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poli patrizia

Marco de Franchi, "Il giorno rubato"

16 Luglio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #marco de franchi

Marco de Franchi, "Il giorno rubato"

Il giorno rubato

Marco de Franchi

2013, La Lepre edizioni

pp 334

16,00

La collana Fantastico italiano, diretta da Luigi De Pascalis per la Lepre edizioni, si occupa di fantastico “con radici nella nostra cultura”. “Il giorno rubato” di Marco De Franchi entra a pieno titolo in questa categoria. La trama racconta l’irruzione massiccia del sovrannaturale nella vita quotidiana e lo fa basandosi sul patrimonio di tradizioni della città dalla quale l’autore proviene, cioè Roma.

Il personaggio principale, Valerio Malerba, è uno scrittore che sforna best seller alla Roberto Giacobbo, dove indaga fenomeni paranormali con razionale lucidità e scetticismo scientifico. Ma l’irrazionale, l’imponderabile, l’imprevisto piomba nella sua vita, sconvolgendola, scardinando ogni consapevolezza, ogni conoscenza e credenza pregressa, ribaltando lo scibile e la realtà del mondo così come appare. Tutto ha inizio da un giorno che non c’è, il 13 marzo 2007, un giorno rubato, sottratto, sparito nel nulla, un giorno nel quale non sembra sia accaduto niente, di cui l’intera collettività ha perso la memoria. Questo sarà il punto di partenza che metterà Malerba in contatto con presenze più che inquietanti e che di normale hanno ben poco, fino alla scoperta finale, deflagrante, è proprio il caso di dire.

Nelle sue ricerche, Malerba attraverserà e scoprirà una città sotterranea, misteriosa e sconosciuta ai più, facendo rivivere antichi credi pagani come il culto di Mitra, e quello della Mater Matuta, che non è, come si può pensare, la benefica adorazione della Grande Madre, bensì un rito ancora più remoto, fatto di entità maschili e malvage, venerate da popolazioni stanziatesi sui colli laziali prima dell’avvento di Roma.

Possiamo dire che la Grande Madre è stata la prima espressine umana di quelle terribili e incomprensibili divinità, un loro puerile annacquamento. Un tentativo per dare un nome all’incomprensibile. Il vero grembo da cui siamo nati è quello dei Grandi Antichi: un grembo cattivo, o nella migliore delle ipotesi indifferente. Una madre matrigna cui sacrificare e sacrificarsi, ma invano.” (pag 215)

La stessa madre matrigna di Leopardi, a ben guardare: energie telluriche indifferenti, appena leggermente curiose eppure, alla fine, capaci persino di stupirsi del male che noi uomini siamo in grado di compiere, laddove loro non hanno intenti né morali né immorali nei nostri confronti, così come noi non li avremmo verso un manipolo di formiche.

Se c’è un difetto nel romanzo (ma è anche una caratteristica peculiare) è quello di aver voluto “far tornare tutto”, mettendo forse troppa carne al fuoco, mescolando cose fra loro dissimili, dagli zombie ai Cancellatori - che ci ricordano un poco i Dissennatori della Rowling - al finale fantapolitico, ma il meccanismo è comunque molto ben congegnato e avvincente.

In questo Piano Zero io credo che si muovano alcune “energie”. Non en conosco la natura o l’origine, e non saprei definirle diversamente. Ma esistono, è un fatto, e ormai ne avrai avuto ampia prova. Forse anticamente venivano adorate come divinità e man mano che il mondo s’è avvicinato all’era moderna hanno cambiato nome e forma, rimanendo però le stesse: demoni, fantasmi, antimateria, particelle di Dio, bosone di Biggs, chiamale come vuoi.” (pag 253)

L’autore, come tutti noi del resto - ma ancor più per il mestiere che fa – non capisce il mondo che lo circonda, sempre più teatro di violenze, di follia, di un disegno scellerato. Tragedie familiari, delitti, attentati, si susseguono, si accavallano, si moltiplicano sempre più, trascinando la società civile verso il baratro, verso il centro del maelstrom.

A contrastarli c’è il personaggio di Malerba, frutto di una mente creativa “serena”, incontaminata dal ruolo che svolge, disegnato con un linguaggio pacato, in una medietà che non è banalità ma, anzi, frutto di equilibrio, di eleganza, di pulizia e misura.

La parte più intrigante della storia, ribadiamo, non sono tanto le vicissitudini di Malerba, per altro un poco ripetitive, ma piuttosto la rappresentazione di una Roma notturna, minacciosa. Ci si sposta attraverso templi, piazze, strade semivuote ed echeggianti, dalla sede dell’antico Foro Boario, alla Bocca della Verità, al mitreo sotterraneo, ai vicoli e vicoletti dove si materializzano allucinazioni di piccole librerie polverose che appaiono e scompaiono. Lasciandoci cullare dalle libere associazioni, ci viene in mente la via Margutta del mitico sceneggiato “Il segno del Comando”, (1971) per la regia di Daniele D’Anza.

La storia si fa divorare e questo per noi è, e resterà sempre, un valore. In cosa consiste il piacere della lettura se non nel desiderio di girare pagina, di sapere che accade di là, nel segreto godimento al pensiero di riprendere in mano il libro nel punto in cui lo avevamo lasciato? È ciò che ci spingeva alla lettura da bambini ed è ciò che mai dovremmo perdere, in barba a tutti gli intellettualismi del mondo.

Per concludere, diciamo che tirare in Ballo Dan Brown di “Angeli e Demoni” o Stephen King può apparire scontato e per qualcuno può addirittura non essere un complimento, ma è confortante che non si sia più obbligati a pescare all’estero e, finalmente, si cominci anche da noi a produrre della buona narrativa di genere, scritta con passione evidente e senza sciatteria.

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Giuseppe Benassi, "Spiriti animali"

14 Luglio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Giuseppe Benassi, "Spiriti animali"

Spiriti animali

Giuseppe Benassi

Pendragon, 2013

pp 196

15,00

Aveva ragione lord Byron, siamo posseduti da spiriti animali, bestie invisibili prendono il potere in noi, si insediano nel nostro spirito, e sono benevole o malevole secondo il caso.”

Ormai Giuseppe Benassi ci ha abituato ai casi dell’avvocato Borrani e ai gialli che sono pretesti per disquisire d’altro. Questo “Spiriti animali”, tuttavia, si spinge oltre, diventando quasi “romanzo di conversazione”.

Gli spiriti animali sono quelli evocati dal satanico e ribelle lord Byron, simbolo di trasgressione. In ogni persona, Borrani, ispirato da Byron, vede un rappresentante del regno animale, con vizi e bassi istinti ma anche con tanta energia pronta a deflagrare.

Era sempre la stessa storia: crediamo di conoscere chi abbiamo sott’occhio tutti i giorni, e poi ci si rivelano tratti sepolti, sconosciuti, di cui eravamo del tutto ignari. Il cervello animale che prende il sopravvento su quello umano. Ogni uomo è una foresta in cui si nascondono folle di bestie.” (pag 67)

È quello che Goleman chiama sequestro neurale, spesso scatenato dall’ipofisi, sede dell’istinto, in contrapposizione con la corteccia frontale, dimora della civiltà e dell’inibizione. Di tutti i romanzi di Benassi questo è il meno intellettuale, il meno alchemico ed esoterico, ma quello in cui forse l’autore più si mette a nudo. Quegli stessi impulsi forieri di lussuria e violenza sono, ci fa capire, anche portatori del loro contrario.

