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signoradeifiltri.blog (not only book reviews)

poli patrizia

Le enciclopedie a fascicoli e i libri di Selezione del Reader's Digest

22 Febbraio 2019 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #come eravamo

 

 

 

Ancora e sempre gli anni sessanta. Quelli del boom economico e della speranza nel modernismo e nel progresso. Progresso che voleva dire anche civiltà e cultura perciò, dopo che il maestro Manzi ebbe alfabetizzato la popolazione, ecco che ognuno di noi si mise in casa le fatidiche enciclopedie a fascicoli.

Mio padre le comprava in edicola e poi venivano fatte amorosamente rilegare, volume dopo volume. Noi avevamo, innanzi tutto, La Motta, una sorta di Wikipedia ante litteram, grossa, pesante e marrone. In essa era conservato tutto lo scibile umano. Poi quelle più specifiche: Le Muse, sulle arti (pittura, scultura, musica etc), un’enciclopedia della scienza e della tecnica di cui non ricordo il nome, La storia della civiltà di Will Durant (che arrivò per ultima) e per me, ovviamente, i mitici Quindici. Il livello di qualità era altissimo.

Sempre nello spirito della cultura veloce per tutti, andavano di moda anche le riduzioni dei classici per l’infanzia e persino i famosi libri di Selezione del Reader’s Digest, ovvero i best seller mondiali del momento condensati in poche pagine.

Divoravo letteralmente quei volumi marroni con dentro tre o quattro romanzi alla volta. Ne ricordo bene uno ambientato in Scozia, in una fumosa distilleria di whisky, e il famoso Kim, un dono da Vietnam, storia vera e commovente di una bambina adottata. Libri letti e riletti mille volte, quando, annoiata, sola e affamata di libri, giravo per casa rivoltando la libreria dei miei a caccia di qualcosa da leggere.

Quante ore raggomitolata sul divano tenendo sulle ginocchia volumi di tutti i generi, qualunque cosa riuscissi a scovare in casa, dalle fiabe a Maupassant, da Liala a Scerbanenco, da Verne a Salgari. E quanti pomeriggi d’estate in terrazza, in attesa che mia madre tornasse dal lavoro, con una bibita e un libro da finire entro la giornata, i gomiti accarezzati dal sole che piano piano si abbassava, sorda ai rumori della strada, delle cinquecento che passavano, dei ragazzi che ancora rincorrevano la palla sotto i marciapiedi. Io, dall’alto, potevo solo guardarli, curiosa e timida, per poi tonare a tuffarmi nelle mie storie. Che cosa sarebbe stata la mia vita senza la lettura? Non so nemmeno immaginarlo.

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Viva la pappa col pomodoro

20 Febbraio 2019 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #come eravamo, #televisione

 

Avevo solo tre anni ma non mi perdevo una puntata de Il giornalino di Gianburrasca, sceneggiato televisivo andato in onda nel 1864/65, tratto dal libro di Vamba, per la regia di Lina Wertmüller. Ricordo di averlo seguito con la stessa attenzione e comprensione di adesso e che la visione coinvolgeva tutta la famiglia, soprattutto mia madre e mia nonna ne andavano pazze quanto me. Ci piaceva tantissimo la giovane Rita Pavone nei panni del terribile Giannino Stoppani, lei era una di noi, con la faccia semplice e pulita. Non ricordo se anch’io fui una di quelle bambine che s’innamoravano di Giannino rimanendoci poi male quando scoprivano che era una femmina.

Mi divertivano anche gli altri personaggi, soprattutto la terribile direttrice interpretata da Bice Valori che, si dice, recitasse in ginocchio per sembrare nana. La musica era di Nino Rota, e, ovviamente, quella più famosa, La pappa col pomodoro, divenne una hit. Avevo il disco e lo suonavo in continuazione. Era una straordinaria canzone di protesta, così come la scena dove Giannino scappa dal collegio, che all’epoca fu ritenuta diseducativa. Ma io so solo che il motivetto non l’ho mai scordato e lo canto anche oggi alle mie nipotine.

