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poli patrizia

Pic nic

26 Ottobre 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #racconto

Mi allontano dallo spiazzo, mi accuccio per un bisognino, a ginocchia larghe, culo in giù, coso che penzola fra le gambe. Mi concentro, perché non è che sia proprio un bisognino da nulla, insomma, è impegnativo sto stronzo.
Vedo se esce, guardo anche il rivolo di pipì che corre sugli aghi di pino, secchi e gialli. Noto il picciolo che hanno in cima, in colonia ci avevano insegnato ad intrecciare le collane, bastava prendere la punta e infilarla proprio nel picciolo.
Poi, visto che si va per le lunghe, alzo la testa.
E la vedo. Vedo la pineta per la prima volta dopo ore, dopo averci mangiato dentro gli zerri sotto il pesto, forse perché da questa posizione, a faccia in su, si sente il vento che muove le cime, e la luce piove dai rami, e scaglie di sole mi squamano la pelle come fossi anch’io uno zerro.
Mi pulisco con una foglia, tiro su i pantaloni con una certa urgenza, come se mi premesse d’andare, di camminare, di non tornare dalla Mariuccia e dai figlioli.
E cammino, difatti. Cammino con le ciabatte di gomma sugli aghi di pino, cammino giù per le vallette e su per i monticelli, tocco le cortecce resinose, ascolto i gabbiani che urlano, oltre gli ombrelli, negli squarci di cielo. Il mare, di là, respira salmastro.
Scendo e risalgo, con la zucca vuota di pensieri.
Sento che mi chiamano, che hanno smesso di tirar pedate al pallone.
“Fra un minuto sono lì, ci sto io in porta, ciccetti miei.”

***

Chissà quanto mi avranno cercato. Ma poi, in qualche modo, si saranno arrangiati, la Mariuccia è una donna forte.
Uno qui ci sta bene e non ha bisogno di nulla
Hanno forse bisogno di qualcosa gli alberi?

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Nessun dolore

24 Ottobre 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #racconto

È spaventoso come una persona ti esce dal cuore. La guardi e capisci che hai rinunciato a sperare. Non sarà mai come vorresti che fosse. C’è un ponte fra voi, che ogni giorno tu fatichi ad attraversare, ma lei non si sporge mai verso di te. Ti cresce il vuoto dentro, vedi l’abisso che si scava, e ti senti impotente.
Certo, avvocato, certo, lo so che divago, lo so che devo essere precisa. Ricordo bene quando Francesco è venuto a prendermi al lavoro.
Ci siamo fermati alla gelateria Primavera. Mentre io ordinavo due paste, lui si è messo a leggere la Gazzetta dello Sport.
“Ti devo dire una cosa”, ho cominciato. Rigiravo le analisi fra le dita, sotto il tavolino, mi tremava la voce.
“Uhm”, ha fatto lui, senza alzare gli occhi dal giornale. E’ quello che dice quando non mi sta ascoltando.
“Vaffanculo, France”.
“Eh, dicevi?”
“Niente.”
In quel momento gli è squillato il cellulare. Ha risposto piegando appena la testa di lato, come fa quando mi sta raccontando una bugia. “Sì, sì”, ha detto, “ne parliamo con calma domani”, poi ha chiuso la comunicazione.
L’ho guardato senza dire nulla e lui ha abbassato gli occhi. “Chi era?”, ho domandato alla fine.
“Nessuno, la solita grana di lavoro.”
Ho osservato la sua figura, che conosco in ogni minimo particolare, tanto che potrei disegnarla ad occhi chiusi. I bei capelli neri, le lunghe ciglia quasi femminee, l’aria elegante e svagata. “Andiamo a casa”, ho detto, “sento freddo.”
A casa abbiamo parlato del dentista, del lavandino intasato e del veterinario per Bingo, poi, di nascosto, gli ho preso il cellulare dalla tasca e ho premuto ultima chiamata.
Una voce di donna, assonnata e roca. E’ stata la banalità di quella voce ad offendermi.
E poi ricordo anche quella sera, mesi dopo, che sono tornata a casa ed in camera c’era il letto smosso, nel bagno il mio accappatoio non stava dove di solito lo lascio. Lei si era gingillata con i miei trucchi, li aveva aperti, spostati, aveva spruzzato il mio profumo per divertirsi o forse per nascondere il suo odore. Ho trovato Bingo rintanato sotto il letto, l’ho preso in braccio, “mami è qui, è tutto a posto.” Ma non era tutto a posto, no, affatto.
Ancora il telefono, sempre quel cazzo di telefono. “Che succede, France?
“Niente, vai di là, lasciami in pace.”
Sono andata in cucina ed ho cominciato a lavare l’insalata. Lo sentivo camminare in su ed in giù per il soggiorno, sentivo le sue imprecazioni soffocate. “Non puoi farmi questo”.
“Ci sono problemi?” ho domandato. “Nulla che non si possa risolvere, Chiara. Lascia stare quella roba, ti porto fuori a cena.”
Siamo andati al solito posto, lui ha ordinato il pesce ma poi l’ha lasciato nel piatto. Parlava poco, teneva la testa bassa. Gli è squillato ancora il cellulare e ho riconosciuto la voce alterata di quella donna. Ho sentito chiaramente le parole incinta e divorzio.
“Non ci lascia più neppure cenare?” ho domandato. Stranamente, lui non ha negato. Ha calato la testa nel piatto, ha sospirato. “Chiara, sistemerò le cose, dammi un po’ di tempo.”
C’è un tempo per tutto, Francesco, avrei voluto dirgli, e quel tempo per noi è passato. Ma ho imparato che tacere è la via migliore, che è così che si sopravvive.
A casa mi sono piazzata davanti allo specchio e mi sono guardata tutta, dalla testa ai piedi, come per rendermi conto che ci sono. Ho lisciato la pancia che cominciava a soffocarmi. “Cerca di essere felice, Chiara”, mi sono detta, “fallo per te e per il bambino.”
Vede, avvocato, non riesco a provare tenerezza per mio figlio, sono svuotata d’ogni sentimento. L’unica cosa che davvero vorrei è tornare a casa. Se mi permettessero di rientrare, metterei tutto a posto, laverei via quelle macchie. Ho lasciato troppe cose a metà, ci sono ancora le camicie di Francesco da stirare, i pantaloni da portare in tintoria. Mi serve qualcosa di lui da toccare, da annusare.
Tiro fuori di tasca una sua foto e la liscio. E’ più giovane, più magro, con più capelli, sorride a me che lo inquadro. Forse quando gli hanno fatto l’autopsia, mi ha chiamato, forse ha avuto paura. Mi passo la foto sulla guancia ed è fredda.
Perché cazzo non si può piangere un morto da soli?
I morti vanno piombati nelle casse, archiviati in fretta, perché la vita continui, perché si torni al lavoro, a scuola, allo stadio.
Sa, al funerale, la gente passava, posava fiori ai piedi della bara, mi stringeva le mani. “Coraggio, Chiara.” Ma non mi guardavano negli occhi. Qualcuno mi baciava, lasciandomi una scia di saliva sulla guancia che mi pulivo subito, di nascosto, col dorso della mano.
Mia madre parlava con la gente. “Abbiamo preso l’avvocato migliore, questa non mi doveva capitare, non ce la faccio alla mia età.” Mia madre mette sempre se stessa al centro, come se Francesco fosse morto per dare un dispiacere a lei, come se il dolore non fosse mio ma suo.
Io fissavo Francesco, le palpebre semiaperte, le guance incavate, la barba che continuava a crescere anche nella bara. Cosa aveva a che fare col ragazzo che mi mandava mazzi di rose per farsi perdonare, che mi lasciava bigliettini teneri in giro per casa?
Ma sarà vero che i morti sono in pace ?
Gli parlavo. Sai, France, dicevo, sono stata da lei, al suo negozio. Ha detto che mi volevi lasciare dopo la nascita del bambino. Non le ho creduto.
Sì, lei, proprio lei, appoggiata al bancone, indaffarata con i saldi di fine stagione, ha stirato le labbra gonfie, ha strinto gli occhi truccati, ha detto che non eri felice con me.
Dicono che il bambino ha bisogno di sentire il mio affetto, ma che non devo attaccarmici troppo perché me lo toglieranno. Vorrei che fosse ancora dentro di me.
Ho letto articoli su bambini cresciuti in prigione, che chiamano cella la casa, che hanno terrore del mondo di là dalle sbarre, che vengono strappati alle madri in una data ora e in un dato giorno stabiliti dalla legge. Bambini insicuri, traumatizzati, segnati per tutta la vita. Risparmierò questo a mio figlio, lo lascerò andare. Non gli darò nemmeno un nome.
Francesco ed io ci siamo amati, cosa crede, avvocato, i ricordi belli sono tutti lì, se non ne fossi convinta, impazzirei.
Ora vorrei trovarmi al suo posto, senza più pensieri sotto la terra fresca, solo l’odore d’acqua ferma nei vasi e, tutt’intorno, i morti immemori, senza ricordi, senza speranze inutili
Ma, in fin dei conti, si tratta solo di mettere un piede di fronte all’altro, nello spazio ristretto di questa cella, far passare il tempo. Ho persino il lusso di poter piangere da sola, quando le altre sono fuori per l’ora d’aria. Piango solo un poco, piango di nascosto e poi vado avanti. Mi piego ma non mi spezzo, avvocato, tanto, lo sa anche lei, ormai non c’è più niente da spezzare.
Sento le donne che gridano, che si disperano. Io non grido mai, sto sempre zitta, ascolto le voci nella mia testa. “Francesco, Francesco, Francesco”.
Francesco dovrebbe essere anche il nome di mio figlio, ma mi mordo le labbra per non dirlo a voce alta, per non chiamare un bimbo che non mi appartiene, che un’altra alleverà.
Di là da queste sbarre, sento il fischio delle rondini che si abbassano per rincorrere i moscerini. Sono sola, in balia di me stessa. E’ un dato di fatto, avvocato, non c’è niente di male. Nessun dolore, anzi, quasi un senso di trionfo.