Gli spiriti animali irrompono in una vita che è “sull’orlo di una crisi di nervi”. Leopoldo Borrani, l’avvocato livornese, intellettuale, antipatico e sessuomane, sente arrivare i sintomi della depressione, ciò che un tempo si chiamava esaurimento nervoso. Ha un’età e comincia a considerare concretamente l’ipotesi di non rimanere più solo, di sposare la Marianna Messori, l’amante che ora chiama “fidanzata”, come la Livia di Montalbano, fra liti e riappacificazioni. Non vuole arrendersi ai farmaci ma nemmeno al vuoto, all’aridità di una condizione che è deserto e macerie, dove non si riescono a instaurare rapporti veri e profondi, dove i nostri simili ci annoiano, sono bestie deformi, avide e volgari, sono, come le definisce Borrani, “insopportabile umanità”, dove il narcisismo ci fa specchiare in una pozza che rimanda solo la nostra immagine, anch’essa distorta e tediosa.

Fai uno sforzo, Borrani, stai diventando insopportabile, selvatico, ancora un po’ e sarai del tutto uno zitello inacidito; sforzati almeno un po’ di essere socievole, non sono tutti stronzi e stronze, c’è anche del buono nel tuo prossimo; se aiuti qualcuno, il bene che fai ti torna indietro, almeno provaci, accorgiti che esistono anche gli altri, che anche gli altri fanno degli sforzi per sopportarti, che non sei tu il centro del mondo, che hai dei difetti di carattere, e se sei intelligente come credi lo devi pur capire…” (pag 72)

Gli spiriti animali si concretizzano in un cane, Cioppi, lasciato in custodia all’arcigno avvocato da una cliente sudamericana in guerra col marito. Cioppi scatena un’imprevista simpatia nell’animo disseccato di Borrani, fa emergere, per contrasto, l’umanità che c’è in lui, spingendolo a gesti di bontà, alla ricerca del Bene per il suo prossimo. Sentirà quindi - davvero o solo come atteggiamento di maniera, come “lacrimetta in fin di vita” - il bisogno di essere più gentile con i suoi dipendenti, più affettuoso con la fidanzata, di rimediare a tutta l’anaffettività sin lì provata.

Allo stesso tempo, però, il contatto con l’animale lo porta avanti lungo una strada pericolosa che, se proseguita, potrebbe addirittura sfociare nella sodomia, fargli compiere il balzo fino a quel momento solo immaginato come peccaminosa, appunto byronica, possibilità. Tutto si mescola nell’immaginario perverso di Borrani: la lingua amorevole e calda del cane, l’accappatoio intriso dell’odore del giovane praticante Pippi, la vagheggiata terza tetta dell’esotica cliente. Sono particolari morbosi, frutto di una mente eccitata e malata che necessita sempre di continui stimoli, disgustata dalla vita quotidiana, dalle giornate passate sui bagni Pancaldi a sentir ragionare donne finte intellettuali astrofile.

Ancora una volta, la parte migliore e più autentica del libro è la descrizione di Livorno, a momenti lirica

“L’odore di salsedine si mischiava a quello dei fiori appena sbocciati. Il sentore delle alghe appena putrefatte che le onde avevano sospinto sulla spiaggia di sassi metteva voglia di mare. Le finestre delle casine dell’Ardenza eran tutte spalancate, bocche che respiravano come esseri viventi.” (pag 137)

a tratti plebea

dal porto usciva proprio in quel momento, scurreggiando una sonora fumata nera, un traghetto

con le rappresentazioni dei bagni affollati, del mercato, delle donne del popolo con i piedi sudati, le caviglie gonfie e la borsa della spesa.

La materia umana è sempre ripugnante in Benassi, solo la natura ha un afflato incontaminato, è limpida come l’arte, come la ragione pura. Solo così, solo fondendo alto e basso, integrando anima e natura, intelletto e istinto, l’uomo alienato, spaesato, debosciato, disadattato, può sperare, non tanto di superare la sua condizione di depresso, ma almeno di tirare avanti, riunendo in sé il doppio, il Giano bifronte, lo spirito e l’animale.

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Mary Shelley, "Frankenstein"

12 Luglio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #personaggi da conoscere

C’è una storia d’amore che lega un poeta e una scrittrice entrambi inglesi: Percy Bysshe Shelley (1792 – 1822) e Mary Shelley (1797 – 1851)

Mary è figlia della femminista Mary Wollstonecraft, ed è cresciuta secondo i libertari principi dell’ideologia materna, Percy è sposato con Harriet, dalla quale ha dei bambini che gli verranno poi sottratti. Quando s’incontrano, Mary ha diciassette anni, s’innamorano, fuggono insieme e riescono a sposarsi solo dopo l’improvvisa vedovanza di lui. Mettono al mondo molti figli di cui solo pochi sopravvivono ai genitori. Trovano rifugio alle loro peregrinazioni in Italia, dove Percy muore tragicamente in barca a largo di Lerici. Lo bruciano sulla spiaggia di Viareggio, in puro stile romantico, lei torna in patria giurando che curerà le edizioni delle opere del marito e porterà il suo nome fino alla fine dei suoi giorni.

Lui è uno degli esponenti di spicco fra i Lake Poets, insieme a Wordsworth, Keats, Coleridge. Scrive “Ode to a Skylark” e la tragedia “the Cenci”, ma quella che lascia un graffio, una zampata, un’orma nell’argilla dell’immaginario collettivo e nella storia del fantastico è lei, Mary.

La sorellastra di Mary, Claire Clairmont, diventa l’amante di Lord Byron, il quale comincia a bazzicare la casa degli Shelley, villa Diodati sul lago di Ginevra, insieme ad un altro amico, John Polidori. Piove, le serate sono tediose e fredde, la compagnia passa il tempo leggendo novelle tedesche di fantasmi. Viene lanciata l’’idea di una gara a chi scrive la storia gotica più spaventosa ed intrigante. Nascono così “Il Vampiro” di Polidori, ispirato alla figura di Byron e primo esempio di succhia sangue raffinato e malinconico, e “Frankenstein” di Mary Shelley.

Sul principio lei non ha idee, ogni mattina si alza e dice che non le è venuto in mente nessun soggetto da cui trarre una trama interessante, mentre tutti gli altri già scrivono. Sente però gli uomini che discutono di principio della vita, di darwinismo, di galvanismo. Poi, una notte, ha un incubo, vede un essere terrificante, assemblato da uno studente che gli sta inginocchiato accanto. Si sveglia sconvolta, capisce che, se riuscirà a trasfondere sulla carta lo stesso spavento che ha provato nel sogno, creerà qualcosa di potente.

Ed è così, infatti. A soli diciannove anni, nel 1817, Mary dà vita ad una creatura che resterà nel mito collettivo: il mostro senza nome plasmato dallo scienziato Victor Frankenstein. Il romanzo esce in forma epistolare e anonima e solo in un secondo tempo si scoprirà che l’autore non è Percy Bysshe Shelley ma la sua giovane moglie. Sarà un successo, al pari del più tardo “Dracula” di Bram Stoker (1897).

Il personaggio di Victor s’ispira a Percy Bysshe, ha, come lui, amore per la scienza, passione e anima spirituale. L’orgoglio lo spinge ad atteggiarsi a creatore, a voler superare la natura dando origine ad un essere più forte, più sano, più intelligente e longevo del normale. Accadrà l’opposto: dai pezzi di cadavere cuciti insieme e rianimati tramite la corrente elettrica (che allora doveva apparire come qualcosa di fantascientifico e magico insieme) esce una creatura orribile, dall’aspetto spaventoso e dai modi animaleschi, incapace di trattenere gli impulsi omicidi. Ossessionato dalla sete di conoscenza, Victor si è spinto oltre il lecito e la natura si è ribellata, l’uomo non può competere con Dio, non può infrangere le leggi dell’ universo, pena la morte, la distruzione.

