poli patrizia
Heberto Padilla, "Fuera del Juego"
Fuera del juego
Heberto Padilla
Traduzione di Gordiano Lupi
Edizioni Il Foglio
pp 157
12,00
“The knock at our door came around seven in the morning.” Così Cuza Malè racconta il momento dell’arresto del marito, il poeta cubano, di lingua castigliana, Herberto Padilla.
Dopo che, nel 1968, la raccolta di poesie “Fuera del juego”, di Padilla, vinse il premio UNEAC, il libro venne considerato controrivoluzionario e pubblicato con un’appendice che ne stigmatizzava il contenuto come anticastrista. Padilla fu arrestato nel 1971 e, per riottenere la libertà, fu costretto ad apparire davanti al collegio degli scrittori e fare pubblica abiura di se stesso, dei suoi scritti, “confessando” supposti crimini suoi e della moglie contro la Rivoluzione. Così si esprimeva Padilla riguardo alla sua “autocritica”:
“Il procedimento è stato ideato da Lenin per recuperare i rivoluzionari nelle file del partito comunista e perfezionato da Stalin come strumento per distruggere moralmente chi esprimeva posizioni critiche . Ho accettato di recitare l’autocritica per ottenere la libertà e per poter lasciare Cuba, che ormai era diventata una prigione.”
Molte personalità, fra le quali Jean Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Susan Sontag, Mario Vargas Llosa, Federico Fellini, Alberto Moravia – con alcune eccezioni illustri come Gabriel Garcia Marquez - firmarono una petizione per chiederne la liberazione. L’affare Padilla segnò la fine del sostegno degli intellettuali di sinistra alla Rivoluzione Cubana, che aveva perso i suoi connotati libertari per trasformarsi in un regime autoritario, castrista e castrante.
I versi di Padilla sono semplici, discorsivi ma solo in apparenza. Parlano di cose concrete, di vita di tutti i giorni, dell’irruzione della storia e della politica nel privato del cittadino che vorrebbe prescinderne ma non può.
“Sono sempre stato fuori dal gioco, forse è la condizione di poeta che non permette di stare dentro, per noi non è possibile, siamo destinati a raccontare una spiacevole verità in faccia al tiranno. Un poeta è bene non averlo intorno, è un triste personaggio che trova sempre da ridire, che non è mai contento, soprattutto non serve al potere.”
Come dice il traduttore (ed editore) Gordiano Lupi, “Padilla non è un dissidente ma un rivoluzionario che vuole continuare a pensare con la propria testa.”
“Fuera del juego” “è un canto di libertà”, “il simbolo della disillusione rivoluzionaria” (sempre Lupi).
Padilla è stato parte sogno, vi ha creduto ma ha visto naufragare le aspettative di un mondo migliore, ha capito che quella che vedeva in atto non era più la “sua” rivoluzione, ha scritto versi “che fanno male al sogno”, che denunciano la violenza dietro la speranza diffusa dagli eroi.
Intorno agli eroi
Gli eroi
Sempre vengono attesi
Perché sono clandestini
E sconvolgono l’ordine delle cose.
Appaiono un giorno
Affaticati e rauchi
Nei carri da guerra, coperti dalla polvere del cammino,
facendo rumore con gli stivali.
Gli eroi non dialogano,
ma progettano con emozione
la vita affascinante del domani.
Gli eroi ci dirigono
E ci pongono davanti allo stupore del mondo.
Ci concedono perfino
La loro parte di Immortali.
Lottano
Con la nostra solitudine
E i nostri vituperi.
Modificano a loro modo il terrore.
E alla fine ci impongono
La violenta speranza.
La sua “colpa” è
“Non dare ascolto a chi diceva che esistono libri da non scrivere e soprattutto da non pubblicare, perché fanno male al sogno e soltanto dentro la rivoluzione può esserci libertà, ma per chi si chiama fuori non esistono diritti.”
I poeti cubani non sognano più
I poeti cubani non sognano più
(neppure di notte)
Vanno a chiudere la porta per scrivere in solitudine
Quando scricchiola, all'improvviso, il legno:
il vento li spinge alla deriva;
alcune mani li prendono per le spalle,
li rovesciano
li mettono di fronte ad altre facce
(affondate nei pantani, bruciando nel napalm)
e il mondo sopra le loro bocche scorre
e l’occhio è obbligato a vedere, a vedere, a vedere
“Fuera del juego” è anche un inno d’amore alla patria, a Cuba, sempre portata nel cuore. “Cuba è la mia terra, la mia isola calda e selvaggia.” “Ho sempre vissuto a Cuba anche quando partivo.”
Sempre ho vissuto a Cuba
Io vivo a Cuba. Sempre
Ho vissuto a Cuba. Codesti anni di vagare
Per il mondo dei quali tanto hanno parlato ,
sono mie menzogne, mie falsificazioni.
Perché io sempre sono stato a Cuba.
Ed è certo
che ci furono giorni della Rivoluzione
nei quali l’Isola sarebbe potuta esplodere tra le onde;
però negli aeroporti
e nei luoghi dove sono stato
sentii che mi chiamavano
con il mio nome
e quando rispondevo
io mi trovavo in questa sponda
sudando
camminando,
in maniche di camicia,
ebbro di vento e di fogliame,
quando il sole e il mare si arrampicano sulle terrazze
e cantano la loro alleluia
Sopra a tutto, aleggia un potente senso di nostalgia, più di ogni altra considerazione umana, sociale e politica. Nostalgia che abbraccia ogni cosa: l’amore, il sesso, la patria, il sogno rivoluzionario, il ricordo di quartieri fatiscenti, di cartelloni slabbrati, di case diroccate eppure amate.
Il ritorno
Ti sei risvegliato almeno mille volte
cercando la casa dove i tuoi genitori ti proteggevano dal mal
tempo, cercando
il pozzo nero dove ascoltavi la ressa
delle rane, le falene che il vento faceva volare
a ogni istante.
E adesso che è impossibile
ti metti a gridare nella stanza vuota
quando persino l’albero del campo
canta meglio di te l’aria degli anni perduti.
Eri già il personaggio che osserva, il rancoroso,
preso, irrimediabile, per quel che vedi
e domani ti sarà tanto estraneo come oggi lo sei
a tutto quello che è accaduto senza che fossi capace
di comprenderlo,
e il pozzo continuerà cantando pieno di rane
e non potrai sentirle
anche se spiccano salti davanti ai tuoi orecchi;
e non solo le falene, ma il tuo stesso figlio
ha già cominciato a divorarti
e adesso lo stai guardando vestito con il tuo abito,
pisciando dietro il cimitero, con la tua bocca,
i tuoi occhi e tu come se niente fosse.
"The knock at our door came around seven in the morning." This is how Cuza Malè recounts the moment of the arrest of her husband, the Cuban, Castilian-speaking poet, Herberto Padilla.
