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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

poli patrizia

Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi, Stefano Sardo, "Il ragazzo invisibile seconda generazione"

7 Febbraio 2018 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #fantasy

 

 

 

 

 

Il ragazzo invisibile seconda generazione

Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi, Stefano Sardo

 

Salani Editore, 2018

pp 202

14,90

 

Poco più di una sceneggiatura romanzata, Il ragazzo invisibile seconda generazione, seguito de Il ragazzo invisibile, romanzo scritto dagli sceneggiatori de l’omonimo film di Gabriele Salvatores uscito nel 2014, fa parte di un’operazione cross- mediale. Il romanzo esce per Salani in contemporanea col film e con un fumetto. Il primo film, però, almeno aveva fascino, il romanzo molto meno.

Ritroviamo Michele Silenzi tre anni dopo i fatti del primo film/libro. È ancora invisibile ma ha imparato a controllare i suoi poteri, è cresciuto, è sempre innamorato di Stella, sebbene non sappia farsi riamare. Il ritrovato padre Andrej ha cancellato la mente di tutti i protagonisti delle passate vicende e nessuno ricorda che è stato proprio lui a salvare Stella e gli altri. Soprattutto, l'amata madre adottiva Giovanna è morta in un incidente. Lei stava litigando al telefono con lui quando ha perso il controllo dell’auto e Michele non se lo perdona. Vive con il cane Mario in un appartamento sudicio e disordinato, gira fra una festa e l’altra, sta male dentro e non si dà pace.

In questo sequel ritroverà la vera madre ma non sarà un incontro felice. Nella sua vita, inoltre, irrompe un’altra persona, speciale come lui, la sorella gemella Nataša. Apparentemente i legami del sangue sembrano colmare il vuoto, ma la vera famiglia è quella che ci cresce e che ci ama, non quella genetica.

Se nel film di Salvatores  il realismo, seppure magico, aveva un positivo sopravvento sulla fantasia - e si avvertivano tutti i turbamenti di un adolescente alle prese con i coetanei, con l’amore, con la società e i problemi della crescita - qui, dopo un inizio promettente, nonostante le buone intenzioni di approfondimento psicologico, si scende solo sul piano del romanzo/film d’azione.  

Michele, Nataša e gli altri Speciali sono dei supereroi. Esserlo fino in fondo significa accettare la propria parte oscura, venire a patti con i sensi di colpa, ma anche scegliere di non crescere completamente, non uniformarsi, rimanere diversi seppure non in modo palese. Fuor di metafora, il conformismo è l’antitesi dell’essere Speciali, del non fare parte del gruppo avendo qualcosa in più: più sensibilità, più capacità, più intelletto. E si può scegliere di mettere le proprie doti a servizio del bene oppure del male, si può scegliere di allearsi con i “Babbani”, di harrypotteriana memoria, oppure distruggerli.  

Tutto sommato, il personaggio meglio tratteggiato resta sempre Michele, gli altri sono solo stereotipi più cinematografici che letterari, specialmente il cattivo Zavarov. Se il primo film catturava per quel certo malinconico non so che, e per la novità di un fantastico made in Italy, il tentativo di creare una saga fumettistica autoctona, con tanto di pellicole, fumetti e romanzi, non ci pare abbia prodotto i risultati qualitativamente sperati.

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I giorni della merla

4 Febbraio 2018 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #moda

 

 

 

Che questi post sulla moda siano un pretesto per parlare d’altro, anzi, per parlare a ruota libera, ormai si capisce. Non so scattare fotografie, e si vede, non ho pazienza a salvarle sul pc e caricarle sul blog, quindi, ogni volta mi chiedo chi me lo fa fare. Ma oggi non ho molto da dire, i giorni scorrono veloci, i mesi volano, pieni d'imprevisti e di fastidi che, finché si tratta solo di fastidi va già bene.

Andare in giro a comprare vestiti di questi tempi - in questi giorni della merla che della merla non sono, ma sono comunque umidi e corti - è facile perché si trovano tantissime occasioni a prezzi minimi. Mi sono imposta di non comprare nulla più di quello che può servire. Quindi niente scarpe, niente foulard, niente collane. Ne sono letteralmente invasa, non so dove metterli né quando metterli.

Avevo effettivamente bisogno solo di un piumino, e, come vedete, l’ho comprato nero, senza infamia e senza lode, utile in ogni occasione. Chi l’avrebbe mai detto che avrei acquistato una taglia 50, io che ero uno scricciolo che si vestiva al reparto bambini? E ora eccomi qui, con le giacche che non si chiudono davanti e la nipote che mi chiama “nonna puppona”, io che quando andavo a farmi la mammografia mi chiedevano se avevo lasciato a casa il seno. E lo guardo, questo piumino acquistato nella sezione taglie comode, leggi obese, e mi fa schifo, lo trovo da vecchia. Ed io, infatti, vecchia lo sono, ma fingo di non saperlo e a volte persino lo dimentico.

Ecco una serie di maglie anonime, com’è sempre stato nel mio stile, l’importante è che siano morbide. Mi piace la ciniglia, che non buca come la lana, che te la senti bene addosso. Essere elegante per me significa soprattutto indossare capi che abbiano una grande vestibilità, che non tirino, ingombrino, prudano, scappino di dosso o diano fastidio. Le varie maglie si distinguono per qualche piccolo particolare: un filo di lurex, un fiocchetto intrecciato sul davanti, le maniche aperte, che sarebbero da indossare sulla pelle nuda se uno ce l’avesse fresca e non patisse il freddo, non è il mio caso e quindi io ci metto sotto una t-shirt a maniche lunghe.

Un paio di vestiti sul bordeaux marrone.

Una borsina di pelle utile giorno/sera per viaggiare   

Una maglia a mezze maniche che verrà buona a primavera.

A proposito di anticipazioni, nelle vetrine ci sono già le nuove collezioni e spiccano soprattutto le righe marinare e gli abbinamenti rosso, bianco, blu. Carinissimi, se non fosse che le righe orizzontali proprio non me le posso permettere.

 

****

 

That these posts on fashion are a pretext to talk about something else - in fact, to talk freely - now you understand. I cannot take pictures, and you see, I have no patience to save them on the PC and upload them to the blog, so every time I wonder who makes me do it. But today I do not have much to say, the days are running fast, the months fly, full of little annoyances, and thanks God they are only nuisances.

Going around buying clothes these days - these days “of the blackbird” that are wet and short - it's easy because there are so many opportunities at the lowest prices. I have decided not to buy anything more than I can use. So no shoes, no scarves, no necklaces. I am literally invaded, I do not know where to put them or when to put them on.

I actually needed only a quilt, and, as you see, I bought it black, useful on every occasion. Who would have thought that I would have bought a size 50? Me! I was a wren who bought clothes in the children's department. And now here I am, with the jackets that do not close in front and the niece who calls me "grandma puppona". Me! When I went to get a mammogram they asked me if I had left my breasts at home. And I look at it, this quilted jacket bought in the comfortable size section - that is obese - and it disgusts me, I find it suitable for a very old woman. In fact, I am old, but I pretend not to know it and sometimes I even forget it.

Here is a series of anonymous pullovers, as it has always been in my style, the important thing is that they are soft. I like chenille, which does not pierce like wool, that feels good on you. Being elegant to me means, above all, wearing garments that have a great fit, that do not bother. The various sweaters are distinguished by some small details: a lurex thread, a braided bow on the front, the open sleeves, which should be worn on the bare skin, if one had it fresh and did not suffer from the cold, it is not my case so I'm wearing a long-sleeved t-shirt underneath.

A pair of burgundy dresses.

A day/evening useful  leather bag to travel.

A short-sleeved shirt that will be good for spring.

Speaking of anticipations, in the shop windows there are already new collections and especially the maritime lines and the red, white, blue combinations. Cute, if it were not that I just cannot afford the horizontal lines.

I giorni della merlaI giorni della merla
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Oggi fue giorno di letizia

31 Gennaio 2018 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #televisione, #come eravamo

 

 

 

D.O.M. Bairo, "l'Uvamaro", è uno storico amaro italiano a base di vino, noto negli anni settanta e ora non più in produzione.

Tra il 72 e il 77 andò in onda uno spot divenuto famoso, ambientato in un convento di fraticelli del 1400, fra i quali spiccava Cimabue, che non ne combinava mai una giusta. Evidentemente non seguiva alla lettera la regola monachorum, o benedettina, dettata da San Benedetto da Norcia attorno al 540 circa.

“Oggi fue giorno di letizia per lo convento e per li frati tutti”, iniziava lo spot… anzi no… la rèclame, e si sentiva subito un inconfondibile scampanio.

