an admirer of Guerrazzi, who defended the Italian linguistic tradition, was of classicist orientation and did not even disdain humorous traits. Success faded in the second half of the nineteenth century, with the emergence of positivism.

Guerrazzi lived his last years at the "Cinquantina", a farm near Cecina, where he took care of his grandchildren until his death in 1873.

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Il romanzo, corsi e ricorsi

23 Marzo 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi

Il romanzo, corsi e ricorsi

Più volte abbiamo sostenuto la mancanza di una narrativa prettamente italiana, intesa come grande tradizione romanzesca di ampio respiro. Ciò dipende dal ritardo con cui questo genere da noi si è affermato, a causa della lentezza nello sviluppo del ceto medio, cioè “que’cittadini” (come chi vi parla) collocati dalla fortuna fra l’idiota e il letterato” (Foscolo).
Il romanzo ha il suo impulso nel settecento, in Inghilterra prima e in Francia in un secondo tempo. In Italia, come in Germania o in Spagna, il ceto medio non si è ancora sviluppato come classe pensante e altamente produttiva, in un mondo ancora dominato dall’aristocrazia. Il settecento è il secolo di Defoe, Swift, Richardson, Fielding, della Radcliffe, di Voltaire, di Rousseau, di Choderclos de Laclos.
Sorge insieme al giornalismo, il romanzo, in un clima di diffuso e crescente interesse per la lettura, nonostante l’alto costo dei libri e delle candele, nonostante la nefasta tassa sulle finestre e la mancanza di tempo delle classi lavoratrici. Il costo di un romanzo equivale al salario di una settimana, laddove il dramma elisabettiano era stato, invece, alla portata di tutti con l’ingresso al Globe che costava quanto un boccale di birra.
La lettura di romanzi s’incrementa dopo il 1742, con il successo delle biblioteche circolanti. La classe mercantile e borghese comincia a sfogliare storie per divertimento, leggere diviene sempre più un’occupazione femminile. Pamela di Richardson è l’eroina di una generazione di cameriere letterate, domestiche di famiglie facoltose con accesso alle biblioteche dei propri datori di lavoro. Il romanzo avrà lo stesso successo di popolo dello sceneggiato televisivo che Cinzia Th Torrini ne ha oggi tratto, il famoso Elisa di Rivombrosa.
È in questo periodo che cominciano a distinguersi i generi, il romanzo picaresco in primis, poi quello gotico e quello epistolare. Si crea una tendenza alla simulazione del vero, un effetto realtà dato dalla finzione del manoscritto ritrovato in soffitta, dell’epistolario rintracciato casualmente in un baule. L’autore si finge solo curatore del testo. Si afferma l’uso della prima persona narrativa, l’io diventa garante della verità, il privato dà spessore e avallo al pubblico. Ma questo romanzo settecentesco figlio della borghesia mercantile ricopre ancora una funzione edificante, attua uno schema lineare per il quale la felicità del singolo coincide alla fine con quella della società. Tuttavia, sul finire del settecento e con l’affacciarsi sulla scena dei primi sussulti romantici, questo schema s’incrina. Già Laclos e Sade avevano ribaltato valori e finali, mostrando che la virtù non sempre ottiene ricompensa, com’era per Richardson. E se in Inghilterra Jane Austen si tiene in equilibrio fra illuminismo e preromanticismo, fra razionalità e sentimento, in Italia Foscolo, con Le ultime lettere di Jacopo Ortis si rifà al Werther di Goethe e smette d’identificarsi con la comunità ma anzi, opera uno strappo bruciante. L’individuo deluso si stacca dalla società, si parcellizza, si mette in contrasto con ciò che lo ha prodotto e lo circonda, fino all’estrema ribellione del suicidio.