After Padilla's "Fuera del juego" collection of poems won the UNEAC award in 1968, the book was considered counter-revolutionary and published with an appendix that stigmatized its content as an anti-Castro artist. Padilla was arrested in 1971 and, to regain his freedom, was forced to appear before the college of writers and make public abjuration of himself, of his writings, "confessing" supposed crimes of his and his wife against the Revolution. So Padilla expressed himself about his "self-criticism":
“The procedure was devised by Lenin to recover the revolutionaries in the ranks of the communist party and perfected by Stalin as a tool to morally destroy those who expressed critical positions. I agreed to recite self-criticism to get freedom and to leave Cuba, which had now become a prison. "
Many personalities, including Jean Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Susan Sontag, Mario Vargas Llosa, Federico Fellini, Alberto Moravia - with some illustrious exceptions such as Gabriel Garcia Marquez - signed a petition to ask for his release. The Padilla affair marked the end of the support of leftist intellectuals for the Cuban Revolution, which had lost its libertarian connotations to become an authoritarian, castrist and castrating regime.
Padilla's verses are simple, discursive but only in appearance. They talk about concrete things, about everyday life, about the irruption of history and politics into the private life of the citizen who would like to do without it but cannot.
“I have always been out of the game, perhaps it is the condition of poet that does not allow us to stay inside, for us it is not possible, we are destined to tell an unpleasant truth in the face of the tyrant. A poet is good not to have him around, he is a sad character who always finds fault, who is never happy, above all he does not need power. "
As the translator (and editor) Gordiano Lupi says, "Padilla is not a dissident but a revolutionary who wants to keep thinking for himself."
"Fuera del juego" "is a song of freedom", "the symbol of revolutionary disillusionment" (always Lupi).
Padilla was part of a dream, he believed it but saw the expectations of a better world sinking, he understood that what he saw was no longer "his" revolution, he wrote verses "that are bad for the dream", which denounce the violence behind the hope spread by the heroes.
Fuera del juego is also a hymn of love for the homeland, in Cuba, always in the heart. "Cuba is my land, my hot and wild island." "I have always lived in Cuba even when I was leaving."
Above all, there is a powerful sense of nostalgia, more than any other human, social and political consideration. Nostalgia that embraces everything: love, sex, the homeland, the revolutionary dream, the memory of dilapidated neighbourhoods, of torn posters, of decaying yet loved houses.
Mancheranno
Mancheranno
le istruzioni di volo
all’alba
sui tetti.
Mancheranno
le prime ricognizioni d’aprile,
il fischio
nell’ora indefinita
della sera
quando il pipistrello
vola radente.
Mancheranno
le stoviglie
le voci
gli asciugamani stesi
la quiete della domenica
giù nel cortile.
Fra qui e là
c’è solo
tempo da riempire.
Marco Campogiani, "Smalltown boy"
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Smalltown boy
Marco Campogiani
Edizioni Anordest 2013
pp. 335
€ 12,90
“Quando noi eravamo Noi, e il mondo se ne stava fuori, tutto era leggero, e come scivoloso, mentre ora non riesco a muovere un passo.” (pag 294)
Alla fine, sono ancora Babi e Step, alla fine è ancora “un’altra storia d’amore”. E tuttavia…
“Smalltown boy”, di Marco Campogiani, finalista al XXVI premio Calvino, s’inquadra sì nel filone dell’amore giovanilistico ma, soprattutto, in quello della ricerca dell’identità sessuale, adesso tanto in voga. Lo fa con un attacco lieve, quasi tragicomico, come fossimo, appunto, ancora “tre metri sopra il cielo”, poi, però, va in crescendo verso lo scavo interiore, verso l’accettazione dell’ineluttabile, verso la sofferenza, verso l’essere costretto a misurarsi con il metro della cosiddetta normalità, con “l’altro da sé”.
Davide Guizzardo s’innamora a quattordici anni con una profondità, con un’assolutezza drammatica, superiore alla sua età, e il suo è un amore tragico come quello di Romeo. Ma l’anima gemella non è Giulietta, bensì Guido, l’amico con cui è solito giocare a calcio e parlare di ragazze. Guido è bello, forte, atletico, è il campione che tutte vogliono. Guido è omosessuale, Guido ha una gemella, Martina, considerata da tutti stramba, dark, solitaria. Anche Martina è omosessuale e ama Cristina che tutti credono la ragazza di Guido. Per stare insieme, Davide e Guido, Martina e Cristina, dovranno fingere di uniformarsi, diventare agli occhi del mondo ciò che la società richiede. “Essere. Come. Gli. Altri.”
Nascerà così una commedia degli equivoci, un intreccio strano fra i quattro ragazzi, dove Davide farà finta di stare con Martina, mentre Guido darà a vedere di essere il ragazzo di Cristina. In realtà, le coppie vere saranno omo e non etero.
Come dicevamo, la storia parte con tono leggero, all’inizio l’omosessualità è solo un’evenienza, un’esplorazione nell’ambito di un’età confusa, della quale si saggiano tutte le potenzialità. Davide, Guido, Martina provano a essere come tutti, testano le sensazioni del loro corpo e le emozioni del loro cuore a contatto con l’altro sesso, ma l’amore ha un sopravvento vitale, giocoso. I ragazzi accettano ciò che non possono più nascondere o rifiutare, vivono in una bolla isolata dal resto del mondo, creano un loro spazio alternativo, un giardino segreto dove coltivano la loro personale felicità. “Dio quanto siamo belli, mi pare.” (pag 197)
Ma questa loro bellezza esteriore ed interiore non è capita, deve essere negata.
“Cos’altro potrei raccontare al Capitano dei Carabinieri? Sarebbe lungo spiegargli il Mondo Parallelo delle “regole Speciali”. O la teoria dei Nostri Momenti. Cosa capirebbe? Niente. Perché quello in cui vive lui è un mondo diverso, che non ci appartiene: il mondo dell’Ordine.” (pag 196)
Inevitabilmente, questi giovani puri e felici dovranno scontrarsi con il perbenismo, con la società, con la famiglia, con la scuola, con la Chiesa, che li vogliono come non sono, che pretendono di cambiarli anche se non fanno niente di male, anche se sono bravi ragazzi studiosi. Perché Davide, Guido e Martina non sono soltanto la loro omosessualità ma anche giovani qualsiasi, che scandiscono la vita a suon di pizze e musica anni ottanta. Le canzoni fanno da colonna sonora a tutto il romanzo e ritmano i capitoli (e anche questo, ultimamente, sta diventando un cliché della narrativa.)
“Chi decide cosa è in ordine e cosa no?” (pag 196)
L’irrompere dell’Ordine, in quello che solo dall’esterno sembra Disordine senza esserlo, porterà a rotture, a lacerazioni, a dolorose separazioni che distruggono l’energia del protagonista, che lo “reificano”, che lo trasformano in un automa capace solo di provare nostalgia, perdita, solitudine. Il dramma di Davide è narrato con un tono semplice e penetrante insieme, dove il dolore è ancora più intenso perché ipertrattenuto.