Il testo era scritto in versi e in un linguaggio che ricordava l’italiano volgare del medioevo.

"Cimabue, Cimabue fai una cosa ne sbagli due", intonavano 22 fraticelli costernati.

"Ma che cagnara, sbagliando d’impara" si difendeva il povero incapace.

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I segreti di Brokeback mountain

23 Gennaio 2018 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #cinema

 

 

 

I segreti di Brokeback mountain

Ang Lee

2005

 

Mi è capitato di vedere I segreti di Brokeback mountain, del 2005. Il regista, Ang Lee, è di Taiwan e gli orientali, si sa, trattengono i sentimenti. Ang Lee aveva già dato prova di questa caratteristica in Ragione e sentimento, che mi era piaciuto. Ho trovato I segreti di Brokeback mountain bellissimo e struggente, di quei film che quando vai a letto ci pensi, quando ti svegli ci pensi, e per tutto il giorno successivo alla visione ti resta in mente ogni fotogramma, perché toccano qualcosa dentro di te. Nel caso di questo film ciò avviene senza che capiamo il motivo, senza enfasi né ridondanza. È tutto asciutto, essenziale, scarno e perciò stesso travolgente, è romanticismo allo stato puro.

L’amore dei due cowboy non è bello perché omosessuale ma perché impossibile, e quindi destinato a durare, a rimanere trascendente, a non scontrarsi con l'immanenza, la noia e la meschinità della realtà di tutti i giorni. Vent’anni di sentimento travolgente, consumato solo qualche volta, un legame profondo e sotterraneo che va oltre tutto il resto, che, come il vero amore, non è nemmeno geloso di tutto il resto.

Jack Twist ed Ennis del Mar hanno vite personali, hanno mogli e figli ma non rendono l’altro partecipe di queste loro esistenze. Forse neppure si telefonano. Affidano il loro rapporto a dei biglietti che si spediscono poche volte all’anno per darsi appuntamento a Brokeback Mountain, il luogo magico dove si sono incontrati per motivi di lavoro e dove è nata la loro passione senza scampo e senza futuro. Anche il paesaggio rientra nel discorso del sentimento trattenuto: è sottotono come i gesti, come i dialoghi, come la narrazione stessa, è bello ma non spettacolare, più che altro è vero. Jack ed Ennis si amano in montagna, dove fingono di recarsi a pescare, i loro incontri e il luogo che li favorisce sono isolati, staccati da tutto, ma la cattiveria riesce comunque a spiarli e raggiungerli anche lì, a loro insaputa. La montagna è un luogo dell’anima, dove si mangia attorno al fuoco, ci si bagna nei fiumi gelidi, si fanno cameratesche cose da uomini, ma con tenerezza, con un legame indissolubile di corpo e spirito. La montagna rimane immutata, anche quando fuori il mondo cambia e si modernizza ma non fino al punto di accettare la loro relazione. Quando sono a Brokeback, Jack ed Ennis ringiovaniscono anche nell’aspetto, sono gli stessi di quella prima indimenticabile estate del 1963. Mentre sono insieme ricreano il mondo, sono essi stessi il mondo e non c'è posto per nient'altro.

Jack è estroverso, sognatore, immagina un futuro che lo porterà, però, solo alla morte. Ennis è chiuso nel suo dolore, attaccato all’immagine normale che vuol dare di sé, fino a macerarsi e annullarsi in questo inutile sforzo, perché snaturarsi porta alla reificazione e all’alienazione.

Magistrali l’inizio e la fine, entrambi all’insegna del non detto. Al principio c’è un’intera sequenza girata in silenzio, quella in cui i due uomini si vedono per la prima volta, si squadrano senza darlo a vedere, apparentemente non interessati l’uno all’altro. Nel finale, invece, c’è una frase sola, smozzicata: “Jack, io ti giuro”, mentre gli occhi del protagonista fissano la cartolina che raffigura la montagna dell’amore. Il resto è lasciato allo spettatore. “Io ti giuro che sfiderò il mondo per portare lassù le tue ceneri”, pensiamo, “io ti giuro che ti amerò sempre e non ti dimenticherò mai”, "io ti giuro che sarò all’altezza del tuo amore e di ciò che volevi da me”, di quel sentimento nascosto ma  violentissimo che ha spinto Jack a rubare e conservare per sempre i vestiti dell’altro, di una passione proibita che non si estingue mai, va oltre la famiglia, i figli e persino la morte.

In mezzo c’è una storia raccontata in modo asciutto e lineare, senza annoiare ma senza mai lasciarsi andare a eccessi. I due uomini si comportano normalmente, sembrano solo colleghi o amici, ma dietro al non detto c’è un tumulto feroce, un’onda irresistibile che travolge e sconvolge, che lacera il tessuto della normalità, della “non vita” spacciata per vita, e affiora prepotente durante le scene di passione, soprattutto il bacio nel retro della casa, a cui assiste la moglie di Ennis. Anche le mogli partecipano del non detto, del trattenuto, dell’andare avanti facendo finta che la cosa non esista perché conviene, perché parlare spalancherebbe l’abisso. Lo stesso dicasi della morte di Jack.  Anche qui c’è una bugia sottintesa. È Ennis a capire che l’amico è stato ucciso perché omosessuale, sebbene la cosa non sia mai esplicitata da nessuno.

Un film fatto di parole, gesti e cose che vengono nascoste eppure deflagrano; un amore romantico, appassionato e meraviglioso che mi ha fatto piangere e mi ha lasciato dentro qualcosa di dolce, amaro e tristissimo.

I happened to see Brokeback mountain, from 2005. The director, Ang Lee, is from Taiwan and the Orientals, you know, hold back the feelings. Ang Lee had already demonstrated this characteristic in Sense and Sensibility, which I liked. I found Brokeback mountain beautiful and poignant, one of those films that when you go to bed you think about them, when you wake up you think about them, and for the whole day after the vision every frame remains in your mind, because they touch something inside you. In the case of this film, this happens without reason, without emphasis or redundancy. Everything is dry, essential, lean and therefore overwhelming, it is pure romance.

The love of the two cowboys is not beautiful because it is homosexual but because it is impossible, and therefore destined to last, to remain transcendent, not to clash with the immanence, boredom and meanness of everyday reality. Twenty years of overwhelming feeling, consumed only a few times, a deep and underground bond that goes beyond everything else, which, like true love, is not even jealous of everything else.

Jack Twist and Ennis del Mar have personal lives, have wives and children but do not make the other share in their lives. Maybe they don't even call. They entrust their relationship to tickets that are sent a few times a year to meet at Brokeback Mountain, the magical place where they met for work and where their passion was born with no escape and no future. Even the landscape is part of the discourse of the sentiment: it is subdued as the gestures, like the dialogues, like the narration itself, it is beautiful but not spectacular, more than anything else it is true. Jack and Ennis love each other in the mountains, where they pretend to go fishing, their encounters and the place that favors them are isolated, detached from everything, but malice still manages to spy on them and reach them even there, without their knowledge. The mountain is a place of the soul, where you can eat around the fire, bathe in the icy rivers, do camaraderie for men, but with tenderness, with an indissoluble bond of body and spirit. The mountain remains unchanged, even when outside the world changes and modernizes but not to the point of accepting their relationship. When they are in Brokeback, Jack and Ennis also rejuvenate their appearance, they are the same as in that first unforgettable summer of 1963. While they are together they recreate the world, they are the world themselves and there is no place for anything else.

Jack is an extrovert, dreamer, he imagines a future that will lead him, however, only to death. Ennis is closed in his pain, attached to the normal image he wants to give himself, to the point of macerating and canceling himself out in this useless effort, because distortion leads to reification and alienation.

The beginning and the end are a masterful, both under the banner of the unsaid. At the beginning there is an entire sequence shot in silence, the one in which the two men see each other for the first time, they watch each other without showing it, apparently not interested. In the finale, however, there is only one broken sentence: "Jack, I swear to you", while the protagonist's eyes stare at the postcard that represents the mountain of love. The rest is left to the viewer. "I swear to you that I will challenge the world to bring your ashes up there", we think, "I swear to you that I will always love you and I will never forget you", "I swear to you that I will live up to your love and what you wanted from me ”, of that hidden but violent feeling that pushed Jack to steal and keep forever the other's clothes, a forbidden passion that never extinguishes, goes beyond family, children and even death.

In the middle there is a story told in a dry and linear way, without boring but without ever letting go of excess. The two men behave normally, they seem only colleagues or friends, but behind the unspoken there is a ferocious turmoil, an irresistible wave that overwhelms and upsets, which tears the fabric of normalcy, of "non-life" passed off for life, and overbearingly emerges during the scenes of passion, especially the kiss in the back of the house, witnessed by Ennis' wife. Wives also participate in the unspoken, withheld, by moving forward pretending that the thing doesn't exist because it is convenient, because talking would open up the abyss. The same applies to Jack's death. Here too there is an underlying lie. It is Ennis who understands that the friend was killed because he was homosexual, although it is never explained by anyone.