Lo storicismo romantico, la rivalutazione del passato come spiegazione del presente e molla verso il futuro, produce poi il romanzo storico, di cui è capostipite Walter Scott. Il romanzo gotico della Radcliffe, di Horace Walpole e di Monk Lewis aveva già attinto a una ambientazione genericamente medievale, con i temi ricorrenti della vergine insidiata, del persecutore diabolico, delle tetre segrete sotterranee nel cupo maniero. In Scott, tuttavia, è la prima volta che il carattere dei personaggi deriva direttamente dal background storico che lo ha prodotto, superando il sensazionalismo.
Quando nel 1821 Manzoni scrive I Promessi Sposi, compie una scelta di radicale rottura, usando un genere disprezzato dai letterati che, allora come oggi, si gloriavano della mancanza in Italia di una tradizione romanzesca. I promessi Sposi diventano un caso editoriale, le copie vanno a ruba e suscitano nei decenni successivi il proliferare di romanzi storici, in particolare quelli di Tommaso Grossi, Francesco Domenico Guerrazzi e Massimo D’Azeglio.
Il romanzo storico, sia che abbia come scopo il diletto, sia che miri all’edificazione e al progresso, si radica sempre più nel costume della borghesia e si diffonde in modo insperato. La maggior parte degli autori è settentrionale, scrive una prosa classicista, ravvivata da dialoghi tratti dall’esperienza teatrale e con una lingua impastata di toscano moderno. Questo contribuisce alla creazione di una lingua media comune, rappresentativa del livello culturale raggiunto dalla borghesia postrestaurazione.
Il romanzo storico confluisce con naturalezza nel filone positivista e naturalista che s’impone in tutta Europa alla metà dell’ottocento, sulla scia di Comte. Se Balzac e Flaubert si possono considerare precursori del naturalismo, il maggiore rappresentante è Emile Zolà. Molti suoi romanzi raggiungono una tiratura altissima e ottengono sia consensi sia disapprovazione. Meno incisiva l’influenza del positivismo sulla narrativa inglese che pure segue anche il grande filone sociale alla Dickens. Notevolissimo, invece, l’influsso positivista sul grande romanzo russo (Gogol, Turgeniev, Dostoevskij, Tolstoj, Cechov).
Il feuilleton, o romanzo d’appendice, viene pubblicato a puntate sui giornali e ha un grande seguito popolare. I lettori s’identificano con gli eroi, si appassionano alle loro peripezie, gioiscono del loro riscatto finale. I misteri di Parigi di Sue e Il conte di Montecristo di Dumas diventano best seller.
Il romanzo rosa segue sempre gli stessi schemi, dall’ottocento agli Harmony, in sostanza reinventando la favola di Cenerentola, della bella e povera dal cuore semplice che conquista il ricco e tenebroso (declinato in tutte le salse, dall’eroe byronico e demoniaco, fino all’odierno sadico Mr Gray delle Cinquanta Sfumature di Grigio), scavalcando rivali più blasonate. In conclusione si ha il lieto fine, con la conciliazione degli opposti: matrimonio e passione.
Il romanzo d’avventura ha le sue vette in Verne e Salgari, quello poliziesco in Conan Doyle, con l’urbanizzazione, l’aumento della criminalità, lo sviluppo della scienza positivista applicata alle investigazioni, ma anche in Agatha Christie, Van Dine (creatore di Philo Vance), Edgar Wallace, e, più tardi, quello gangster in Dashell Hammett e Raymond Chandler.