 

La storia del passato

Ormai ce l´ha insegnato

Che un popolo affamato

Fa la rivoluzion

Ragion per cui affamati

Abbiamo combattuto

Perciò "buon appetito"

Facciamo colazion

 

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Laura Nuti, "Come le ciliegie"

19 Febbraio 2019 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #laura nuti, #miti e leggende

 

 

 

 

Come le ciliegie

Laura Nuti

Marchetti Editore, 2018

 

Il delizioso Come le ciliegie, di Laura Nuti, edito da Marchetti e ben illustrato da Roberta Malasomma, mi ha riportato indietro nel tempo, mi sono rivista bambina, leggere con foga e meraviglia adattamenti di classici e riduzioni di opere immortali: il Kalevala, il Peer Gynt, le storie di Carlomagno e Berta dal grande piede, la Divina Commedia spiegata ai ragazzi, la mitologia greca. Questo libro ha il sapore (inimitabile) di ciò che leggevamo allora, con un piglio, però, moderno. Che cosa sono le fiabe se non miti e leggende rielaborati, che cosa c’è nella fiaba se non la struttura stessa di un singolo grande mito (come ci insegnano Propp e Joseph Campbell)? E non era forse un’operazione simile quella compiuta negli anni sessanta con le fiabe sonore e con le riduzioni dei classici per bambini?  

Sonnolenti pomeriggi d’estate, un giardino afoso, una nonna che culla una piccina mentre racconta – o meglio, fa raccontare dall’immaginario cane Argo -  alla sorellina più grande le meravigliose vicende degli eroi omerici, prima, durante e dopo la guerra di Troia, adattate a un palato infantile e odierno ma appetibili per tutti, perché le storie, si sa, quando sono belle, sono godibili a ogni età.

Storie come ciliegie, una tira l’altra. Storie succose, colorate, multiformi, tutte diverse ma concatenate. Storie di mostri chimere (ovvero puzzle), di cavalli alati, di guerrieri belli e coraggiosi, (ovvero fighi), di principesse affascinanti, ma anche di dei che più umani di così non si può, con tutti i nostri difetti: l’infedeltà, l’invidia, la gelosia, la rabbia.

Come afferma la stessa autrice nel saggio Narrare e leggere belle storie:

I “ racconti tradizionali, cioè le fiabe, le favole, i miti, le saghe e le leggende epiche, devono avere un ruolo fondamentale. Perché? Perché sono storie che “hanno una storia”, che vengono da lontano, che “hanno viaggiato attraverso il mondo e si sono colorate qua e là di sfumatureriferimenti, chiaroscuri attinti cammin facendo”; sono storie nate dalla narrazione, dalla tradizione orale (perciò si prestano ad essere narrate, raccontate) e sono divenute poi letteratura (perciò si prestano ad essere lette, indagate nella loro struttura, “ricalcate” per dar vita ad altre storie). (Laura Nuti)

Ecco il valore di questo “ri-raccontare” miti e saghe conosciute, ecco il valore degli adattamenti e delle rivisitazioni. E l’immagine della nonna è la più azzeccata. Spetta alle generazioni più anziane, infatti, il compito di tramandare, di trasmettere la cultura, cioè il patrimonio comune delle conoscenze e delle storie, arricchendole di valori contemporanei, di novelli spunti, d’immagini  consone alla nuova epoca.

Ben vengano operazioni culturali così fresche e piacevoli. Se in libreria ci fossero meno Peppa Pig, meno Pija Masks, e più libri deliziosi come questo, resterebbe la speranza che il mondo, pur evolvendosi, mantenesse quelle conoscenze che fanno di noi ciò che siamo e che vorremmo continuare a essere in futuro.

 

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Federica Cabras, "Un sogno, un amore e un equivoco"

17 Febbraio 2019 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #federica cabras

 

 

 

 

Un sogno, un amore e un equivoco

Federica Cabras

Literary Romance, 2019

pp 249

13,90

 

All’inizio di tutto c’è lei, Elizabeth Bennet di Orgoglio e pregiudizio. Poi, secoli dopo, è arrivata la capostipite della chicklit, Bridget Jones, goffa, imbranata, romantica. In seguito sono venute le eroine di Lauren Weisberger e di Jojo Moyes, Andrea Sachs e Louisa Clark, tanto per citare le più famose. Qui da noi, invece, Alice Allevi di Alessia Gazzola. È questo il filone in cui inserire l’ultimo libro di Federica Cabras, Un sogno, un amore e un equivoco.