 

A film made of words, gestures and things that are hidden yet explode; a romantic, passionate and wonderful love that made me cry and left me with something sweet, bitter and very sad.

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Siate buoni, o figli

13 Gennaio 2018 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #poesia, #come eravamo, #animali

 

 

 

 

Per continuare la serie delle poesie che ci facevano imparare a memoria  - e questa è bella lunga, non so come farei adesso a recitarla a mente – ce n’è una che prediligevo e ancora oggi mi fa salire le lacrime agli occhi: Il rospo di Giovanni Pascoli.

Qui il “fanciullino” non è buono, tutt’altro, qui è semmai l’immagine della malvagità inconsapevole, quasi innocente nella sua implacabilità. A esser buono è il “mostro”, il rospo brutto, e per ciò stesso “cattivo”. Lui è l’unico ad aver l’animo tenero e sensibile, capace di vedere la bellezza della natura. Se ne sta per i fatti suoi, mentre i fanciulli, belli e amati, imperversano sul suo corpo sgraziato. Ad aver pietà di lui non è un uomo, non è una donna, ma un povero asino vecchio e  macilento, vittima a sua volta di percosse e brutalità.

 

 

Era un tramonto dopo il temporale.

C'era a ponente un cumulo di cirri

color di rosa. Presso la rotaia

d'un'erbosa viottola, sull'orlo

d'una pozza, era un rospo. Egli guardava

il cielo intenerito dalla pioggia;

e le foglie degli alberi bagnate

parean tinte di porpora, e le pozze

annugolate come madreperla.

Nel dì che si velava, anche il fringuello

velava il canto, e, dopo il bombar lungo

del giorno nero, pace era nel cielo

e nella terra.

 

Un uomo che passava

vide la schifa bestia; e con un forte

brivido la calcò col suo calcagno...

Venne una donna con un fiore al busto,

ed in un occhio le cacciò l'ombrella...

Quattro ragazzi vennero sereni,

allegri, biondi: ognuno avea sua madre,

a scuola andava ognuno. - Ah! la bestiaccia!

dissero. Il rospo andava saltelloni

per la scabra viottola cercando

la notte e l'ombra. Ed ecco i quattro bimbi

con una brocca a pungerlo, a picchiarlo,

a straziarlo. Sotto i colpi il rospo

schiumava, e i bimbi: - Come è mai cattivo! 

L'occhio strappato ed una zampa cionca,

cincischiato, slogato, insanguinato,

non era morto; e gli voleano i bimbi

gettare un laccio, ma scivolò via

arrancando. Incontrò la carreggiata,

vi si annicchiò fra l'erba verde e il fango.

Ed i fanciulli in estasi e in furore

s'erano certo divertiti un mondo.

Guarda, Piero! Di’, Carlo! Ugo, dà retta!

prendiamo, per finirlo, ora un pietrone.

E, rossi in viso, empivano di strilli

la dolce sera. Intanto uno rinvenne

con una grossa lastra: - Ecco trovato!

A stento la reggea con le due mani

piccole, e s'aiutava coi ginocchi.

 Ecco! - E ristette sopra il rospo, e gli altri

a bocca aperta, senza batter ciglio,

stavano intorno con la gioia in cuore.

E quello alzò la lastra. Uno... due...

 

 

Quando

videro un carro che venia tirato,

là, da un asino vecchio, zoppo, stanco,

con gli ossi fuori e con la pelle rotta.

Il barroccio veniva cigolando

nei solchi delle ruote, trascinato

dalla povera bestia. Essa il barroccio

tirava, e avea due cestoni indosso.

La stalla, dopo un giorno di fatica,

era ancor lungi; il barrocciaio urlava,

e segnava ciascun: - «Arrì »- d'un colpo.

Il solco delle rote era profondo,

pieno di melma, e così stretto e duro

ch'ogni giro di rota era uno strappo.

L'asino s'avanzava, rantolando

tra una nuvola d'urla e di percosse.

La strada era in pendio: tutto il gran carro

pesava sopra il ciuco e lo spingeva.

Ed i fanciulli videro, e, gridando

al lor compagno: - Fermo con la pietra!

dissero: - il carro passerà sul rospo;

c'è più gusto così.

 

Dunque, in attesa,

sgranavano gli allegri occhi i fanciulli.

Ecco, scendendo per la carreggiata,

dove il mostro attendea d'esser infranto,

l'asino vide il rospo: e triste, curvo

sovra un più tristo, stracco, rotto, morto,

sembrò fiutarlo con la testa bassa.

Il forzato, il dannato, il torturato,

oh! fece grazia! Le sue forze spente

raccolse, e irrigidendo aspre le corde

sugli spellati muscoli, ed alzando

il grave basto, e resistendo ai colpi

del barrocciaio, trasse con un secco

scricchiolio, fuori, e deviò la ruota,

lasciando vivo dietro lui quel gramo.

Poi riprese la via sotto il randello.

Allor nel cielo azzurro, dove un astro

già pullulava, intesero i fanciulli

Uno che disse: - Siate buoni, o figli.

 

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Sul ponte sventola bandiera bianca

9 Gennaio 2018 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #poesia, #come eravamo

 

 

 

 

 

Fra le poesie che ci facevano imparare a memoria alle elementari negli anni sessanta, una di quelle che più mi è rimasta impressa è L’ultima ora di Venezia di Arnaldo Fusinato (1817 – 1888). Amico di Prati ed Aleardi, l’autore fu poeta patriottico contro l’oppressione austriaca. Nel marzo del 1848 insorsero le città del Lombardo Veneto, costringendo alla ritirata le guarnigioni austriache. Nel 49 anche Venezia insorse e fu proclamata la Repubblica di San Marco, dove Fusinato prestò servizio come tenente. Anche qui, nonostante la  difesa guidata da Daniele Manin, dopo quasi un anno la città si dovette arrendere alle forze austriache. Nella poesia L'ultima ora di Venezia si può leggere tutto lo sconforto provato da Fusinato in quei momenti, che il mio cuore di bimba romantica, imbevuta - per retaggio familiare - di ideali patriottici, riusciva a sentire nel profondo.

 

È fosco l'aere,

il cielo è muto;

ed io sul tacito

veron seduto,

in solitaria

malinconia

ti guardo e lagrimo,

Venezia mia!

 

Fra i rotti nugoli

dell'occidente

il raggio perdesi

del sol morente,

e mesto sibila

per l'aria bruna

l'ultimo gemito

della laguna.

 

Passa una gondola

della città:

- Ehi, della gondola,

qual novità? -

- Il morbo infuria

il pan ci manca,

sul ponte sventola

bandiera bianca! -

 

No, no, non splendere

su tanti guai,

sole d'Italia,

non splender mai!

E su la veneta

spenta fortuna

si eterni il gemito

della laguna.

 

Venezia! L'ultima

ora è venuta;

illustre martire,

tu sei perduta...

Il morbo infuria,

il pan ti manca,

sul ponte sventola

bandiera bianca!

 

Ma non le ignivome

palle roventi,

né i mille fulmini

su te stridenti,

troncaro ai liberi

tuoi dì lo stame...

Viva Venezia!

muore di fame!

 

Su le tue pagine

scolpisci, o storia,

l'altrui nequizie

e la sua gloria,

e grida ai posteri:

- Tre volte infame

chi vuol Venezia

morta di fame! -

 

Viva Venezia!

L'ira nemica

la sua risuscita

virtude antica;

ma il morbo infuria,

ma il pan ci manca...

sul ponte sventola

bandiera bianca!

 

Ed ora infrangasi

qui su la pietra,

finché è ancor libera

questa mia cetra.

A te, Venezia,

l'ultimo canto,

l'ultimo bacio,

l'ultimo pianto!

 

Ramingo ed esule

in suol straniero,

vivrai, Venezia,

nel mio pensiero;

vivrai nel tempio

qui del mio core

come l'immagine

del primo amore.

 

Ma il vento sibila

ma l'ombra è scura,

ma tutta in tenebre

è la natura:

le corde stridono,

la voce manca...

sul ponte sventola

bandiera bianca!

 

Franco Battiato ha ripreso il ritornello nella canzone Bandiera bianca.