Si sviluppa nel frattempo l’industria editoriale, con numerose case editrici che diffondono sul mercato prodotti letterari in edizioni popolari, come accade in Italia per l’editore Sonzogno. Si moltiplicano le riviste nelle quali trovano spazio la critica militante, la polemica letteraria, le recensioni, i romanzi a puntate. Ci si rivolge a un pubblico di nuovi utenti di estrazione piccolo borghese o operaia, il romanzo diventa un genere di consumo con Tarchetti, Verga, Capuana, D’Annunzio, De Amicis. Si abbandonano i soggetti storici in favore di quelli contemporanei. Tutta la produzione della seconda metà dell’ottocento è sotto il segno del realismo, con attenzione per la questione sociale non risolta dall’unità d’Italia. Ci si limita, però, spesso, a un atteggiamento pietistico e genericamente umanitario verso le classi meno abbienti, al sottoproletariato urbano e rurale rappresentato con un linguaggio che vira dal classicheggiante al finto plebeo, laddove la figura dell’operaio non trova ancora spazio. (Cuore di De Amicis o Il ventre di Napoli di Matilde Serao).
Ancora una volta, il romanzo più popolare ha maggiore sviluppo nel resto d’Europa che in Italia. Mentre all’estero si spazia dal romanzo ideologico di Sue e Hugo, a quello storico di Dumas, a quello poliziesco di Ponson du Terrail e di Sir Arthur Conan Doyle, a quello gotico della Radcliffe, a quello scientifico avventuroso di Verne, in Italia rimane incolmabile la distanza fra scrittori e popolo, fra intellettuali e gente comune, e la nostra produzione di romanzi popolari resta confinata a Carolina Invernizio, Ada Negri, Matilde Serao e Mastriani de La cieca di Sorrento, che ha un successo strepitoso.
È sempre anglosassone la migliore produzione narrativa della fine dell’ottocento. Negli Stati Uniti nascono capolavori come La lettera scarlatta di Hawthorne e Moby Dick di Melville. In Inghilterra Kipling, Stevenson e Wells (considerato il padre della fantascienza) sfruttano le possibilità della narrativa fantastica e avventurosa per esprimere problemi e conflitti del loro tempo. James elabora la tecnica del punto di vista circoscritto, ripresa poi da Conrad.
Da noi, influenzato da Huysmans, D’Annunzio crea il personaggio di Andrea Sperelli, primo vero eroe decadente alla stregua del Dorian Gray di Wilde. Pirandello e Svevo si allacciano alla tradizione europea di Proust, Kafka, Musil, Joyce e V.Woolf, aprendo una prospettiva di ricerca. La costruzione coerente del personaggio e la realtà oggettiva dei fatti perdono d’importanza, il personaggio diventa “coscienza” e si muove avanti e indietro nella memoria, nel flusso di pensiero e dell’inconscio, appena scoperto da Freud e da Jung. Il romanzo diventa saggio, narrazione d’idee, perché l’elemento riflessivo prevale su quello narrativo, ciò avviene in particolare in Thomas Mann.
Mentre in Europa ci si allontana sempre più dal naturalismo, negli Stati Uniti si sperimenta un nuovo realismo, un modo di narrare asciutto, sintetico, che lascia parlare i fatti con Faulkner, Hemingway, Steinbeck, Dos Passos, scoperti e tradotti in Italia da Pavese e Vittorini.
Qui da noi il divario fra letteratura alta e bassa si approfondisce, si stabilizza un vero e proprio doppio mercato delle lettere, da una parte i romanzi di consumo (Pitigrilli, Da Verona, Liala) dall’altra gli intellettuali che scrivono per altri intellettuali (Vittorini, Bilenchi, Moravia, Landolfi, Buzzati). Bisogna aspettare gli anni trenta perché il romanzo si affermi definitivamente come forma d’arte. È del 1929 il numero di “Solaria” dedicato a Svevo e nello stesso anno esce “Gli Indifferenti” di Moravia.
S’intrecciano tendenze opposte che vanno sia nel senso di un nuovo realismo – scrittori che recuperano la tradizione regionalista e naturalista arricchendola di una dimensione psicologica, con Silone, Pavese, Vittorini, Pratolini - sia di un realismo di tipo magico con Bontempelli, Landolfi, Alvaro.