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Marta ci vede

22 Ottobre 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #racconto

Ore tredici, silenzio rovente, canicola. Pensieri come mosche in una giornata umida.
Mentre parcheggio all’ombra dei pini, mi rendo conto di essermi spinto fino al mare. Da quanto non vengo? Forse dall’ultima volta che ci ho portato Marta.
I pini esalano odore di resina riscaldata, di aghi schiacciati sotto le ciabatte di gomma, di polvere. Se fosse qui, Marta berrebbe l’aria con le narici come una puledra, piegherebbe la testa di lato per ascoltare, toccherebbe la corteccia degli alberi, riderebbe se la resina le incollasse le dita, abbraccerebbe il tronco per capirne l’età. “Questo è proprio tanto vecchio”, direbbe, “ne sento l’energia. Gli alberi sono creature vive ed antiche.”
Come due anni fa, in Sicilia. Sudava sotto il sole, mentre visitavamo la Valle dei Templi. Io leggevo le spiegazioni della guida e lei ascoltava, assorta, rapita.
“È assurdo, a che cazzo serve”, pensavo, ma lei era raggiante mentre allargava le braccia e si distendeva sulle rovine del capitello, per afferrarne l’ampiezza, l’asperità del tufo. “E’ incredibile cosa riuscivano a fare a quei tempi.”
Mi sorrideva dietro gli occhiali da sole grandi e neri. La fotografavo perché era lei a chiedermelo, e intanto pensavo che quelle foto non le avrebbe viste mai, non avrebbe saputo che il naso le si era arrossato, che il petto le si era coperto di efelidi, che il gelato le aveva macchiato la maglietta.
È sempre così entusiasta di tutto, lei.
Mi faccio a piedi il viale fino alla spiaggia infuocata, affollatissima, stringo gli occhi nella calura tremolante. Quasi non vedo il mare, oltre le file degli ombrelloni, ma c’è odore di salmastro, di abbronzanti, di ghiacciolo, di scarpe abbandonate al sole.
Chiudo gli occhi, provo a sentire le cose come le sente lei, ma la tristezza mi chiude la gola. Se fossi un insetto, penso, vedrei il mondo attraverso occhi dalle mille sfaccettature. Non sarebbe il mondo che conosco io.
Mi spoglio. Gli slip neri possono sembrare un costume, e comunque me ne frego. Cammino a lungo prima che l’acqua mi arrivi al petto. Nei passi faticosi verso il largo, rivedo mio padre che fa arselle col setaccio grande, e mia madre col costume intero, i piedi larghi e forti, le spalle fiere. Mi sento solo, come non lo sono mai stato, solo con tutte le responsabilità.
Mi tuffo, l’acqua mi fa rabbrividire, avanzo a bracciate verso il nulla, nuoto fino a che il bagnino non comincia a fischiare per richiamarmi indietro.
Sono disperato, non c’è nulla che voglia fare, nulla che ami, nulla che desideri.
“E’ depressione, Gianfranco”, mi ha detto Roberto, che è medico ed anche mio amico. “Stare accanto ad una moglie non vedente è difficile, lo capisco. Ora ti segno delle pillole, ma tu fatti forza.”
“Maledizione, Roberto. Non mi servono farmaci. Non sono depresso.”
Roberto ha scosso la testa. “Pensa a Marta, Gianfranco. E’ cieca da dodici anni, dal giorno dell’incidente, ma non ho mai conosciuto qualcuno con tanta voglia di vivere. Lei ti ama, non dimenticarlo.”
Marta mi ama. Sono fortunato. Quella sera guidavo io.
Non riesco più ad alzarmi la mattina ed in quest’acqua ci vorrei annegare.
Marta è cieca. No, non è vero. Marta vede in un altro modo, vede col cuore, con l’anima, con i sensi. Lei vede più di me, vede tutto quello che io non so più vedere. Lei vede il bene della vita che io ho perso.
Mi volto e torno a riva così veloce da sfiancarmi, fino a che i miei piedi non toccano di nuovo la sabbia piena di buche, di mulinelli, di tracine brucianti. Piena di cose vive.
Mi rivesto senza nemmeno asciugarmi.
Chissà, magari, sulla strada del ritorno mi fermerò in farmacia.