Quando lessi il suo primo romanzo, al quale feci una critica severa, dissi, però, che questa ragazza aveva talento da vendere e che prima o poi si “sarebbe fatta”. Con questa nuova prova ce l’ha dimostrato. Qui la Cabras sembra aver saputo distinguere i generi e calarsi pienamente nel filone che predilige. O, almeno, che la parte di lei più epidermica predilige.

Il romanzo è spumeggiante come la copertina, fatto di dialoghi serrati e divertenti come sceneggiature di serie tv. Tutto ruota intorno ai tre poli: il sogno, l’amore e l’equivoco. L’amore è quello per il bel datore di lavoro, luogo comune del romance, trama immortale della solita cenerentola che riuscirà a farsi valere, e a conquistare, con la sola purezza del cuore, un uomo apparentemente fuori della sua portata; l’equivoco è quello che permetterà alla protagonista di sciogliere tutti i nodi e soddisfare i suoi desideri; il sogno, infine, è quello di diventare scrittrice, altro stereotipo delle eroine moderne ma, in questo caso, non solo superficiale ambizione ma autentica e sofferta aspirazione interiore.

Siamo tutti luce e buio. La parte luminosa della Cabras è dolce, coraggiosa, sentimentale. È la parte dei palloncini colorati in copertina. È quella di questo romanzo, divertente e tenero. Poi c’è il lato oscuro, tenuto a freno, rimosso. Era evidente nel suo primo libro ma non si amalgamava col resto del racconto. Qui non c’è perché non deve esserci, pena la perdita di coerenza, ma emerge a momenti quando il tessuto del linguaggio si lacera, quando la mano della Cabras corre da sola sul foglio e vengono a galla  cupezze, sofferenze e dolori. Soprattutto ansia, paura di non essere all’altezza, voglia di essere amata, orrore e fascinazione della morte.

Virginia Carta, la protagonista, è quella che lavora al bar, ma non lo è. Virginia è quella che esce con le amiche, ma non lo è. La vera Virginia è colei che batte sulla tastiera evocando mondi, scavando nel dolore proprio e altrui. Alla fine, il personaggio di Ester, la donna che ha ispirato e conservato le lettere che Virginia ritroverà, prende il sopravvento. E così abbiamo una triplice identificazione: Federica Cabras che scrive di Virginia Carta che scrive di Ester Lai.

Riassumendo, abbiamo Virginia, una ragazza ambiziosa e gentile, abbiamo Giorgio, un bel principe azzurro, padrone del locale dove lei lavora, abbiamo degli amici affezionati e due genitori da non deludere. La vicenda si snoda fra la ricerca del lavoro e il bisogno di provare sentimenti autentici e profondi, fra l’investigazione del sé e la necessità di affidarsi agli altri. Virginia è insicura, si crede fragile, ha bisogno di un uomo maturo e protettivo, di un caro amico d’infanzia, delle coinquiline affettuose, della lingua tiepida di un cucciolo. Ha bisogno di tutto questo ma, intuiamo, potrebbe farcela anche da sola, potrebbe vivere esclusivamente di sé e della sua ambizione, nella spaventosa e sublime solitudine dello scrittore. Ancora una volta è la parte più superficiale della protagonista a innamorarsi del capo e a gestire i rapporti con le amiche. La parte più profonda, invece, ama la scrittura che fa emergere angoscia e rimorso, che avviluppa e consuma come una fiamma.

Nessuna dichiarazione d’amore per un uomo fu mai appassionata come quella che, a pag 234, Virginia indirizza all’atto insopprimibile dello scrivere. Nessun “ti amo” detto al bel Giorgio può equivalere a quella passione bruciante. Credo, anzi, che il bel Giorgio sia solo un cliché, e il rapporto con lui dovrebbe essere più sfumato, più graduale, meno dichiarato da subito. Ma ciò accade perché il vero innamoramento la protagonista lo prova verso le proprie ambizioni letterarie, verso la ricerca di fama e soddisfazione.

Il romanzo della Cabras è “carico di spirito e di passione”, esattamente come viene definita la scrittura della protagonista dall’implacabile direttrice di un magazine di successo. Si sentono l’impegno, il lavoro di lima, la fatica fatta per far quadrare gli elementi della trama, lo scavo e l’amore delle parole, la ricerca del termine giusto. Un’ottima prova ma, soprattutto, un’ottima base di partenza.