“Mi alzo, colazione, scuola, rispondo persino quando mia madre mi chiede qualcosa, ma è come se non fossi io, è come se avessi premuto il tasto rosso del telecomando e ora fossi in standby.” (pag 294)
Se le atmosfere, ripetiamo, possono essere ascritte ad un clima che ricorda Moccia o persino le canzoni della Pausini, lo scavo interiore è, però, lucido e tagliente nella sua elementarità, la lingua scabra e studiata. I dialoghi sentono gli effetti del vissuto da sceneggiatore di Campogiani, sono avvincenti, realistici, fin troppo perfettini per un protagonista ragazzino, al punto che è lo scrittore stesso, a volte, ad auto criticarsi: “Potevi dire qualcosa di più originale Guido: ‘Ho sbagliato, non voglio perderti…’ Sei… sdolcinato. Sei finto.” (pag 253) Peculiare l’abitudine di zoomare dalla terza persona alla seconda, per avvicinarsi al personaggio, per dialogarci.
Concludiamo dicendo che nel testo è presente anche una forte componente di denuncia dell’omofobia, sebbene sfumata, addomesticata. Dopo la presa di coscienza si giunge al rifiuto dei pregiudizi, delle categorizzazioni, delle etichettature.
“Non ho mai conosciuto la vita di un camionista. Non ho mai parlato d’amore con un camionista. E d’un tratto mi rendo conto di una cosa magari semplice, ma la voglio dire. Non esistono “i camionisti”. Esistono degli uomini, delle persone che fanno i camionisti. Semplice no? Ma non ci avevo ancora mai pensato. S’imparano un sacco di cose, viaggiando.” (pag 327)
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"Quando noi eravamo Noi, e il mondo se ne stava fuori, tutto era leggero, e come scivoloso, mentre ora non riesco a muovere un passo." (pag 294) Alla fine, sono ancora Babi e Step, alla fine è ...
http://www.criticaletteraria.org/2013/09/marco-campogiani-smalltown-boy-anordest-recensione.html
Incompiuta
Al funerale ci sono gli amici che trovano il morto smagrito e sciupato. Per forza, è sciupato. Si ragiona della vita, siamo tutti attaccati a un filo, oggi ci siamo e domani no, ma nessuno dice la verità, cioè che quello lì, Tommaso, mai avrebbe chiesto di venire al mondo, e ha vissuto tutti i suoi anni senza sapere qual era la sua meta, giusto per finire così, stecchito e rigido nella bara.
Perché, quello lì, Tommaso, era un poeta.
Scendeva al mare, la mattina, là dove la schiuma sferzava gorgogliando gli scogli, e scriveva versi. Poi si rimetteva i mocassini, risaliva la scarpata e andava a lavorare al magazzino.
Non era più giovane Tommaso, ma per lui l’ultima poesia era ancora la prima. Per lui era ancora il primo giorno di lavoro, quel lavoro temporaneo, meschino, che non gli piaceva. Si sentiva appena fresco di studi, in attesa di tuffarsi nella vita vera, la vita che ti dà gioia, soddisfazione, piacere.
Invece la pelle era grigia, e gli occhi non vedevano più, specie il sinistro. Sua moglie, Pina, adesso non lo riconosceva neanche, quando la sera tornava casa.
Eppure lui aspettava, fiducioso, aspettava la vita.
C’era una cosa che non osava neppure pensare, una frase che non poteva nemmeno formulare, mentre Pina già parlava di pensione e di nipoti.
Che senso avrebbe, si chiedeva, se ora io morissi, che senso avrebbe mai, questa mia vita incompiuta, sprecata?
E, dentro di sé, sbatacchiava come un leone in gabbia, si rivoltava come un matto nella camicia, mentre, in silenzio, con estrema calma, smarcava le vernici e contava i barattoli.
Prima, aspetti e sai che ce la farai, poi, aspetti e sei un po’ meno sicuro, ma, dici, non è possibile, ci deve essere uno scopo, una meta, un pianerottolo. Alla fine capisci che stai rinunciando, che davvero nessuno leggerà mai le tue poesie.
Allora morire non è poi così grave.
Piangeva, la notte, Tommaso, e stringeva i pugni.
Forse perché se lo sentiva, forse perché le sigarette gli avevano ingiallito le dita e arrochito la voce. Come adesso stanno dicendo in tanti, se l’è voluta. Il coso dentro il polmone è cresciuto, gli ha disintegrato gli alveoli, l’ha soffocato. È morto guardando la finestra, lo so perché c’ero. Pina stava zitta, in un angolo, con le bollette in mano.
Allora sono andato di là, dove lui teneva le poesie. Scritte a mano, perché non gli piaceva picchiare sui tasti, perché lui era rimasto indietro, ai tempi del liceo. Ho preso i fogli dal cassetto, li ho messi nella borsa.
E ora, Tommaso, sarebbe bello dirti che ho trovato un editore, che il mondo ti leggerà postumo, che Pina ed i ragazzi diventeranno ricchi con i tuoi versi. Questa storia avrebbe un senso, un lieto fine.
Ma il mondo non gira in questo modo, il mondo non è degli illusi, come noi.
Domattina andrò al mare, là dove tu scendevi, appena farà giorno.
Non avrò bisogno di leggere le tue parole perché le conosco, come tu conosci le mie. Ci scambiavamo rime, consigli, figure.
Mi toglierò le scarpe, come tu facevi, e immergerò i fogli ad uno ad uno nell’acqua. Resterò a guardare mente l’inchiostro si scioglierà, e le parole scompariranno.
Le tue parole, Tommaso, le parole nate sul mare, che il mare raccoglierà.
E le mie parole, le parole dei poeti sconosciuti, delle anime nascoste, delle vite incompiute.
Gordiano Lupi, "Il ragazzo del Cobre", Virgilio Piñera, "L'inferno e altri racconti brevi"
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Il ragazzo del Cobre
Gordiano Lupi
L’inferno e altri racconti brevi
Virgilio Piñera
Edizioni Il Foglio letterario, 2013
pp 104
4,90
“Da sempre le hanno insegnato che non si deve programmare il futuro, perché sono i giorni a scegliere la successione degli eventi. Vivere la vita momento per momento è la medicina migliore per sconfiggere la malinconia”. (pag 62)
La neonata collana Demian de Il Foglio letterario, diretta da Sacha Naspini e Federico Guerri, ha caratteristiche molto particolari. Il motto è “Il tentativo di una vita, l’accenno di un sentiero” (H. Hesse), la collana ospita 2 racconti per libro ed è organizzata in stagioni – ogni numero un episodio, con una antologia ogni dieci episodi. L’argomento esplorato è l’adolescenza.
L’episodio 7 raccoglie un bel racconto di Gordiano Lupi, “Il ragazzo del Cobre”, e uno speciale dedicato ad alcuni testi di Virgilio Piñera (1912 – 1979), scrittore cubano “dimenticato” dal regime castrista perché omosessuale, in un paese che considera l’omosessualità un vizio borghese, individualista e decadente.
Protagonista de “Il ragazzo del Cobre” è una famiglia che vive negli alagados, i quartieri costruiti su palafitte alla foce del fiume, a Salvador de Bahia. Gli abitanti del Cobre sono così poveri da trovarsi, nella scala sociale, addirittura sotto a quelli delle favelas. Padre, madre, un nonno, due figlie adolescenti, un ragazzino che gioca al calcio, un’altra bambina in arrivo, la lotta per portare a casa il pane ogni giorno con mezzi leciti e illeciti, la rassegnazione allo sfruttamento e al turismo sessuale, la speranza che non muore mai.
