poli patrizia
Giosuè Borsi
“Città giovine e forte, che il divino
mare accarezza, il vasto ed alto sole,
a Te che cresci in opulenza, vale!
A Te, per carità di Te, m’inchino!”
(Dal sonetto “Alla città natale” di Giosuè Borsi)
Giosuè Borsi (1888 – 1915) nacque a Livorno, nella casa di via degli inglesi. Dovette il suo nome al Carducci, amico del padre. Studiò al liceo classico Niccolini Guerrazzi e si laureò a Pisa.
Così descrive se stesso:
Nere chiome; occhi bruni e lunghe ciglia,narici aperte; impube avida bocca,
voce grave, parola che somigliauna dritta saetta quando scoccaErto busto; esil corpo che s’abbiglia
Con cura forse troppo vana e sciocca.
Cominciò a poetare presto, con versi, manco a dirlo, d’ispirazione carducciana. Il padre, Averardo, nato a Castagneto Maremma, era uno dei tanti letterati che orbitavano attorno al Carducci, indiscusso maestro dell’epoca. Chiamò il figlio Giosuè proprio in onore dell’amico poeta.
In un periodo di sperimentazione e di avanguardia come quello, la posizione di Giosuè si attestò su forme tradizionali, classicheggianti, imitatorie.
Voci
Chi sussurra così? L’onda del mareOggi somiglia un pianto doloroso,
e par che pianga e pare
che dica. – Io non avrò nessun riposo.Chi gorgheggia così’
Quel rosignolo,
la sera, piange tantoperché si sente soloe per compagno ha il canto.Chi mormora così? Sono le frondeD’un alberello in fiore:sanno che al mondo quel che nasce muore,e il vento passa, ascolta e non risponde.E questo canto flebile e tranquillo?Senti: - fiorin fiorello,io canto sempre come canta il grilloche tutti i giorni inventa uno stornello!E tace il cuore e ascolta l’ansimare,il canto, il gorgheggiare anche , e il sussurro…si lamenta la terra, il cielo, il mare…Una vela è lontana nell’azzurro.
Scrisse commedie, novelle, racconti per l’infanzia, ma anche pezzi critici e giornalistici. Con lo pseudonimo di Corallina, fu cronista e confezionò pezzi come inviato sul terremoto di Messina e sulla biennale d’arte di Venezia.
Era elegante, molto ricercato nei salotti, fece vita dissoluta di cui poi si pentì. Ebbe successo come conoscitore e fine dicitore di Dante. Ma la morte del padre e della sorella Laura lo gettarono nello sconforto, al punto che, quando morì anche l’amatissimo nipotino, figlio di Laura, Giosuè tentò il suicidio.
Pur essendo cresciuto in ambiente anticlericale e agnostico, le sventure della vita lo orientarono verso il cristianesimo. Divenne terziario francescano, cioè un laico che s’impegna a vivere nel mondo lo spirito di San Francesco.
Fra il 1912 e il 13 scrisse “Le confessioni di Giulia", dedicate alla donna amata, intesa in versione angelicata e dantesca.
Fu interventista nella prima guerra mondiale perché considerava la morte sul campo come l’espiazione di una vita di peccato.
Pochi giorni prima di morire, scrisse una lettera alla madre, considerata il suo più alto momento letterario.
“Tutto dunque mi è propizio”, diceva, “tutto mi arride per fare una morte fausta e bella, il tempo, il luogo, la stagione, l’occasione, l’età. Non potrei meglio coronare la mia vita.”“Sono tranquillo, perfettamente sereno e fermamente deciso a fare tutto il mio dovere fino all'ultimo, da forte e buon soldato, incrollabilmente sicuro della nostra vittoria immancabile. Non sono altrettanto certo di vederla da vivo, ma questa incertezza, grazie a Dio, non mi turba affatto, e non basta a farmi tremare. Sono felice di offrire la mia vita alla Patria, sono altero di spenderla così bene, e non so come ringraziare la Provvidenza dell'onore che mi fa.Non piangere per me mamma, se è scritto lassù che io debba morire. Non piangere, perché tu piangeresti sulla mia felicità. Prega molto per me perché ho bisogno. Abbi il coraggio di sopportare la vita fino all'ultimo senza perderti d'animo; continua ad essere forte ed energica, come sei sempre stata in tutte le tempeste della tua vita; e continua ed essere umile, pia, caritatevole, perché la pace di Dio sia sempre con te. Addio, mamma, addio Gino, miei cari, miei amati.”
Riuscirà nel suo intento: morirà in un assalto a Zagora. Nella sua giacca, insieme a medaglie insanguinate, saranno ritrovate una foto della madre e la Divina Commedia.
L’associazione culturale Giosuè Borsi è nata nel 2004 come continuazione del gruppo omonimo, attivo a Livorno dal 1988, in occasione del primo centenario della nascita del poeta. Inizialmente si è occupata di custodire i cimeli del concittadino, prima conservati in un piccolo museo, ora chiuso. Con il riconoscimento del Comune di Livorno, ha la custodia etica del Famedio di Montenero, che raccoglie resti e ricordi dei livornesi illustri. L’associazione, con sede in via delle Medaglie d’Oro 6, mantiene vivo il ricordo di Giosuè Borsi (1888 – 1915) e promuove conferenze e studi sulla storia della città e sui suoi personaggi dimenticati. Pubblica con cadenza semestrale la rivista “La Torre” e ha provveduto a far ristampare numerose opere di borsiane.
Il presidente dell’associazione, Carlo Adorni, ha curato un’antologia intitolata “Omaggio a Giosuè Borsi” con prefazione del compianto professor Loi, di cui abbiamo un ammirato ricordo come nostro insegnante di storia. L’antologia, edita nel 2007 dalla casa editrice “Il Quadrifoglio” e corredata di bellissime foto, contiene versi da varie raccolte - fra le quali Primus Fons - alcune interpretazioni dantesche - di cui Borsi era appassionato e fine dicitore - il famoso Testamento spirituale, esempio elevato di scrittura religiosa, e L’ultima lettera alla madre, il suo momento poetico più alto.
Come evidenza Loi, Arte, Patria e Religione furono i tre motivi ispiratori dell’opera borsiana, seppur egli non sia stato poeta “di grande ala”. Dopo una vita di piaceri, vissuta con senso di colpa, dopo essere cresciuto all’ombra degli ideali carducciani e classicisti paterni, dopo aver bramato per se stesso l’amore della donna e la gloria dell’artista, Borsi ebbe una profonda conversione spirituale che lo avvicinò al cristianesimo. Il testamento spirituale è una conferma di quanto egli abbia sentito, pur nella sua beve esistenza, la vanità e il peso delle cose terrene. Il dolore lo ha colpito, attraversato, prostrato, con colpi ripetuti e brutali: la morte del padre, della sorella Laura e del nipotino nato dalla relazione di questa con il figlio di D’Annunzio.
Ma nella sua morte in battaglia, ricercata, ambita, desiderata, c’è molto di decadente, l’ultima pennellata wildiana o dannunziana data ad una vita artistica, sublimata, però, e illuminata, dalla spiritualità, da una ricerca di purezza francescana. La morte è bella, è fausta, perché consegna alla gloria, rende leggendari, redime dai peccati e, tuttavia, in questa morte intesa come coronamento più che come rinunzia, scompare il terziario francescano, il rinunciante, e riaffiora il superuomo nietzschiano.
“Lascio la caducità, lascio il peccato, lascio il triste ed accorante spettacolo dei piccoli e momentanei trionfi del male sul bene: lascio la mia salma umiliante, il peso grave di tutte le mie catene, e volo via, libero, libero, finalmente libero, lassù nei cieli dove è il padre nostro, lassù dove si fa sempre la sua volontà.”(pag 172)
Riferimenti
Carlo Adorni, “Omaggio a Giosuè Borsi”, edizioni il quadrifoglio, Livorno, 2007
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"Città giovine e forte, che il divinomare accarezza, il vasto ed alto sole,a Te che cresci in opulenza, vale!A Te, per carità di Te, m'inchino!" (Dal sonetto "Alla città natale" di Giosuè Borsi...
http://www.criticaletteraria.org/2014/01/pillole-dautore-giosue-borsi.html
Valentino vestito di nuovo
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Ore 8. Fai finta di non capire. Cos’è questo traboccare di cuori di cioccolata, peluche dall’aria attonita, caramelle con sopra appollaiati i fidanzatini di Peynet? Ma è San Valentino, la stupida festa, nella quale devi per forza sentirti innamorata, anche se non hai quindici anni, non li ha più nemmeno tua figlia, ed il tuo matrimonio ha il sapore di un chewing gum masticato per ore.