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La fine del desiderio

8 Gennaio 2018 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #moda

 

 

 

 

 

“Io ho la Befana della mia nonna”, scrivevo il 7 gennaio 1970, “della mia zia e quella di casa mia, anche se c’è una Befana sola. La Befana di casa mia mi ha portato queste cose: un vestitino, una sciarpa, un libretto da ritagliare ed incollare e i vestiti di carta delle bamboline di cartone che hanno questi nomi: Sceila, Marzia, Sindi e Terri. Un seggioloncino con un piattino sopra per dare la pappa alle bambole. La Befana di nonna e zia mi ha portato altre cose: la calza come da noi, un settimino in cui ho trovato tremila lire, un maglioncino bianco. Sarebbe stato meglio che invece di tutti questi bei giocattoli la Befana avesse guarito la mia nonna, o mi avesse portato, so che per la Befana è impossibile, un fratellino.”

Devo dire che il fratellino poi è arrivato, ma questa è un’altra storia. La più bella Epifania della mia vita me la regalò mia nonna. Fece man bassa in un banchetto chiamato “trentacinque tutto”, cioè trentacinque lire il pezzo - parente dei nostri negozi a 0,99 centesimi. Lei in cucina aveva ancora una bella cappa di quelle di un tempo e riempì il camino di giocattoli e sorpresine che, a pensarci oggi, dovevano essere poveri e piccoli, ma a me tutto quel ben di Dio colorato diede alla testa. Mi sembrava d’impazzire dalla gioia. Meno male che esistono i nonni: con i loro gusti un po’ antiquati si trascinano dietro tradizioni e radici.

Oggi le famiglie sono allargate, nonni e parenti si moltiplicano, l’importante è che ci siano rispetto, affetto ed esempi positivi. Almeno si spera.

Non so quanto riescano a  godere delle feste questi nostri bambini sovraesposti, riempiti a forza di regali, costretti a scartare montagne di oggetti, per Natale, per Befana e per i famigerati megacompleanni che vanno di moda adesso. Ho il terrore di togliere a questi futuri uomini e donne la cosa più preziosa, il motore che dovrebbe spingerli ad andare avanti e costruirsi qualcosa: il desiderio. Sostituito dalla nausea precoce, dalla noia – che non è quella sana e stimolante del non avere troppe distrazioni ma il suo esatto contrario, l’avere già sperimentato e ottenuto tutto. Per questo a cinque anni mangiano solo pasta bianca e poi a tredici magari s’impasticcano e bevono per sballarsi.

Ok, le feste sono finite, fra alti e bassi ne sono uscita comunque indenne.

Ci sono parecchie cose nuove nel guardaroba, ma la voglia di comprarne altre è poca perché, quando ti guardi allo specchio e vedi il tuo corpo trasformato in qualcosa che non ti piace e non riconosci, non hai più desiderio di agghindarlo.

 

Due magliette sportive grigie, da notare quella con Minnie, indicatissima per la mia età.

Cappellino, foulard, guanti e collane: quando sei grassa, comprare accessori è l’ultima soddisfazione che ti rimane.

Abito nero, elegante. Può servire in tante occasioni (vedi funerale improvviso).

Scarpe luccicanti e borsa.

Cardigan che ha lo stesso colore dei miei sobri capelli, con tanto di fiore da signora d’altri tempi.

Maglione bianco, puro e delicato. Bianco is the new  nero per me.  Forse non è un colore dimagrante ma illumina e sta bene assolutamente con tutto.

 

 

"I have my grandmother's Befana", I wrote on 7 January 1970, " that of my aunt and that of my home, even if there is only one Befana. The Befana of my house brought me these things: a dress, a scarf, a booklet to cut out and glue, and the paper clothes for cardboard dolls that have these names: Sceila, Marzia, Sindi and Terri. A high chair with a saucer on top to give baby food to the dolls. Granny’s and aunt’s Befana brought me other things: the traditional stuffed sock, a closet in which I found three thousand lire, a white sweater. It would have been better if, instead of all these beautiful toys, the Befana had healed my grandmother, or had brought me, I know that for the Befana it is impossible, a little brother."

I must say that the little brother then arrived, but this is another story. My grandmother gave me the most beautiful Epiphany of my life. She ransacked a stall called "thirty-five all," that is, thirty-five lire, - similar to our 0.99 cents shops. She filled the fireplace with toys and surprises that, thinking about it today, had to be poor and small, but I went crazy with joy. Luckily there are grandparents: with their  a bit antiquated tastes, they drag behind them traditions and roots.

Today families are widened, grandparents and relatives are multiplying, the important thing is that there are respect, affection and positive examples. At least, hopefully.

I do not know how much our overexposed children can enjoy the festivities. They are filled with gifts, forced to open mountains of presents, for Christmas, for Befana and for the notorious mega - birthday parties that are fashionable now. I am terrified of taking away from these future men and women the most precious thing, the engine that should push them to move forward and build something: desire. Replaced by premature nausea, boredom - which is not the healthy and stimulating one of not having too many distractions but its exact opposite, having already experienced and obtained everything. This is why at the age of five they eat only white pasta and then at thirteen maybe they drink and get drugs.

Ok, the parties are over, at least! Between highs and lows I came out unharmed.

There are several new things in the wardrobe, but the desire to buy others is little, because, when you look in the mirror and see your body transformed into something you do not like and do not recognize, you no longer have the desire to dress it up.

 

Two gray sports shirts, to note the one with Minnie, very well suited for my age.

Cap, headscarf, gloves and necklaces: when you're fat, buying accessories is the last satisfaction you have left.

Black dress, elegant. It can serve on many occasions (see sudden funeral).

Shiny shoes, and black bag.

Cardigan that has the same colour of my sober hair, complete with a flower, typical of a lady of yesteryear.

White sweater, pure and delicate. White is the new black for me. Maybe it's not a slimming color but it illuminates and is absolutely fine with everything.

La fine del desiderioLa fine del desiderio
La fine del desiderioLa fine del desiderioLa fine del desiderio
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Fabio Carta, "Ambrose"

5 Gennaio 2018 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #fantascienza

 

 

 

 

 

Ambrose

Fabio Carta

Alter Ego, 2017

 

Una lettura difficile, questo Ambrose di Fabio Carta, a tratti sembra prenderti ma poi sei ingolfato da un’overdose d’indigesta fantatecnica e dalla visionarietà del testo, che, forse, ne è anche il pregio maggiore, per chi ama i romanzi onirici e con poca trama. (Io no).

In un futuro panatomico, dove la guerra islamica è degenerata ormai in perpetuo conflitto, gli esseri umani hanno colonizzato lo spazio e abbandonato qualsiasi velleità di vita carnale a favore di quella virtuale. Kaarl, detto CA, è uno spazionoide, cioè un colono nato fuori della terra, un soldato fleshy, di carne, che presta il suo corpo atrofizzato a un’esotuta, sorta di robot guerriero, telecomandato dalle star band, cioè gruppetti di militi bulli che si prendono tutto il merito lasciando a lui il lavoro sporco. CA si muove attraverso lande bruciate dalle radiazioni di continue esplosioni nucleari, il suo corpo malato è nella tuta mentre il suo avatar vive nella realtà virtuale.

CA interagisce con due personalità, Combo, suo aiutante/scudiero, diretta emanazione di un cervello elettronico, e Ambrose, intelligenza artificiale scaturita non si sa da dove, forse dalla sua mente allucinata, o dal cancro che divora il suo corpo, oppure dalla connessione di tutte le menti umane attraverso la rete. Ambrose s’incarna in una disgustosa rosa gigantesca, dalle labbra che colano laghi di miele. Ambrose è Dio, il diavolo, l’alter ego del protagonista.

Più che di vera e propria fantascienza, qui si tratta di letteratura visionaria, qui ci sono richiami e atmosfere da terra desolata, qui siamo fra Eliot, Blake e Milton - con frequenti, però, cadute di stile, vedi l’incontro con la prostituta - fra Andersen (I Fiori della piccola Ida), i manga giapponesi e Kubrick. C’è molta filosofia, ci sono riflessioni sull’evoluzione della realtà virtuale, su Dio, sul destino del genere umano, sulla morte, fine ultimo, ma anche principio, di tutto.

Lo stile è davvero elegante e colto, ma spesso vittima di cambi di tono improvvisi. A tratti è anche molto poetico, cosa che non guasta e contribuisce a dare consistenza onirica all’insieme.

 

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Signora dei filtri ... o dei fili: emozioni e riflessioni: parte seconda

31 Dicembre 2017 , Scritto da Laura Nuti Con tag #laura nuti, #poli patrizia, #recensioni

 

 

 

 

 

La storia d’amore fra Medea e Giasone occupa molte pagine del romanzo. Nelle Argonautiche - nel terzo libro dove si parla di Medea - Apollonio Rodio dice che è stata la dea Afrodite a farla innamorare di Giasone. Nella Signora dei filtri non c’è alcun incantesimo se non quello dell’amore stesso, della “carne e del sangue, della passione e di un sentire forte”, come dice Patrizia nella nota introduttiva.