Ci sarà un riscatto, alla fine, ma sarà solo al prezzo di una vita, quella della giovane Anabel, uccisa mentre vende il suo corpo acerbo “alla luce della luna”. Sono gli stessi spiriti del Candoblè, intuiamo, a esigere questo sacrificio. Anabel muore e rinasce nella piccola che porterà il suo nome e i suoi occhi, cosicché la secondogenita, Maria, non faccia la sua fine, ma trovi un bravo ragazzo italiano disposto a toglierla dalla strada e offrirle una nuova esistenza in quel di Piombino, cosicché Juanito, a furia di tirar calci al pallone, venga notato dai procuratori sportivi ed entri a far parte di una squadra importante, allontanandosi – ma non con il cuore – dagli alagados, realizzando il suo sogno e ottenendo la possibilità di aiutare tutta la famiglia.
“I ragazzi saranno felici. Solo di questo è sicuro.
Nessuno dovrà più fare la loro vita.
Nessuno dovrà più lottare per non morire.” (pag 69)
Quella di Lupi non è una denuncia sociale ma una dichiarazione d’amore: per le notti tropicali, per le creole dalla pelle ambrata e i corpi sinuosi, per il calcio povero, quello dei campetti sterrati, che crea campioni come Pelé e Ronaldo.
La sonorità del titolo si trasmette tutta al testo. La lingua è asciutta, ci sono echi di Santiago de Il Vecchio e il mare ma lo stile vira decisamente al poetico, al nostalgico, al reiterato con strascichi da ritornello di ballata.
Per quanto riguarda i racconti di Piñera, alcuni possono essere ascritti ad una vena avanguardista da teatro dell’assurdo. Piñera precorre Ionesco. Ne è un esempio il racconto “L’interrogatorio”, illogico e kafkiano nelle atmosfere.
La novella che più ci colpisce è, però, “Il secchio”, col cerchio della vita rappresentato, appunto, dal secchio pieno di tamponi insanguinati, con il bisogno del protagonista di aggrapparsi a un ruolo, a una funzione, di trovare quello che Vasco Rossi chiamerebbe “il senso a una vita”, la quale di per sé “non ha importanza”, se non per la funzione sociale che svolge.
“Dopo il 1985”, ci viene spiegato nell’appendice, "a Cuba comincia il processo di rettificazione degli errori, le figure letterarie di Lezama Lima e Virgilio Piñera vengono rivalutate e valorizzate, omettendo tutte le persecuzioni che hanno dovuto subire.” (pag 102)
Si spera che tale opera continui anche in Italia, dove di Piñera esiste solo un romanzo, “La carne di Renè”, pubblicato da un piccolo editore e ormai fuori catalogo.
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L'inferno e altri racconti brevi Edizioni Il Foglio letterario, 2013 "Da sempre le hanno insegnato che non si deve programmare il futuro, perché sono i giorni a scegliere la successione degli ...
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Il figlio dell'uomo
Fra le sue cosce bianche, la mano risaltava, callosa, scura, la mano di un falegname che aveva viaggiato a lungo sotto il sole.
“Su, figliola, coraggio. Devo farlo io… non c’è nessuno che possa aiutarci.”
Anche l’altra mano di Giuseppe adesso poggiava sul suo ventre e lo comprimeva. Maria pensava che fosse un gesto inutile, ma non aveva il coraggio di contraddire ancora suo marito. Si vergognava. Di solito gli uomini non vedono certe cose. I figli li fanno le donne, aiutate da altre donne più vecchie.
“Spingi, Maria, forza!”
Maria non sentiva più freddo, era fradicia di sudore nella nuca e sotto le cosce.
“Non… non… aaaah… non distinguo più un dolore dall’altro, sono vicini, aaah.” Si agguantò al braccio di Giuseppe.
“Maria, mi stai ficcando le unghie nella carne.”
“Scusaaaah…”
Dietro la massiccia figura di Giuseppe, s’intravedeva l’apertura della grotta. C’erano le stelle, fulgide nel cielo freddo del deserto e, in mezzo, proprio sopra di loro, la palla di fuoco che annunciava la venuta di suo figlio.
S’inarcò per la contrazione più forte dall’inizio del travaglio. Non capiva se quelle pietre che le spaccavano la schiena fossero dentro di lei o sul pavimento della grotta.
Se almeno avessero trovato posto in albergo. Tutti riavevano cacciati. E quell’arrogante ostessa! Era incinta anche lei, avrebbe potuto avere un po’ di compassione.
Si morse le labbra e sentì che stava piangendo. Ora il figlio di Dio sarebbe nato in una grotta, con una mucca ed un asino, e sicuramente lei ci avrebbe rimesso la pelle.
Era questo che il Dio d’Israele voleva da lei? Usarla come un vaso per spargere il proprio seme e poi farla morire peggio di una bestia?
Si levò una brezza ghiaccia che gelò la sua nuca zuppa e frusciò tra le fronde delle grandi palme fuori la grotta. In lontananza – ma troppo lontano perché Giuseppe potesse lasciarla per chiamare aiuto – si sentivano belare le pecore.
Benedetta tu fra tutte le donne.
“Spingi, moglie!”
Sì, i dolori erano cambiati, si stavano facendo insopportabili: non mancava molto. Guardò fra le gambe aperte, al di là delle vesti appallottolate a metà ventre. Vide le cosce striate di sangue, vide il pelo del proprio pube, sotto la mano di Giuseppe il falegname, alzarsi ed abbassarsi al ritmo delle contrazioni.
Giuseppe era un buon marito. Era l’unico padre che desiderava per suo figlio. Eppure Gesù non sarebbe stato suo, lui la stava aiutando a far nascere il figlio di Dio.
Ma ora tutto sembrava così lontano, così assurdo. La visita dell’angelo, la luce, il fremito nel suo grembo… Ave Maria, piena di grazia… una visione forse? No, perché il bambino era stato concepito quando mancavano tre mesi alle nozze e lei non aveva ancora conosciuto uomo.
Aveva sperato, però, che alla sposa di Dio, all’ancella del Signore (tale si era proclamata inginocchiandosi nella luce che trasfigurava la sua umile casa) queste sofferenze sarebbero state risparmiate. Quando la grande creatura di luce con le ali di piuma le aveva detto: non temere, Maria, tu hai trovato grazia davanti a Dio, non pensava che le sarebbe stato imposto di partorire come le altre donne. E se fosse morta? Chi avrebbe allattato il suo piccolo? Perché il bambino era pur sempre suo figlio. Suo e di Giuseppe. Avrebbe lottato perché il Signore non lo togliesse a suo marito! Doveva essere Giuseppe il padre del piccolo, almeno finché Gesù non fosse cresciuto abbastanza.
Lontani, i fuochi dei pastori illuminavano le tende. Betlemme era in festa per la notte del censimento.
“Si vede la testa! Ha tanti capelli! Su, Maria, resisti! Ogni volta che spingi spunta fuori, ma poi torna indietro.”
“Allora non uscirà! Oh, Signore, aiuta tuo figlio…aiutami!”