A unire ancora una volta Mary e suo marito è il sottotitolo del romanzo, “The Modern Prometheus”. Nel 1820 Percy scriverà, infatti, “Il Prometheus Unbound”. È interessante vedere come entrambi i coniugi si siano ispirati alla stessa figura ma usando aspetti diversi del mito. In Mary, Prometeo non si limita a rubare il fuoco per donarlo all’umanità ma lo usa per plasmare l’argilla e modellare l’uomo stesso. In entrambi i casi Prometeo è un simbolo di ribellione, di rivolta contro la volontà divina con tutte le conseguenze che ne derivano.

L’atmosfera del romanzo risente del romanticismo dei versi di Coleridge, in particolare “The Ballad of the Ancient Mariner”. Nella cornice fantastica del gotico si concretano angosce metafisiche e anticipazioni scientifiche distopiche, come quelle in seguito sviluppate da Wells nei suoi romanzi. (“The Time Machine” è del 1895)

Di là dalle implicazioni etiche, tuttavia, il testo ci colpisce per il profondo romanticismo della figura del mostro, che tutti tendiamo a chiamare Frankenstein, scambiandolo per il suo artefice.

Il mostro ha un’evoluzione: osserva gli esseri umani, impara da loro a parlare, legge Milton e il diario di Victor Frankenstein. Apprende la lingua, i sentimenti, le aspirazioni degli uomini, desidera frequentarli, conoscerli, aiutarli, farsi benvolere. Ma il suo aspetto lo condanna: tutti lo rifiutano, tutti fuggono atterriti davanti a lui, i suoi gesti gentili sono scambiati per aggressioni. Il dolore lo schiaccia, fa esplodere la rabbia ed egli ricomincia a uccidere, diventa completamente ciò che tutti credono sia. Solo e dannato vaga per il mondo, “Everywhere I see bliss, from which I alone am irrevocably excluded.

La figura ha una grande valenza romantica, avvolta com’è nella sua immensa solitudine, ispira orrore e compassione insieme, perché capiamo che la sua cattiveria deriva dal dolore e dai rifiuti subiti. Chiede, infatti, al suo creatore di fargli una sposa, una femmina della sua razza. Victor Frankenstein si mette all’opera, ma poi ci ripensa, non volendo produrre una genia di obbrobri. Quando il mostro lo scopre, il dispiacere lo sopraffa e per vendicarsi gli uccide l’amata moglie Elisabeth.

Proprio leggendo il diario del dottor Frankenstein, l’infelice essere scoprirà quanto il suo creatore sia deluso di lui, quanto lo disprezzi e lo abbia voluto diverso. Come un figlio non amato dal padre, si sente ferito, solo e disperato.

Ci sarà poi lo scontro finale, con la creatura che ucciderà il creatore (come nelle ultime scene di “Excalibur”, il film di John Boorman, dove Re Artù e il figlio Mordred - nato dall’incesto con Morgana - si ammazzano a vicenda.) È l’eterno mito del Doppelgänger, l’alter ego maligno che incarna ed esterna tutto ciò che di oscuro e cattivo si cela nella nostra anima, è Mr Hyde per dr Jekyll, è Gollum per Frodo, è Voldemort per Harry Potter.

Ma quanto dolore, quanto rimpianto nella creatura che distrugge il suo creatore. Ci viene in mente il primo “Star Trek” (di Robert Wise, 1979) dove l'antica sonda Voyager 6, partita centinaia di anni prima dalla Terra, cerca disperatamente di riunirsi all’umanità che l’ha costruita.

Lo stesso desiderio di unità, di riappacificazione con il padre/creatore, e, insieme, di cupio dissolvi, si ha nel romanzo della Shelley.

He is dead who called me into being; and when I shall be no more, the very remembrance of us both will speedily vanish. I shall no longer see the sun or stars, or feel the winds play on my cheecks. Light, feeling, and sense will pass away; and in this condition must I find my happiness.”

Da non dimenticare, il bel film che, nel 1994, Kenneth Branagh ha tratto dal romanzo, se possibile addirittura migliorandone e portandone a compimento la trama. Il mostro miserevole vi è interpretato da Robert de Niro, Elisabeth Lavenza è Helena Bonhan Carter e Victor Frankenstein lo stesso Branagh. Si ricorda, infine, anche la riuscitissima parodia girata da Mel Brooks: “Frankenstein Junior”.

There is a love story between a British poet and writer: Percy Bysshe Shelley (1792 - 1822) and Mary Shelley (1797 - 1851)

Mary is the daughter of the feminist Mary Wollstonecraft, grown according to the libertarian principles of maternal ideology, Percy is married to Harriet, from whom he has children who will then be stolen from him. When they meet, Mary is seventeen, they fall in love, they run away together and manage to get married only after his sudden widowhood. They bring many children into the world of which only a few survive their parents. They find refuge to their wanderings in Italy, where Percy tragically dies on a boat off Lerici. They burn him on the beach of Viareggio, in pure romantic style, she returns home by swearing that she will take care of the editions of her husband's works and will bear her name until the end of her days.

He is one of the leading exponents of the Lake Poets, along with Wordsworth, Keats, Coleridge. He writes "Ode to a Skylark" and the tragedy "the Cenci", but the one that leaves a scratch, a paw, a footprint in the clay of the collective imagination and in the history of the fantastic is her, Mary.

Mary's half-sister, Claire Clairmont, becomes the lover of Lord Byron, who begins to hang out at the Shelley house, Diodati villa on Lake Geneva, together with another friend, John Polidori. It's raining, the evenings are tedious and cold, the company spends time reading German ghost stories. The idea of ​​a competition is launched for those who write the most frightening and intriguing Gothic story. Thus were born Polidori's "The Vampire", inspired by the figure of Byron and the first example of a refined and melancholy blood sucker, and "Frankenstein" by Mary Shelley.

At the beginning she has no ideas, every morning she gets up and says that no subject has come to mind from which to draw an interesting plot, while everyone else is already writing. But she hears men discussing the principle of life, Darwinism, galvanism. Then, one night, she has a nightmare, she sees a terrifying being, assembled by a student who is kneeling beside him. She wakes up shocked, realizes that if she manages to spread the same fright she felt in the dream on paper, she will create something powerful.

And so it is. At only nineteen years old, in 1817, Mary gives life to a creature that will remain in the collective myth: the nameless monster shaped by the scientist Victor Frankenstein. The novel comes out in epistolary and anonymous form and only later it will be discovered that the author is not Percy Bysshe Shelley but his young wife. It will be a success, like Bram Stoker's later "Dracula" (1897).

Victor's character is inspired by Percy Bysshe, he has, like him, love for science, passion and spiritual soul. Pride pushes him to act as a creator, to want to go beyond nature giving rise to a stronger, healthier, more intelligent and long-lived being than normal. The opposite will happen: from the pieces of corpses sewn together and revived by electric current (which then had to appear as something sci-fi and magical together) comes a horrible creature, with a scary look and animalistic ways, unable to hold back the murderous impulses. Obsessed with the thirst for knowledge, Victor goes beyond the law and nature rebels, man cannot compete with God, he cannot break the laws of the universe, under penalty of death, destruction.

To unite once again Mary and her husband is the subtitle of the novel, "The Modern Prometheus". In 1820 Percy wrote, in fact, "The Prometheus Unbound". It is interesting to see how both spouses were inspired by the same figure but using different aspects of the myth. In Mary, Prometheus does not just steal the fire to give it to humanity but uses it to shape the clay and shape the man himself. In both cases Prometheus is a symbol of rebellion, of revolt against the divine will with all the consequences that derive from it.