In Francia Sartre e Camus scrivono romanzi intellettuali, raccontando l’assurdità e il vuoto dell’esistenza. Tutti i procedimenti volti a destrutturare il romanzo tradizionale, come il monologo interiore o il flusso di coscienza, sono portati alle estreme conseguenze. In particolare con Robbe – Grillet la coscienza diventa attività psichica percettiva in senso fenomenologico. Anche Beckett rappresenta la solitudine, l’incomunicabilità e l’alienazione dell’uomo moderno. La divisione in generi perde molto del suo significato, diventa difficile distinguere fra diario, saggio, riflessione, conversazione.
Intanto da noi il neorealismo postbellico si distingue nettamente dal nuovo realismo degli anni trenta che era prettamente letterario. Il termine, mutuato dal cinema, comporta precise esigenze sociali. I modelli continuano a essere Verga e gli americani, ma i romanzi diventano sempre più socialmente impegnati, realistici, antidecadenti, con un ritorno alla tradizione, appesantita, però, dall’ideologia.
Espressione più alta del neorealismo è Pratolini in Cronache di poveri amanti, ma sono fondamentali anche Rea, Brancati, Tobino, Berto, Fenoglio.
Con la crisi del neorealismo, si sperimentano e si cercano nuove tecniche espressive. In Pasolini il realismo diventa populismo che crea una identificazione mimetica attraverso il linguaggio dell’autore piccolo borghese con un proletariato vagheggiato e mitizzato. In Ragazzi di vita i protagonisti parlano un dialetto ricostruito in modo filologico ma l’autore si fa comunque sentire nelle descrizioni liriche.
Calvino elabora la sua vena fantastica, mentre Sciascia, Cassola, Bassani, la Ginzburg, la Ortese, Pomilio e Piovene sperimentano ognuno con il proprio stile. Il romanzo storico viene rivisitato in chiave moderna da Tomasi di Lampedusa e dalla Morante.
Dalla fine della guerra agli anni sessanta, realismo e soggettivismo continuano ad alternarsi nella narrativa di tutto il mondo, dalla Yourcenair a Brecht, da Böll a Grass. In Russia scoppia il caso de Il dottor Zivago di Pasternak, censurato e costretto dal regime sovietico a non accettare il premio Nobel, mentre Bulgakov sorprende col suo “romanzo nel romanzo” Il maestro e Margherita. Negli Stati Uniti si affermano romanzieri afroamericani ed ebrei, fra questi il più importante è Saul Bellow. Accanto a lui abbiamo Roth, Malamud, Mailer, e la beat generation scatenatasi nella scia di On the Road di Keruac, collegata al jazz, agli allucinogeni, alla spiritualità orientale. C’è un rivalutazione e una presa di coscienza delle minoranze etniche, si afferma anche il minimalismo di Carver, uno stile piatto che esclude volontariamente il coinvolgimento del lettore. La contestazione coinvolge anche gli altri paesi anglofoni, soprattutto le ex colonie. Grande rilievo acquista la letteratura sudamericana con il gioco di specchi dell’argentino Borges e la fantasia del colombiano Marquez nel suo capolavoro assoluto Cent’anni di solitudine.
Intanto, da noi, lentamente il mondo industriale scivola dentro la realtà romanzesca con il tema dell’alienazione, dell’uomo robot, in Ottieri, Parise de Il padrone, Bianciardi de La vita agra, Arpino. La macchina culturale si articola sempre più in grandi apparati come la Rai, il cinema, l’editoria, la scuola. Libri e film diventano merci, gli editori manager che si occupano di marketing, e si punta al profitto. Si consolidano i grandi gruppi editoriali a scapito delle piccole case editrici artigianali. Dalla strategia delle due culture si passa a un’unica cultura che le comprende tutte. Fra il 62 e il 65 c’è un boom delle enciclopedie a fascicoli e delle pubblicazioni in edicola. La collezione Oscar Mondadori divulga opere di ogni genere, alte e basse, la scolarizzazione diventa generale, l’università non è più di elite. L’intellettuale diventa un lavoratore, spesso disoccupato o precario.