“Ma, no, stai calma. Deve essere una cosa normale… ogni volta ti apri di più.”
Sentì che le dita di suo marito ora cercavano d’impedirle di richiudersi, ma era al di là della vergogna ormai. Voleva solo che finisse, voleva uscire da quel lago di dolore.
Egli sarà grande e verrà chiamato figlio dell’Altissimo.
Figlio dell’Altissimo… era un uomo invece! Quanta umanità c’era nei dolori che le strappavano le viscere, nel sangue che bagnava la polvere della grotta, che schizzava sulle vesti di Giuseppe.
Era Dio, ma nasceva come gli agnelli, nel sangue.
Ecco l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo.
Il monitoraggio era terminato. Ora Mrs Spencer le stava provando la pressione. Sorridendo, confermò che tutto era a posto. “Ok, è stata bravissima, Mary.”
Mary sospirò di sollievo e si rilassò sui cuscini. Stava perdendo ancora un po’ di sangue ma, dopo la disinfezione, le era stato applicato sul pube un grosso assorbente e adesso si sentiva di nuovo fresca sotto il lenzuolo.
Era andato tutto bene, suo figlio era nato! Quel figlio che Dio non le aveva voluto concedere, lei se lo era costruita da sola, con tutte le sue forze.
Quando avevano scoperto che Joseph era sterile, c’era stato tanto dolore in famiglia, ribellione, rabbia. Poi avevano deciso. Se Joseph non poteva darle un figlio, ne avrebbero comprato uno alla banca dello sperma, pagando qualsiasi prezzo pur di farlo nascere.
Mrs Spencer si avvicinò con un fagotto fra le braccia e lo posò delicatamente sul ventre ancora rigonfio della madre. Joseph fece un passo avanti, incerto, commosso.
Mrs Spencer aggrottò le ciglia. “Solo cinque minuti, prego, poi lasciamo riposare la signora.”
Joseph annuì. Da come deglutiva con forza, Mary capì che, se solo avesse cercato di parlare, si sarebbe messo a piangere.
Quando la capo infermiera fu uscita, suo marito si accoccolò vicino a lei. Toccò la mano del bambino. Le ditina si strinsero a pugno attorno alle sue.
Mary guardava suo figlio e l’uomo che l’avrebbe allevato. Questo è il figlio dell’uomo, pensò, il figlio di uno sconosciuto che ha versato il suo seme per me. Ma è anche il figlio di Dio, nato per miracolo ed in letizia, ed il suo corpo è ancora caldo delle mani del Signore.
Nessun dolore
È spaventoso come una persona ti esce dal cuore. La guardi e capisci che hai rinunciato a sperare. Non sarà mai come vorresti che fosse. C’è un ponte fra voi, che ogni giorno tu fatichi ad attraversare, ma lei non si sporge mai verso di te. Ti cresce il vuoto dentro, vedi l’abisso che si scava, e ti senti impotente.
Certo, avvocato, certo, lo so che divago, lo so che devo essere precisa. Ricordo bene quando Francesco è venuto a prendermi al lavoro.
Ci siamo fermati alla gelateria Primavera. Mentre io ordinavo due paste, lui si è messo a leggere la Gazzetta dello Sport.
“Ti devo dire una cosa”, ho cominciato. Rigiravo le analisi fra le dita, sotto il tavolino, mi tremava la voce.
“Uhm”, ha fatto lui, senza alzare gli occhi dal giornale. È quello che dice quando non mi sta ascoltando.
“Vaffanculo, France”.
“Eh, dicevi?”
“Niente.”
In quel momento gli è squillato il cellulare. Ha risposto piegando appena la testa di lato, come fa quando mi sta raccontando una bugia. “Sì, sì”, ha detto, “ne parliamo con calma domani”, poi ha chiuso la comunicazione.
L’ho guardato senza dire nulla e lui ha abbassato gli occhi. “Chi era?”, ho domandato alla fine.
“Nessuno, la solita grana di lavoro.”
Ho osservato la sua figura, che conosco in ogni minimo particolare, tanto che potrei disegnarla ad occhi chiusi. I bei capelli neri, le lunghe ciglia quasi femminee, l’aria elegante e svagata. “Andiamo a casa”, ho detto, “sento freddo.”
A casa abbiamo parlato del dentista, del lavandino intasato e del veterinario per Bingo, poi, di nascosto, gli ho preso il cellulare dalla tasca e ho premuto ultima chiamata.
Una voce di donna, assonnata e roca. È stata la banalità di quella voce ad offendermi.
E poi ricordo anche quella sera, mesi dopo, che sono tornata a casa ed in camera c’era il letto smosso, nel bagno il mio accappatoio non stava dove di solito lo lascio. Lei si era gingillata con i miei trucchi, li aveva aperti, spostati, aveva spruzzato il mio profumo per divertirsi o forse per nascondere il suo odore. Ho trovato Bingo rintanato sotto il letto, l’ho preso in braccio, “mami è qui, è tutto a posto.” Ma non era tutto a posto, no, affatto.
Ancora il telefono, sempre quel cazzo di telefono. “Che succede, France?
“Niente, vai di là, lasciami in pace.”
Sono andata in cucina ed ho cominciato a lavare l’insalata. Lo sentivo camminare in su ed in giù per il soggiorno, sentivo le sue imprecazioni soffocate. “Non puoi farmi questo”.
“Ci sono problemi?” ho domandato. “Nulla che non si possa risolvere, Chiara. Lascia stare quella roba, ti porto fuori a cena.”
Siamo andati al solito posto, lui ha ordinato il pesce ma poi l’ha lasciato nel piatto. Parlava poco, teneva la testa bassa. Gli è squillato ancora il cellulare e ho riconosciuto la voce alterata di quella donna. Ho sentito chiaramente le parole incinta e divorzio.
“Non ci lascia più neppure cenare?” ho domandato. Stranamente, lui non ha negato. Ha calato la testa nel piatto, ha sospirato. “Chiara, sistemerò le cose, dammi un po’ di tempo.”
C’è un tempo per tutto, Francesco, avrei voluto dirgli, e quel tempo per noi è passato. Ma ho imparato che tacere è la via migliore, che è così che si sopravvive.
A casa mi sono piazzata davanti allo specchio e mi sono guardata tutta, dalla testa ai piedi, come per rendermi conto che ci sono. Ho lisciato la pancia che cominciava a soffocarmi. “Cerca di essere felice, Chiara”, mi sono detta, “fallo per te e per il bambino.”
Vede, avvocato, non riesco a provare tenerezza per mio figlio, sono svuotata d’ogni sentimento. L’unica cosa che davvero vorrei è tornare a casa. Se mi permettessero di rientrare, metterei tutto a posto, laverei via quelle macchie. Ho lasciato troppe cose a metà, ci sono ancora le camicie di Francesco da stirare, i pantaloni da portare in tintoria. Mi serve qualcosa di lui da toccare, da annusare.
Tiro fuori di tasca una sua foto e la liscio. È più giovane, più magro, con più capelli, sorride a me che lo inquadro. Forse quando gli hanno fatto l’autopsia, mi ha chiamato, forse ha avuto paura. Mi passo la foto sulla guancia ed è fredda.