Penso che questo racconto, seppure piacevole, fluido, accattivante e intrigante, sia solo un trampolino di lancio, e che l’autrice sia pronta per fare un ulteriore passo avanti, tirando fuori il rimosso, soffrendo sulla carta come nessuno di noi vorrebbe mai fare, uscendo dalla chicklit e dal romance per entrare in un luogo buio e profondo, fatto di passione e tormento, il luogo dove nasce la grande letteratura.  E qui ne dà un assaggio nelle belle lettere che la protagonista ritrova nella borsa dell’anziana signora, Ester Lai, cliente abituale del bar dove lavora, e verso la quale ella prova un’inspiegabile attrazione.  

Se l’autrice saprà librarsi sopra gli stereotipi imposti dal genere (e dalla frequentazione con le serie televisive), se avrà il coraggio di sprofondare nella parte più tenebrosa di sé, senza farsene travolgere ma incanalando le emozioni in qualcosa di organico e letterario, se metterà tutta se stessa al servizio di quella passione che la divora, credo che, in futuro, sentiremo sempre più spesso parlare di lei.

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Il chewing gum

12 Febbraio 2019 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #come eravamo

 

 

 

 

Chewing gum, gomma da masticare, ciccingomma. Adesso tutti, più o meno, ogni tanto ne teniamo una in bocca per sentire un sapore zuccherino o rinfrescarci l’alito. Ma, forse, nessuno ricorda che cos’era il chewing gum negli anni 70/80.

Dunque, noi ci alzavamo al mattino, ci preparavamo per andare a scuola, ci stendevamo sul letto e i nostri padri con le pinze (giuro!) ci tiravano su i jeans attillatissimi, che avevamo passato ore a grattare con la spazzola nel bagno per farli diventare delavè e, trattenendo il fiato impossibilitate a respirare, mettevamo in bocca il primo chewing gum della giornata. In media durava fino verso le 11, quando un’amica provvidenziale ce ne offriva un altro più saporito, che sputavamo solo per pranzare, salvo rimetterne subito uno in bocca fino all’ora di cena. Guai ad essere fuori casa senza un chewing gum in bocca, guai a non averne sempre una confezione nuova in tasca, guai a parlare con un’amica senza stare facendo bolle.

Ce ne’erano di tutti i gusti, dalla gettonata classica barretta Brooklyn, alle palline colorate, al più ambito: un grosso, succulento Big Bubble profumato alla fragola, col quale fare in continuazione bolle e scoppietti (clack!), pure davanti ai professori che, poveretti, subivano questo nostro vizio come un male necessario.

Se proprio non si poteva fare a meno di togliersi l’ingombro di bocca, qualcuno appiccicava la gomma sotto il banco, ma questa è un’altra infelice storia.  

Si ruminava come mucche per tutto il giorno, fino a farci venire il mal di testa per il troppo muovere le ganasce, fino a riempirci lo stomaco di acido per l’eccessiva salivazione. E, più il chewing gum era ciucciato, stopposo e insapore, più era reduce da ore d’ininterrotta masticazione, meglio era.

Perché lo facevamo, mi chiedo adesso? Non lo so, forse per mettere una barriera fra noi e il mondo, forse per darci un tono usando un mezzo meno nocivo delle sigarette. Chissà? Certo è che se i giovani, e meno giovani, d'oggi, invece di farsi di eroina, cocaina o pasticche, subissero il fascino d'una bella masticata di chewing gum con gran bolla finale, sarebbe un vantaggio per tutti.

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Due punti di vista sulla New Age, con una introduzione

11 Febbraio 2019 , Scritto da Guido Mina di Sospiro Con tag #guido mina di sospiro, #saggi, #poli patrizia, #il mondo intorno a noi

 

 

 

 

 

 

 

Di Guido Mina di Sospiro

tradotto dall’inglese da Patrizia Poli; originalmente pubblicato su Reality Sandwich.