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L'ipocondriaca

20 Ottobre 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #racconto

“Ne ha saltato uno.”
“Eh?”
“Ne ha saltato uno, ti dico.”
“Ma uno cosa?”
“Un battito, per la miseria! Se ti occupassi di me, Ennio, se mi guardassi ogni tanto, sapresti che mi stavo misurando le pulsazioni cardiache.”
“Lo fai almeno dieci volte il giorno, Elena, e poi sono le due di notte. In ogni modo, fammi sentire…” Ennio allunga un braccio verso l’abat jour e accende la luce. Con l’altra mano, prende delicatamente il polso di sua moglie e comincia a contare fissando l’orologio.”
“Mi sembrano regolari.”
“No! Ne salta uno ogni tre! Ti rifiuti sempre di vedere i problemi. Te l’ho spiegato che sono giorni che ho un dolore, qui a sinistra. E’ proprio come hanno detto alla televisione. Ci sono certe vene che ti si possono rompere da un momento all’altro e la mia deve essere vicina. Ecco, vedi, non respiro, soffoco!”
“Calmati, Elena, non è niente. Vedrai, appena smetti di agitarti, ti passa tutto. Ieri piangevi per la vescica e dopo dieci minuti hai fatto pipì ed è tornato tutto a posto. Ti preparo una camomilla, va bene?”
“Mettici tre cucchiaini di zucchero. Mi sento così strana, Ennio. Deve essere colpa delle supposte che mi ha dato il dottor Collecchi. Sul bugiardino c’è scritto che possono provocare aritmie.”
“E tu i bugiardini non li leggere!”
“Fossi matta! Così ci resto secca!”

Prima di andare in cucina a preparare la camomilla per Elena, Ennio si ferma in bagno a sciacquarsi il viso accaldato e gli occhi lustri.
Quando rientra in camera, Elena si è assopita con la luce accesa, la testa reclinata, il respiro regolare e tranquillo. Ennio posa il vassoio sul comodino, accanto ad un fascio di riviste mediche, e rimane a guardare sua moglie in silenzio. Sta per dirle quanto bene le vuole, ma il cucchiaino scivola e sbatte sul pavimento.
“Mi dispiace, ti ho svegliata.”
“Hai messo lo zucchero, Ennio?”
Lui annuisce, non dice niente per colpa del groppo che gli chiude la gola. Torna a letto, si stende accanto a lei, spegne la luce. Prima o poi dovrà dirle la verità.
Lei però si accoccola nell’incavo del suo braccio bollente e si riaddormenta subito, mentre lui rimane sveglio a fissare il soffitto, buio come il coperchio di una bara.
*******

“Mi creda, dottor Collecchi, ho avuto una notte terribile, il cuore sembrava impazzito e mi sentivo una morsa sul petto, ecco, proprio in questo punto…”
“Signora Malagodi, visto che è qui, sarebbe opportuno che io le parlassi, ciò che devo dirle mi è infinitamente gravoso, ma è giusto che lei sappia...”
“Allora è vero, sono cardiopatica! Ed Ennio sempre a negare, a darmi dell’ipocondriaca! Pensa solo a se stesso, gli uomini sono tutti egoisti…”
“Signora Malagodi, non …”
“Lo so, dottore, lo so, sta per dirmi che l’elettrocardiogramma è sballato…”
“Signora Malagodi … avrà notato che suo marito non è più lo stesso da qualche tempo…”
Ennio? Cosa c’entra, adesso? Anzi, perché non è qui a confortarmi, a tenermi la mano?
“… è pallido…”
Pallido?
“… la sua massa muscolare si è atrofizzata…”

Uscendo dallo studio del dottore, l’unica cosa che Elena ha capito, è che Ennio sa da tre mesi di dover morire.
Non le ha detto niente, povero Ennio, si è tenuto dentro il dolore e la paura, senza dividerla con lei. Anche questa mattina, salutandola sulla porta, le ha dato un bacio, mormorando: “Io vado, Elena, ma, mi raccomando, tu non ti agitare, stai serena.”
Povero, povero Ennio.
(Uhm… E se il bacio era contagioso?)