Ore 8,15. Decidi di mandargli un SMS.
Digiti: Ti amo
Ci ripensi. Cancelli.
Ti voglio tanto bene. No, troppi caratteri.
T v t b. Ohibò, adolescenziale.
Ti voglio bene. Cioè, insomma.
Provo ancora qualcosa per te. Se mi sforzo.
Lasci stare, tanto lui il cellulare lo tiene sempre spento.
Ore 9. Contagiata dall’atmosfera zuccherosa, compri: a) torta a forma di cuore. b) vassoio di pasticcini a forma di cuore. c) ½ kg di ravioli a forma (guarda un po’) di cuore. Più che la lista della spesa sembra l’elettrocardiogramma.
Ore 9,15. Le mise nella vetrina del negozio d’intimo farebbero arrossire persino Alex Comfort. Irrompi, affascinata da un body rosso e nero. Ti assicurano che è identico a quello indossato da Nicole Kidman in Moulin Rouge. E’ sorretto, spiegano, da autentiche stecche di balena. Costa quanto la rata del mutuo, ma tu non sai resistere e ci abbini pure un reggicalze coordinato. Intanto, pensi a quand’è stata l’ultima volta che lo avete fatto. Forse tre mesi fa, la sera del compleanno di nonna Rosina? Oppure quattro mesi fa, per festeggiare l’automobile nuova? Controlli sull’agenda ed eccola lì, bene in evidenza, la crocetta rossa che indica l’avvenuta attività sessuale, depositata fra le 15 e le 16 di sabato scorso. Ma forse perché la cosa si è svolta fra la telefonata della zia Pina e il rinnovo della tappezzeria del divano, proprio non la ricordi per niente.
Ore 10. La tua collega arriva in ufficio con aria trasognata. Come Violetta nell’ultima scena della traviata, stringe al petto un mazzo di fiori. Ha le guance soffuse, gli occhi luminosi. Agita freneticamente le pratiche, caso mai tu non avessi notato il solitario che le sfavilla all’anulare. Alla fine non si trattiene più. “Guarda cosa mi ha regalato lui!” E tu, candida: “Quale dei tre?”
Ore 11. Immersa nella lettura di un manuale di ricette afrodisiache, stai per scoprire come si stecca il filetto col pepe di cayenna, quando ti becca il capo. Avvampi e balbetti frasi sconnesse sull’importanza dell’aggiornamento quotidiano in campo amministrativo. Si allontana scuotendo la testa e tu capisci che non l’ha bevuta nemmeno stavolta. Il resto della mattina lo passi a scrivere (sopra un originale biglietto a forma di cuore) quanto contino, nel rapporto di coppia, rispetto, stima e complicità. Cerchi di dimenticare quando, da fidanzati, correvate nudi ed ubriachi nel parco.
Ore 17. Ti catapulti dal parrucchiere, il quale ti esamina disgustato ed affonda immediatamente le forbici. Rinunci con un sospiro alla maschera al ginseng, perché hai già speso tutto lo stipendio e siamo ancora al 14 del mese.
Ore 18. Stecchi l’arrosto con doppia dose di arrapante pepe di cayenna. Rovesci i cassetti in cerca di quegli stampini a forma di cuore, che tua sorella ha gettato via, dopo aver scoperto suo marito a letto con la migliore amica. Metti in frigo lo spumante ed apri le ostriche.
Ore 19. Accendi più candele di monsignor Milingo durante uno dei suoi esorcismi, stendi sul letto le lenzuola leopardate comprate a ferragosto dal marocchino, t’immergi in un bagno di schiuma holliwoodiano.
Ore 19, 10. Squilla il telefono. Come una fontana, sguazzi per tutta la casa alla ricerca del cellulare. “Topina”, bisbiglia lui, “sono in riunione, arrivo appena posso”. Tu vorresti urlare, ma lo sai che giorno è oggi? invece mordi la cornetta e tubi: “Va bene, ti aspetto.” Poi, infuriata, asciughi le pozze d’acqua sul parquet.
Ore 19,30. Più che ricordare Nicole Kidman ed il can can, addosso a te il body rosso e nero, con le stecche d’autentica balena, fa l’effetto raccordo anulare. Deve essere per via di quei rotoli di ciccia che sbuzzano dai fianchi. Frughi nell’armadio alla ricerca di quel vestitino di shantung scollato dietro, che quest’estate ti stava così bene. Scopri che da Natale sei ingrassata di cinque chili. Le stecche di balena ti si conficcano nello stomaco e ti accorgi di non riuscire più a respirare. Ti arrampichi su un paio di sandaletti argentati con il tacco a stiletto. Li allacci sulle gambe nude e depilate come quelle delle star di Holliwood, (che, per altro, è in California, dove fa caldo anche a Febbraio.)
Aspetti.
Ore 20,45. Senti il rumore della sua chiave nella serratura. Illividita dal freddo, gridi: “Sorpresa!” Traballando sui tacchi di 10 centimetri, indichi estasiata la tavola apparecchiata con la tovaglia delle grandi occasioni, i flute che spumeggiano, ed i canapè a forma di cuore ormai stecchiti nel piatto. Lui ti guarda imbambolato. Si slaccia la cravatta con aria distrutta, “buon compleanno, Topina”, esclama. A testa bassa, tu gli porgi il bigliettino su cui ti sei scervellata tutta la mattina. Lui lo prende in mano, lo soppesa, poi lo mette giù, estenuato. “Lo leggo domani”, ti dice. Sbottona la camicia, si toglie i pantaloni e, in mutande, fa scorrere la pagina sportiva del televideo, mentre tu schiumi di rabbia in cucina, davvero molto, molto tentata di offrire le ostriche al gatto.
Ore 21,05. Con gli occhi incollati al Gabibbo, lui addenta distrattamente un trancio di peperoncino ed ulula dal dolore.
Ore 22. Siete entrambi sul divano. Tu sei scesa dai tacchi e ti sei tolta il vestitino. Indossi le pantofole e la tua vecchia, confortante, vestaglia. Sotto hai ancora il body di Nicole Kidman, con le autentiche stecche di balena. E’ davvero la mise ideale, rifletti, per fare quello che, in effetti, state facendo.
Cioè guardare un documentario sui panda in tv.
Deafblind
My father had to push to get me through the wrought-iron gate, surmounted by TV cameras. I was surprised to see that the whole interior of the wall was covered with a thick foam.
- Dad, why is the son of Simonti not coming to school?
- It is none of your business! Go to school, and study.”
My father was very angry with me. When I brought home my votes I was forced to follow him in his work as a gardener for the whole summer. That day it was the turn of the villa Simonti .
I wanted to ask confirmation of the rumors that were circulating in the classroom. It was said that the Simonti held a monster in the house and he never came out.
While my father poured gasoline in the mower, and busied himself to turn it on, panting and pulling the rope of the engine, I was still looking for the answer to my question.
Then the mower was set in motion and its noise drowned out every other noise. My father, grim, nodded at the first rake and then at a large tree near the house, and I knew that I had to collect all the leaves that had fallen.
I took the rake and walked reluctantly toward the tree in the middle of the garden. I began to rake a few leaves in here and there, chewing on a piece of candy.
Then a hiss caught my attention.
On the lawn in front of the house, there were a woman and a child.
The woman had blonde hair, tied with a rubber band. The child was as tall as me. But he did not walk like me. He lolled with his hands outstretched .
The woman kept a little distance, ready to support him, but silent.
The child was advancing barefoot in the grass.
Forward, forward , forward ...
Cold feet , because I have nothing to cover the things down. Under, wet ice of thin mushy wires. Next on soggy, wet.
Tickling, thrill ... Perfume, air .
Breath. Breath.
Heat pinches, and I like. I raise my head towards the heat that stings and I like.
I raked mechanically, but I kept looking at the two. They were strange, but just strange strange .
The child bobbed forward, then stopped, opened his mouth sucking breath, as if he were drinking the air and he liked it a lot .
With both hands, the child began to rub the wall of the house, running his fingers along some sort of plastic bar that led to the door.
I hid behind the trunk of the great tree, but I was close enough to see every detail. The child's fingers were too corroded by probing and rubbing everything he encountered. There was blood on his fingertips.
The woman was silent as if the words were useless, she did not touch anything, did not smile, and her eyes were as sweet as those of my mother when she looked at me. No, more than that.
Then the child reached the door .
I tend arms. Touch round, icy rough. Straight ahead, straight up to the hole with tips that I know about .
The woman and the child came into the house, but from the large open windows I could still see them. They had stopped in the first room. There were a wardrobe, a bed with bars, soft toys. There was a table without corners. There were no pictures on the walls, there was no poster of "The Lord of the Rings" or of a soccer team, like in my room. Each object was covered with foam like the wall outside.