Perché cazzo non si può piangere un morto da soli?
I morti vanno piombati nelle casse, archiviati in fretta, perché la vita continui, perché si torni al lavoro, a scuola, allo stadio.
Sa, al funerale, la gente passava, posava fiori ai piedi della bara, mi stringeva le mani. “Coraggio, Chiara.” Ma non mi guardavano negli occhi. Qualcuno mi baciava, lasciandomi una scia di saliva sulla guancia che mi pulivo subito, di nascosto, col dorso della mano.
Mia madre parlava con la gente. “Abbiamo preso l’avvocato migliore, questa non mi doveva capitare, non ce la faccio alla mia età.” Mia madre mette sempre se stessa al centro, come se Francesco fosse morto per dare un dispiacere a lei, come se il dolore non fosse mio ma suo.
Io fissavo Francesco, le palpebre semiaperte, le guance incavate, la barba che continuava a crescere anche nella bara. Cosa aveva a che fare col ragazzo che mi mandava mazzi di rose per farsi perdonare, che mi lasciava bigliettini teneri in giro per casa?
Ma sarà vero che i morti sono in pace ?
Gli parlavo. Sai, France, dicevo, sono stata da lei, al suo negozio. Ha detto che mi volevi lasciare dopo la nascita del bambino. Non le ho creduto.
Sì, lei, proprio lei, appoggiata al bancone, indaffarata con i saldi di fine stagione, ha stirato le labbra gonfie, ha strinto gli occhi truccati, ha detto che non eri felice con me.
Dicono che il bambino ha bisogno di sentire il mio affetto, ma che non devo attaccarmici troppo perché me lo toglieranno. Vorrei che fosse ancora dentro di me.
Ho letto articoli su bambini cresciuti in prigione, che chiamano cella la casa, che hanno terrore del mondo di là dalle sbarre, che vengono strappati alle madri in una data ora e in un dato giorno stabiliti dalla legge. Bambini insicuri, traumatizzati, segnati per tutta la vita. Risparmierò questo a mio figlio, lo lascerò andare. Non gli darò nemmeno un nome.
Francesco ed io ci siamo amati, cosa crede, avvocato, i ricordi belli sono tutti lì, se non ne fossi convinta, impazzirei.
Ora vorrei trovarmi al suo posto, senza più pensieri sotto la terra fresca, solo l’odore d’acqua ferma nei vasi e, tutt’intorno, i morti immemori, senza ricordi, senza speranze inutili
Ma, in fin dei conti, si tratta solo di mettere un piede di fronte all’altro, nello spazio ristretto di questa cella, far passare il tempo. Ho persino il lusso di poter piangere da sola, quando le altre sono fuori per l’ora d’aria. Piango solo un poco, piango di nascosto e poi vado avanti. Mi piego ma non mi spezzo, avvocato, tanto, lo sa anche lei, ormai non c’è più niente da spezzare.
Sento le donne che gridano, che si disperano. Io non grido mai, sto sempre zitta, ascolto le voci nella mia testa. “Francesco, Francesco, Francesco”.
Francesco dovrebbe essere anche il nome di mio figlio, ma mi mordo le labbra per non dirlo a voce alta, per non chiamare un bimbo che non mi appartiene, che un’altra alleverà.
Di là da queste sbarre, sento il fischio delle rondini che si abbassano per rincorrere i moscerini. Sono sola, in balia di me stessa. È un dato di fatto, avvocato, non c’è niente di male. Nessun dolore, anzi, quasi un senso di trionfo.
Marta ci vede
Ore tredici, silenzio rovente, canicola. Pensieri come mosche in una giornata umida.
Mentre parcheggio all’ombra dei pini, mi rendo conto di essermi spinto fino al mare. Da quanto non vengo? Forse dall’ultima volta che ci ho portato Marta.
I pini esalano odore di resina riscaldata, di aghi schiacciati sotto le ciabatte di gomma, di polvere. Se fosse qui, Marta berrebbe l’aria con le narici come una puledra, piegherebbe la testa di lato per ascoltare, toccherebbe la corteccia degli alberi, riderebbe se la resina le incollasse le dita, abbraccerebbe il tronco per capirne l’età. “Questo è proprio tanto vecchio”, direbbe, “ne sento l’energia. Gli alberi sono creature vive ed antiche.”
Come due anni fa, in Sicilia. Sudava sotto il sole, mentre visitavamo la Valle dei Templi. Io leggevo le spiegazioni della guida e lei ascoltava, assorta, rapita.
“È assurdo, a che cazzo serve”, pensavo, ma lei era raggiante mentre allargava le braccia e si distendeva sulle rovine del capitello, per afferrarne l’ampiezza, l’asperità del tufo. “È incredibile cosa riuscivano a fare a quei tempi.”
Mi sorrideva dietro gli occhiali da sole grandi e neri. La fotografavo perché era lei a chiedermelo, e intanto pensavo che quelle foto non le avrebbe viste mai, non avrebbe saputo che il naso le si era arrossato, che il petto le si era coperto di efelidi, che il gelato le aveva macchiato la maglietta.
È sempre così entusiasta di tutto, lei.
Mi faccio a piedi il viale fino alla spiaggia infuocata, affollatissima, stringo gli occhi nella calura tremolante. Quasi non vedo il mare, oltre le file degli ombrelloni, ma c’è odore di salmastro, di abbronzanti, di ghiacciolo, di scarpe abbandonate al sole.
Chiudo gli occhi, provo a sentire le cose come le sente lei, ma la tristezza mi chiude la gola. Se fossi un insetto, penso, vedrei il mondo attraverso occhi dalle mille sfaccettature. Non sarebbe il mondo che conosco io.
Mi spoglio. Gli slip neri possono sembrare un costume, e comunque me ne frego. Cammino a lungo prima che l’acqua mi arrivi al petto. Nei passi faticosi verso il largo, rivedo mio padre che fa arselle col setaccio grande, e mia madre col costume intero, i piedi larghi e forti, le spalle fiere. Mi sento solo, come non lo sono mai stato, solo con tutte le responsabilità.
Mi tuffo, l’acqua mi fa rabbrividire, avanzo a bracciate verso il nulla, nuoto fino a che il bagnino non comincia a fischiare per richiamarmi indietro.
Sono disperato, non c’è nulla che voglia fare, nulla che ami, nulla che desideri.
“È depressione, Gianfranco”, mi ha detto Roberto, che è medico ed anche mio amico. “Stare accanto ad una moglie non vedente è difficile, lo capisco. Ora ti segno delle pillole, ma tu fatti forza.”
“Maledizione, Roberto. Non mi servono farmaci. Non sono depresso.”
Roberto ha scosso la testa. “Pensa a Marta, Gianfranco. È cieca da dodici anni, dal giorno dell’incidente, ma non ho mai conosciuto qualcuno con tanta voglia di vivere. Lei ti ama, non dimenticarlo.”
Marta mi ama. Sono fortunato. Quella sera guidavo io.
Non riesco più ad alzarmi la mattina ed in quest’acqua ci vorrei annegare.