A questa cultura di massa si oppone la neoavanguardia del Gruppo 63 che decreta la fine del romanzo borghese, la sua morte con Sanguineti e Balestrini. La contestazione del 68 riporta l’intellettuale nel mondo e il processo di massificazione della cultura riprende (per fortuna, diciamo noi). La Trivialliteratur riacquista pregio e diffusione, l’industria culturale si rivolge a tutti e individua settori che tirano, ad esempio il mondo femminile o quello giovanile, e chi sa rappresentare uno di questi settori può diventarne autore.
Simenon in Francia e Scerbanenco in Italia ridanno impulso al genere poliziesco di qualità, Peverelli e Gasperini portano avanti una tradizione rosa che non sa svincolarsi dalla tradizione, sempre legata a eroine come quelle di Liala, punite con la morte se appena trasgressive, ancora legate all’immagine di donna che ama e non ha appetiti sessuali.
Ma di pari passo continuano ad agire intellettuali puri come d’Arrigo e Eco, sebbene sempre più la sperimentazione neoavanguardistica si spenga nel ritorno alla tradizione. Il clima postsessantottesco favorisce un reflusso nel privato e nel regionalismo (Tomizza, Sgorlon) L’affermarsi del’istituzione del premio letterario fa sì che le scelte del pubblico siano fortemente influenzate.
Dopo gli anni settanta, la fantascienza prosegue il suo cammino e, durante gli ottanta, si sviluppa la fantasy, con il grande capostipite Tolkien ma anche altri autori di spicco (Terry Brooks, Marion Zimmer Bradley, per citarne alcuni, a loro volta discendenti di una tradizione che spazia da Poe a Reider Haggard, fino ai più recenti Sprague de Camp e Lin Carter)
Uno dei maggiori successi editoriali degli ultimi anni, con il quale concludiamo il nostro breve excursus non certo esaustivo, è Il nome della rosa di Eco, a più piani di lettura: giallo, romanzo storico, romanzo filosofico. Questa è la tendenza della narrativa di oggi, quella di svolgersi su più livelli, accontentando varie tipologie di lettori, sia coloro che cercano una letteratura ricca di sfumature, significati e simboli, sia chi desidera solo seguire una bella storia.
Dalla fine degli anni ottanta fino al collettivo Wu Ming del 93 - col manifesto della nuova epica italiana - di acqua sotto i ponti ne è passata, ma è ancora acqua recente e difficilmente analizzabile. In particolare, negli ultimi tempi, Internet ha ulteriormente massificato l’atto dello scrivere, facendo sì che chiunque abbia talento, o anche solo velleità narrative, possa comunicare senza più filtri editoriali, addirittura senza nemmeno essere pubblicato. Ormai persino il testo inedito ha una sua diffusione e il romanzo è diventato transmediale, collettivo, con possibilità di evolversi e cambiare attraverso spin - off e fanfiction dei lettori. Esiste persino un fenomeno di “decostruzione”, in cui i testi messi in rete, addirittura i classici, vengono destrutturati, ripresi, modificati a insaputa dell’autore (chi vi parla ne è stata vittima con un suo racconto.) Non ci è dato sapere se questo è il futuro, e , se sì, è comunque un futuro inquietante.
In conclusione, pensiamo che nessuno ha il monopolio del talento. Come dimostra questa sintesi, ci sono sempre stati nella narrativa corsi e ricorsi, flussi e riflussi. Tutti gli stili, tutte le forme, tutti i generi hanno avuto e hanno pari dignità. La vecchia antitesi fra avanguardia surreale e narrazione tradizionale, fra letteratura alta e bassa, ci sembra che debba essere finalmente superata e che sarebbe l’ora che anche da noi si sviluppasse una grande narrativa, capace di collocarsi nel solco di una tradizione più ampia della nostra così provinciale, una narrativa dove ci fosse posto per tutte le correnti e le forme, dal fantastico al reale, dal sentimento all’intelletto, dal simbolo all’intreccio.