 

The atmosphere of the novel is influenced by the romanticism of Coleridge's lines, in particular "The Ballad of the Ancient Mariner". In the fantastic frame of the Gothic, metaphysical anxieties and dystopian scientific advances materialize, such as those later developed by Wells in his novels. ("The Time Machine" is from 1895)

Beyond the ethical implications, however, the text strikes us for the profound romanticism of the figure of the monster, which we all tend to call Frankenstein, mistaking it for its author.

The monster has an evolution: he observes humans, learns from them to speak, reads Milton and the diary of Victor Frankenstein. He learns the language, the feelings, the aspirations of men, he wants to be in conctact with them, get to know them, help them, be liked. But his appearance condemns him: everyone refuses him, everyone runs away terrified in front of him, his gentle gestures are mistaken for aggression.

Pain crushes him, detonates anger and he begins to kill again, it completely becomes what everyone believes it is. Alone and damned wanders the world, "Everywhere I see bliss, from which I alone am irrevocably excluded."

The figure has a great romantic value, wrapped as it is in its immense solitude, it inspires horror and compassion together, because we understand that its wickedness derives from the pain and the waste suffered. In fact, he asks his creator to make him a bride, a female of his race. Victor Frankenstein gets to work, but then he thinks about it again, not wanting to produce a genius of shadowy men. When the monster discovers it, sorrow overwhelms him and in revenge kills his beloved wife Elisabeth.

Just by reading Dr. Frankenstein's diary, the unhappy being will discover how disappointed his creator is with him, how much he despises him and wanted him different. Like a son not loved by his father, he feels hurt, lonely and desperate.

Then there will be the final confrontation, with the creature that will kill the creator (as in the last scenes of "Excalibur", the film by John Boorman, where King Arthur and his son Mordred - born from the incest with Morgana - kill each other. ) It is the eternal myth of the Doppelgänger, the evil alter ego that embodies and external all that dark and evil is hidden in our soul, it is Mr Hyde for dr Jekyll, it is Gollum for Frodo, it is Voldemort for Harry Potter.

But how much pain, how much regret in the creature that destroys its creator. We are reminded of the first "Star Trek" (by Robert Wise, 1979) where the ancient Voyager 6 spacecraft, which left hundreds of years earlier from Earth, desperately tries to reunite with the humanity that built it.

The same desire for unity, for reconciliation with the father / creator, and, at the same time, for cupio dissolve, occurs in Shelley's novel.

"He is dead who called me into being; and when I shall be no more, the very remembrance of us both will speedily vanish. I shall no longer see the sun or stars, or feel the winds play on my cheecks. Light, feeling, and sense will pass away; and in this condition must I find my happiness. "

Not to forget, the beautiful film that, in 1994, Kenneth Branagh took from the novel, if possible even improving and completing the plot. The miserable monster is played by Robert de Niro, Elisabeth Lavenza is Helena Bonhan Carter and Victor Frankenstein himself Branagh. Finally, we also remember the very successful parody filmed by Mel Brooks: "Frankenstein Junior".
 

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Gordiano Lupi, "Yoani Sànchez in attesa della primavera"

10 Luglio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #gordiano lupi

Gordiano Lupi, "Yoani Sànchez  in attesa della primavera"

Yoani Sànchez

in attesa della primavera

Gordiano Lupi

Edizioni Anordest

pp 225

12, 90

Per chi è abituato a vivere in un paese libero senza nemmeno rendersene conto, leggere “In attesa della primavera”, il libro che Gordiano Lupi dedica alla blogger cubana Yoani Sànchez, è come prendere un pugno nello stomaco, un pugno che non si ritira dopo l’affondo, ma rimane conficcato a darti un sapore di fiele e di bile in bocca. Ma andiamo con ordine.

Gordiano Lupi è il traduttore ufficiale di Yoani Sànchez, da anni ne segue il blog e cura i rapporti con la dissidente attraverso contatti continui. Yoani è una filologa cubana, che, dopo un passato da piccola castrista qualsiasi, comincia a porsi delle domande. È giovane, inquieta, intelligente. Cresce in lei il dubbio, il contrasto, “l’eresia”. Perché è così che il regime castrista di Fidel prima, e di suo fratello Raùl poi, interpretano il desiderio di libertà di Yoani.

Yoani è costretta a subire le violenze di un regime affamante e liberticida, di un’autorità cieca e brutale, e soffre per Cuba, l’isola amata, la patria ferita, dove il dengue è endemico, dove le tessere del razionamento alimentare non concedono abbastanza calorie per la sussistenza eppure, una volta abolite, vengono rimpiante. Yoani studia in una “scuola di campagna”, sorta di lager dove subisce soprusi, fame e pidocchi, s’immerge nelle lettere per evadere da un presente che non le piace, sogna di viaggiare. Sarà proprio questo, il desiderio frustrato di viaggiare, ancor più dei due arresti subiti, a costituire la vera privazione di libertà, la più penosa. Per chi sa cosa si prova salendo su un aereo con l’emozione nel cuore, questa specie di arresti insulari sono un tormento.

Sogno di poter vivere in un’isola dove non si debba più chiedere il permesso per entrare e uscire. Mi illudo che in un prossimo futuro vivrò in un paese normale, che non impedirà un viaggio all’estero per motivi politici. Per il momento posso solo usare Twitter – la mia unica arma – e gridare forte: Internet e libertà di movimento per i cubani!”(pag 79)

Yoani non capisce perché nella sua nazione “tutto è proibito”: non si può espatriare, non si possono leggere certi libri o assistere a certi spettacoli, non si può esprimere liberamente la propria opinione, non si può accedere ad internet, per molto tempo, addirittura, non si può nemmeno possedere un computer. Il disgusto la soffoca, l’angoscia la opprime. Vede morire uno dopo l’altro tutti i dissidenti che entrano in sciopero della fame e non ne escono vivi. La scelta è spegnersi asfissiata dai divieti oppure ribellarsi. Allora entra in un albergo con connessione internet e, clandestinamente, scrive il primo post di Generaciòn Y, il blog che - pur oscurato dalle autorità dal 2008 al 2011 – la renderà famosa in tutto il mondo, farà di lei una delle persone più influenti del pianeta, candidata al Nobel per la pace nel 2012, capace di interloquire persino con Barack Obama e per questo accusata d’imperialismo dai filo castristi.

Il blog, tradotto per La Stampa da Gordiano Lupi, è attivo da cinque anni e, in questo tempo, la fragile cubana - magrissima, di una bellezza spirituale e quieta - si trasforma in attivista temeraria, sempre più consapevole di sé, sempre più simbolo, faro e luce per tutti i cubani e tutti i dissidenti nel mondo, al pari di Aung San Suu Kyi - ma anche sempre più spaventata, fra oscuramenti, diffamazioni, arresti, minacce e percosse.

Impaurita soprattutto perché madre di un ragazzo nei cui occhi legge il medesimo anelito di libertà, le stesse domande senza risposta di quando lei era piccola. Ama in suo figlio l’indipendenza di spirito e, insieme, la teme. Ha la nausea ogni volta che, fin da bambino, lo sa costretto a compromessi, a tacere per convenienza a quieto vivere, per “non mettersi nei guai”. Non vuole per lui il destino che è toccato a lei, vuole che Teo cresca in una Cuba emancipata, democratica, dove chiunque possa manifestare dissenso, dove le elezioni non siano una farsa, dove la cultura e le conoscenze circolino senza impedimenti, dove sia concesso fare una valigia e partire alla scoperta del mondo, dove non si debba lavorare la vigilia di Natale, dove ognuno sia libero di pregare il suo Dio e decidere se accettare o rifiutare il modello occidentale. Invece Yoani, suo marito Rinaldo e il figlio Teo, vivono in un paese dove non esistono prigionieri politici ma solo “delinquenti comuni”: undici milioni di delinquenti comuni, solo perché teste pensanti.