 

Introduzione

 

Nel 1928 un brillante filosofo/logico di Vienna, Rudolf Carnap, pubblicò Der logische Aufbau der Welt, “La struttura logica del mondo”. Dieci anni prima, Ludwig Wittgenstein aveva ideato il suo profondamente criptico Tractatus Logico – Philosophicus, l’ultimo libro filosofico. Carnap e altri esponenti del circolo viennese rielaborarono il messaggio di Wittgenstein. Verso la conclusione dell’opera citata (183. Razionalismo?) inserì:

RIFERIMENTI. Wittgenstein ha chiaramente formulato l’orgogliosa tesi dell’onnipotenza della scienza razionale, così come l’umile intuizione relativa alla sua importanza nella vita pratica: per una risposta che non può essere espressa, anche la domanda non può essere espressa. Il problema non si pone. Se si può fare una domanda, allora vi si può rispondere… (…) Wittgenstein riassume la portata del suo trattato nelle seguenti parole: “Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.”

Quel famoso aforisma, che conclude il trattato, avrebbe dovuto essere interpretato come una confessione di umiltà gnostica, non come un’orgogliosa tesi dell’onnipotenza di una scienza razionale. Basta prestare attenzione a tutte le implicazioni dell’opus. Giusto due aforismi prima di quello finale, infatti, Wittgenstein afferma: “C’è davvero dell’inneffabile. Esso mostra sé, è il mistico.” (6.522)

Tutto ciò risale a un secolo fa—perché dovrebbe interessarci ancora? Perché le implicazioni del razionalismo, del positivismo, del determinismo, del riduzionismo, e del meccanicismo hanno invaso il globo come una peste. Non si deve biasimare Wittgenstein: ha trasceso la sua epoca, sebbene l’abbia epitomizzata usando e sviluppando i suoi strumenti, da poco riscoperti e perfezionati, quelli della logica. (Una evidente obiezione al suo Tractatus è l’uso dell’aforisma e un criterio di classificazione altamente soggettivo al posto di un testo strutturato più sistematicamente. Perché mai dovremmo sventrare la logica attraverso un assortimento di aforismi criptici?) I suoi meno dotati seguaci, attraverso il loro fraintendimento storico, partirono per la tangente (sbagliata.) E questo solo nel campo della logica. In tutti i rami della conoscenza, il determinismo è venuto e se n’è andato, o piuttosto, sarebbe dovuto andarsene, ma non lo ha fatto, è rimasto, e ha permeato il mondo, coadiuvato dall’amplificazione del suo più fedele alleato, il progresso economico. 

Segue un irrispettosamente succinto riassunto di alcuni dei colpi che avrebbero dovuto decretare la fine del determinismo, del meccanicismo, del riduzionismo, del darwinismo, etc. Coloro che hanno familiarità con tali sviluppi scientifici, non leggano questa sezione. Coloro che non ne hanno, possono usarla come un invito ad approfondire la lettura degli scienziati citati.

La geometria euclidea è stata surclassata da quella non-euclidea, le cui principali figure furono: Nikolai Ivanovich Lobachevski (1973 -1856); János Bolyai (1802- 1860); e Bernhard Riemann (1826-1866). Se il riconoscimento di Lobachevski e Bolyai è postumo, l’accettazione della geometria non euclidea avvenne sotto l’influenza delle idee di Riemann, nel 1866, di Eugenio Beltrami nel 1868, e di Felix Klein nel 1871. Nel 1927 Werner Heisenberg (1901-1976) pubblicò il suo principio di indeterminazione. La sua radicale reinterpretazione dei concetti base largamente newtoniani della meccanica applicata alle particelle atomiche nel contesto della teoria quantistica avrebbe dovuto sferrare il colpo di grazia alla meccanica di Newton. (E lo fece, in effetti. Tuttavia, la nozione di tempo come mera durata è ancora cardinale, ad esempio, per il mondo finanziario, con ripercussioni di proporzioni globali.)

Il positivismo logico era stato ferito nel suo nucleo — la sua coercizione vero/falso e conseguente tacita aderenza al principio di bivalenza — dalla scoperta di Jan Łukasiewicz (1878 – 1956) della logica trivalente già nel 1917, nota bene: prima del trattato di Wittgenstein. Seguirono una logica a molti valori (e calcoli multivalore), aiutata dal fiorire della scuola di logica di Varsavia, della cui nascita Łukasiewicz è indirettamente responsabile.