Riferimenti

Salinari Ricci, Storia della letteratura italiana, Laterza, 1992
Romano Luperini, il Novecento Loescher 1981

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Carlo Collodi, "Le Avventure di Pinocchio"

22 Marzo 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Le avventure di Pinocchio Carlo Collodi

Licinio Cappelli editore Bologna, 1964

Il fiorentino Carlo Lorenzini (1826 – 1890), più noto al pubblico di grandi e piccini col nome di Collodi, mutuato dal paese materno, fu patriota delle guerre d’Indipendenza ma anche libraio, recensore, editore. Tradusse le fiabe francesi, fra le quali quelle celeberrime di Perrault. Diviso fra evasione e impegno, fra satira caricaturale della società e fuga nel fiabesco e nella fantasia, redasse numerosi testi ma il più famoso, quello per il quale è rimasto nell’immaginario collettivo, è “Le Avventure di Pinocchio”, scritto nel 1881 e pubblicato nel 1883. Con questo romanzo, uscito a puntate sul “Giornale per i bambini”, è stato capace di creare un personaggio immortale, quasi un archetipo junghiano: il burattino di legno che diventa bambino alla fine della storia come ricompensa per la buona condotta, modello del discolo dal cuore tenero, del bugiardo fantasioso. La diffusione del testo è stata enorme, da quando i diritti dell’opera sono scaduti, non si contano nemmeno più le traduzioni in tutte le lingue del mondo. Molte espressioni del libro sono diventate di uso comune, come “ridere a crepapelle” (dalla scena del serpente che muore per le risate) o “le bugie hanno le gambe corte e il naso lungo”, o “acchiappacitrulli”. In bilico fra romanticismo e verismo, fra romanzo dai toni gotici (vedi l’impiccagione e gli spaventosi conigli becchini) e le miserie popolari dickensiane, è essenzialmente una narrazione picaresca con intento morale. La storia si svolge in un luogo imprecisato, a nord di Firenze, in un paese povero, animato da personaggi quasi verghiani, che conoscono una fame cronica.

“Intanto incominciò a farsi notte, e Pinocchio, ricordandosi che non aveva mangiato nulla, sentì un’uggiolina allo stomaco, che somigliava moltissimo all’appetito. Ma l’appetito nei ragazzi cammina presto; e difatti dopo pochi minuti l’appetito diventò fame, e la fame, dal vedere al non vedere, si convertì in una fame da lupi, una fame da tagliarsi col coltello. Il povero Pinocchio corse subito al focolare, dove c’era una pentola che bolliva e fece l’atto di scoperchiarla, per vedere che cosa ci fosse dentro, ma la pentola era dipinta sul muro. Figuratevi come restò. Il suo naso, che era già lungo, gli diventò più lungo almeno di quattro dita.

La pentola dipinta è simbolo di un mondo di gente che s’ingegna con la fantasia per sopperire alle mancanze e a una vita di stenti, che trova buone anche bucce e torsoli perché li condisce col sale dell’appetito, che insegna ai propri figli a mettere da parte vizi, capricci ed esigenze ma, soprattutto, è un simbolo d’immaginazione creativa, di libertà dal bisogno contingente. A differenza del quasi contemporaneo “Cuore” di Edmondo de Amicis, del 1886, i toni romantici sono stemperati e gli ammonimenti morali fusi nelle figure, nei personaggi, nelle scene, nelle avventure. Il libro si basa tutto sui due poli dell’ordine e del disordine, fra il movimento anarcoide del burattino e uno statico rientro nei ranghi, fra la via maestra della morale e i viottoli secondari della fantasia.

“Se fossi stato un ragazzino perbene, come ce n’è tanti; se avessi avuto voglia di studiare e di lavorare, se fossi rimasto in casa col mio povero babbo, a quest’ora non mi troverei qui, in mezzo ai campi, a fare il cane di guardia alla casa di un contadino.”