The woman crumbled cookies and turned them into the child’s mouth with her hands, then poured him a glass of water.
Here is my smell , my things.
Even if it is pungent, it is sweet . She is here with me.
Saliva, I'm hungry. I open my mouth , I pull out my tongue and she puts in taste, sweet on the tip, more salty down, soft , soft.
I chew , I swallow . Now water , fresh , fizzes.
Cough, cough ...
Fingers inside my finger , fingers that go up and down, up and down , flying , patting, caressing , clasping . Fingers, smooth, soft , scented .
I'm glad she's here. I raise my hands up, up toward her, toward the head, mouth , globes .
Trembles , trembles , I think she's tired . Water, water on my finger , I lick salt water , water ...
My mother, at times, beats on my back when the water goes through me, too . My mother caresses me, too, but she does not put my fingers in her mouth, she does not wash the blood from my fingertips with her kisses . She does not cry like that.
Now next to me was my father. I had not even noticed that the mower had stopped, the garden was silent again, and my father had put a hand on my shoulder . - Oh , son, such a tragedy ...
When my father finished his work, the sun was setting . We walked back home together, hand in hand. For some reason, now he no longer seemed so angry .
Nemesi
Racconto molto carico, con termini duri che si susseguono (sputare, stuprare, graffiare), la violenza è esacerbata, oltre che appunto dai termini e ovviamente dalla brevità del testo, anche dal luogo domestico che si immagina ristretto e di cui si focalizzano solo alcuni punti (come l’angolo della stanza); nello stesso tempo la dialettica tra la presunta serenità della casa in cui si sta e di cui si pensa di avere controllo quasi totale (come sarebbe in un contesto di normale quotidianità) e il repentino e angosciante svolgersi dei fatti, ridisegna il luogo del proprio vivere assegnandogli una pesante nuova dimensione. Il tutto senza che la protagonista possa più intervenire, potendo ormai solo subire e avere un ruolo passivo .. Un racconto che non lascia indifferenti. (Valentino Appoloni)
Il primo è stato l’aspirapolvere. Ha sputato invece di inalare.
Poi la lavapiatti ha cominciato a opacizzare tutte le stoviglie. Poi un piatto nuovo nuovo è caduto giù dal pensile di taglio sopra il tuo piede. E l’albero è crollato un numero sospetto di volte con tutte le palle che si sono frantumate e tu lì a ricomprarle come una cogliona a metà prezzo che ormai mancavano solo tre giorni a Natale.
Poi c’è stato il robot e hai avuto la conferma. Ha staccato a bella posta un pezzo di battiscopa, l’ha trascinato sul parquet appena fatto rilucidare e, con un chiodo, ha rigato tutto il pavimento. In modo coscienzioso, chiaramente intenzionale. Ora le rigature si vedono bene, sembrano ghirigori di una mano inviperita.
Il parquet… il parquet dove è successa la cosa. È successa lì perché era il posto più illuminato e occorreva luce per rasare il pelo, per inserire la cannula dell’ago in vena. È successa lì ma non doveva succedere lì, doveva essere sul letto, nell’incavo del tuo braccio, come avevi disposto, immaginato. Ma la realtà ci stupisce, ci previene, ci prevarica. L’incavo del tuo braccio si è trasformato in un pavimento di legno mai abbastanza caldo. Le lacrime concepite c’erano, sì, anche tante, ma c’erano anche discorsi fuori luogo, convenevoli, mezzi sorrisi, e quel tentare di convincerti che è giusto così. Ti hanno dovuto chiamare persino perché ti eri allontanata, perché non eri dove dovevi stare, lì con lui, a stringerlo, a carezzarlo, ti eri arresa al fatto che le cose non stavano andando come avresti desiderato. E non lo hai abbracciato che dopo, quando la testa già ciondolava, quando gli occhi erano sbarrati, quando dalla bocca usciva sangue. Ma poco, non quanto avresti voluto e dovuto, non con quella rassegnazione, quella dolcezza sfinita e infinita che avevi avuto con gli altri, piuttosto con un senso di azione irrimediabile, crudele, fredda. Col senso di rendertene conto solo a cosa conclusa, col senso di non essere in pace con la tua coscienza, di voler riportare le lancette indietro di un’ora e non farne più nulla.
Ti sei chiesta se lo hai fatto perché ormai era programmato, perché il veterinario aveva guidato per mezz’ora col tempaccio, perché non ce la facevi più a reggere l’agonia dell’incertezza, perché subentra un egoismo per il quale vuoi che tutto finisca, perché c’era da fare l’albero di Natale e venivano i parenti e tu, ancora, non avevi comprato nessun regalo.
È morto incazzato, ringhiando fino all’ultimo istante. Così, poi, di certo te l’ha fatta pagare, anche se ti ama ancora, anche se gli hai chiesto perdono mille volte. Perché di te si fidava come di nessuno, perché eri stata tu a salvarlo, ad allattarlo, perché non voleva morire anche se soffriva, perché voleva rimanere ancora abbracciato con te su quel letto e ti aveva messo la testa nella mano e si era pure sforzato di alzarsi, di mangiare, ti aveva fatto le fusa.
Ecco, da allora, le cose hanno cominciato a ribellarsi, a vendicarsi, si sono arrabbiate. La punta aguzza di uno sportello ti si è conficcata nella caviglia come l’ago nella vena, il mouse saltella e cerca di sfuggirti come lui per tutta la casa mentre lo rincorrevano con la siringa e, alla fine, il robot si è incaricato di stuprare il pavimento.
Sì, forse qualche rumore strano lo avevi sentito, forse c’era stato il suono dell’allarme quando un oggetto rimane incastrato fra le ruote e magari potevi anche alzarti e andare a vedere cosa succedeva. Ma non l’hai fatto, non ti sei voluta accorgere, ti sei tenuta a distanza anche lì. E così quel chiodo del battiscopa non era più fra le ruote (zampe?) del robot, ma era come fosse fra le tue dita, stretto fra i tuoi polpastrelli, a graffiare e rigare e incidere.
E vendicare.
Marina "Morgatta" Savarese, "La Bruttina che conquista " e "Come tenersi un uomo"
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La Bruttina che conquista
e
Come tenersi un uomo
Marina “Morgatta” Savarese
Edizioni Ink
Si prendono in mano questi due libretti rosa, “La Bruttina che conquista “ e “Come tenersi un uomo”, sottili sottili, con i disegnini invitanti in copertina e, diciamolo, magari dopo il tomo critico su Proust o su Hesse ci attirano pure parecchio per l’aspetto appetibile e vaporoso da chick lit, anche se qui non si tratta di romanzi. Le aspettative che ci creiamo sono due e vengono entrambe deluse: che i libriccini in questione siano scritti male, e non lo sono, e che dicano qualcosa di nuovo risolvendoci i problemi, e non fanno nemmeno questo.
Se siamo bruttine (nel caso specifico lo siamo) di certo coltiviamo la segreta e imperitura speranza d’imbatterci nel ricettario magico che ci trasformerà, nel consiglio di bellezza gratuito e miracoloso. Pia illusione.
“La Bruttina Sfiduciata la stima l’ha seppellita nel cassetto dei ricordi (e ha buttato via la chiave.) Forse l’ultimo complimento l’ha ricevuto al suo primo compleanno, quando, ancora incosciente, non capiva l’ironia della frase “che carina questa bambina”, classico riconoscimento di circostanza dove non è ammesso dire alla mamma che la sua pupetta è un mostriciattolo. Poi l’ha capito, che la bruttina se ne accorge anche da sola che è veramente bruttina. E la vita spalleggia sempre queste sue convinzioni, continuando a infierire con stilettate e piccole coltellate a ogni occasione, sgretolando ogni mattoncino di fiducia e ogni piccola conquista. E così la bruttina si adegua, si lascia colpire, si annulla, azzera i sentimenti e ogni tipo di aspettativa.”
La Savarese si dichiara a sua volta Bruttina doc, ci racconta che è diventata figa sfoggiando stile, guardaroba giusto e potenziando le proprie doti di simpatia e comunicatività, ma non ci dice cosa dobbiamo concretamente fare, cosa dobbiamo scegliere nelle nostre deprimenti sedute di fronte all’armadio, per tramutarci da brutti anatroccoli in superbi cigni veleggianti. Non ci offre nessun rimedio prodigioso, nessun consiglio soprannaturale, arcano, solo i soliti palliativi, che sanno tanto di già sentito, sul non trascurarsi, sul mostrarsi al meglio, sull’essere indipendenti, sicure di sé e, ovviamente, puttane al punto giusto, nel senso buono della parola.