Non conosco a fondo la libertà”, ci dice - e quanto è struggente questo non comprendere nemmeno ciò che ci manca, nemmeno l’oggetto del desiderio - “ma per me è come una meta, un obiettivo da perseguire. Penso che libertà voglia dire vivere in un paese dove sia possibile fermarsi in un angolo e gridare: Qui non c’è libertà! La libertà è uno spazio dove è possibile ottenere ancor più libertà. La libertà comincia dentro noi stessi, il giorno in cui ti alzi e dici: Non voglio andare avanti così. Non voglio più indossare una maschera. Non voglio permettere che mi rubino ancora spazi di opinione, di libero movimento.” (pag 128)

Yoani sa che la sua vita è appesa a un filo, sa che, se un giornalista può essere licenziato, ghettizzato, messo a tacere, è più difficile fermare un blogger perché la rete ha le sue vie virali e capillari di espansione. Yoani sa che per fermare un blogger bisogna ucciderlo. La sua garanzia è la visibilità, il numero dei lettori, il numero dei followers, il numero dei premi ricevuti. Ecco perché per chi la segue e la traduce è diventata quasi un’ossessione. Parlare di lei al mondo significa, non solo diffondere le sue idee e il suo sogno di libertà e democrazia, ma anche tenerla in vita, salvarla dalla prigione, dalla macchina del fango, dall’eliminazione fisica.

Nel suo blog antigovernativo Yoani dice cose terribili e dure ma le dice con pacatezza, con gentilezza, senza eccessi, sempre guardando anche l’altro lato della medaglia, sempre cercando conferma delle voci, dei sospetti. E, quando i filo castristi la ingiuriano in un aeroporto - il giorno che finalmente le è concesso espatriare - è felice perché capisce di trovarsi in un posto dove c’è libertà di espressione.

Vale per i suoi post quello che lei stessa afferma di Aung San Suu Kyi:

Nessuno come lei ha potuto descrivere l’orrore con dolcezza, senza che il grido s’impadronisse del suo stile e il rancore le salisse agli occhi.” (pag 85)

I suoi messaggi sono scritti con uno stile letterario, non parlano solo di politica e società, ma anche di vita quotidiana. La immaginiamo pallida e assorta, fra panni stesi e faccende rimandate, rispondere a mail e telefonate, con, nella stanza accanto, un figlio, dissidente sì, ma pure affamato e in attesa del pranzo. Riviviamo la sua infanzia, poi la pubertà nella scuola di campagna, le malattie contratte fra fame e sporcizia, la congiuntivite, il bisogno di farsi uno shampoo, i capelli rasati a zero per paura dei parassiti, gli anni dell’università, le lotte al fianco delle Damas de Blanco, le proteste in piazza, le notti in prigione (di cui, per pudore, racconta poco, solo l’umiliazione delle perquisizioni “sotto le gonne”) ma anche il desiderio - lei atea – di vedere un presepe, di festeggiare il Natale, di fare una valigia anche solo per lasciarla in un angolo, inutilizzata.

Tutto questo ci fa male dentro, ci ferisce. Leggere Generaciòn Y appassiona e addolora insieme.

Gordiano Lupi rende bene lo stile incisivo della Sànchez, più da scrittrice che da semplice blogger, ed è bravo a riassumere i cinque anni di vita di Generaciòn Y, rendendoli avvincenti come un romanzo, pur se procedendo a scatti, a balzi avanti e indietro nel tempo, com’è nello stile dello scrittore, traduttore ed editore piombinese.

Per questo ora siamo tutti qui con lei, con Yoani, ad attendere una primavera che forse tarderà, che sarà pure costellata di sofferenze, di disagi e contrasti, ma, siamo certi, prima o poi giungerà anche per Cuba.

La democrazia arriverà ventiquattro ore dopo che tutti noi cubani l’avremo pretesa come un nostro preciso diritto”. (pag 119)

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Collodi a Livorno

8 Luglio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #personaggi da conoscere

Collodi a Livorno

È risaputo che i fiorentini benestanti amano farsi le vacanze a Livorno. Fra questi c'era anche Carlo Collodi (1826 - 1890), l'autore dell'indimenticato Pinocchio, che soleva "annoiarsi terribilmente" dalle nostre parti per tutto luglio e agosto.
Ricordiamo qui una sua opera meno conosciuta: "Un romanzo in vapore. Da Firenze a Livorno". Pubblicato nel settembre del 1856 per l'editore Mariani, fu venduto ai viaggiatori come opuscolo informativo, nel primo anno di funzionamento della Ferrovia Leopolda che, appunto, collegava Firenze a Livorno.
Costruita negli anni 40 del XIX secolo, la ferrovia partì proprio da Livorno, con un binario unico, e suscitò le ire (e i tumulti) dei barcaioli dell'Arno che vedevano scemare il lavoro. Delle tre stazioni della ferrovia, la nostra - la dismessa stazione San Marco - è l'unica a non essere ancora stata oggetto di riqualificazione, nonostante numerose proposte.
Fra romanzo d'appendice ingarbugliato e autoironico, e manuale d'informazioni utili per i viaggiatori, il volumetto tascabile scritto dal Collodi, è una guida storico - umoristica che si colloca nella letteratura, allora all'avanguardia, dedicata ai viaggi su strade ferrate. Descrive, con brio tutto toscano, le peripezie dei pionieri del treno a vapore, fra tradizione contadina e nuovo che avanza, in uno stile di contaminazione letteraria sul modello di Sterne.
Le descrizioni che ci riguardano non sono propriamente lusinghiere, sia per quanto riguarda l'arte:

"In fatto di monumenti e di cose antiche, Livorno ha ben poco da presentare all'occhio dell'artista e dell'amatore. E ciò si capisce facilmente: imperocché nelle città consacrate quasi esclusivamente al commercio e all'industria, le belle Arti non vi respirano a modo loro e raramente vi ottengono la Carta di soggiorno!"

che le persone:

"La donna livornese, e particolarmente la donna del popolo ha, in generale, fattezze regolari, begli occhi, bei denti - e molti capelli. Il maschio non presenta nulla di singolare che lo distingua - seppure non si vogliano eccettuare i barcaioli e i saccaioli, nei quali l'esercizio quotidiano di una vita affaticata, sviluppa ordinariamente delle forme robuste e delle tendenze ercoline!"

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Un duello del duce

6 Luglio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #personaggi da conoscere

Un duello del duce

Un giorno di ottobre del 1921, Benito Mussolini è ancora solo un onorevole fra tanti. Ha forti contrasti con Francesco Ciccotti Scozzese, ex compagno del partito socialista ed ex amico. Ciccotti è stato segretario della Camera del Lavoro labronica nel 1902. I due hanno continui scontri e diverbi, Mussolini definisce il Ciccotti - già nominato "Cagoia" da D'Annunzio - "lercio basilisco". Ci si decide per un duello proibito.