L’insegnamento morale, l’educazione, i gendarmi, il giudice, la fata turchina, il “povero babbo”, tutto tende a istillare nel burattino sensi di colpa, a riportarlo sulla retta via, a reintegrarlo nel sistema, a fargli abbandonare l’infanzia per la maturità, per un grigio divenire uomo. Nella prima versione Pinocchio moriva, come conseguenza della sua dissennatezza e il romanzo si concludeva con la sequenza dell’impiccagione. Tuttavia, quelle stesse figure che assolvono il compito di guida e d’indirizzo morale, sono anche fortemente caricaturali e lasciano trapelare l’insofferenza dell’autore per un certo tipo di educazione rigida e soffocante del talento del bambino. E, infatti, l’accoglienza del testo non fu immediata, ne fu sconsigliata la lettura ai ragazzi di buona famiglia, in particolare suscitò scandalo il coinvolgimento dei carabinieri. Ma quanta nostalgia prova il lettore, e anche l’autore stesso, per il burattino vivacissimo, bugiardo - dove per bugia intendiamo anche il libero dispiegamento di una fantasia creatrice e redentrice della misera realtà – il burattino dagli occhi maliziosi, dalle gambe ballerine, che svicola e si caccia neri guai?

- E il vecchio Pinocchio di legno dove si sarà nascosto? - Eccolo là, - rispose Geppetto; e gli accennò un grosso burattino appoggiato a una seggiola, col capo girato su una parte, con le braccia ciondoloni e con le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo, da parere un miracolo se stava ritto. Pinocchio si voltò a guardarlo; e dopo che l'ebbe guardato un poco, disse dentro di sé con grandissima compiacenza: - Com'ero buffo, quand'ero un burattino!... e come ora son contento di essere diventato un ragazzino perbene

Che Pinocchio sia contento non traspare certo dalla malinconia generale di cui è avvolta la scena, che sa di commiato, di funerale, a contrasto con l’allegria delle impertinenti marachelle e delle ribellioni. La bugia più grossa Pinocchio la dice a se stesso, negando la propria natura per conformarsi a un ideale che non sente suo ma al quale si piega per convenienza e per dovere, per spirito di sacrificio e abnegazione. Sacrificio, abnegazione, senso del dovere che hanno costituito per troppo tempo l’unico fondamento dell’educazione e che oggi, al contrario, sono spariti nel nulla. La discesa nel ventre della balena può apparire ai lettori odierni un simbolo ovvio ma non lo era per quei tempi. Ci sarebbero voluti ancora tredici anni, infatti, perché Freud parlasse di psicanalisi e inconscio. Il linguaggio dell’opera è vivo, popolare, ricco di fiorentinismi e di proverbi poi entrati nella lingua comune. Pinocchio di Collodi è stato uno dei libri più imitati. Si sviluppò anche una letteratura parallela – quasi una fanfiction – con protagonista il burattino, che prese il nome di “Pinocchiate”. Nel 36 Tolstoj ne scrisse una versione alternativa che si discosta molto dall’originale. Nel 1940 Disney ne fece una celebre trasposizione a cartoni animati. Da ricordare anche l’adattamento de “Le fiabe sonore “dei fratelli Fabbri, con la voce di Paolo Poli, lo sceneggiato di Comencini del 1972 e, più recentemente, il film di Benigni.

 

The Florentine Carlo Lorenzini (1826 - 1890), better known to the public of young and old with the name of Collodi, borrowed from his mother's country, was a patriot of the wars of Independence but also a bookseller, reviewer, publisher. He translated French fairy tales, including Perrault's most famous ones.

Divided between escapism and commitment, between caricatural satire of society and escape into the fairytale and fantasy, he wrote numerous texts but the most famous, the one for which he remained in the collective imagination, is The Adventures of Pinocchio, written in 1881 and published in 1883. With this novel, published in installments in the "Giornale per bambini", he was able to create an immortal character, almost a Jungian archetype: the wooden puppet who becomes a child at the end of the story as a reward for good conduct , model of the tender hearted urchin, of the imaginative liar. The spread of the text has been enormous, since the rights of the work have expired, the translations in all the languages ​​of the world are innumerable. Many expressions in the book have become commonplace, such as laughing “a crepapelle" (from the scene of the snake dying from laughter) or "the lies have short legs and long noses", or "acchiappacitrulli".

Poised between romance and realism, between gothic-toned novel (see the hanging and the scary gravediggers rabbits) and the popular Dickensian miseries, it is essentially a picaresque narrative with moral intent. The story takes place in an unspecified place, north of Florence, in a poor country, animated by almost Verghian characters, who know a chronic hunger.