E – inorridiamo, o noi sacerdotesse del pessimismo cosmico – ci propina la solita teoria del “be positive, be happy”, dello foggio di entusiasmo che conquista il maschio di turno. Ci viene il dubbio che non si stia parlando davvero di come trasformare le brutte in belle (se così fosse il libro renderebbe miliardaria l’autrice) ma si proponga piuttosto l’equazione bruttina uguale donna comune. Insomma, si fa leva sulla metamorfosi del brutto in avvenente ma in realtà si sta discutendo in generale, indicando ad ogni donna la via dell’indipendenza, della sicurezza, dell’autonomia, dello stile, dell’eleganza, dell’emancipazione.
Nel secondo testo c’è un’evoluzione, sia dal punto di vista linguistico che contenutistico. Lo stile diventa più incisivo, ironico, tagliente, l’autrice dimostra di avere cervello e cultura e che gli affilati artigli erotici sono solo un aspetto della sua personalità e non un chiodo fisso. E se, anche in questo caso, i consigli per tenersi l’esemplare maschile, lo straccio di amante previamente conquistato, appaiono scontati, balza agli occhi l’attenta analisi sociale del variegato (e un po’ triste) sottobosco di trenta/quarantenni in cerca di accoppiamento. La fauna che lo popola è votata al disimpegno, all’instabilità emotiva, al peterpanesimo, all’immaturità. Vediamo aggirarsi torme di single incalliti, trombamici allergici al matrimonio e disorientati, figure di cui si rivendica il diritto alla dignità ma che, per chi appartiene a generazioni ancora imbevute di romanticismo, grondano squallore e inadeguatezza.
Alcune descrizioni sono davvero spassose, specialmente quelle in cui è facile rintracciare qualche maschio di nostra conoscenza, come ad esempio l’uomo mistico, quello, per capirci, tutto chakra, energia, incenso e ristoranti vegani.
“Se non siete profondamente spirituali anche voi, tutto questo ascetismo alla lunga vi farà perdere la pazienza, facendovi sognare di chiudergli tutti i suoi chakra una volta per tutte.”
La Savarese, attualmente residente a Firenze ma vissuta molti anni a Livorno, ha assorbito dalla città labronica lo spirito arguto, acuminato, irriverente e un po’ sboccato, quello che fa sempre dire pane al pane. Appassionata di moda, di design, di danza, di burlesque, di cultura pop, piena d’interessi e informata, sembra conoscere l’argomento per esperienza diretta, un’esperienza sempre filtrata dall’ironia (e da una salutare autoironia). Ha interrogato molti amici, sia maschi sia femmine, stilando classifiche e facendo statistiche degli atteggiamenti più comuni. Il tutto con mano leggera, acume, simpatia, spirito, divertimento. Soprattutto con quel piglio deciso, in grado a suo dire di trasformare una bruttina qualsiasi in una donna audace, una donna che sa conquistarsi - piantando con sicurezza i piedi per terra e non pestandoli bizzosa - il suo posto in questo mondo non sempre accogliente.
I fratelli Grimm
Jacob Ludwig Karl Grimm (1785 - 1863) e Wilhelm Karl Grimm (1786 – 1859) erano fratelli, legatissimi al punto che, quando uno dei due si fece una famiglia, prese l’altro a vivere con sé. Le numerose delusioni li portarono poi a chiudersi in un loro mondo fantastico, un po’ come capitò a Tolkien nell’ultima parte della vita. Nati ad Hanau, vicino a Francoforte, furono linguisti e filologi, padri fondatori della germanistica, autori di un importantissimo dizionario che venne completato postumo solo negli anni sessanta. Jakob è anche famoso in glottologia per la celebre legge che da lui prende il nome: la prima rotazione consonantica (Erste Lautverschiebung).
Nel mondo, però, sono conosciuti soprattutto per aver raccolto e rielaborato le fiabe della tradizione popolare tedesca in “Fiabe” (Kinder- und Hausmärchen, 1812-1822) e “Saghe germaniche” (Deutsche Sagen, 1816-1818). Pubblicarono, tuttavia, anche fiabe francesi e di altri paesi.
Il loro operato fa parte del movimento ottocentesco di riscoperta e rivalutazione del folklore popolare. In un periodo in cui la crescente alfabetizzazione portava alla scomparsa della tradizione orale, influenzati dal romanticismo di Clemens Brentano e da von Arnim, i Grimm compirono le loro ricerche col preciso intento di recuperare, non tanto favole per bambini, quanto racconti che contenessero lo spirito di un intero popolo, favorendo la nascita di una identità germanica.
“Era forse giunta l’ora di riunire queste fiabe, dato che coloro che le devono conservare sono sempre di meno…”
La stessa azione compì Elias Lönrot nel 1835 in Finlandia con il Kalevala.
Le fiabe che riproposero erano in versione originale non destinate a un pubblico infantile. Quello che è giunto fino a noi è un adattamento edulcorato, depurato dei particolari più cruenti, risalente alle traduzioni inglesi del 1857. Le due sorellastre di Cenerentola, ad esempio, nella versione originale si tagliano calcagno e alluce nel tentativo di entrare nella famosa scarpetta. Sembra, però, che una certa censura sia stata condotta anche dai Grimm per quanto riguarda contenuti sessualmente espliciti.
Le stesure nel corso degli anni furono molteplici, i Grimm modificarono le storie per venire incontro ai gusti della nuova borghesia tedesca e perché s’imbatterono continuamente in versioni diverse. Si sforzarono, comunque, di rendere i racconti così come li avevano ascoltati, in uno stile semplice, mimetico del linguaggio popolare, senza abbellimenti e persino un po’ scarno. Molto diverse le due trasposizioni di Cenerentola, quella barocca, aristocratica, di Perrault e quella brulla, sanguinosa, dei Grimm. Dobbiamo, infatti, precisare che l’opera dei Grimm era stata preceduta nel seicento da quella del nostrano Gianbattista Basile (con “Lo cunto de li cunti” 1643 – 46) e da quella dal francese Perrault.
Le storie hanno un’ambientazione cupa, oscura, fatta di orchi, streghe che mangiano bambini, genitori che li abbandonano nel bosco, madri (e non matrigne!) che pretendono il cuore delle figlie, lupi che divorano. È un mondo di case nella foresta, di animali parlanti, di arcolai, di fusi che addormentano, di paglia che diventa oro, di specchi magici, di mele avvelenate. I protagonisti sono esponenti del popolo o dell’aristocrazia, l’intento è edificante, con il lieto fine che premia sempre il comportamento retto e onesto.
Se Vladimir Propp ne ha analizzato la struttura ricorrente, se non è impossibile ricollegarle alle teorie degli archetipi e dell’inconscio collettivo di Jung, è ormai famosissima l’interpretazione freudiana che ne ha dato Bruno Bettelheim. Certo è che le fiabe – tutte, non solo quelle dei Grimm - assolvono un compito consolatorio per i bambini.
Attraverso la narrazione i piccoli superano le paure, oggettivandole, acquistando fiducia in un lieto fine, risolvendo conflitti edipici, rivalità fraterne, sensi di colpa latenti, primi turbamenti sessuali inconsci, timore dell’abbandono, riti di passaggio all’età adulta e alla maturità psicofisica. Imparano altresì a distinguere ciò che è bene da ciò che è male, a schierarsi dalla parte dell’eroe positivo, a fidarsi dell’aiuto esterno, a non demoralizzarsi di fronte a difficoltà e a sentimenti d’inadeguatezza, ad accettare l’esistenza del male, considerandolo superabile. Nelle favole dei Grimm chi non è degno, chi non si comporta come dovrebbe, va incontro a una brutta fine, e l’apparente mancanza di pietà nella punizione è soltanto giustizia agli occhi dei piccoli.
Il bambino trae molta più consolazione e giovamento dall’ascolto di una fiaba che da un ragionamento logico. Attraverso le immagini fantastiche e la narrazione, rielabora in modo subliminale e istintivo i precetti, assimilandoli senza sforzo.
Anche nelle fiabe attuali, quelle dei libriccini cartonati in vendita negli scaffali degli autogrill, la parola più ricorrente è PAURA. Esorcizzare i terrori infantili, e vincere l’ansia da prestazione dei bambini, sembra essere lo scopo principale del mondo fiabesco.
Per concludere, ricordiamo che un’operazione simile a quella dei fratelli Grimm è stata compiuta dal nostro Italo Calvino nel 1956 con le fiabe della tradizione popolare italiana.