Il Capitolo 16, in particolare, racconta la nascita del rapporto fra Medea e Giasone – o forse sarebbe meglio dire di Medea con Giasone perché è soprattutto lei a essere profondamente scossa da questo incontro.

Medea ama Giasone. Tutto ciò che viene da Giasone è bello per lei (“Medeià. Il suo nome storpiato dalle belle labbra di Giasone suonava come la promessa di una nuova vita”). Si innamora di lui senza rendersene conto. È un amore da adolescente, pieno di turbamenti, di rivelazioni che sconcertano.

Da subito appaiono i loro diversi colori (del corpo e dell’anima): lo scuro di lei, il chiaro di lui.

Lo scuro è il tratto distintivo di Medea (Orfeo la descrive come “una giovane donna vestita di scuro”) come il chiaro lo è di Giasone (dice sempre Orfeo: “Se Dio è uguale a noi, è così che lo immagino, con quei riccioli dorati simili a grappoli d’uva danzanti sulle guance). L’emozione chiara di lui per quella ragazza che “nasconde il viso dietro i capelli” e ha “l’odore dell’erba appena tagliata e radici nascoste nel terreno”, ma anche il suo scuro turbamento nel sentirsi “leggere dentro”, nel trovarsi scoperto; l’emozione chiara di lei quando scopre di non amare più la solitudine, ma anche il turbamento nel riconoscersi fragile, indifesa, esposta.

Medea senza Giasone si sente “sola” e “vuota”, anche se la solitudine è ormai diventata un bisogno. Giasone è il suo lato luminoso: “Tu vedi solo il lato oscuro” le aveva detto la sorella Calciope, ma lei, da quando ha conosciuto Giasone, “desiderava anche la forza della luce”. E per Medea Giasone incarna questa luce, l’aspetto limpido della vita: “Gli occhi di lui avevano il colore dell’acqua del fiume quando i sedimenti si depositano e rimane solo un’azzurra, limpida trasparenza in superficie”.

Ma insieme alla luce e ai colori, da subito compaiono anche i demoni: “l’ambizione e l’avidità” di lui e – soprattutto - la passionalità di lei che tutto è disposta a fare purché la “felicità non svapori”. Nel cuore della figlia di Eeta il tenero e commosso amore da adolescenti coesiste col progetto adulto di rubare l’oro del padre, col duro e lucido desiderio di vendetta (“Voi siete la mia vendetta”) che non l’abbandona mai e che – come Morgar temeva – la porterà alla rovina.

Il Capitolo 16 termina con due immagini che evidenziano queste opposte anime di Medea: la “signora dei filtri” che prepara il sonnifero per le guardie spremendo il veleno da una vipera e la “fanciulla” che vuol farsi bella per il suo amore.

Dopo la morte di Absirto, Medea diventerà “triste e tenebrosa…. Giasone pensa che “ha dentro qualcosa di grande, di pauroso e potente”; Orfeo dice che  “gli mette i brividi addosso”. Il lato oscuro di lei prenderà sempre più forza, fino a oscurarla completamente

Mi piace questo capitolo perché descrive in modo esemplare il nascere di un grande amore in una grande donna che non conosce l’amore perché non ne ha ricevuto – e quindi ne è spaventata - ma che ne riconosce subito l’intensità e la potenza - la “trasformazione” che sta operando in lei - e si abbandona a questa esperienza in modo totale, com’è la sua natura. Sono pagine bellissime che raccontano i turbamenti, le contraddizioni, l’intensità di tutti gli amori di tutti i tempi.

Oltre a Medea, il romanzo ospita altri grandiosi personaggi – o meglio: altre persone  - su cui desidero soffermarmi un momento. La storia della Signora dei filtri si intreccia alle loro storie e ne riceve forza e significato. Inizierò con quelle di due “donne” magnifiche: Morgar e la nave Argo.

Morgar è la vera madre di Medea.

È lei che Medea vuol imitare, la donna a cui vuol somigliare: quando Morgar evoca la dea della luce e si spoglia per compiere il rito, Medea la guarda affascinata (“cercò di copiare ogni suo gesto”).

Non è una donna armoniosa e proporzionata: il corpo è “solido ma esile”,  la bocca è “grande e ben fatta” ma non sorride spesso (non è compiacente), i capelli sono “arruffati e schiariti dal sole”, i piedi “callosi”, il seno “pesante”. Ma è lei ad avere la bellezza vera, quella che anche Medea vuole per sé. Morgar è una donna che accetta il suo corpo com’è, non si trucca (in senso proprio e figurato! ) come la madre di Medea: la sua bellezza viene da ciò che lei è e non da ciò che le chiedono un uomo o la consuetudine.

È una madre amorosa, che comprende la solitudine di Medeae se ne prende cura: “… la piccola era la figlia del re, la discendente del Sole, ma era anche una bambina triste che soffriva per mancanza d’amore. Lei non era stata capace di negarglielo quell’amore”.

È una madre che conosce bene la sua bambina, l’accetta nei suoi lati solari come in quelli oscuri, e vuole solo il suo bene: “Ma c’era troppa forza dentro quella bambina e troppa sensibilità. Non era un bene che una forza così grande fosse unita al rancore”. A Medea, perciò, vuole insegnare ad amare, a comprendere, come dovrebbe fare una vera madre: “Non voleva lasciarla sola prima di averle potuto insegnare a controllare il suo istinto. Prima di tutto, di averle spiegato come si fa ad amare”.

Morgar, però, muore troppo presto e non può fare altro che raccomandarle la compassione e affidarla al Drago, al misterioso Ossevatore.

Ma chi è Morgar, oltre che la madre spirituale di Medea? Che donna è?

La “sconosciuta dai capelli rossi”, “la straniera che abita sul fiume” è una donna che ha sofferto (ha perduto il suo uomo e il suo bambino) ma è riuscita a trovare l’equilibrio, a conservare la capacità di dare amore, di “insegnare (ed esercitare) la compassione”, come dice Calciope alla sorella Medea, che non riesce a fare altrettanto.

Morgar è capace di capire. Giustifica Eeta quando Medea  accusa il padre di essere un tiranno che tiene lontano il commercio e chiunque si avvicini a Iolco: “Tuo padre vuole evitare guerre e epidemie … ; e quando Medea l’avverte che il re diffida anche di lei, risponde: “Ha paura, cara, e la paura nasce sempre dall’ignoranza”.

Morgar aiuta anche chi non la accoglie e chi ha comportamenti che lei non approva (aiuta  la madre di Medea a partorire, le procura erbe per mantenere la bellezza e per avere un nuovo figlio, e sarà questo che la porterà alla morte).

Morgar ha conosciuto l’amore – vero e ricambiato – del suo uomo (Anteo, che pratica la tauromachia e viene ucciso dal toro). Quest’uomo la chiama Cerinea - “cerbiatta” - (“È
un nome che non ti si addice
” afferma Medea) ) perché la vede con gli occhi del cuore (“Mi vedeva con affetto”), sa leggere in lei la dolcezza e la tenerezza. Il loro amore ha generato un bambino simile al padre, nato prematuro e subito morto. Per sfuggire al ricordo troppo vivo e presente di quelle perdite, Morgar ha lasciato la sua patria ed è venuta a Iolco, quando Eeta ancora non aveva chiuso le frontiere. Morgar subisce la perdita del figlio, Medea sceglierà lucidamente di perdere i suoi..

La nave Argo è un’altra grande figura femminile.

Medea vuol conoscere il mondo, viaggiare, vorrebbe essere un Argonauta. La prima volta che vede la nave Argo cerca “di immaginare cosa si provasse a navigare, col vento in faccia, sopra una nave come quella, spinta dalla forza di uomini liberi”.

Gli Argonauti non amano Medea e lei ricambia questa ostilità. Invece ama (riamata) la nave Argo, che le somiglia: è una donna forte, potente e magica come lei: “Era entrata in sintonia con la nave fin dall’inizio … Ne percepiva la forza, l’anima immortale”. Per Orfeo invece Argo è nauseabonda: odora di “salamoia, di escrementi, di cibo mal cucinato”. Ma Orfeo non è carne e sangue come Medea (e come Argo).

La nave Argo è un personaggio magnifico, una persona, splendida donna.