 

"Meanwhile, night began to fall, and Pinocchio, remembering that he hadn't eaten anything, felt something in his stomach, which looked very much like appetite.

But the appetite in boys grows; and in fact after a few minutes the appetite became hunger, and the hunger, rapidly , turned into a huge hunger, a hunger to be cut with a knife.

Poor Pinocchio immediately ran to the hearth, where there was a pot that was boiling and made the act of uncovering it, to see what was inside, but the pot was painted on the wall. Imagine how he  felt. His nose, which was already long, became at least four fingers longer. "

 

The painted pot is a symbol of a world of people who are ingenious and posess the imagination to make up for shortcomings and a life of hardship, who also find peels and cores good because it season them with the salt of appetite, who teach their children to put aside vices, whims and needs but, above all, it is a symbol of creative imagination, of freedom from contingent need.

Unlike the almost contemporary "Cuore" by Edmondo de Amicis, from 1886, the romantic tones are tempered and the moral warnings fused in the figures, characters, scenes, adventures. The book is all based on the two poles of order and disorder, between the anarchoid movement of the puppet and a static return to the ranks, between the main road of morality and the secondary paths of fantasy.

 

"If I had been a decent boy, like there are many; if I had wanted to study and work, if I had stayed at home with my poor father, at this hour I would not be here, in the middle of the fields, playing the guard dog of a farmer's house. "

 

The moral teaching, the education, the gendarmes, the judge, the blue fairy, the "poor father", everything tends to instill guilt in the puppet, to bring him back to the right path, to reintegrate him into the system, to make him abandon childhood for maturity, for a gray becoming man. In the first version Pinocchio died, as a consequence of his foolishness and the novel ended with the hanging sequence. However, those same figures who fulfill the role of guide and moral direction are also highly caricatured and reveal the author's intolerance for a certain type of rigid and suffocating education of the child's talent. And, in fact, the reception of the text was not immediate, it was not recommended to read it to the children of a good family, in particular the involvement of the carabinieri provoked scandal.

But how much nostalgia does the reader, and also the author himself, feel for the very lively, lying puppet - where by lie we also mean the free deployment of a creative and redeeming fantasy out of miserable reality - the puppet with mischievous eyes, with ballerinas legs, who wiggles his way out and chases troubles?

 

- And where did the old wooden Pinocchio hide?

"There he is," replied Geppetto; and he pointed to a large puppet leaning against a chair, with his head turned to one side, with his arms dangling and his legs crossed and folded in the middle, it seems a miracle if he was standing.

Pinocchio turned to look at him; and after he looked at him a little, he said to himself with great complacency:

How funny, when I was a puppet! ... and how happy I am now to have become a decent boy -

 

That Pinocchio is happy certainly does not show through the general melancholy of which the scene is enveloped, which hints at farewell, at funeral, in contrast with the cheerfulness of impertinent pranks and rebellions. Pinocchio tells the bigger lie to himself, denying his own nature to conform to an ideal that he doesn't feel his but to which he bends for convenience and duty, for spirit of sacrifice and self-denial. Sacrifice, self-sacrifice, sense of duty that have been the only foundation of education for too long and which today, on the contrary, have disappeared into thin air.

The descent into the whale's belly may appear to today's readers as an obvious symbol but it was not so for those times. It would still have taken thirteen years for Freud to talk about psychoanalysis and the unconscious.

The language of the work is alive, popular, full of Florentinisms and proverbs which then entered the common language.

Pinocchio by Collodi was one of the most imitated books. A parallel literature also developed - almost a fanfiction - starring the puppet, which took the name of "Pinocchiate". In 36 Tolstoy wrote an alternative version that differs greatly from the original. In 1940 Disney made it a famous cartoon transposition. Also noteworthy is the adaptation of "The fairy tales" by the Fabbri brothers, with the voice of Paolo Poli, Comencini's 1972 drama and, more recently, Benigni's film.

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