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Marco Milone, "Dove va il mondo"

18 Ottobre 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #poesia

Dove va il mondo

Marco Milone

“Dove va il mondo” di Marco Milone è una raccolta di dodici brevi liriche scaricabili gratuitamente.

Non si esce da una visione solipsistica del mondo, registrato, valutato, ricreato da un punto di vista soggettivo. L’autore scava dentro di sé, fra “questioni irrisolte”, dipingendo le “tele delle incertezze” . Prende posizioni mediane su ciò che vede, sta in disparte, sceglie il compromesso, la “contesa leale”.

“Numerare i ponti, tagliarne

una parte. Decidere

dove stare ottimamente”

“La gente è sempre quella. Immobile

duole vederla. Solo chi sta in disparte. La vita

è lotta, è aggressività, è contesa

leale. Il metodo

è sempre il confronto”

Dopo il diluvio c’è sempre una rinascita e “si ricomincia a vivere"ma la vita è breve, “il giorno fa testamento" (è subito sera, verrebbe da aggiungere.)

Nell’insieme, un tentativo onesto di ricerca linguistica non ancora maturo ma, almeno, personale e attento, una scrittura poco consolatoria che risulta stagna e troppo controllata anche se scaturisce da angosce profonde.

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La terza notte

16 Ottobre 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #racconto

Premetto che di questo racconto gira in rete una versione "decostruita" e cambiata senza il mio permesso.

La luce è gialla, abbastanza forte da tenermi sveglia, non abbastanza perché certi rumori non mi facciano paura, come questa vecchia qui accanto che respira con la gola, almeno la facesse finita.
Non sto peggio, mi fa male un po’ il braccio della flebo, solo che il professore ha detto che morirò.
Tre giorni che lo so, e tre notti.
I miei suoceri si ostinano a parlare di quando Miria sarà guarita, quando Miria tornerà in ufficio, quando Miria porterà la bambina a scuola. E’ per via che dopo l’infarto al vecchio tante cose vengono risparmiate.
Luigi tre giorni fa ha pianto, poi ha detto che mi daranno la morfina quando non ce la farò più ed ha smesso di piangere. E’ sollevato, ha diviso il suo dolore con me, si è tolto un peso, lui ha sempre avuto bisogno di appoggiarsi a qualcuno.
Mia madre, lei, ha persino ripreso a rimproverarmi, “devi finire tutta la carne”, ha detto, “quanto credi di andare avanti con il gelato e basta?”
Se dormo, sogno ancora quel loculo di cemento che si chiude, allora è meglio se ora vado nel bagno. Trascino il sostegno della flebo in fondo al corridoio, mentre al piano di sopra, reparto maternità, le mamme vanno ad allattare i neonati. Cinque anni fa c’ero anch’io, con questa stessa vestaglia addosso, quando è nata la bimba.
Faccio pipì, mi sciacquo la faccia, e mi guardo allo specchio. I capelli non li ho più, la testa è come un uovo di carne. Devo ricordarmi dell’uovo di Pasqua per la bimba, Luigi magari non ci pensa, ha tante cose per la mente. L’assicurazione della macchina, il passaggio di proprietà, la casa intestata a tutti e due. “Ci vogliono soldi per morire, non sai quanti, Miria”, mi ha detto, poi si è morso le labbra.
Due infermiere grasse, appoggiate allo stipite della porta, parlano di calze autoreggenti. Mi piacerebbe comprarne un paio, se avessi ancora tempo. Piacerebbero a Luigi, me le sfilerebbe piano, come fanno al cinema, come nella scena del Laureato.
Al funerale sarò distesa sull’imbottitura col tulle che mi vela la faccia, una specie di bomboniera, come la zia Carmelina, quella a volta che siamo andati tutti giù a San Vito lo Capo, e c’era così tanta gente.
Torno nella stanza, la vecchia ora russa e muove le mani davanti al viso, come se scacciasse gli insetti, chissà che vede. Chissà cosa si vede, prima, dopo, durante.
Carrelli vengono trascinati nel corridoio, sento odore di caffè d’orzo. Suor Francesca attraversa la corsia ed apre il finestrone, fa entrare la luce.
Ce l’ho fatta, la terza notte è passata.