Giasone la vede così: “Contemplò Argo. La grande nave sembrava respirare nella brezza, cullata da onde dolci e leggere. Era una creatura viva, fatta di fasciame solido ed elastico, di corde robuste e lunghi remi potenti. Aveva in sé qualcosa di forte e vitale, come se fosse posseduta da una divinità”; dice di lei Orfeo: “Argo è femmina, come la dea che, dicono, si nasconde nella sua prua;  e Medea quando il Drago le fa percepire la sua presenza, subito pensa: “La nave pareva una creatura viva.”

È un’altra donna (come Morgar, Medea, Ipsipile) piena di passioni (“freme”), una donna-eroe che vuol conoscere il mondo.

Così la descrive lei Orfeo nel suo diario quando gli Argonauti sono fermi a Lemno: “Argo freme, è destinata a grandi imprese, vuole riprendere il largo … dondola smaniosa, con le stive gonfie di è olio e di vino”. È come una donna incinta, piena di provviste e di doni: l’aggettivo “gonfio” e “pesante” è usato proprio per descrivere le donna che aspettano figli - Ipsipile e Medea - i loro seni colmi di donne forti e piene di desideri.

Ed è forse l’unica “donna” che Giasone ama davvero.

Orfeo scrive - dopo la partenza da Lemno e dopo aver superato “tempeste difficili perfino da raccontare” - che “Argo le ha attraversate indenne e Giasone la ama ogni giorno di più”. A Giasone il cuore “sanguina” al pensiero di abbandonarla quando deve fuggire da Iolco: “ Tornò col pensiero al giorno della partenza degli Argonauti. Quanto tempo era trascorso da allora? Sembrava una vita intera. Ricordò Argo, magnifica nella luce abbagliante del mattino. Il suo cuore sanguinava al pensiero che non l’avrebbe più rivista”. Giasone non prova niente di simile nel separarsi da Ipsipile che pure è incinta di lui (“Argo mi aspetta”. Mi dispiace Ipsipile.”); e nelle ultime pagine del libro, quando, dopo aver perduto anche il padre Chirone, ormai solo, cerca la pace sul monte Pelio in compagnia di Orfeo, l’unico legame col passato che gli sia rimasto, dice: “… vedo Argo, la mia meravigliosa Argo, più dolce di un’amante, le sue possenti fiancate, le sue ali di remi …”. Anche Medea rimane per sempre nei suoi pensieri (“Medea di Colchide non si dimentica”), però Argo dà solo gioia e bellezza, senza dolore e senza strazio.

Giasone, insieme a Orfeo e agli Argonauti, è il personaggio maschile più significativo del romanzo.

È un giovane eroe bellissimo, che fa innamorare la primo sguardo: “È l’uomo più bello del mondo. Se non è un dio, allora chi è … mi sono innamorata’” dice di lui la cugina Anfimone quando lo vede la prima volta.

Per Ipsipile, la regina di Lemno, Giasone è “perfetto”. E Orfeo :“Se Dio è uguale a noi, è così che lo immagino, con quei riccioli dorati simili a grappoli d’uva danzanti sulle guance”.

Come Medea ha capelli molto particolari (anche se di colore opposto) ed è diverso dagli altri. Ecco come lo vede Pelia quando per la prima volta si presenta a lui:“ Lo sguardo gli cadde su una testa di capelli biondi. I ricci, densi e aggrovigliati, gli scendevano sul petto coperto da una pelle di animale. Stringeva nel pugno due lance e non aveva il capo chinato come gli altri”.

Giasone, che ha perduto il padre da bambino, viene allevato ed educato da Chirone, un uomo con il viso e le gambe di cavallo, un mostro nato dalla violenza subita dalla madre quando era una ragazzina che raccoglieva corbezzole nel bosco (“Erano in tre e puzzavano di cavallo, nitrivano come cavalli”). Chirone – come Morgar - è una creatura strana e diversa e - come Morgar – vuole il bene del bambino di cui si occupa, gli insegna valori autentici (“Il dovere di un  uomo è aiutare i suoi simili”), desidera che abbia il meglio, anche se Giasone ne farebbe a meno volentieri: “Padre, voglio restare qui, voglio diventare un cacciatore esperto come te”… “C’è un intero mondo che ti aspetta là fuori, Giasone”.

Giasone, però, - come Medea – non fa suoi tutti gli insegnamenti del maestro.

Medea gli dice che nel suo cuore albergano “ambizione” e “avidità” e lui non nega, si sente scoperto. Mentre sono in fuga da Ioclo, Orfeo esprime all’amico i suoi timori di avere presto “tutta la Colchide alla calcagna” e Giasone risponde:“ La figlia del re ci sarà utile”. Non dice “la mia amata Medea ci salverà”; e Medea, che l’ha sentito non vista “ abbassò la testa umiliata”.

Quello che Giasone vuole è un figlio che custodisca la sua tomba: anche i figli sono qualcosa che serve a lui, alla sua ambizione, a perpetuare se stesso. Giasone – come lui stesso confida a Orfeo – non crede nell’aldilà: l’immortalità è data dai figli perché a loro si trasmette il potere conquistato in vita. È questo a guidare Giasone: il figlio che aspetta da Ipsipile non è il suo bambino ma “ il figlio della reggente”, che sarà “re di Lemno”, un trofeo da portare con sé per farne l’erede (“un giorno mi raggiungerà a Iolcomi piacerebbe veder crescere il figlio della reggente per portarlo con me, un giorno”)

Questo bellissimo e giovane eroe non è poi un grande uomo.

Pelia fa leva sulla sua fragilità, sulle sue insicurezze: Giasone va nella Colchide per riscattarsi dall’essere stato allevato, e quindi in un certo qual modo dall’essere figlio, di un diverso, di un uomo/cavallo, di un mostro (“Vuoi che ti chiamino Re Cavallo? Vuoi che un intero popolo rida di te?”).

Confessa di “non sapere cosa vuole” e l’impresa a cui Pelia lo costringe  gli permette anche di “prendere tempo”,  di “rimandare tutte le decisioni”: “Ho bisogno di tempo” è una sua frase ricorrente.  Per molto non sa neppure se ama o no Medea: al padre Chirone dice che non lo sa, sa solo che le è entrata nel sangue. Si accorge di amarla solo dopo che lei è riuscita a far uccidere Pelia: toccare con mano la potenza – sconvolgente, distruttiva, inarrestabile - dell’amore gli fa capire che “Medea faceva parte di lui, nel bene e nel male

Giasone è sempre controllato, moderato, non perde mai il governo di sé. Dice di lui Orfeo : “Ha ereditato la saggezza di Chirone, suo padre adottivo” e sa controllare sentimenti e passioni in vista di un fine. La “saggezza” di cui parla  Orfeo si può forse intendere come la capacità di mantenere la giusta distanza emotiva dalle vicende, di tenere sotto controllo gli impulsi. Com’è diverso quest’uomo dalla Signora dei filtri che tanto lo ama!

Ed eccoci a  Orfeo, il ragazzo gentile che nel suo diario racconta l’impresa degli Argnonauti.

È da subito l’amico vero di Giasone. Si incontrano per la prima volta alla scuola del maestro Saturnio dopo che i compagni di studi hanno preso in giro Giasone chiamandolo figlio del cavallo: “Giasone si accoccolò, stringendo al petto la sua tavoletta. Rimase stordito e sudato a fissare il vuoto, desiderando con tutto il cuore di essere sull’altopiano, insieme a suo padre, a seguire le orme dei cervi e a fare il bagno nell’acqua fredda del ruscello. Ovunque ma non lì. Poi una piccola mano si insinuò nella sua “Non fare caso a loro, sono stupidi”. Si voltò di scatto, trasalendo. Un ragazzino basso, con i capelli ricci e gli occhi penetranti e tranquilli gli stava sorridendo … “

Orfeo rappresenta l’equilibrio, per questo teme Medea. Ha la capacità di accettare con serenità la vita in tutti i suoi aspetti, anche violenti – come il sacrificio del toro -  o drammatici - come la morte della amata Euridice.

Orfeo è accogliente: si apre alla vita, la accetta, ne riconosce il valore e il significato, aldilà delle contraddizioni con cui si manifesta e delle ferite che infligge, perciò sceglie di legarsi ad Atalanta. Afferma: “Non è Euridice ma è la mia donna. Sono rassegnato e contento insieme”. E quando Giasone, dopo che Ila, violentato da Ercole, si è suicidato, gli dice “Credo che a modo suo Ercole volesse bene a Ila”, Orfeo risponde “ Sì, lo credo anch’io. Non scegliamo chi amare, né come si esprimerà il nostro amore. L’amore è sempre una responsabilità”.

Gli Argonauti di cui Orfeo ci parla non sono eroi perfetti, eroi dell’epica classica.