Per quanto concerne la selezione naturale e la concezione del mondo darwiniana, accoppiata al moderno approccio biologico molecolare convenzionale, che insiste sul fatto che, quando si conoscerà la sequenza del DNA di qualsiasi organismo, allora tutto sarà  manifesto, sta diventando  evidente, come suggeriscono, fra gli altri Brian Goodwin e Gunther Stent, che la morfogenesi e lo sviluppo possono essere visti come un sistema dinamico.

La teoria del caos sta appena uscendo allo scoperto, gradualmente guadagnando terreno fra  biologi,  matematici e filosofi.

Riassumendo, tutti i suddetti sviluppi, in rami diversi ma sempre più interconnessi della conoscenza, puntano al fatto che il mondo, la vita, e la vera essenza dell’essere, l’ontologia, debbano essere reinterpretati e re-investigati con un approccio interamente nuovo (o interamente revivalista). Gli organismi non sono mere raccolte di parti, come geni, molecole e i vari componenti dei loro organi. E, soprattutto, sono vivi.

La prodigiosa proliferazione di asfalto, blocchi di cemento, edifici e grattacieli in tutto il mondo; il processo in atto e senza precedenti di deforestazione e totale desertificazione; l’omogeneizzazione culturale che il mondo ha subito, nell’interesse di una sottocultura globale, taglia unica, con la quale soppiantare le precedenti culture multiple—tutto ciò sembra essere un inarrestabile processo di spaventosa grandezza distruttiva.

Più di centocinquanta anni fa Karl Marx aveva predetto, in vera e propria tradizione oracolare sebbene nelle sembianze di moderno scienziato della storia, che il mondo si sarebbe mosso, in uno spasmo dialettico, verso un proletariato internazionale globale. Il ventesimo secolo, secondo le sue predizioni, avrebbe dovuto annunciare e confermare la nascita di un proletariato mondiale senza classi, internazionale, transnazionale e sopra nazionale. Ma il comunismo ha fallito platealmente, nonostante gli sforzi tenaci e vigorosi che i vari regimi hanno esercitato per tenerlo in vita, a nonostante le decine e decine di milioni di vite umane sacrificate al suo altare. L’umanità è regredita verso l’adorazione degli dei e, ciò che è peggio, se c’è stata una sola e dominante tendenza nel ventesimo secolo, è stata il nazionalismo. Le previsioni di Marx si sono rivelate sbagliate e il suo determinismo storico... difettoso, per coltivare l’arte dell’eufemismo.

Ma centinaia di milioni di persone, dall’Unione Sovietica alla Cina, da Cuba al Vietnam, hanno preso parte, volenti o nolenti, in questo colossale esperimento: dimentica la tua proprietà (se ce l’hai) – la tua religione – i tuoi costumi – i tuoi istinti... Probabilmente come reazione, stiamo assistendo al riemergere di istinti tribali a lungo dimenticati, mentre permangono scenari da incubo dal lato oscuro dell’umanità: pulizia etnica, guerre di religione etc.

Le società androcratiche, di libero mercato e consumistiche, capitanate e ispirate dagli Stati Uniti, sono riuscite a far sembrare il mondo tutto uguale, applicando concetti di ampia portata che sono apparentemente di casa ovunque, poiché fanno appello a una componente della psiche umana alla quale la maggior parte di noi non sembra in grado di  rinunciare: l’avidità. Un osservatore extraterrestre, dopo una completa valutazione del mondo, potrebbe commentare che esso appare come una mistura freudiana e adleriana, un ribollire d’istinti base provocati da pulsioni sessuali e di potere.

Fra queste principali e, sebbene differenti, ugualmente distruttive forze, c’è una particolare classe di esseri umani: i simpatizzanti della New Age. Come si possono caratterizzare?

 

New Age, da un punto di vista solidale

 

Oggigiorno le religioni abramiche si occupano di questioni molto poco ermetiche, mentre la massoneria è solo una di tante confraternite. In un certo senso, ciò è andato a vantaggio della tradizione ermetica, che adesso non si trova più sul limitare di altre istituzioni. Infatti, è diventata una chiesa per conto suo, e ha sviluppato la sua parte più essoterica nel movimento New Age. Uno sguardo retrospettivo alla storia conferma la diagnosi.