Le trattative sono lunghissime, tutte le questure d'Italia si mobilitano per impedire lo scontro. I due iniziano il contrasto a Milano, poi scappano, inseguiti dalla polizia, cercando un posto tranquillo dove potersi sfidare. Una delle macchine inseguitrici, vicino a Piacenza, ha un incidente e finisce contro un carro di fieno. Il pilota della macchina di Mussolini è lo spericolato Aldo Finzi, che ha partecipato con D'Annunzio al volo su Vienna. Vagano per le città dell'Emilia e della Toscana in cerca di un luogo dove convocare Ciccotti. Finiscono ad Antignano, nella villa Perti, oggi scomparsa.

La sfida ha luogo al pian terreno, nel salone, i padrini di Mussolini sono il colonnello Basso e l'onorevole Finzi. Al quattordicesimo assalto Ciccotti entra in affanno, ha una crisi respiratoria. Viene fatto distendere sul letto, i medici gli praticano una iniezione di olio canforato, poi dichiarano l'insufficienza cardiaca e impediscono la continuazione del duello. Mussolini si arrabbia, pensa a uno stratagemma di Ciccotti per sottrarsi alla tenzone.

Ha una ferita a un braccio e la giovane siciliana Elvira, parente del padrino di Ciccotti (il livornese Cesare Guglielmo Pini) lo cura. "Ferito", dice Mussolini guardandola intensamente, "ma curato da una bella infermiera", e le dona la sua spada.

La polizia li sorprende.

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Ranieri de Calzabigi

4 Luglio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #saggi, #personaggi da conoscere

Ranieri Simone Francesco Maria de Calzabigi (1714 – 1795) nacque a Livorno, dove probabilmente studiò, perfezionandosi a Pisa. Col nome di Liburno Drepanio fu membro dell’Accademia Etrusca di Cortona e dell’Arcadia. Prestò servizio in un ministero a Napoli, dove fu coinvolto in un processo per veneficio, cioè omicidio a mezzo di veleno. Per questo motivo lasciò Napoli per recarsi a Parigi dove conobbe Giacomo Casanova, del quale divenne amico e che lo aiutò ad affinare le sue arti amatorie. Introdusse alla corte del re di Francia un gioco già praticato a Genova e a Livorno dove, nel 1749, sotto le logge della Dogana, aveva avuto luogo la prima estrazione. Il Calzabigi perfezionò il lotto e lo vendette al re di Francia per fargli riempire le casse dello stato . A Parigi scrisse la “Lulliade”, poema eroicomico, parodia della carriera di Jean Baptiste Lully, vale a dire il fiorentino Gianbattista Lulli, ballerino e compositore del Re Sole, collaboratore di Molière, padrone del melodramma d’oltralpe, poi naturalizzato francese. La “Lulliade” allude alla Querelle des Bouffons, la guerra dei buffoni, cioè la controversia fra la freschezza della musica del Pergolesi e l’artificiosità del Lully. Tale polemica divise in due Parigi e contrappose gli enciclopedisti ai sostenitori del re. Nel 1755 Calzabigi pubblicò una ristampa dei lavori dell’amico Pietro Metastasio. Dalla Francia passò a Vienna, dove conobbe C.W.Gluck - operista, esponente del classicismo, ispiratore di Salieri e di Mozart – per il quale scrisse i più importanti libretti. “Orfeo ed Euridice”, “Alceste” e “Paride ed Elena” Calzabigi si pone come innovatore, sia lui sia il Metastasio possono essere ricondotti alla stessa radice culturale, il classicismo, prima arcadico e poi illuminista, che sottomette la musica alla poesia. Dopo Vienna, Calzabigi si recò nuovamente a Napoli, dove concluse la sua vita.

Ranieri Simone Francesco Maria de Calzabigi (1714 - 1795) was born in Livorno, where he probably studied, specializing in Pisa.

With the name of Liburno Drepanio he was a member of the Etruscan Academy of Cortona and Arcadia. He served in a ministry in Naples, where he was involved in a poisoning process, that is, murder by means of poison. For this reason he left Naples to go to Paris where he met Giacomo Casanova, of whom he became a friend and who helped him to refine his amatory arts. He introduced to the court of the king of France a game already practiced in Genoa and Livorno where, in 1749, under the lodges of the Customs, the first extraction had taken place. Calzabigi perfected the lotto game and sold it to the king of France to have him fill the state coffers.

In Paris he wrote the "Lulliade", a heroicomic poem, parody of the career of Jean Baptiste Lully, that is to say the Florentine Gianbattista Lulli, dancer and composer of the Sun King, collaborator of Molière, master of the French melodrama, later naturalized French.

The "Lulliade" alludes to the Querelle des Bouffons, the war of the buffoons, that is, the controversy between the freshness of Pergolesi's music and the artificiality of Lully. This controversy divided Paris into two and set the encyclopedists against the king's supporters.

In 1755 Calzabigi published a reprint of the work of his friend Pietro Metastasio. From France he moved on to Vienna, where he met C.W.Gluck - an opera worker, exponent of classicism, inspirer of Salieri and Mozart - for whom he wrote the most important librettos. "Orpheus and Eurydice", "Alceste" and "Paride and Elena".

Calzabigi stands as an innovator, both he and Metastasio can be traced back to the same cultural root, classicism, first Arcadian and then Enlightenment, which submits music to poetry.

After Vienna, Calzabigi went again to Naples, where he ended his life.

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Maria Vittoria Masserotti, "Racconti per una "canzone""

1 Luglio 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #maria vittoria masserotti

Maria Vittoria Masserotti, "Racconti per una "canzone""

Racconti per una “canzone”

Maria Vittoria Masserotti

Edizioni Progetto Cultura

pp 168

12,00

Esistevano un tempo le novelle pubblicate sulle riviste più conosciute, le firmavano anche scrittori di un certo spessore, come Scerbanenco. I racconti di Maria Vittoria Masserotti fanno venire in mente quelle storie. Novelle che si leggono una alla volta per il benedetto, sacrosanto, puro e semplice desiderio di leggere, per la ormai introvabile e superata gioia della scoperta d’una atmosfera e d’una trama.

Se un buon racconto ruota attorno ad un’idea originale, a una situazione particolare e si muove da un punto a A fino a un punto B, attraverso una evoluzione dinamica, le storie della Masserotti assolvono tutti questi compiti. Ognuna ha una trama da raccontare, ognuna ha un personaggio da inquadrare e un’ambientazione particolare.

Ci colpisce la geografia delle vicende che attraversa tutta l’Italia, dal Lazio alla Toscana, dalle città ai paesi, dalla terraferma alle isole. I protagonisti e le protagoniste sono tutti, salvo poche eccezioni, persone mature, spesso alle prese col tempo ritrovato e dilatato della pensione. Ognuno fronteggia un problema diverso, dall’incontro devastante con la malattia, all’amore rivisitato in tutte le sue sfaccettature, inteso come nuovo contatto, ma anche come rapporto logorato dal tempo e dalla clandestinità, o dolce complicità coniugale. I personaggi sono variegati: la ragazza sola e obesa, l’uomo con troppe storie sentimentali parallele, l’amante stanca del suo ruolo secondario, la donna che ha subito l’asportazione totale dell’apparato riproduttivo.

Ci sembra di cogliere, comunque, in ogni racconto – e specialmente nel nostro preferito “Novembre” – una prepotente speranza, la sensazione che mai niente finisce davvero, che, dietro l’angolo, c’è sempre una sorpresa, una nuova possibilità, che la vecchiaia non è decrepitudine ma, semmai, saggezza e libertà dagli impegni, tempo recuperato per sé, in una solitudine riconquistata, oppure in una condivisione scelta e non subita. L’amore e il sesso, in questa visione, hanno ancora tanto spazio e sono vissuti come rigoglio dei sensi e calore di sentimento. La solitudine, la sconfitta, l’apatia e la noia: “La vita a vent’anni gli era sembrata colma di promesse. Ora è solo una routine senza spunti, senza obiettivi. Sospira e apre il frigo.” (pag 29) in realtà non esistono, sono solo una nostra forma mentale.