La partenza della nave Argo è una partenza moderna, non è eroica: fa venire in mente quella dei marinai di Colombo nel film La conquista del paradiso. Gli affetti familiari predominano: anche Giasone è un figlio che lascia il padre, che ha paura dell’ignoto e che ha bisogno di conforto (in quell’occasione chiama per la prima volta madre Alcimede, che lo ha fatto allevare dal centauro invece di tenerlo con sé).

E anche se Orfeo nella prima pagina del suo diario scrive “Siamo in cinquanta e siamo chiamati Argonauti… tutti uomini nel fiore degli anni, tutti campioni”, Giasone, che ha uno sguardo meno sognante di quello dell’amico poeta, li vede così: “Ordinò  di smettere di remare e ottenne in cambio un grugnito di sollievo … Lunghi sorsi voraci … uomini muscolosi cotti dal sole, induriti dal salmastro … mandavano giù senza protestare il vino diluito, si accontentavano  …”.

Anche i più importanti, che Orfeo nomina, sono descritti come persone molto normali: Castore e Polluce che “siedono affiancati … intenti a giocare con noccioli che tirano in aria e riafferrano al volo”; Atalanta che affila con pazienza la lancia scheggiata nel’impatto col cinghiale che ha ucciso l’indovino; Meleagro che beve un po’ di vino …

Neppure la loro fine è eroica: muoiono per atti di violenza (Ilia); uccisi da animali selvaggi (l’indovino Idmone) o dalla malattia (Tifi).  Non esiste neppure il mitico vello d’oro: il tesoro di Eeta è costituito da “cumuli di pepite grosse come uova poggiate su consunti velli di pecora”. Un’altra immagine visuale nitida, incisiva, memorabile: ributtante e inquietante (l’espressione grosse come uova fa pensare ad animali preistorici e mostruosi che potrebbero nascere da un momento all’altro) ma anche triste (consunti velli).

Insomma: solo la nave Argo è l’autentico eroe dell’impresa, come Medea è l’unico eroe (una donna-eroe!) di questa drammatica e stupenda storia.

 

 

 

 
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Signora dei filtri... o dei fili... emozioni e riflessioni: parte prima

26 Dicembre 2017 , Scritto da Laura Nuti Con tag #laura nuti, #poli patrizia, #recensioni

 

 

 

 

 

 

Quando Elena Marchetti – l’editore di Signora dei filtri  – mi ha proposto di presentare un romanzo che aveva come protagonista Medea ho risposto:- Non se ne fa di niente … Perché, anche se la mitologia classica è sempre stata la mia passione, questo personaggio non è mai stato nelle mie corde. Ma Elena – che sa il fatto suo – ha insistito: - Leggilo, poi decidi.

Così ho iniziato a leggere … e non ho smesso più, fino alla fine.

 

Signora dei filtri ti cattura fin dalle prime pagine e non ti lascia più uscire. Perché? La storia di Medea già la sai … E allora?

 

Signora dei filtri è un romanzo avvincente perché è scritto molto bene, è un vero romanzo. Perché è la scrittura che fa di una storia un vero romanzo.

 

Per spiegare che cosa mi ha incatenato a questo libro  ho chiesto aiuto a Italo Calvino.

 

Nel 1984, Calvino viene invitato all’Università di Harvard per tenere un ciclo di conferenze sulla comunicazione poetica (letteraria, musicale, figurativa). Il tema, quindi, è libero, Calvino decide di dedicare le sue 6 conferenze (le cosiddette “Lezioni americane”) “ad alcuni valori o qualità o specificità della letteratura” che gli stanno “particolarmente a cuore”, da conservare nel “nuovo millennio ”. Valori, qualità e specificità che ho ritrovato in Signora dei filtri, perciò userò spesso le parole di Calvino per descriverli.

 

Nelle “Lezioni Americane” parla di Sherazade, la narratrice delle Mille e una notte e dice di lei: L’arte che permette a Sherazade di salvarsi la vita ogni notte sta nel saper incatenare una storia all’altra e nel sapersi interrompere al momento giusto. È un segreto di ritmo, una cattura del tempo che possiamo riconoscere dalle origini:nell’epica per effetto della metrica del verso, nella narrazione in prosa per gli effetti che tengono vivo il desiderio d’ascoltare il seguito”.

 

È di Calvino la definizione di “romanzo come grande rete” (di personaggi, di luoghi, di situazioni), come “sistema di infinite relazioni di tutto con tutto”.

 

Quello che avvince (cattura, come una rete vera e propria) nel romanzo di Patrizia è proprio la presenza di innumerevoli storie che potrebbero essere lette anche ognuna per conto proprio: la storia di Medea e della sua “durezza” (che è poi assoluta “fragilità” affettiva); la storia di Giasone e della sua “fragilità” (che lo rende “duro” rispetto ai sentimenti) – Giasone e Medea sono molto diversi ma anche specularmente molto simili; la storia di Morgar, la prima “Signora dei filtri”; la storia di Eeta e della sua passione per l’oro; la storia di Pelia e della sua passione per il potere; la storia di Orfeo e del suo diario; la storia di Absirto, il fratello crudele; la storia dell’Osservatore, il Drago che sa leggere nel cuore degli uomini; la storia della generosa Kria, che segue Medea anche nell’esilio; la storia della fragile Glauce, vittima di un giuoco più grande di lei; la storia Chirone, l’uomo-cavallo; la storia degli Argonauti e delle loro avventure …

La storia di un personaggio spiega, completa, “illumina” quella dell’altro: la madre di Medea, il suo modo di essere madre e donna, esalta la figura di Morgar e il suo ben diverso modo di essere madre e donna; la cugina-bambina, così morbida e tenera, che Giasone forse potrebbe sposare se non fosse costretto a partire per la sua impresa, sottolinea per contrasto la femminilità inquietante di Medea; la maledizione della regina di Lemno sui futuri figli di Giasone rimanda al dramma che si consumerà a Corinto ...

Queste storie quindi si intersecano l’una all’altra come i fili che  creano la rete (Patrizia è una vera “Signora dei Fili”!). Si danno ritmo e spessore, come in un brano musicale in cui sono presenti le parti soprani, dei contralti, dei tenori e dei bassi - le voci chiare e le voci scure - e ognuna può essere letta e cantata separatamente, ognuna ha il suo fascino e la sua importanza. Ma è dal loro intrecciarsi, dalla loro rete, che nascono l’Inno alla gioia di Beethoven o Va pensiero di Verdi.

E ciò che fa da sfondo integratore a tutte queste storie e che permette loro di diventare una unità (cioè un romanzo forte e potente) è che esse – nella loro varietà - mettono però sempre in scena – vissute in modo diverso e osservate da punti di vista diversi – le stesse passioni, quelle primordiali, che caratterizzano la vita e l’esperienza di ogni essere umano: l’amore (fra uomo e donna, fra genitori e figli, fra amici), il desiderio (per una persona, per il potere, per il denaro) e l’odio (che nasce dalla negazione dei primi due).

Signora dei filtri, secondo me, non vuol essere un’altra versione del mito di Medea.

I protagonisti si muovono – è vero – in luoghi e tempi mitici, ma la realtà che vivono è universale, sono persone dei nostri tempi e dei nostri luoghi: adulti mai cresciuti, incapaci di essere genitori, travolti dal desiderio di potere, impauriti dalla diversità, prigionieri del pregiudizio, prigionieri di passioni che non riescono a controllare e che fanno passare ogni limite. Di questo leggiamo tutti i giorni sui giornali e tutto questo caratterizza da sempre la storia dell’uomo. Ed è di questa storia – non del mito di Medea - che Signora dei filtri ci vuole parlare.

Sempre in Lezioni Americane, Calvino riflette su “un’epidemia pestilenziale che sembra abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione a diluire i significati, a smussare le punte eccessive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze

Per definire l’uso della parola che Patrizia fa quando scrive basta capovolgere questa drammatica descrizione. Per lei, invece, calza a pennello un’altra espressione che Calvino usa per il buon uso della parola: “ incantesimo verbale”.

Il linguaggio usato da Patrizia è forte, potente, non fa sconti: quando racconta l’odio e la passione, come quando racconta l’amore e la tenerezza. Si potrebbe dire che è un linguaggio epico, come quello di Omero e dei classici – Euripide, Seneca, Apollonio Rodio – a cui Patrizia dice di  rifarsi.

È un linguaggio immaginifico, cioè (uso ancora parole di Calvino) pieno di “immagini visuali nitide, incisive, memorabili” (un esempio per tutte: la descrizione del passaggio delle Simplegadi) che prendono forma e danno vita a un “cinema mentale” capace di farci vedere la scena come se si svolgesse davanti ai nostri occhi.