Jacob Ludwig Karl Grimm (1785 - 1863) and Wilhelm Karl Grimm (1786 - 1859) were brothers, very close to the point that, when one of the two started a family, he took the other to live with him. The numerous disappointments then led them to shut themselves in their fantasy world, a bit like what happened to Tolkien in the last part of life. Born in Hanau, near Frankfurt, they were linguists and philologists, founding fathers of German studies, authors of a very important dictionary which was completed posthumously only in the sixties. Jakob is also famous in glottology for the famous law that takes his name: the first consonantal rotation (Erste Lautverschiebung).
In the world, however, they are known above all for having collected and reworked the tales of the German popular tradition in "Fairy Tales" (Kinder- und Hausmärchen, 1812-1822) and "Germanic Sagas" (Deutsche Sagen, 1816-1818). However, French and other fairy tales were also published.
Their work is part of the nineteenth-century movement of rediscovery and revaluation of popular folklore. In a period in which the growing literacy led to the disappearance of the oral tradition, influenced by the romanticism of Clemens Brentano and von Arnim, the Grimm carried out their research with the specific intent to recover, not so much fairy tales for children, as tales that contained the spirit of an entire people, favouring the birth of a Germanic identity.
"Perhaps the time had come to reunite these fairy tales, given that those who must preserve them are less and less ..."
Elias Lönrot did the same action in Finland in 1835 with the Kalevala.
The fairy tales they re-proposed were in the original version not intended for a child audience. What has come down to us is a sweetened adaptation, stripped of the bloodiest details, dating back to the English translations of 1857. The two stepsisters of Cinderella, for example, cut their heel and big toe in the original version in an attempt to enter the famous shoe. It seems, however, that some censorship has also been conducted by the Grimms regarding sexually explicit content.
The drafts over the years were multiple, the Grimm changed the stories to meet the tastes of the new German bourgeoisie and because they continually came across different versions. They endeavoured, however, to make the stories as they had listened to them, in a simple, mimetic style of popular language, without embellishments and even a little lacklustre. The two transpositions of Cinderella are very different: the baroque, aristocratic one, by Perrault and the bleak, bloody one, by the Grimm. In fact, we must specify that the work of the Grimm had been preceded in the seventeenth century by that of our local Gianbattista Basile (with "Lo cunto de li cunti" 1643 - 46) and by that by the French Perrault.
The stories have a dark, dark setting, made up of orcs, witches who eat children, parents who abandon them in the woods, mothers (and not stepmothers!) who demand the hearts of their daughters, wolves who devour. It is a world of houses in the forest, talking animals, spinning wheels, spindles that let you fall asleep, straw that turns into gold, magic mirrors, poisoned apples. The protagonists are representatives of the people or aristocracy, the intent is edifying, with the happy ending that always rewards righteous and honest behaviour.
If Vladimir Propp has analyzed their recurring structure, if it is not impossible to link them to the theories of archetypes and the collective unconscious of Jung, the Freudian interpretation that Bruno Bettelheim has given is now famous. What is certain is that fairy tales - all, not only those of the Grimm - perform a consoling task for children.
Through storytelling, children overcome fears, objectifying them, gaining confidence in a happy ending, solving oedipal conflicts, fraternal rivalries, latent guilt feelings, first unconscious sexual disturbances, fear of abandonment, rites of passage to adulthood and to psycho-physic maturity. They also learn to distinguish what is good from what is bad, to take sides with the positive hero, to trust external help, not to become demoralized in the face of difficulties and feelings of inadequacy, to accept the existence of evil , considering it surmountable. In the tales of the Grimm those who are not worthy, those who do not behave as they should, face a bad end, and the apparent lack of pity in punishment is only justice in the eyes of the little ones.
The child derives much more consolation and benefit from listening to a fairy tale than from logical reasoning. Through fantastic images and narration, he subliminally and instinctively reworks the precepts, assimilating them effortlessly.
Even in current fairy tales, those of the hardback booklets on sale in the shelves of the roadside restaurants, the most recurring word is FEAR. Exorcising childhood terror, and overcoming children's performance anxiety, seems to be the main goal of the fairy tale world.
To conclude, remember that an operation similar to that of the Grimm brothers was carried out by our Italo Calvino in 1956 with the fairy tales of the Italian popular tradition.
Before dawn
You’re looking out of the window, tears wet your throat and mix with the sweat on your chest, you writhe with stomach pain, you shudder. Nothing is as it was believed, she even hated you and you had not noticed. It was real hatred, otherwise she would not have said those horrible things, she would not have called you a failure. Wait, what did he say exactly? Ah, yes, “You’re a borne failure, you're a loser by nature, Thomas, and he is worth a thousand times more than you in bed."
You implored her while she was detaching from the wall the picture of her aunt - the disgusting crust you've always had to keep to please her – please, do not take away Chicco, you shouted, while she dressed him in a hurry and his lower lip trembled.
"The child is frightened, Anna, for the love of god."
But she could not see her son anymore. Then you were the first to fell silent, to pull her heavy suitcase up. "Ok, love, now mother takes you for a few days to granny, so you can play with the dog. How is the dog? How, Chicco, tell me! Make boo to Dad, like a puppy.”
But she turned as if to hide the child with her body, as if to protect it from you, from you, that love him like you've never loved anything in this shit of your life. You swore that your child would never have suffered, that you would always be at his side, he would have a father and a mother, yes, he, at least.
"You have no aspirations, you have no ideals", she told you. Yes you have it, shit, you have one. Chicco is your aspiration, your ideal. She doesn’t know what love you're capable of , you've never had a family of your own, you only imagined your parents, night after night, in an institute, sobbing, while the big ones leapt towards you or you were trying to escape the knocks, waiting the age of eighteen to go out, to learn a trade, to find a girl, to have a family.
Anna and Chicco no longer need you, they have abandoned you like those motherfuckers, yes, just like your parents, you are left alone in this ugly city, with your ugly work shop, and there is no return, there is no future, every gesture is useless.
You leave the window, you go to the bathroom. There is still Chicco’s jumpsuit across the edge of the tub. You grab it, you rub it on your face, it is soft, you feel the pee smell. You hold it on your nose with your left hand while, with your right one, you take a razor blade. You cut your left wrist, and then you cut also the right one.
You look at the blood that comes out and jump on the bed, thinking how long does it take. Your wrists hurt, but only a little.
And you are afraid.
Oh, yes, until recently, when you went up there to cut your veins, you just wanted to put an end to your pain, but now you are scared. It's a strong feeling that makes you think not so much of her and Chicco anymore.
You close your eyes, thrust your head into the pillow, but then you open your eyes again, yes, you let them open wide. The sky is clearing on the buildings, where the hills begin. You hear the noise of the newspapers van.
In June. A group of trees and a wall with too many windows, the creak of a swing. You are lying belly up in the meadow, smoking a prohibited cigarette. They have cut the grass and you know that it will stinge on the uniform, you' ll take a scolding from father Matthew, but you do not care, because the grass is cool and you like its tickle.
You look at the sky, at the white trail left by the aircrafts, a bumblebee buzzes on your head. You think the heat has a noise, and it is the sound of the bumblebee.
Asshole. You're dying and you’re thinking of you as a boy, of classmates - but were they not all pedophiles? – you’re thinking about the workshop colleagues, especially Mariotto who always brings you the mortadella and the wine that his father makes in the country. You also think of your parents: before they gave you in, they have offered you your life.
You are cold, your forehead is covered with ice sweat. There is a glass on the bedside table, you see the water, you want it on your cardboard tongue.
Are you thirsty, huh? You had to think of it before, you know that when it bleeds to death it is so.
Thirst ... Thirst ...
Holy Christ ...
You think of the water that drips down the gutters and washes the machines. You raise your arm, you try at least. It remains there, caked to the sheet, like a stone, already half dead.
You know, asshole, you know that now you can’t pick up the phone anymore?
Kindergarten
Now you know what I do, I put on my coat and cap, sit on the bench in the locker room, and wait for mom. Please, please, Lord, make so that that Mom comes to pick me up! At least to eat. The dough is soft, the egg sucks. Yesterday I threw up, they made me get up, they took me to the center of the room, left me standing there alone while they went to get something to clean me, because I had the apron all dirty of vomit. I called Mom, I was wet, I was ashamed because they were all staring at me, pointing their fingers at me, laughing with those toothless faces.
Why mom does not come for me? So I go home and eat purè, which mother makes good, and then watch TV.
This morning they gave me a paper and a pencil. “Draw, Gina,” they said. I pointed the pencil on the paper, I drew an arc with one hand. The one who gave me the paper asked: “What is it, Gina?” “It’s a bridge, all right?” I said. So, if nothing else, they stop forcing me to draw. I cannot draw, I do not like to draw. I wish they would let me read all the books they have in that room over there. But perhaps I cannot read.