C’è sempre, al contrario, la possibilità di un colpo di reni: “La mano destra di Giulia si protende ad accarezzare la tomba di suo padre, lì in alto, sfiora la piccola balaustra di marmo senza arrivare alla foto, punta i piedi per arrivarci e sente che il suo corpo si solleva. È in piedi.” (pag 143) È il rinnovo, la resurrezione che diventa soprattutto presa di coscienza di ciò che già si ha, consapevolezza e rivalutazione del passato in vista del futuro.

Quello è sempre stato un momento magico, carico di attesa, quando ancora il profilo del tempo deve essere disegnato, dove tutto è ancora e sempre possibile.” (pag 82)

In quest’ottica tutto riacquista valore, persino la compagnia di un cane non è più simbolo di mancanza e isolamento bensì del contrario, di completezza ed affetto. Il vuoto diventa all’improvviso pieno.

Una cosa è certa – visto che lei è nata – la vita in qualche modo ha vinto. Si alza per andare a chiamare Marilena, oggi ha bisogno di rivedere il suo cane.” (pag 27)

I racconti portano il nome dei mesi dell’anno e anche questa circolarità fa sì che ci sia un implicito senso di rinascita, di “vita nova”. Il tempo, d’altronde, è ciò di cui l’autrice si è occupata professionalmente, avendo fatto ricerca informatica per il CNR sul ragionamento spazio–temporale.

Il pregio maggiore, il maggiore sforzo di questa raccolta, a nostro avviso, è la mancanza di autobiografismo, così rara da trovare. Quante volte sentiamo uno scrittore dire: “Ho esordito con un romanzo che parla della mia vita”, e, di fronte ad affermazioni come queste, siamo sempre prevenuti. Qui, invece, ogni storia si differenzia dall’altra per intreccio, sviluppo e ambientazione: c’è l’uomo conteso fra troppe donne, c’è l’erede ucciso dai parenti avidi, c’è la giornalista coinvolta in una storia di mafia e servizi deviati, c’è persino Josè Saramago.

Ovviamente, la Masserotti, come qualunque altro scrittore, mette sempre un poco di sé in ogni personaggio: che sia un marito preoccupato per la salute mentale della moglie o un agente del Mossad, quella sarà comunque la visione dell’autrice, quelli saranno “il suo” marito e “il suo” agente. E, mescolate agli accadimenti e alle scene, ci sono, com’è naturale, le cose che l’autrice ama e conosce, le sue letture - da Saramago a Tolkien - i suoi luoghi preferiti, salsi e marini, la sua musica.

Il titolo e le strofe poste all’inizio di ogni racconto, infatti, sono tratti da “Canzone dei dodici mesi” di Guccini, e quest’accostamento, ancora una volta, richiama il bisogno di vivere il fluire del tempo senza negare le proprie basi ma, anzi, recuperandole. Nella prefazione, Lamberto Picconi afferma che: “In un contesto storico come quello degli anni 70, in cui molti volevano fare tabula rasa del passato e ricominciare da zero, il cantante modenese si pose in direzione decisamente contraria, volgendo lo sguardo, non senza nostalgia, verso le proprie radici.” (pag 6)

È questo, in fondo, lo scopo della scrittura, renderci più chiari a noi stessi e, nello stesso tempo, liberarci, scandagliare e illuminare le nostre motivazioni inconsce, farci scoprire l’alterità, il nuovo e il possibile, oltre il recupero di ciò che siamo stati.

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segnalazione

28 Giugno 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #redazione

Patrizia POLI, L’uomo del sorriso

«per la struggente rivisitazione laica della vicenda di Gesù nella prospettiva di Maria di Migdal»

Segnalato al Premio Italo Calvino

"L’uomo del sorriso" romanzo Patrizia POLI


La storia che questo libro racconta è una delle più conosciute del mondo, è la storia di Gesù –
chiamato nel romanzo con il nome ebraico di Yeshua – negli anni della sua predicazione, fino alla
morte e resurrezione. Ma la storia è narrata dal punto di vista di un testimone privilegiato e
sorprendente, cioè Maria di Migdal – comunemente conosciuta come Maria Maddalena – la
peccatrice dei Vangeli, prostituta anche un po’ maga nel racconto, che nasconde e salvaguarda il
culto antico della Dea Madre e le conoscenze esoteriche e curative. Nelle prime pagine del libro
Maria di Migdal è la protagonista assoluta, una donna isolata e sola, che respinge orgogliosamente
qualsiasi commiserazione e manifestazione di amore e amicizia e vive con lucida disperazione la
sua condizione. Accanto a lei un povero minorato, Astaroth, un gigante buono con la mente di un
bambino, di cui lei, unica del villaggio, si prende cura. Nella vita senza speranze e illusioni di Maria
– vita che viene descritta con finezza psicologica – irrompe Yeshua che riprende la predicazione di
Giovanni Battista dopo la sua morte. La tragica vicenda di Giovanni Battista è raccontata sia dal
punto di vista di Maria di Migdal, sua amica dall’infanzia, da lui sempre amata e mai disprezzata,
sia dal punto di vista dello stesso Battista e del suo carnefice, Erode, di cui viene raccontata in
modo assai coinvolgente la nascente passione erotica per l’adolescente Salomè. È questa la tecnica
narrativa che informa tutto il libro: le vicende - che seguono rigorosamente la falsariga delle
narrazioni evangeliche - vengono esplorate da punti di vista diversi: quello di Maria di Migdal,
dello stesso Yeshua, di Maria di Nazareth, la madre di Yeshua, di Kefa, un solido pescatore che si è
messo al seguito del carismatico giovane – il Pietro della tradizione – di Giuda Ish Karioth, dello
stesso Ponzio Pilato, che ha accettato di condannare Yeshua, pur essendo convinto della sua
innocenza – e in questo personaggio certamente riecheggia il Ponzio Pilato di Bulgakov. Sono punti
di vista che si intrecciano e ricostruiscono l’ambiente della società agropastorale dell’epoca, dei
villaggi palestinesi, della così diversa città di Gerusalemme; ricostruiscono la psicologia, le
passioni, i sentimenti contradditori dei diversi personaggi, e specialmente il fascino che il giovane
predicatore esercita su tutti, la passione necessariamente controllata e repressa che egli suscita in
Maria di Migdal e in Giovanni, il discepolo prediletto, che non osa confessare nemmeno a se stesso
la natura del suo amore per il Maestro. Il risultato è una specie di montaggio incrociato attraverso il
quale le vicende della narrazione evangelica vengono ricostruite, cioè vengono narrate da punti di
vista diversi, e anche con interpretazioni diverse.
Nella ricostruzione di una storia così nota, la scrittrice interpreta in chiave storico-naturalista le
vicende miracolose della tradizione religiosa. Un esempio è la descrizione delle cure che egli offre
alle turbe di malati e infelici, avvalendosi della collaborazione e dell’antica sapienza di Maria di
Migdal, occulta continuatrice delle conoscenze segrete dei culti matriarcali. Per non parlare
ovviamente della ricostruzione totalmente naturalistica del mito della resurrezione, che costituisce
la conclusione narrativa della vicenda. E totalmente laica è l’analisi del personaggio di Yeshua,
affascinante e carismatico, di sensibilità morbosa e suprema intelligenza e comprensione degli altri
e delle loro più segrete motivazioni, animato da totale spirito religioso, ma dubbioso fino alla fine
sul proprio ruolo e sulla volontà di Dio. E’ un personaggio di grande fascino quello descritto dalla
scrittrice, in termini tutt’altro che agiografici: personaggio umanissimo ma anche assolutamente
straordinario, per la sua intelligenza, sensibilità, gioia di vivere e amore per la vita in tutte le sue
forme, e per l’ assoluta e sofferta dedizione a quello che ritiene il suo ineluttabile dovere e destino.
Nella costruzione narrativa, il romanzo assume un andamento via via più drammatico, culminando
nei capitoli che raccontano la passione di Yeshua, che ne costituisce l’acmé narrativo, prima dello
scioglimento naturalistico della vicenda. Sono pagine scritte con drammaticità, in un crescendo di
grande efficacia. Poi la narrazione si placa nelle ultime pagine, in cui si accenna a quella che sarà
l’opera dei discepoli, impegnati a creare il grande movimento e il credo della nascente religione.
In conclusione, quindi: una narrazione efficace e una scrittura piacevole che mette in evidenza la
componente “umana” di Yeshua, la sua dimensione di uomo in mezzo a uomini e donne del suo
tempo; un testo che si ritrova però a fronteggiare – e non è poco – una trama per così dire “già
scritta” nei testi dei Vangeli e una storia tremendamente nota – forse la più nota – della nostra
civiltà. La (parziale) originalità della prospettiva proposta dall’autrice temiamo non sia sufficiente a
catturare l’attenzione. All’autrice l’umile suggerimento di cimentarsi con una storia di sua
invenzione che possa farci apprezzare al meglio le doti che indubbiamente possiede.