Marta è cieca. No, non è vero. Marta vede in un altro modo, vede col cuore, con l’anima, con i sensi. Lei vede più di me, vede tutto quello che io non so più vedere. Lei vede il bene della vita che io ho perso.
Mi volto e torno a riva così veloce da sfiancarmi, fino a che i miei piedi non toccano di nuovo la sabbia piena di buche, di mulinelli, di tracine brucianti. Piena di cose vive.
Mi rivesto senza nemmeno asciugarmi.
Chissà, magari, sulla strada del ritorno mi fermerò in farmacia.
Il faro
Nell’aria un sottile odore di osso succoso
seguo la scia sbavando e leccandomi
ma il mio padrone ha solo alzato la mano
e fatto un gesto indefinito
l’osso ce l’ho messo io.
Ora non c’è nemmeno più quel “vedrai”.
Un muro, col cuore di calcina,
di pietra refrattaria, insensibile.
Sento il mio amore contrarsi
come la materia di un buco nero.
Finché la luce di questa estate mi vorrà viva
vedrò la vita dal crepuscolo,
ma, se posso scegliere, voglio un faro,
una torre in mezzo al mare,
con una piccola spiaggia.
Sentirò il rumore delle onde
dalla mia finestra
la risacca laverà via il dolore
mi purificherà.
Ogni granello di sabbia
ogni guscio di granchio seccato al sole
saranno intrisi del mio amore.
Dimenticherò il magro raccolto della mia vita
Dio scenderà a toccarmi
e non avrò più bisogno di nessuno.
George R.R. Martin, "Game of Thrones"
Game of Thrones
di George R.R. Martin 1996
Harper Voyager, 2011
pp. 801
€ 14,40
“When you play the game of Thrones, either you win or you die”.
Da una minestra riscaldata può nascere una zuppa appetitosa? La risposta è sì, nel caso di Game of Thrones, il romanzo fantasy di George R.R. Martin.
Se già nelle iniziali dell’autore sentiamo riecheggiare il nome del maggior esponente del genere, in altre parole Tolkien, possiamo dire che tutto il romanzo è la saga del già visto. Mai come in questo caso a ogni immagine, a ogni descrizione, a ogni ambiente, a ogni battaglia combattuta e arma brandita, si collega qualcosa di già sentito e già osservato, qualcosa che fa parte del bagaglio culturale di chiunque abbia dimestichezza con la fantasia e con l’immaginario. Ci vengono in mente associazioni di ogni genere, viste e udite non solo sui libri, ma in televisione, al cinema, ovunque.
I tornei, le armature, le cotte di maglia lucente, ricordano sir Lacillotto in film come Excalibur di John Boorman (1981), ma anche Il primo cavaliere di Jerry Zucker (1995). La giovane Sansa somiglia tanto a Meg che va alla “fiera delle vanità” in “Piccole Donne” di Louisa May Alcott. Il mezzo gigante Hodor è simile, anche nel nome, a Hagrid di “Harry Potter” (che però è del 1997 ed è quindi di poco successivo). I vari casati in lotta per il trono sono vicini agli abitanti del pianeta Cottman IV nel “Ciclo di Darkover”, o alla storica Guerra delle due Rose. Le atmosfere sanguinarie, erotiche e barbariche, del filone dedicato a Daenerys e a suo marito Drogo, ci ricordano sceneggiati televisivi ispirati alla figura di Attila e di Gengis Khan.
Insomma, è tutto un susseguirsi di déjà vu. Quindi si potrebbe pensare che il genere non abbia più niente da offrire, che il romanzo di Martin sia solo per aficionados influenzati dal successo dell’omonima serie televisiva. Invece non è così, invece era da tanto che non ci immergevamo in una lettura di ottocento pagine con la sensazione di essere precipitati davvero in un secondary world fantastico, curato nei minimi particolari e coerente. Chi scrive narrativa di genere, infatti, sa che, qualunque sia l’argomento trattato, non deve mai perdere la fiducia del lettore con errori grossolani. Un occhio non può essere vitreo, per capirci, né la volontà ferrea, in un universo dove vetro e ferro non sono stati ancora inventati. Ed era da tanto che non vedevamo in atto la subcreazione tolkieniana con tale forza da farci correre subito in libreria per comprare il secondo della serie e poi il terzo e via di seguito. All’interno di elementi già noti e riconducibili a un patrimonio di conoscenze comuni, a Martin va riconosciuta la capacità di aver sviluppato alcune figure e alcune situazioni in modo molto personale.
Fra i personaggi spiccano le due ragazzine dal carattere opposto, la mansueta Sansa e il maschiaccio Arya – davvero riconducibili agli archetipi Meg e Jo – e Tyrion, rielaborazione ovvia, e insieme geniale, del nano della fantasy. Tyrion è infatti un vero nano umano, figlio sgradito di un signore della guerra, con tutte le conseguenze psicologiche che la sua deformità comporta. Ci colpisce anche il piccolo Bran, che rimane paralizzato per mano nemica e affronta con coraggio la sua sventura, oppure Jon Stark, il figlio bastardo che morirebbe pur di essere amato dal padre quanto gli altri figli. I caratteri sono descritti a tutto tondo, hanno un passato, un presente e un futuro, hanno famiglie e motivazioni psicologiche profonde, come la misteriosa nascita illegittima di Jon, o l’infelice rapporto col padre dell’obeso, vile e goffo Sam (a ben guardare molti dei personaggi hanno relazioni conflittuali con i genitori). L’autore conosce tutte le sue creature, sa cosa direbbero in ogni circostanza, sa come agiscono, che posto occupano nello spazio e quali sono le loro movenze.
Al di là dei personaggi, ci sono poi alcuni elementi che caratterizzano la saga. Uno è costituito daidirewolves - i non estinti canis dirus, tradotti malamente con meta- lupi - ciascuno dei quali accompagna i rampolli della casa Stark. Li percepiamo, grandi e possenti, agili e spietati ma fedeli e affettuosi con i padroncini. L’altra immagine che ci rimane scolpita nella mente è quella del Wall, l’immensa muraglia di ghiaccio che da secoli divide le terre degli uomini dalle lande selvatiche e desolate del nord, nascondiglio di cose misteriose, pronte a ghermire nel buio e uccidere. Pare di vederlo, l’immenso muro traslucido, con i suoi camminamenti cosparsi di ghiaino che scricchiola sotto le suole dei Guardiani, con le incrinature, le crepe e i rivoletti di scioglimento, in un mondo dove le stagioni non sono quelle da noi conosciute, ma alternano grandi glaciazioni a lunghe primavere.
Rispetto alle altre cronache fantasy, grande spazio è dato alla sessualità, materia che, di solito, viene rimossa e sublimata. Qui amplessi e stupri sono frequenti ed espliciti, l’universo è selvaggio e insanguinato, al punto che la serie televisiva tratta dal romanzo è stata considerata “diseducativa” per i giovani. Non ci si tira indietro neppure di fronte all’incesto o alla pedofilia. Jaime e Cersei sono gemelli, come Cathy e Heathcliff (senza averne l’oscura potenza) si completano a vicenda e l’atto sessuale per loro è una sorta di riunione con la metà perduta. Daenerys va sposa al suo principe guerriero a soli tredici anni. Sansa ed Arya sono bambine ma già suscitano desideri nei maschi adulti.