Yesterday they made us sit in a circle. “Gina, tell us something about you,” they said. I did not come with anything to say, I seemed to have a shoe box for a head. I was sweating.
“Fear not, Gina, here you have lots of new friends.”
Mom told me that two people become friends when they have known each other for a long time and they love. I do not know how long I have been here. I’m here, but these are not my friends and I do not love anyone. No, really, these are not my friends, they stink and piss on themselves. If I get close, they give me a push. One told me: “Go away, bitch.” Mom does not want me to say certain words, she does not want me to listen to them either.
Mom, please, come.
***”
“We smoke a cigarette, Joan?”
“Yes, Angela, but in a haste, because soon the director will be here.”
Joan and Angela rely on the external glass and smoke quickly, inhaling large gulps. The air is refreshing, the sun goes down and hides behind the hills. A third nurse passes close to them pushing an empty wheelchair. “Hurry up, the viper is coming.”
“How did you see them today?” Asked Joan.
“Well … as usual, some peaceful, others not.”
“It ’s absurd how bad they can be at their age. They hate Gina, poor thing, they push her aside. ”
“Gina says little, does not open, it is not collaborative … “
“Yeah, today I tried to make her draw, but nothing.”
A bell rings, the two nurses quickly extinguish their cigarettes under the soles of their shoes. “Come on, let’s work.”
Back in the big common room. “Do you empty the pans?” says Angela, in a loud voice to be heard by the director who, at that moment, is coming down the stairs from upper floors.
”Yes, and you go get the diapers, medium and large size, please.”
The director has stopped at the foot of the stairs. “Joan, Angela,” she says with a snake smile, “our guests need you. You are not here to have fun. This is not a kindergarten, girls, remember, is a nursing home."
Macale, De Cave, Appetito, "Resushitati"
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Resushitati
Macale, De Cave, Appetito
Edizioni Il Foglio, 2013
Cardiopoetica è un collettivo letterario composto da tre persone – Marco De Cave, Fabio Appetito e Mariano Macale – che non si pone solo come unione di tre autori in un unico volume, piuttosto - almeno nelle intenzioni - come una sorta di nuova avanguardia culturale, di manifesto letterario.
Il gruppo nasce a Cori, in provincia di latina, nel 2010, e si prefigge l’obiettivo di rinvivire la poesia, che sonnecchia, a suo dire, dagli anni novanta, calandola nel quotidiano, portandola fra la gente comune, con una serie di reading, di avvenimenti multimediali. “Resushitati” è il loro secondo libro, edito da Il Foglio Letterario.
Il titolo ha tre chiavi di lettura. Se lo si considera parola piana, con l’accento sulla penultima sillaba, gli si conferisce un tono di evento, di cosa fatta. Se, invece, lo si legge con l’accento sulla ù, prende il significato di una esortazione a risorgere, a uscire da una condizione che è “vita apparente”, notte di “morti viventi” alla Romero: “anche se si è impagliati sulla parete di una sala.”
Siamo morti, siamo alienati dal consumismo, dall’esaltazione dell’esteriorità, del corpo e dell’abito, da una comunicazione che diventa solo esternazione sui social network, monologo inascoltato e non dialogo. Bisogna “Ricominciare da capo nuovamente” , come ci esorta a fare la citazione da Lenin, stimolo a una rivoluzione che non è solo politica ma anche interiore. (Il concetto è bene esplicitato nel piccolo brano in prosa di Marco De Cave dal titolo “Giornata pesante”.)
Per farlo, per uscire da una vita che vita non è, per risvegliarsi e risorgere, occorre una scelta netta, limpida, una presa di posizione sociale, un rapportarsi alla collettività, agli altri, cosicché l’individualità possa fondersi in un “noi” e l’anima sia scossa dalla poesia. Se si sceglie di rivivere, non lo si fa come l’eremita disgustato, ma cercando di comprendere questo nostro mondo da dentro per poi ribaltarlo.
Nel titolo si trova inserita anche la parola sushi, qualcosa che si porta via, un take away non solo dell’oggetto ma anche del soggetto. E la poesia arriva per portarti via, per trascinarti, per risvegliarti. Una poesia, però, moderna, fatta di cose di oggi, e, tuttavia, capace comunque di lirismi antichi, di invocazioni, di preghiere, di canti alla luna. Il collettivo dice di rifarsi alla tradizione montaliana, nerudiana e alla Beat Generation, ma non mancano echi crepuscolari e stilemi più classici e meno sperimentali.
Il soggetto, l’introspezione lucida e un poco disperata, “Ma io non sono portato a vivere”, resta, a nostro avviso, sempre al centro delle poesie di questi tre autori che, pur nello studio avanguardistico, pur nell’impegno socioculturale, pur nella creazione di un manifesto comune, altro non cercano se non l’amore, la fusione con l’altro da sé, una comunione autentica e non di superficie, un noi più profondo, dove si ascolta oltre che parlare.
“che avessimo una parola almeno
Da dividere in uno quando stiamo insieme”
E ancora :
“ho smesso di cercare la risposta che soffia nel vento
Perché adesso il vento sono io
E sono già alle tue spalle.”
Come nella poesia di Macale, “Non sia mai che scenda la sera sui tuoi occhi”, che ci piace proprio perché smette i panni della sperimentazione e si lascia andare ad un lirismo pavesiano.
“Non sia mai che scenda la sera sui tuoi occhi,
non si cela alle pupille arcane la realtà
rotta, minuta di questo coccio perduto,
ma non è vano il voto dell’assemblea,
se il mondo intero ti ostracizza
troverai come perla rara rifugio in me,
per quanto siano senza regola le mie parole,
fallimentari i miei progetti, dipartite da tempo le chimere, le utopie
verso mondi immaginari.
È rimasto nel porto l’unico sogno
Di tutta una vita: noi.”
Alla fine, ancora una volta, il collettivo, il sociale, s’identifica con il “noi” formato da due anime che non riescono mai a fondersi quanto vorrebbero. Come afferma ancora Macale, “per amore si può risorgere”.
Il Respiro del Fiume capitolo primo
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Benars. Settembre 1981.
Alle quattro del mattino, la luce è già sufficiente a Benares per attraversare la città e raggiungere uno dei cento ghat[1] sul Gange.
Avvolta in un sari scolorito, una figurina sottile, con i capelli annodati, una lunga treccia saltellante e i piedi nudi, sguscia fuori casa e corre per i vicoli della città vecchia. Non presta attenzione agli escrementi di vacca e al sudiciume che insozza le strade, com’è sua abitudine in giorni più sereni. Passa come il vento in mezzo ai bimbi seminudi, ai lebbrosi, ai mendicati storpi, ai vecchi seduti sul marciapiede che giocano a centrare la sputacchiera.
Non bada neppure al lugubre tempietto del dio scimmia Hanuman, macchiato di polvere rossa come sangue. Supera le oscure botteghine di oggetti sacri, nel cuore del chowk, la fitta rete di vicoli alle spalle dei ghat immersa nell’odore pungente dell’incenso alla rosa e delle collane votive di gelsomini. Ansimando, s’accoda alla fila di pellegrini che scende verso il Manikarnika Ghat. Sull’ultimo gradino, appena sopra il livello delle acque, sosta per riprendere fiato.
Si guarda intorno.
Maestoso, surya[2] sta sorgendo, ed illumina ad est uno spazio immenso, desertico. Sulla riva dove si trova lei, invece, si stendono sette chilometri di scalinate, bastioni, templi e palazzi di maharaja. Lungo i sacri scalini, la folla più misera del mondo compie le abluzioni rituali, prega, beve l’acqua infetta. Dalle pire funebri, il fumo continua a levarsi, acido, denso.
Nell’ora più santa del giorno, anche la ragazzina entra nel fiume e s’immerge fino alla vita. Spruzza l’acqua sul palmo delle mani, rivolta verso il sole, poi accende un lumicino di olio di canfora, lo depone sopra una foglia e lo affida al Gange. Tutto intorno, sant’uomini con le vesti color zafferano lasciano scivolare nel fiume le loro offerte che simboleggiano la luce che disperde l’ignoranza. Un’isola di fiammelle è catturata dalla corrente e fluttua verso l’Oceano Indiano. “Ganga mai ki jai! Sia lode alla Madre Ganga!”.
Anche la bambina prega: “Madre Ganga accogli la mia offerta.”
Quando tutte le preghiere che conosce sono esaurite, è ormai giorno fatto, il sole brucia e la gente cerca riparo sotto gli ombrelloni di paglia. I sannyasi[3] restano immobili, in estasi, in comunicazione col sole.