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La scelta

14 Ottobre 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #racconto

“Fra non molto chiudiamo, sorella.”
La ragazza dei biglietti la fissava dalla sua nicchia, con le mani guantate. Ma il tramonto non era freddo, almeno non per lei che amava camminare nell’aria dolce e pulita. “Non si preoccupi, cara, solo un giro veloce.”
Gli ultimi visitatori si attardavano a scattare foto lungo la Via Sacra. Lei camminò senza sforzo, col mezzo tacco d’ordinanza, sui lastroni convessi e lucidati dal tempo. Negli ultimi tempi, percorreva quella strada ogni volta che aveva qualche ora libera.
Ecco i faticosi gradini e poi subito su, verso il tempio di Vesta.
Un poco ansimando, si voltò a guardare da quella posizione elevata. I rumori del traffico erano attutiti dall’isola pedonale. A sinistra l’arco, le colonne scanalate, annerite, a destra le grandi pietre collassate, su cui i turisti ancora si arrampicavano per mettersi in posa. Lontana, sullo sfondo, l’imponente mole del Colosseo.
D’impulso, appoggiò la fronte contro il marmo di una colonna. Lo sentì tiepido, come di ricordi assorbiti nelle venature porose.
Voci, uno scalpiccio di zoccoli, un clangore di ruote, di metalli.
“Licia?”
Licia sussultò, voltandosi a incontrare lo sguardo severo della superiora. “Che cosa c’è, Licia?”
Come spiegare l’uggia che teneva in petto, il desiderio di un’altra vita. “Da quanto sono qui, madre?”
“Quasi dieci anni, il tuo noviziato è al termine, presto sarai addetta al culto, lo sai.”
Licia chinò il capo, sospirando, poi sollevò di nuovo lo sguardo e lo lasciò vagare sui tetti rossi di Roma.
“Che c’è che non va?” incalzò la superiora, “non pensi ai privilegi, all’onore di servire la Dea che rappresenta la vita stessa della città? Sei una vestale, Licia, riverita e venerata da tutti. Anche i magistrati ti cedono il passo.”
“Sì, madre e, più di questo, ti confesso che amo l’idea di sentirmi parte di una comunità. Ma…”
La superiora si avvicinò, la prese per le spalle con entrambe le mani. “Il dubbio non ti è concesso, Licia. Sai cosa accade a chi tradisce. Hai visto cosa hanno fatto a Drusilla.”
Licia rabbrividì, come se l’aria si fosse improvvisamente gelata. Drusilla, la sua compagna di giochi, quando entrambe erano entrate nel tempio, all’età di sei anni. Drusilla dalla risata dolce e squillante, dal passo veloce. Drusilla era morta, murata viva dentro una tomba. Perché una vestale non la si può uccidere, deve morire da sola. Ogni sera, Licia stentava a prendere sonno, pensando a Drusilla, alla sua disperazione, a come doveva aver grattato la pietra fino a scorticarsi le mani, chiamando aiuto, chiedendo la grazia di un po’ d’acqua.
Licia si scosse, si allontanò dalla stretta della superiora. “Non ci voglio pensare, non voglio più ricordare, è troppo penoso.”
“E allora tieni duro, se non vuoi fare la stessa fine.”
Licia trasalì, fece un passo indietro. Capiva che la superiora era così dura con lei perché temeva il suo turbamento.
“Voglio solo il tuo bene, Licia”, le confermò, “pensa che hai delle radici, che appartieni a questo luogo. Guarda come è bello.”
Sì, era davvero bella la luce che riverberava sui colli infiammati dagli ultimi raggi. Le facciate imponenti dei templi parevano rifletterla, s’indoravano, si arrossavano nella dolcezza di quella serata tiepida.
“Sii felice, Licia, sii felice più che puoi, perché non hai scelta. Credi che anch’io non abbia sofferto, credi che non mi siano mancate le braccia di un uomo, la mano di un bambino nella mia? Ma la nostra è una vita di rinuncia. E alla rinuncia ci si abitua, Licia. Dopo un po’, vedrai, non brucerà più.”
Licia annuì, sentendosi sconfitta e stanca, stanca come se, sulle giovani spalle, non avesse anni, ma secoli.


Riaprì gli occhi. Aveva visto e sentito cose che non avrebbe dovuto vedere, né sentire. Aveva avvertito le vibrazioni della roccia, i segreti dolorosi racchiusi nello scrigno del tempo. Prese in mano il crocifisso che teneva al collo e lo baciò. “Gesù, credo che tu mi stia parlando attraverso lei.”
Suor Maria fece tutto il percorso a ritroso, fino all’uscita. Attraversò il varco a testa china, le mani in tasca, il passo frettoloso. Salì sul primo autobus che l’avrebbe riportata in Vaticano. Per tutto il tragitto ripensò a Licia, la giovane vestale. Non mise in dubbio neppure per un istante che la ragazza fosse esistita davvero. Troppo vivide le sensazioni, troppo nitidi i ricordi. In un modo inspiegabile, qualcosa o qualcuno l’aveva guidata più e più volte fino al tempio in rovina, affinché Licia potesse mettersi in contatto con lei.
E non era un caso, ma un messaggio che nostro Signore le inviava.
I dubbi, che non l’avevano mai sfiorata quando aveva pronunciato i voti molti anni addietro, all’età della giovane vestale, stavano germogliando adesso dentro di lei. Da giorni, da mesi, sempre più forti, incalzanti, dolorosi. E non poteva più negarli, lei che, al contrario di Licia, una scelta l’aveva.
Due donne, pensò, accomunate da uno stesso destino. Una giovane pagana consacrata sull’altare della rinuncia, e una suora di mezza età, preda dell’abitudine e di gesti meccanici, ormai vissuti come vuoti di senso e ripetitivi, privi di slancio autentico.
Mentre scendeva dall’autobus, pensò che, quella sera, nel chiuso della sua cella, avrebbe meditato a lungo. Avrebbe chiesto a Gesù l’umiltà e la forza per guardarsi dentro, per mettersi in discussione come non aveva mai fatto, per cercare l’autenticità di vita e di fede alla quale era sempre sfuggita seguendo binari prestabiliti e forse neppure scelti da lei. E se questo significava lasciare il seno confortante della madre Chiesa, lo avrebbe fatto. Avrebbe riflettuto e pregato fino a sfinirsi, fino a spellarsi le ginocchia sul legno, per capire se ancora c’era una via d’uscita.
L’avrebbe fatto per suor Maria. E per Licia.

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Gianluca Morozzi, "Mortimer blues"

10 Ottobre 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni

Gianluca Morozzi, "Mortimer blues"

Mortimer Blues

di Gianluca Morozzi

Edizioni Il Foglio Letterario

pp 67

4,90

Aprendo un libro a caso, appartenente al sottobosco della nostra narrativa contemporanea, con una mano a coprire il frontespizio, diventa difficile, ormai, distinguere dallo stile un autore maschio dall’altro. Tralasciando, ovviamente, chi scrivere non sa, anche fra i bravi c’è una specie di lingua trasversale che accomuna molti scrittori, in parte mutuata dalla frequentazione con gli americani. Questo, senza nulla togliere all’efficacia di “Mortimer Blues”, racconto lungo, più che romanzo, dello scrittore musicista Gianluca Morozzi, classe 1971, per la collana Demian.

Sebbene anche il contenuto non si discosti molto dal filone della confessione interiore giovanilistica accompagnata da sottofondo musicale, Mortimer blues spicca per due elementi: l’innegabile competenza musicale dell’autore e quel senso tremendamente universale di aspirazioni fallite.

Il protagonista si chiama Vincenzo ma lo veniamo a sapere solo a metà dell’opera, con un guizzo tecnico abbastanza originale. Il suo nome si duplica e poi triplica in Vincent e Vega, a segnare il passo di un’incipiente alienazione mentale. È un musicista progressivamente sempre più colto ed esperto ma, in realtà, incapace di grande ispirazione. Passa la vita a cercare di scrivere l’”opera”, quella che lo differenzierà da tutti gli altri, che lo renderà immortale, che resterà nella storia della musica. Gli viene consigliato di studiare, prima di produrre qualcosa di nuovo, e si mette a farlo con una ossessività che lo risucchia. Frequenta di tutto, classici e contemporanei, e poi ancora nuovi contemporanei, perché, intanto, il tempo passa e lui non è più un adolescente che mette insieme due note per la ragazza di cui è invaghito.