Al pari dell’ermetismo rinascimentale, che sperava di restaurare pace al mondo cristiano e la ragione all’umanità belligerante, il movimento New Age è ecumenico, non dogmatico e pacifista. Come gli alchimisti, che pensavano che tutta la materia fosse sulla via di diventare oro, i New Agers si dedicano alla trasformazione personale e alla realizzazione del potenziale latente in ciascuno. Le scienze occulte fioriscono, certamente nelle loro modalità meno profonde, in sistemi di divinazione (tarocchi, rune, I Ching), nell’astrologia, nella scienza delle piante, (medicina delle erbe) e delle pietre (cristalli). Così come Paracelso attraversò l’Europa chiacchierando con boscaioli e vecchie sagge, i New Agers ricercano la saggezza dei popoli indigeni, a cui danno valore.

Come tutte le manifestazioni essoteriche, la New Age ha i suoi aspetti sfortunati. Ma al suo peggio è stupidotta piuttosto che malvagia, e al nostro osservatore extraterrestre sembrerebbe la più umanistica ed ecologica di tutte le religioni attuali. Inoltre, offre porte che non sono sigillate dal dogma o dall’autorità religiosa attraverso le quali pochi auto-selezionati possono passare per ottenere una conoscenza più profonda.   

 

New Age, da un punto di vista ostile

 

Se la New Age riguarda principalmente il risveglio, perché mi fa dormire? Quelle copertine lucenti con disegni kitsch; quella musica da ascensore riciclata con titoli pomposi; e soprattutto quei profeti, o illuminati, o qualsiasi cosa siano, col loro catechismo nuovo fiammante—mi fanno dormire.

In tutta buona fede partecipo a un seminario. Eccomi dinnanzi all’illuminato, che chiacchiera. La prima impressione che mi assale è un grande torpore. Ma non mi posso addormentare, sarebbe maleducato. Così ascolto. E cosa sento? Una stupenda quantità di  ovvie assurdità. Pensandoci, non è semplice ammassare così tante stupidaggini in così poco tempo. È una cosa degna di nota di per sé, se non esattamente degna di lode.

Imparo che ci reincarniamo 84.ooo.ooo volte; che ho dell’ectoplasma nero che fuoriesce dalla mia bocca; che alcuni di noi stanno per vedere le luci ultraviolette; che siamo osservati da extraterrestri con un terzo occhio (mi chiedo da quale occhio?) etc. etc. Sebbene la sospensione dell’incredulità sia una conditio sine qua non, c’è anche una curiosa infusione di pseudo-scienze, cosicché i termini sono presi in prestito liberamente dalla fisica, dalla chimica, dalla biologia, etc. Se non altro, funzionano egregiamente come scioglilingua. Abbondano le frasi fatte, immagino perché non c’è un correttore grammaticale che avvisi l’illuminato: “Frase fatta, usare con parsimonia”. Il logos è confuso con la logorrea.

Prospera anche un sentimentalismo del tipo più infimo, e dispiace perché sembrerebbe esserci spazio per l’umorismo. Ad esempio, da un catalogo di libri New Age, ecco un titolo azzeccatissimo: Dai la colpa alle tue vite precedenti. Tale libro esiste davvero. Dovrebbe essere un best-seller fra i perdenti, e posso già immaginare il secondo volume: Punta tutto sulla tua prossima vita!

È tutto qui? Sono circondato da perdenti? Mentre sedevo in mezzo a loro, la canzone di Beck continuava a frullarmi in mente col suo maligno ritornello: “Sono un perdente, amore, allora perché non mi uccidi?” Tutti i New Agers hanno forse un tremendo bisogno di psicoanalisi?  Stanno tutti cercando una via di salvezza psichica ed emozionale? Se fosse questo il caso, allora, in forza della compassione, sono costretto a rispettare i loro erronei tentativi, e tacere.

A ben pensarci, i New Agers, per quanto kitsch siano, sono fra i migliori rappresentanti della società occidentale. Perché, almeno, loro avvertono che qualcosa non va. Sfortunatamente, sembrano accorgersene solo quando qualcosa va terribilmente storto nella loro vita. Allora cercano un rimedio e, avendo rifiutato la religione cattolica, se sono cattolici, la zingara che legge i tarocchi o il palmo della mano, e lo psichiatra, confluiscono in questa nuova genia di ciarlatani, cioè persone che dispensano frasi fatte rimescolate in guisa di saggezza trascendentale. E allora, com’è che la fanno franca? La fanno franca perché coloro che partecipano ai loro seminari e leggono i loro libri sono per la maggior parte gente disperata pronta a credere a tutto e abbracciare qualunque idea. 