Per creare questo  incantesimo verbale che ci tiene avvinti al romanzo, la nostra Sherazade utilizza  abili strategie linguistiche, degli “anelli magici” rappresentati da  anticipazioni, indizi, “frasi fatali”, posti a fine paragrafo che rimandano a un “dopo” verso il quale devi andare ( “Un giorno ti vedrò morire…” pensa Medea guardando il fratellino; “Non ci sono solo i figli di Ipsipile nel tuo futuro, per tua sfortuna” dice l’indovino a Giasone; “Cosa c’è di più grave di questo?” si chiede Giasone alla fine del capitolo dove si racconta la morte di Glauce …)

A volte queste anticipazioni si manifestano attraverso i sogni e i  desideri dei personaggi.

Nei desideri che Medea bambina confida a Morgar sono  già presenti gli Argonauti e il loro arrivo a Iolco : “Vorrei che gli uomini di là dal mare potessero raggiungerci e comunicare con  noi. Vorrei imparare le loro lingue e vestirmi con i loro vestiti, vorrei mangiare quello che mangiano e conoscere i loro dei”;  nel sogno che Morgar fa la notte prima di morire compaiono la nave Argo e i figli di Medea con il loro tragico destino: “Sognò una barca alata, possente, con due file di rematori, sognò due bambini distesi sopra un letto, con gli occhi chiusi e il viso bianchissimo” .

Anche i temi ricorrenti sono anelli magici che danno coesione a questa molteplicità di storie: quello dei luoghi misteriosi (le paludi della Colchide, la caverna dove vive il Pitone sacro, i sotterranei dove Eeta nasconde l’oro, l’isola di Lemno, l’isola degli Orsi, la terra che forse è delle Amazzoni, l’isola dove Medea vive i suoi ultimi anni); quello degli dei e dei sacrifici (il dio Sole, il dio del Fuoco, la Signora-Vergine Madre, il Dio di Orfeo, con le relative cerimonie misteriose e sconvolgenti); quello del Drago (la creatura inquietante che compare e scompare all’improvviso nei momenti chiave per guidare Medea verso il suo destino).

Fra tutti questi temi ricorrenti, quello che mi ha colpito di più e che mi sembra particolarmente significativo riguarda la presenza dei bambini.

Il romanzo di Patrizia è costellato di bambini.

Il dramma di Medea – comunque sia stato letto da antichi e moderni – ha come pernio i figli, i bambini, e nel romanzo questi sono ovunque. Sono i figli dei protagonisti ma – soprattutto- sono i protagonisti stessi: gli adulti quando erano bambini.

In un romanzo che ha come epilogo l’orrore più grande che una madre – un adulto, una persona -  possa commettere: l’uccisione dei figli, dei bambini – questo orrore aleggia per tutto il libro ed è il filo che dà vita alla rete dei bambini: bambini fragili, teneri, spesso soli, spesso preda della violenza degli adulti e che spesso diventano a loro volta violenti e predatori di altri bambini.

Signora dei filtri ci racconta in modo diretto o indiretto la storia di tanti bambini infelici divenuti spesso adulti portatori d’infelicità. Ne cito solo alcuni.

Achille bambino, evocato dal padre Peleo, Argonauta, che intaglia per lui una tenera “figurina di legno”: Peleo l’ha lasciato quando “aveva appena imparato a camminare” e non sa se lo rivedrà più. Questo tenero piccino cresciuto senza padre, una volta adulto diventerà Achille “dallo sguardo bieco” (così ce lo descrive Omero) che trascina nella polvere il corpo di Ettore, Achille “la bestia” di Christa Wolf.

Ila, il servitore che Eracle violenta. Anche lui è poco più di un bambino: Eracle lo chiama “pulcino” e non vorrebbe fargli del male, ma non riesce a governare se stesso. Eracle, l’eroe – predatore, è stato a sua volta un bambino aggredito, maltrattato, perseguitato dall’odio ingiusto di Era.

Chirone, il padre adottivo di Giasone. Quest’uomo saggio è un bambino-mostro nato da una violenza subita dalla madre Filira  quando anche lei era appena una bambina.

Il bambino Meleagro, ora valoroso Argonauta. Il suo destino è vivere quanto il tizzone che brucia  nel braciere al momento della sua nascita: sarà proprio la madre Altea, che ha conservato gelosamente il tizzone, a ributtarlo nel fuoco per vendicare i fratelli uccisi da Meleagro.

La bambinetta di “soli tredici anni” che Eeta si è preso come nuova amante. Solo questo si dice di lei, ma basta e avanza per raccontare l’orrore.

Glauce, la principessa-bambina vittima di una storia più grande di lei. Così la descrive Medea: “La figlia del re, nemmeno adolescente e già coperta d’oro dalla testa ai piedi … le era sembrata una bambina agghindata come una donna …”; così la vede Giasone “Ridicolo chiamarla signora, una bambina gravata dal peso dei pendenti che portava alle orecchie”; e anche Orfeo la vede così: “ Al suo fianco (di Giasone)  Glauce continuava a masticare in silenzio, come una bambina alla quale sia stato ordinato di finire tutto quello che ha nel piatto” …

E infine Medea, la bambina non amata, arrabbiata e sola. Nessun altro autore – credo – ha messo a fuoco la figura di Medea bambina. Signora dei filtri inizia proprio con la storia della sua infanzia, segnata – fra l’altro – dalla nascita di un fratello che la madre adora, quella stessa madre che invece la respinge, la fa sentire sola.

La solitudine accompagna Medea fin da bambina.

Non somiglia a nessuno” – dicono di lei. Medea è sola perché è diversa, anche se non vorrebbe esserlo: “ … lei non voleva essere diversa, non voleva stare in disparte mentre le altre ragazze giocavano o si bagnavano nel fiume. Non voleva che sua madre la guardasse in quel modo, corrugando la fronte … “

Medea è strana. Questo aggettivo la caratterizza, viene usato da tutti quelli che la incontrano. Giasone, appena la conosce, pensa di lei “Che strana donna …”  Kria, a cui Medea salva il bambino, la definisce “bella di una bellezza strana”; Orfeo parla spesso dei suoi occhi, “occhi obliqui”che dardeggiano”  “occhi nervosi”  “neri come la notte”  “inquietanti ed estremamente intelligenti”. Gli strani occhi di Medea vedono ciò che gli altri non vedono, vedono “dentro” e “oltre”, anche contro la sua volontà. Medea non vorrebbe vedere dentro Giasone, leggerne i limiti e scoprirne le menzogne: “ … Si accorse che (Giasone) non diceva la verità … Era la sua disgrazia accorgersi di tutto, avvertire ogni vibrazione, intuire i pensieri della gente e l’ostilità che la circondava”.

Quindi Medea è strana.

C’è un grande poeta che, per definire se stesso, usa l’aggettivo strano: Giacomo Leopardi ne “Il passero solitario” e il senso che questo grande poeta e grandissimo cultore della parola dà a “strano” credo calzi a pennello anche per Medea. Leopardi, paragonandosi al passero che vive isolato da tutti sull’antica torre di Recanati, dice

 

Quasi romito, e strano/ Al mio loco natio,/Passo del viver mio la primavera.

 

Il poeta si sente estraneo al suo paese, al luogo dov’è nato e dove vive da solo, isolato, da straniero. Anche Medea si sente così. La sua diversità – come la diversità di Leopardi – è alla base della sua solitudine, e la rende straniera e sola, nel suo paese e nella sua casa, fin da bambina.

Medea uccide i figli perché non vuole che cadano in mani di estranei, perché non siano “umiliati” dal padre che avrebbe preferito a loro – dei bastardi – i figli di un matrimonio per lei “falso e sacrilego”. Morendo per mano sua “dolcemente” i figli “resteranno con lei per sempre”, non saranno mai “soli”, “strani” e “stranieri”, come lei e Morgar sono state: “Medea era una straniera in casa propria esattamente come Morgar lo era in terra di Colchide”.

L’origine della solitudine di Medea va ricercata nel disamore della madre. La regina Idia respinge sempre la figlia e ha cura solo del nuovo nato, del bambino crudele che deve garantirle l’amore del marito (“Absirto rise, riacciuffando uno scarafaggio che tentava di fuggire. La regina gli accarezzò i capelli rossi e lanosi: “Bravo il mio bambino”). Anche quando la piccola Medea, nonostante si senta non amata e abbandonata, cerca un contatto con lei, va incontro a un rifiuto (“Madre, posso tingere io i tuoi capelli” propose speranzosa “No, Medea, le tue mani sono sempre fredde”).

Alla fine questa solitudine imposta si trasforma in bisogno. Divenuta adulta, Medea ha sempre bisogno di solitudine ed è solo l’amore a farle scoprire e sentire il bisogno dell’altro.

 

Continua...

 

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