In questo, Vincenzo/Vincent è metafora di tutti gli artisti, dei compositori, degli scultori, dei pittori, dei poeti. Vincenzo è il cantante che s’iscrive al talent, è lo scrittore fallito che recensisce libri altrui sperando, a furia di smontare testi, d’imparare come si scrive un capolavoro. E la sua ricerca si prolunga, diventa infinita, fine a se stessa, il mezzo prende il posto del fine.

Io non sto diventando pazzo, io sto studiando per scrivere il disco dei dischi, la sinfonia degli dei, l’opera del secolo, altro che pazzo, quanti grandi artisti venivano giudicati pazzi dai loro ignoranti contemporanei?, non erano pazzi, erano al di là della comprensione di quegli zotici!, io scriverò l’opera suprema, l’opera definitiva. Quando avrò finito di studiare e ascoltare tutto, naturalmente.” (pag 63)

Non si sa di cosa viva Vincenzo, forse ancora del lavoretto che faceva da ragazzo, ma certo, contrariamente a quanto gli rimproverano gli amici all’inizio della sua inesistente carriera, non ha “sostituito il sogno con la concretezza”, anzi, ha fatto proprio il contrario, si è condannato a un’eterna giovinezza artistica senza la maturità di un talento che non c’è.

“Alla fine dobbiamo rinunciare delle occasioni perché tu ti sei inchiodato al mondo reale in questi modi assurdi e non decolliamo mai, capisci? Perché hai scelto la concretezza al sogno. Questo voglio dire.” (pag 49)

E, appunto, tutto quello che Vincenzo farà nella sua vita leggermente paranoica, sarà nascondere a se stesso la propria mancanza di talento, salvo ammetterla solo da ubriaco, distruggendo a martellate le scadenti opere prodotte.

Il tono è agevole, ironico, divertente, ma il racconto di Morozzi è intriso di nostalgia per un tempo in cui tutte le possibilità e le speranze sono ancora aperte - il tempo dell’adolescenza caro alla collana Demian – e dove l’amara verità non è ancora venuta a galla. Il racconto è pervaso da un crudele senso di fallimento, d’incompiutezza, di spreco, e anche da uno spasmodico desiderio di riscatto, così bene espresso con l’immagine delle tartarughine in corsa verso il mare.

“Ma la cosa che ci frega, a noi, è il fatto che arrivare al mare non sia del tutto impossibile. Qualcuno ci arriva a quell’acqua maledetta, quindi si può fare, quindi ci si riesce, no?”

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La pietra e la corda

30 Settembre 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #racconto

Il sole c’è, e allora forza, bevi il caffè, fatti la doccia, metti i pantaloni e vai, che non si prevede pioggia né oggi né domani e camminare ti fa bene.

Felpa, zaino, cappello, scarponi. Su, non essere pigra, non pensarci anche mentre t’infili i calzini, non chiederti cosa avrebbe detto lui di quest’aria frizzante. Lo sai, avrebbe tirato fuori la macchina digitale dallo zaino, avrebbe scattato foto su foto, costringendoti in posa, immortalando cime e nuvole, camosci così piccoli e lontani che li vedeva solo lui. Avrebbe detto le parole che sai, le parole che ti parevano banali e ora ti mancano come manca l’aria a uno che affoga.

Sei venuta quassù, hai affittato la solita casa, forse perché le foto non ti bastano, forse perché hai paura di dimenticare anche un solo dettaglio.

Coraggio, metti un piede avanti all’altro e attenta a non inciampare. Il sentiero è ripido, bagnato, lui stava sempre dietro casomai tu scivolassi. Ora sei sola e hai già l’affanno, ma l’odore dei pini ti aiuta a respirare.

Ecco la prima cascata, poi la seconda. Qui è dove ti levavi sempre le scarpe e lui restava a guardare mentre immergevi i piedi nell’acqua fredda. Non ne hai voglia, non ti sembra più così divertente. Allora, dai, prosegui.

Eccoti in cima, finalmente, sull’altopiano dove il fiume gorgoglia e le marmotte urlano. Ne scopri una lì davanti, di vedetta, pronta a lanciare l’allarme alle compagne. Intorno la consueta pace, il silenzio sovrumano dei monti. Non c’è anima viva qui.

Invece no, qualcuno siede a gambe incrociate sotto la roccia e guarda in alto. Punti il binocolo ma non scorgi scalatori aggrappati alla parete. Allora cosa sta fissando l’uomo?

Gli arrivi alle spalle, in punta di piedi. Non si volta, non ti ha nemmeno sentito. Ora anche tu puoi vedere ciò che il suo corpo nasconde. Una lapide da cui penzola una corda. È davvero quello che pensi la macchia scura sulla corda?

In ricordo

di

Antonio Marradi

19 Agosto 2001

Siedi accanto all’uomo, che neanche ora si volta.

“Era suo figlio?”

“Sì.”

Quasi due ore di salita e lui, vecchio com’è, deve farsela ogni volta, per poi investigare le rocce che conservano ancora una traccia del suo ragazzo, forse l’impronta di una mano, o forse l’eco di un urlo. Si chiede cosa ha provato quando gli è mancato l’appiglio, quando la pelle si è lacerata e la corda ha frustato l’aria.

Sai cosa sta pensando perché è ciò che hai pensato anche tu la notte che ti hanno fatto vedere il corpo. Ti è rimasto dentro lo scricchiolio del carrello, il fruscio del lenzuolo.

“È suo marito?” hanno chiesto. E tu non riuscivi a dire sì, perché, se lo avessi detto, il corpo che avevi di fronte sarebbe diventato davvero di tuo marito. Lo fissavi incredula, ti chiedevi se si era accorto di morire mentre l’auto si ribaltava, se era ancora vivo nel fosso. Ti domandavi perché da sua madre quella sera lo avevi lasciato andare solo. “Vai da mammina?” avevi chiesto sarcastica e lui aveva alzato le spalle. Sapeva che il nervoso ti sarebbe passato presto.