In mezzo al fiume scivolano barconi carichi di turisti che scattano fotografie dei santoni in preghiera, della gente che si lava e delle cataste di legna coi morti che bruciano all’aperto.
La bambina torna sui propri passi, scosta una tenda scolorita ed entra in casa. Provenendo dal ghat luminoso ed affollato, la stanza le appare ancora più tetra e buia. Oltre una fila di stracci appesi ad asciugare, Urda, la vicina che aiuta sua madre, l’apostrofa con la bocca piena di betel, “ah, sei qui, non dovevi andartene proprio ora.” E’ una donna magra, di età indefinibile, con i capelli arruffati, priva di un incisivo. Glielo ha staccato suo marito con un pugno, prima di farle il dispetto di renderla vedova. Dal foro, proprio in mezzo alle labbra, cola giù il sugo rosso del paan[4].
La ragazzina si avvicina timorosa al letto dove sua madre, Auda, giace in una pozza di sudore sul lenzuolo sporco. Il volto olivastro è irriconoscibile, gli occhi, prima grandi, scuri ed umidi, appaiono come le orbite vuote di un teschio. Il respiro è un rantolo aspro che sa di vomito.
“Urdabhai?”
“Mmm...”
“Perché mia madre fa cosi?”
“Tua madre sta solo cercando di respirare.”
“Urdabhai?”
“Mmm...”
“Mia madre sta morendo?”
La vicina si limita a sospirare. Sputa sul pavimento un getto di saliva rossa.
“Urdabhai?”
“Mmm...”
“Mia madre guarirà?”
“Ti pare che possa guarire? E’ meglio se stai con lei, ora.”
La bambina si accoccola vicino al charpoi. Con una piccola mano incerta, tocca appena la spalla della madre. “Amma[5]...”
La malata apre le palpebre che sembrano diventate di carta, cerca di muovere la testa in direzione della voce ma può soltanto fissare il soffitto. “Han...?”[6]
“Mi senti, amma?”
“Urmilla...”
“Amma...”
“Urmilla, dove sei?”
“Qui, sono qui, amma. Non mi vedi?”
“No, non ti vedo… Non c’è luce, è notte.”
“No, amma, non è notte, é mattina! Sono le cinque e sono stata a pregare.”
“Hai fatto bene. Io non posso andarci, sono stanca. E poi, con questo buio. E’ così buio, oggi.”
“Amma! Non è vero! Non è buio! Non è...”
“Sai, Urmilla, ho visto il tuo baba. E’ venuto a trovarmi...” Un colpo di tosse la interrompe. Urda si accosta e le bagna la fronte con una pezza. “Eh, povera anima, sta delirando.”
Un altro accesso di tosse convulsa lascia la malata senza respiro. All’improvviso s’irrigidisce, digrigna i denti, strabuzza gli occhi e afferra il sari della figlia. “Urmilla!”
“Amma, per favore!”
Ansimante, spossata, il petto magro che si solleva in lunghi sospiri faticosi, Auda tace, lottando per respirare, poi parla di nuovo e questa volta le sue parole suonano meno frenetiche, più lucide. “Urmilla, la vita non è stata bella per me, ma tu sei una brava figlia.” Tace ancora, pare assopirsi.
Forse non muore. Oh, Shiva! Oh, Signore del mondo! Fa’ che non muoia! Fa’ che la mia mamma non muoia!
Passano alcuni minuti silenziosi, il respiro della malata si fa ogni istante più aspro. Attorno al charpoi ronzano le mosche, insistenti. Urda si muove nella stanza, strascicando i piedi. Sposta un oggetto, apre un mobile, lo richiude, sputa sul pavimento. Dalla strada provengono i suoni di tutte le mattine: vocio di bambini, richiami di madri esasperate, pianti di neonati, grida di venditori di caldo channa, di arrotini, di portatori di tè.
Mezz’ora dopo, le labbra di Auda si muovono ancora: “Sei così bello, Ahmed...”
La bambina si china sulla madre, terrorizzata dal suo corpo rigido, dal fiato rancido, dal rantolo che è ormai diventato il suo respiro. “Amma!”
La bocca di Auda si schiude, il naso si fa affilato, sibilante: “Ahmed...”
“Amma! Amma!”
“Sì, janum, sì, Ahmed, anima mia...”
La barella, intrecciata con sette pezzi di canna di bambù, è pronta. La bambina ha passato la notte a costruirla, vegliando il cadavere di sua madre. Con l’aiuto di Urda, ha lavato e rasato il corpo freddo di Auda, le ha segnato la fronte con polvere di sandalo, le ha unto i capelli con l’olio, le ha intrecciato indosso collane di fiori e strofinato denti e labbra con ramoscelli profumati. Infine, l’ha vestita col suo sari più bello, quello che Auda usava solo per Diwhali[7].
Manca poco all’alba, ormai. Urda russa in un angolo con in braccio il più piccolo dei suoi nipoti, un bimbo magro, rapato a zero, vestito appena di una cintura e di un mazzo di cavigliere. Con occhi sgranati, lucidi di kajal, il piccolo fruga la stanza in penombra.
Anche la testa della bambina ciondola sul petto. Le sue mani, però, stringono ancora un piede della madre. Per ore l’ha massaggiato. Ne conosce tutte le pieghe, tutte le asperità, dal piccolo indurimento sotto l’alluce, al rinforzo calloso del calcagno, dovuto all’abitudine di camminare scalza.
La testa della bambina cade in avanti ed ella si riscuote, sobbalzando. Riprende a massaggiare i piedi del cadavere, affannosamente, come se fossero ancora sensibili.
Urda apre prima un occhio, poi l’altro, quindi sbadiglia. “Smettila, adesso, bambina. Fra un’ora sarà bruciata, a che le servono i tuoi massaggi?”
“Tutte le figlie massaggiano i piedi delle madri.”
“Sì, ma delle madri vive.”
Il nipotino tende una mano verso la donna morta sul letto. “Auda!” chiama.
“Auda dorme, lasciala in pace”, lo rimprovera la nonna. Il piccolo alza il capo, fa bolle di saliva con le labbra increspate. Di tanto in tanto getta occhiate perplesse al corpo immobile. La vecchia si agita, impaziente. “Su, Urmilla, è quasi ora. Dobbiamo metterla sulla barella.”
“Aspetta, Urda. Solo un altro poco.”
“Guarda che ho da fare! Non posso stare qua tutto il giorno! I miei nipoti hanno fame.”
“Solo cinque minuti, Urda.”
“Va bene, ma fai presto. Si comincia a sentire l’odore.”
“Non è vero! Non c’è nessun odore, sono solo i fiori!” Urmilla si china a baciare i piedi di sua madre, poi le mani, poi il capo. Intinge l’indice nella polvere rossa e ripassa la tilak[8] sulla fronte, là dove le proprie labbra l’hanno un poco scolorita. Accomoda meglio le collane di gelsomini e sparge ancora margherite sul telo rosso che avvolge il corpo.
“Non hai badato a spese”, commenta Urda, schiacciando meccanicamente un pidocchio sulla testa del nipote.
“Mia madre aveva messo via i soldi per il suo funerale. Erano dentro una scatola.”
“E’ una fortuna che i topi non se li siano mangiati. Però hai fatto bene a prendere le cose migliori per la cremazione di tua madre. Si vive da cani, che almeno si muoia con dignità! Solo che ci vorrebbe un figlio maschio. E se non c’è un figlio maschio dovrebbe farlo un parente e se non c’è un parente...”
“Il parente c’è, Urda.”
“Lascia stare, sai come stanno le cose.”
“No, non lo so e andrò da lui perché voglio parlargli, ma prima devo cremare mia madre.”
“Non è una buon’idea.”
“Questo devo deciderlo io, non tu.”
“Ah, certo! Certo! Dicevo così, tanto per darti un consiglio. Ma tu i consigli non li ascolti mai! Ma ora farai come dico io. Ti porterò alla missione.”
“Non ci voglio andare. Mia madre non approverebbe.”
“Eh, figliola mia, dovrai imparare ad adattarti d’ora in avanti. La vita è quello che è. Tua madre viveva di poesie, di fiori, di preghiere. E cosa ci ha guadagnato? Guardala un po’ ora! Morta stecchita!”
Il nipotino allunga una mano verso Auda, emette bollicine di soddisfazione. “E’ morta, è morta!”
“Ti ho detto che dorme! Ah, bambina mia, le poesie e le preghiere non riempiono la pancia, mendicare riempie la pancia, prostituirsi riempie la pancia, cercare roba lungo la ferrovia riempie la pancia! Ma Auda no. No! Lei non si poteva abbassare. Credimi, era una sognatrice, una con la testa zeppa d’idiozie da casta superiore, di scemenze brahmaniche.”