Anche la religione trova una collocazione, dimenticata nell’atea Terra di Mezzo e in altri universi fantastici. Il culto dei septon e delle septas, che sta soppiantando quella degli antichi dei, ricorda il conflitto fra cristianesimo e druidismo, così ben rappresentato non solo da Merlino e Morgana inExcalibur (che, non dimentichiamolo, si basa su La Morte d’Arthur di Thomas Malory) ma anche nei romanzi della Bradley e, in particolare, ne “Le nebbie di Avalon" e nel suo prequel, “The Forest House”, costruito sulla storia narrata nella Norma di Vincenzo Bellini.
Le tecniche narrative applicate nel testo sono le più comuni e collaudate del genere. I personaggi seguono il POV, cioè il punto di vista circoscritto alternato in capitoli, pratica affinata da Tolkien - il quale non perde quasi mai la focalizzazione hobbit - e portata avanti poi da Terry Brooks nel “Ciclo di Shannara”. La capacità narrativa si esplica con quello che possiamo definire “lo sguardo circolare”. Mentre racconta, l’autore non perde mai di vista la scena generale, ha un occhio capace di cogliere i particolari circostanti, si chiede che cosa fanno gli altri personaggi intorno, chi si sta muovendo nell’ambiente, e fa agire ed esprimere ogni figura secondo le proprie peculiarità.
Per concludere, possiamo dire che Martin, all’interno di un genere conosciuto e sfruttato, ha saputo trovare un’interpretazione personale, in grado di dare un senso a ciò che scrive, affinché non sia inutile, superfluo o, peggio, ridicolo.
"When you play the game of Thrones, either you win or you die."
Can a tasty soup be born from a heated soup? The answer is yes, in the case of Game of Thrones, the fantasy novel by George R.R. Martin.
If already in the author's initials we hear the echo of name of the greatest exponent of the genre, in other words Tolkien, we can say that the whole novel is the saga of the already seen. Never as in this case, every image, every description, every environment, every battle fought and weapon brandished, is connected to something already heard and observed, something that is part of the cultural background of anyone familiar with the imagination and with the imaginary. All kinds of associations come to mind, seen and heard not only on books, but on television, in the cinema, everywhere.
The tournaments, the armour, the chain mails are reminiscent of Sir Lancillotto in films such as John Boorman's Excalibur (1981), but also Jerry Zucker's First knight (1995). The young Sansa looks so much like Meg that goes to the "vanity fair" in Little Women by Louisa May Alcott. The giant medium Hodor is similar, also in the name, to Hagrid of Harry Potter (which is from 1997 and is therefore not much later). The various families fighting for the throne are close to the inhabitants of the planet Cottman IV in the Darkover Cycle, or to the historic War of the Two Roses. The bloody, erotic and barbaric atmospheres of the vein dedicated to Daenerys and her husband Drogo remind us of television dramas inspired by the figure of Attila and Genghis Khan.
In short, it's all a succession of déjà vu. So one might think that the genre has nothing more to offer, that Martin's novel is only for aficionados influenced by the success of the television series of the same name. Instead it is not so, instead it has been a long time since we immersed ourselves in a reading of eight hundred pages with the feeling of having really fallen into a fantastic secondary world, with attention to the smallest details and coherent. Those who write gender fiction, in fact, know that, whatever the topic covered, they must never lose the reader's trust with gross errors. To understand, an eye cannot be glassy, nor the will made of iron, in a universe where glass and iron have not yet been invented. And it has been a long time since we have seen Tolkien's subcreation in place with such force that we immediately rush to the bookstore to buy the second of the series and then the third and so on. Within elements already known and attributable to a wealth of common knowledge, Martin must be recognized for his ability to have developed some figures and some situations in a very personal way.
Among the characters, the two girls with the opposite character stand out, the meek Sansa and the tomboy Arya - really attributable to the archetypes Meg and Jo - and Tyrion, an obvious and at the same time ingenious reworking of the fantasy dwarf. Tyrion is in fact a true human dwarf, an unwelcome son of a warlord, with all the psychological consequences that his deformity entails. We are also struck by little Bran, who remains paralyzed by an enemy hand and bravely faces his misfortune, or Jon Stark, the bastard son who would die just to be loved by his father as much as his other children. The characters are described alla round, They have a past, a present and a future, they have families and deep psychological motivations, such as Jon's mysterious illegitimate birth, or the unhappy relationship with the father of the obese, cowardly and clumsy Sam (on closer inspection many of the characters have conflicting relationships with their parents). The author Knoews all his creatures, knows what they would say in all circumstances, knows how they act, what place they occupy in space and what their movements are.
Beyond the characters, there are also some elements that characterize the saga. One is made up of direwolves - the non-extinct canis dirus, - each of which accompanies the scions of the Stark house. We perceive them, large and powerful, agile and ruthless but faithful and affectionate with the owners. The other image that remains engraved in our mind is that of the Wall, the immense wall of ice that for centuries has divided the lands of men from the wild and desolate lands of the north, a hiding place of mysterious things, ready to grasp in the dark and kill. It seems to see it, the immense translucent wall, with its walkways sprinkled with gravel that creaks under the soles of the Guardians, with cracks and melting rivulets, in a world where the seasons are not those we know, but alternate large glaciations with long springs.
Compared to the other fantasy chronicles, great space is given to sexuality, a matter which is usually removed and sublimated. Here intercourses and rapes are frequent and explicit, the universe is wild and bloody, to the point that the television series based on the novel was considered "miseducational" for young people. There is no turning back even in the face of incest or pedophilia. Jaime and Cersei are twins, as Cathy and Heathcliff (without having their dark power) they complete each other and the sexual act for them is a sort of meeting with the lost half. Daenerys marries her warrior prince at just thirteen. Sansa and Arya are girls but already arouse desires in adult males.
Religion also finds a place, forgotten in the atheist Middle Earth and in other fantastic universes. The cult of the septoms and septas, which is replacing that of the ancient gods, recalls the conflict between Christianity and Druidism, so well represented not only by Merlin and Morgana in Excalibur (which, let's not forget, is based on Malory’s Mort d’Arthur) but also in Bradley's novels and, in particular, in The Mists of Avalon and in his prequel, The Forest House, built on the story told in Vincenzo Bellini's Norma.
The narrative techniques applied in the text are the most common and proven of the kind. The characters follow the POV, that is the circumscribed point of view alternating in chapters, a practice refined by Tolkien - who hardly ever loses his hobbit focus - and then pursued by Terry Brooks in the Shannara Cycle. The narrative ability is expressed with what we can call the "circular gaze". While telling, the author never loses sight of the general scene, has an eye capable of grasping the surrounding details, wonders what the other characters around do, who is moving in the environment, and makes each figure act and express according to its peculiarities.
To conclude, we can say that Martin, within a known and exploited genre, has been able to find a personal interpretation, capable of making sense of what he writes, so that it is not useless, superfluous or, worse, ridiculous.