“L’ho portato io, in montagna, mio figlio, la prima volta. Gli ho comprato pure una piccozza.”

“Anche mio marito è morto.” Ecco, l’hai detto, hai pronunciato l’impronunciabile. Di solito usi frasi come “lui ora non è qui”.

“Non ci si perdona più niente, vero?”

“Già.”

Chi dei due ha parlato? È la tua voce o è quella di quest’uomo anziano che ora sta piangendo?

“Dicono che la morte è un atto di generosità. Dobbiamo lasciare il posto a chi viene dopo di noi. Ma mio figlio era giovane.”

“Ho smesso di chiedermi perché mio marito è morto. Se anche un motivo ci fosse, ciò che provo non cambierebbe.”

“Gli amici sostengono che mio figlio è scomparso facendo ciò che più amava, che quando arrampicava metteva in conto di morire. Io non lo credo.”

“Non si mette mai in conto di morire.”

Ora, se la tua vita fosse un film americano, abbracceresti quest’uomo sconosciuto ed ognuno di voi sfogherebbe il suo dolore, lo lenirebbe, dividendolo con l’altro. Ma non è un film e così non ti muovi, non gli prendi la mano, non gli porgi nemmeno un fazzoletto. Rimanete in silenzio, a un metro di distanza, e lui continua a piangere e fissare la roccia.

Tu, intanto, ascolti il grido dell’aquila, tocchi il lichene e i ciottoli lavorati dal movimento del ghiacciaio. Ti chiedi se non tutto è perduto, se una vibrazione almeno si conserva. Sai che l’uomo che ti siede accanto prova il tuo stesso strazio e si sta ponendo le stesse domande

Ma neanche lui ha le risposte.