Il Comitato di Lettura

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Carlo Valentini, "Elvira la modella di Modigliani"

26 Giugno 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Carlo Valentini, "Elvira la modella di Modigliani"

Elvira la modella di Modigliani
Carlo Valentini

Graus editore, 2012
Pp 111
11,90


Morte lo colse quando giunse alla gloria

Essere ritratti da Modì, si era soliti dire nell’ambiente, era come “farsi spogliare l’anima”. L’ambiente è quello di Montmatre e Montparnasse, il ritratto in particolare campeggia sulla copertina del libro di Carlo Valentini: “Elvira la modella di Modigliani.”
La figura assorbe e occupa tutto lo spazio, ha una compostezza illimitata, una presenza lievemente asimmetrica; il tratto ricorda le maschere africane, il corpo femminilissimo possiede, però, una solidità maschile, l’ovale del viso è raffinato, la bocca dolce, l’espressione consapevole e malinconica. È Elvira la Quique, di cui Valentini ci narra la storia in una biografia romanzata, a metà fra narrazione e saggio.
L’autore rivaluta e mette in risalto questa figura, oscurata dall’ultima compagna di Modì, la mite Jeanne Hebuterne, famosa per la fine tragica. Diverse le due donne, diversi i ritratti che le rappresentano. Dolce, ingenuo, quello di Jeanne, inquietante e, insieme, carico di sentimento, malinconia e comprensione, quello di Elvira.

La Quique è figlia di una prostituta, a Parigi finisce per fare il mestiere della madre oltre che la cantante. Ha un corpo conturbante, occhi e capelli scuri. Entra subito nell’ ambiente delle modelle, che, nude e impudiche, posano per i pittori di Montmatre e Montparnasse.
Da un uomo all’altro, eccola nelle braccia di Amedeo. Lo amerà tutta la vita, fra litigi e riappacificazioni, fra tradimenti e dispiaceri.
Se Jeanne sarà la compagna dell’anima, la madre dei figli, l’elettivamente affine, Elvira, ci dice Valentini, è qualcosa di più, è colei che – pur nella differenza di sensibilità, di cultura e d’intenti – più di ogni altra ha condiviso con Modì lo stile di vita, il bisogno di “essere e fare”, l’elan vital.

Elvira sopportava, pagava questo prezzo per tenersi un uomo che la trattava da vera donna, la capiva, condivideva i viaggi nei fantasmi dell’allucinazione, la ritraeva sulla carta o sulla tela strappandole il suo vissuto interiore con pose appassionate e carnali e un certo sensualismo animale che mascherava la sua dolorosa fragilità. Per Elvira era come guardarsi allo specchio, felice e orgogliosa di contemplarsi e poter essere contemplata, femmina che sogna e fa sognare.” (pag 56)

Elvira e Amedeo vivono una vita più di stenti che bohemienne, ma non si risparmiano. Si amano, si sfidano, addentano tutti i piaceri della carne, dell’arte e della vita, fra assenzio, hashish e cocaina (di cui Elvira si renderà schiava fino ad ammalarsi e perdere la voce). Come le altre modelle, è sempre senza veli, pronta a posare ma anche a fare l’amore, quasi che le due cose coincidessero, fluissero naturalmente l’una nell’altra. Le pennellate sono lingue che si cercano, i colori sono umori che si fondono, che colano sulla tela. Il romanzo di Valentini trasuda carnalità, attinta proprio dai quadri, dai seni pesanti, dai triangoli rigogliosi, esibiti senza malizia, col senso di qualcosa di serenamente necessario.
I dialoghi risentono e, insieme, traggono vantaggio, dall’essere frutto di ricerca d’archivio su documenti inediti. A parlare sono direttamente i protagonisti, il loro modo di esprimersi artificioso non suona tuttavia falso in questo retroterra d’avanguardia, dove operano Picasso e Utrillo, dove si muovono pittori infervorati d’arte e droga, insieme a modelle discinte e sensuali, capaci di condividere aspirazioni e trasgressioni, ristrettezze e manie di grandezza. Un ambiente dissoluto e assoluto, crogiolo di cultura, di sperimentazione artistica. Amedeo non dipinge come nessuno. Amedeo usa colori africani e pastosi, luci rosate, dove balenano tratti neri. Ama le sue donne e non si lega davvero a nessuna, se non forse a Jeanne quando sente arrivare la fine.
Ma la magia del libro sta, soprattutto, nella rievocazione d’ambiente. Montparnasse con i suoi vicoli sordidi, il Bateau-Lavoir dalle pareti sottili, dove litigi e amplessi sono di dominio pubblico, dove si patiscono freddo d’inverno e caldo d’estate. Vediamo gli squallidi tuguri dai letti sfatti, i pavimenti cosparsi di bottiglie vuote, le lenzuola macchiate d’olio di sardine.
Amedeo dipinge con furia, consapevole della fine imminente, della gloria che arriverà solo postuma; tossisce, la sua mano trema, ha il cervello infiammato, le compagne gli si confondono nella mente: la raffinata Anna diventa la battagliera Beatrice, la Jeanne di buona famiglia trascolora nell’entreneuse Elvira, colei che ama, che segue da lontano, che aspetta e che soffre.
Sarà questo ambiente, sarà tutta questa gente che accompagnerà Modigliani nell’ultimo viaggio, quando il carro sfilerà per le vie di Parigi, seguito da un lungo corteo di pittori, di modelli, con gli artisti di Montmatre e Montparnasse riuniti.
E, dopo tutte le vicissitudini, dopo che la fragile Jeanne si sarà gettata dalla finestra insieme alla creatura che porta in grembo, sarà ancora una volta Elvira – claudicante, afona, sopravvissuta alla prigione e a una condanna a morte – a posare sulla tomba della sfortunata ragazza, come suggello di una vita intera, l’ultimo mazzo di fiori, quello che Amedeo non può più donare alla sua compagna.

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