La bambina strilla: “Lascia stare mia madre!”
“D’accordo, d’accordo, non ti arrabbiare, dicevo solo per aiutarti. In fondo vi volevo bene, a tutte e due. Tu non sei un maschio ma sei ugualmente una brava ragazza. Adesso, però, muoviti, che è tardi.”
Urda allontana di peso la bambina ed a fatica solleva il cadavere. Lo lascia cadere sulla lettiga con un tonfo sordo. Insieme, legano Auda alla barella e cominciano ad ungere di ghee e olio di canfora ogni parte del suo corpo, del sudario e delle canne di bambù.
“Ecco fatto”, dice Urda, “così le fiamme saliranno subito al cielo.”
Trascinano fuori la lettiga. La luce rosa dell’alba ferisce gli occhi della bambina, che per tutta la notte hanno pianto e vegliato nell’oscurità.
Prima di issare la barella, il carrettiere, che è in attesa, vuole vedere i soldi. Urmilla apre la mano e mostra un rotolo di rupie. L’uomo fa un segno d’assenso e prende a bordo il carico.
“Allora, bambina”, comincia Urda, poi s’interrompe. Nella sua voce s’indovina un’ombra di commozione. “Dì, sei sicura di farcela?” domanda infine.
La bambina fa segno di sì, poi si arrampica sul carretto, di fianco alla salma di sua madre avvolta nel drappo rosso. Urda saluta, raccoglie il nipote, poi attraversa il cortile.
Il carrettiere colpisce col bastone il muso del bue, la bestia s’incammina lenta, scuotendo ad ogni passo le corna dipinte ed il collo inghirlandato. La bambina, con una mano sul petto di sua madre, è seduta rigida sul carretto traballante che percorre tutta la Madampura Road, fino all’Harishandra Ghat.
Alla sommità del ghat c’è uno spazio di cemento destinato ai roghi, con paraventi per proteggere le persone dalle folate di calore. La bambina domanda al becchino il prezzo del legno e degli aromi poi estrae dal seno il suo rotolo di rupie, assottigliato dopo il pagamento del carrettiere.
L’uomo vi punta due occhi rapaci. “Femmine!”, ripete sputando a terra un getto di paan che per poco non colpisce la bambina in pieno petto. “Femmine! Dove andremo a finire!” Afferra tutti i soldi ed indica un mucchio di legna di poco valore.
“E’ legnaccia!” s’indigna la bambina.
“Sentila, la signora! Con quei quattro soldi non pretenderai una catasta di legno di sandalo come i ricchi?!”
La bambina s’impunta. “Ti ho dato tutte le rupie che avevo; tutte quelle che mia madre aveva messo da parte per il suo funerale! Mia madre si merita il meglio, era una brahmani, lei!”
“Sì, e io sono Rama!”
Senza dargli retta, la bambina si lancia verso un mucchio di legno pregiato.
Il becchino cerca di fermarla. “Ehi! Che fai?!”
“Voglio un pezzo di sandalo da mettere in bocca a mia madre!”
La bambina sceglie con cura un piccolo pezzo di legno, scosta il sudario dal volto di Auda e forza i denti serrati dal rigor mortis. Introduce il legno nella bocca e la richiude. “Ecco, amma, così.”
Auda sembra una statua di cera. La bambina pensa che è davvero l’ultima volta che vede il volto di sua madre e qualcosa la prende allo stomaco. Le lacrime sono spille brucianti che bucano gli occhi. Si sforza per trattenerle.
Il becchino solleva la salma e scende verso il fiume, subito seguito da una mucca, pronta ad inghiottire i fiori che cadono dal corpo. Auda viene immersa nell’acqua purificatrice, unta di ghee[9] e issata sulla pira.
La bambina compie cinque giri attorno alla catasta, sparge acqua da un recipiente che poi spezza, mentre il becchino aspetta impaziente e la gente intorno guarda sconcertata. Sul cemento del ghat sono scritti i nomi di quelli che vi sono stati cremati. La bambina evita di guardarli perché sono davvero troppi.
Il becchino le porge una torcia. “Dove andremo a finire”, ripete, “dove andremo a finire se ora mandano le bambine ai funerali e le fanno girare intorno alle pire come fossero maschi. Sai almeno cosa devi fare?”
La bambina fa segno di sì.
“E credi di poterlo fare da sola?”
Ancora la bambina conferma, ma trema un po’. Fa del suo meglio per appiccare il fuoco ai quattro angoli della pira. Il legno unto prende subito fuoco, le fiamme lambiscono il sudario, poi lo avvolgono. Il corpo s’accende, crepita, s’inarca, sembra levarsi a sedere. La bambina guarda con gli occhi sbarrati. Si ritira in un angolo, come un animale impaurito, e si accovaccia sul cemento del ghat. Rimane tutto il tempo a guardare mentre sua madre arde.
Le hanno insegnato che non si deve piangere per chi muore, perché la morte fa parte della vita e chi ha vissuto senza colpa rinasce più puro. Eppure ha un groppo duro in gola, e le lacrime ora traboccano. Tira su col naso, sente sapore di sale e di moccio.
Il becchino la guarda, storcendo la bocca, scuotendo la testa, biascicando ingiurie contro chi permette alle femmine di comportarsi da maschi invece di stare in casa e pensare a sposarsi. Perciò quelle lacrime vanno ricacciate indietro proprio come farebbe un maschio. Per non piangere, la bambina si sforza di pensare a com’era sua madre quando stava bene, al suo sorriso mesto, ai suoi occhi gravi, ai suoi piedi nudi che scivolavano indifferenti sul fango della vita. Auda non vorrebbe le sue lacrime. Auda, davanti ad ogni cosa, metteva la dignità.
Però, ora, Auda è là sotto, che si accartoccia e scoppia sulla pira, in quel lezzo d’ossa bruciate e fumo, mescolato all’odore forte ed umido del fiume. E lei non la vedrà più, non le racconterà più cosa hanno detto le altre bambine alla fontana, non udrà più la sua voce roca che dice che non bisogna mai aver paura.
Ha paura, invece, e la paura è un buco nero dentro la pancia, come quando ti fa male qualcosa che hai mangiato. No, di più, molto di più.
Alcune ore dopo, armato di pinze di ferro, un inserviente raccoglie le ossa carbonizzate in un vaso di terracotta. Le fa cenno di avvicinarsi. Lei si costringe ad alzarsi, a muovere le ginocchia intorpidite dall’immobilità. Si accosta tremando alla pira fumante.
L’uomo le mostra qual è il teschio. Lei lo guarda, spaventata, affascinata, senza più un filo di saliva nella bocca. Quella cosa nera, rovente, raggrinzita, è quel che resta della bella faccia di sua madre.
“Ti muovi? Ho altri quattro funerali stamattina.”
Il punteruolo di bambù non è pesante, ma lei deve tenerlo con entrambe le mani, da quanto tremano. Stringe le nocche attorno al legno fino a sbiancarsele, fino a farsi male. Si concentra, prende la mira.
Colpisce.
E’ un colpo debole, la testa carbonizzata si sposta appena, il punteruolo scivola di lato.
La bambina ci riprova, colpisce più forte, tanto da ferirsi le mani. Questa volta la testa annerita sobbalza, ma niente di più.
“He, Ram! Vuoi ridurla in polpette?! Vuoi farci il macinato?”
La bambina inghiottisce lacrime di vergogna. “Mi dispiace”, si scusa, “io non...”
“Da’ qua!” L’uomo le strappa di mano il punteruolo. Con due colpi secchi fracassa il cranio di Auda e libera la sua anima.
Più tardi, con il vaso delle ceneri stretto al petto, la bambina scende l’ultimo scalino del ghat, per raggiungere la barca che la porterà al centro del fiume, dove potrà spargerle nell’acqua. I suoi occhi sono asciutti, adesso, e tiene alta la testa.
Stringe con forza il vaso sul cuore.
[1] Scalinata
[2] Sole
[3] Rinunzianti che si pongono al di fuori della società per riunirsi, attraverso l’ascesi, con l’Assoluto.
[4] Pasta di noce di betel avvolta in una foglia, da masticare.
[5] Mamma.
[6] “Sì?”
[7] Festa delle luci.
[8] Segno rosso sulla fronte.
[9] Burro cotto e liquefatto.
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Il Respiro del Fiume, Libro di Patrizia Poli - - Narrativa - ilmiolibro.it
Il Respiro del Fiume, di Patrizia Poli Narrativa 210 Storia di ampio respiro, corale, complessa, eppure di immediata presa, dove i personaggi, tutti, di volta in volta, diventano protagonisti ...
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