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Un uomo fortunato

28 Settembre 2013 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #racconto

“Pronto, sì? Dimmi, Iole. Hai ordinato il completino? Hai fatto bene. Il compleanno dei gemelli? Sì, certo che mi ricordo la torta. Tuo marito? Ha ottenuto punti d’invalidità? Uhm… quanti? Così tanti, però eh, caspita…”
Perché quel “caspita” le era uscito così strascicato e invidioso, si chiese la Tilde, e cos’era quell’improvviso magone? “Bene, bene, sono felice per voi”. Mise giù la cornetta con un senso di scontentezza crescente.
“Tilde, amore…”
Dalla stanza accanto, Gino, suo marito, le lanciò un bacio sulla punta delle dita e sorrise coi suoi trentadue denti da pubblicità di dentifricio. Aveva appena ripudiato i calzoncini da tennis in favore della tuta da jogging. “Io esco, amore.”
“Sì, vai, vai.”
La Tilde Tacconi andò in cerca di un fazzoletto perché sapeva che presto il magone sarebbe evoluto in lacrime amare. Si affacciò alla finestra e guardò Gino che, appena sbucato dal portone, già accennava i balzelli elastici della sua corsa. Lo fissò con tutta l’attenzione possibile, fece schermo al sole con la mano aperta, strizzò gli occhi per vedere meglio.
Niente da fare. Gino era irrimediabilmente giovane, bello e sano.
Ogni giorno, scalpitante come un puledro allo start, timbrava il cartellino allo scoccare delle diciassette. Dopo cinque minuti, era già sul campo da tennis, dove non sbagliava mai un colpo. L’idolo degli amici, saltava e guizzava sul terreno di gioco, mentre dal bordo le signore lanciavano occhiate vogliose ai suoi muscoli da discobolo greco.
Tilde non era gelosa, no. Tilde si vergognava.
Un uomo che guadagnava mille euro il mese era ridicolo con quell’abbronzatura da barca a vela. Gli impiegatucci, gli scribacchini, le oscure mezze maniche perse nei sottoscala dell’azienda come lui, non hanno la sfacciataggine d’essere belli e felici come se possedessero panfili e macchine da corsa.
Le lacrime traboccarono, calde ed inesorabili. Com’erano fortunate le sue amiche, la Iole, la Vanda, la Sirte, ad avere quei maritini pelati ed asmatici, panciuti e colitici, che giravano col digestivo in tasca e le pillole per la pressione nel portafoglio. Tutte le fortune capitavano alle altre.
Il marito di quella linguacciuta della Iole s’era allevato la sua bronchite come un figlio piccolo, fino a farsi venire un bell’enfisema coi fiocchi, capace di regalarti tutti quei punti d’invalidità in un colpo solo. Ora, si sa, tempo un mese avrebbe fatto un bel passo avanti e allora chi la reggeva più la Iole. Chissà quanto si sarebbe vantata della sua nuova posizione! Che le venisse un accidente, a lei, a suo marito e a quelle bestie dei gemelli.
Cosa gli sarebbe costato al suo Gino di ammalarsi un po’, magari solo un tantino per farla contenta, per strappare qualche punto all’annuale visita di controllo dell’azienda?
Macché.
Ogni volta il medico si congratulava: “Complimenti, Tacconi, lei ha occhi di falco, polmoni perfetti e cuore d’atleta.”
E quell’idiota di Gino tornava a casa felice. “Il dottore ha assicurato che sono sano come un pesce”, la informava, stringendola forte da toglierle il fiato, senza capire che per lei quelle parole erano una coltellata.
Ah, ma lo aveva sempre detto la mamma che Gino non avrebbe mai mosso un dito per far carriera! A quei tempi, lei, accecata dall’amore, non ci aveva dato peso. Pensava che alla fine Gino avrebbe messo la testa a posto, si sarebbe dato da fare per guadagnare di più.
Invece niente. Tennis e jogging, jogging e palestra, palestra e piscina. Una condanna.
La sera, dopo cena, Tilde raccontò a Gino la fortuna che era capitata alla Iole Grimaldi. Gli disse quanto lei, invece, si sentisse triste ed infelice. Gli ricordò i suoi doveri di padre di famiglia. Spiegò che i bambini a scuola si vergognavano, dovendo confessare ai figli degli avvocati e degli ingegneri che il loro padre era un modestissimo impiegato aziendale.
“Ma, amore”, si difese Gino, “i bambini crescono bene, non abbiamo debiti, la casa è di proprietà. Siamo felici anche così.”
“Tu!” ruggì Tilde, “tu sei felice! Sei contento come una Pasqua di quel misero impiego, di questi quattro soldi, degli stracci che indossa tua moglie. Eh, certo, perché tanto, poi, il signorino si fa una bella partita a tennis e una corsa nel parco. Ah, ma aveva ragione la mamma! Perché non l’ho ascoltata?”
Per ore Tilde pianse, gridò, fece appello al senso del dovere, rivangò la magia del loro primo incontro, minacciò il divorzio. Finalmente, attorno alla mezzanotte, un Gino frastornato e insonnolito ammise che, forse, era un po’ immaturo per un uomo di trentacinque anni essere ancora tanto atletico ed in salute.
Tilde, allora, si alzò dal divano e scomparve per qualche istante. Tornò con un misterioso pacchetto, che scartò con amore. Apparve una boccettina e lei la sorresse con mani tremanti, come una reliquia. “Ecco, tesoro.”
“Che cos’è, cara?” chiese lui, sbadigliando.
Tilde lo baciò con devozione sulla guancia. “Oh, amore, non è niente. E’ una cosina che tenevo in serbo per te, per quando ti fossi deciso. Sapessi quanto l’ho pagata, Ginuccio.”
“Sì, ma cos’è?”
“Ma, niente, ti ho detto. E’… è solo acido farnetico.”
Gino spalancò gli occhi, fece un balzo che catapultò il gatto giù dal divano. “Acido farnetico! Ma è paralizzante! Sei diventata matta, non vorrai fami prendere quella roba!”
Tilde era arrivata al culmine della pazienza. Tanta ingratitudine da parte di Gino le pareva crudele. Si sforzò di mantenere un tono calmo. “Via, Ginuccio, non sentirai niente. Sarà un momento. Ti darà un deficit lievissimo, ed otterrai qualche punto. Su, fallo per me, apri la boccuccia, guarda, ti ci metto anche lo zucchero, da bravo!”
Gino strabuzzò gli occhi, fece di no con la testa, serrò le labbra, tanto che Tilde fu costretta a fargli gli occhiacci e a ricordargli che, se non si decideva a spalancare quella benedetta bocca, avrebbe chiesto la custodia dei bambini.
Prima d’ingoiare lo zuccherino bagnato con tre gocce di acido farnetico, Gino strinse forte a sé la moglie. “Ti amo tanto, Tilde. Amo te ed i ragazzi.”
La mattina dopo si svegliò con tutti i sintomi di un’emiparesi facciale. Il suo bellissimo occhio sinistro, di un azzurro spettacolare, ora se ne stava là, semichiuso ed incrostato di cispa lattiginosa. La bocca era scesa in giù di qualche spanna, la lingua sporgeva un pochettino all’angolo delle labbra.
Gli amici furono assai sorpresi e dispiaciuti, i dottori non si capacitarono della disgrazia. Fece subito domanda ed ottenne i punti d’invalidità. L’avanzamento fu automatico nella sua amministrazione.
Non potendo giocare a tennis, per colpa dell’occhio che non inquadrava la palla come prima, Gino si fermava di più in ufficio. Il capo era contento del suo nuovo zelo. Comprarono il frigo con il tritaghiaccio all’americana. Tilde acquistò qualche vestito nuovo per sé e per i bambini.
Passarono alcuni mesi sereni, poi, una sera, Tilde accennò ad un appartamento che aveva visitato nel pomeriggio. Era nel centro storico, disse, ed anche molto luminoso. I ragazzi avrebbero avuto camere separate come desideravano.
“Ma, amore, non possiamo permettercelo”, sorrise Gino.
“No, certo, con quello che guadagni adesso, non possiamo proprio, ma se tu potessi fare un altro piccolo passo avanti…”
Dopo mezz’ora Gino era là, con la lingua di fuori, che inghiottiva cinque gocce di acido farnetico. Nella nottata ebbe una crisi epilettica e lo portarono all’ospedale. Guarì in fretta ma rimase impedito al braccio ed alla gamba. Gli affidarono immediatamente un settore tutto suo da dirigere. Ottenne una scrivania di mogano e una segretaria che faceva le veci della sua mano. Si trasferirono nel nuovo appartamento, i bambini furono iscritti ad una scuola privata e Tilde si comprò la pelliccia. La domenica uscivano a passeggio sul corso, Tilde si pavoneggiava nel visone nuovo, mentre Gino si strascicava dietro la gamba come una scopa.
E poi la carriera continuò. Ogni anno a Gino veniva un colpo che gli storpiava un braccio, un occhio, la favella, secondo il numero di gocce che la sua premurosa moglie versava sullo zuccherino.
Colpo dopo colpo, Gino Tacconi salì ai vertici dell’amministrazione aziendale.

Come ogni mattina, la signorina Elisabetta spinse la carrozzella del direttore nel suo faraonico ufficio. Gli accese un sigaro di marca e versò le pillole nel bicchiere. Il direttore strabuzzò gli occhi, mugolò un ringraziamento ed inghiottì un sorso d’acqua con una compressa.
“Se non ha più bisogno di me, io vado, direttore.”
“Uuuughh…”
“Buon lavoro anche a lei, direttore.
Il direttor Tacconi rimase solo. Aspirò alcune boccate del sigaro, lottando contro il catarro che gl’intasava la laringe. Roteando gli occhi, riuscì a vedere il lato della scrivania dove erano in mostra le immagini della sua famiglia. I suoi ragazzi, ormai grandi, sorridevano fieri col cappello della laurea. Con la maturità, Tilde si era fatta, se possibile, ancora più bella. Il completo da montagna le donava, nella foto presa a Cortina insieme al maestro di sci. Era veramente orgoglioso della sua famiglia.
Davvero, Gino Tacconi poteva dirsi un uomo fortunato.
Il sigaro gli si scollò dalle labbra e gli cadde in grembo. Si agitò sulla sedia quel tanto che bastava a farlo scivolare a terra, prima che gli bruciasse i pantaloni. Una lacrima, una sola, seguì il contorno del naso prima di guadagnare il mento, dove rimase a dondolarsi, indecisa.
Le sue mani non erano in grado di asciugarla.

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