Ci siamo passati tutti nella nostra vita, impotenti nelle grinfie della depressione. Quando niente va come dovrebbe andare, qualsiasi antidolorifico capace di alleviare la nostra sofferenza è il benvenuto. In un tale stato di profondo abbattimento, non solo si ottiene automaticamente la sospensione dell’incredulità, ma il futuro illuminato crederà più di ciò che si può realisticamente credere. E tuttavia l’Altro possiede il senso dell'umorismo e, se lo si avvicina in modo così disarmante, è probabile non si riuscirà mai a vendergli una polizza di assicurazione sulla vita. L’Altro ha anche bisogno di noi, ma non s’interessa di coloro i quali, avendo rinunciato a un atteggiamento critico, sono pronti a credere a qualsiasi cosa. L’Altro snobba tali persone.

Coloro di voi che non hanno mai letto un libro tipicamente New Age ne devono comprare almeno uno e rendersi conto da soli di cosa intendo. Di solito la prefazione informa frettolosamente il lettore che l’Autore è stato magistralmente guidato da tale o talaltro (uno spirito, una reincarnazione, una voce divina) e che lui o lei deve comunicare un messaggio, anzi, il messaggio. Comincia poi una litania di regole. Sono elencate nel più canonico ordine causale, cioè, da A segue B; da B, C, e così via. Sembra che la Rivelazione, il Messaggio consista nella lista della spesa. Solo che, al posto delle carote, del pane e del prezzemolo, la lista è composta da frasi fatte prese in prestito da un potpourri mal digerito di religioni/pseudoscienze comparate, compilate da sfogliatori di libri di seconda classe.

D’altra parte, coloro la cui vita è apparentemente in ordine, che abbondano in soddisfazioni familiari e professionali, che sono normali e in salute, raramente sentono il bisogno di avvicinarsi a ciò che, di fatto, è sepolto in profondità dentro ciascuno di noi. E poi ci sono le masse, coloro che guardano cinque ore di televisione al giorno, e sono bombardati da incessanti spot pubblicitari, una media di 21.000 all’anno negli Stati Uniti; coloro che hanno ormai l’encefalogramma piatto e, sebbene ancora funzionali a livello  fisico e psichico, sono in effetti diventati dei manichini.

Finché, un giorno, uno di tali manichini viene trovato, legato, imbavagliato e strangolato in uno stanzino o in uno scantinato. Alla fine, i parenti normali e sani, eccezionalmente risvegliati dal loro letargo che dura da una vita, vengono a sapere dalla polizia che il loro caro non è stato ucciso, bensì è morto di morte autoerotica.

 

Introduction

 

In 1928 a brilliant philosopher/logician from Vienna, Rudolf Carnap, published Der logische Aufbau der Welt, The Logical Structure of the World. Ten years before, Ludwig Wittgenstein had conceived his highly cryptic Tractatus Logico-Philosophicus, “the last philosophical book.” Carnap—and other exponents of the Vienna Circle—elaborated on Wittengstein’s message. Toward the conclusion of his mentioned work (183.Rationalism?) he inserted:

 

REFERENCES. Wittgenstein has clearly formulated the proud thesis of omnipotence of rational science as well as the humble insight relative to its importance for practical life: “For an answer that cannot be expressed, the question too cannot be expressed. The riddle does not exist. If a question can be put at all, then it can also be answered… (…)” Wittgenstein summarizes the import of his treatise in the following words: “What can be said at all, can be said clearly, and whereof one cannot speak, thereof one must be silent.”

 

That famous aphorism, which concludes the treatise, ought to have been interpreted as a confession of Gnostic humility, not as a “proud thesis of omnipotence of rational science.” All it takes is heeding all the implications of the opus. Just two aphorisms before the conclusive one, Wittgenstein states:

 

 

 

"There really is ineffability. It shows itself, it is the mystic." (6.522)

 

All of the above almost a century ago. Why should we care anymore? Because the implications of rationalism, positivism, determinism, reductionism, mechanicism, have invaded the globe like a plague. Wittgenstein is not to be blamed; he transcended his epoch, though he also epitomized it by using and developing its newly-rediscovered and perfected tools—those of logics. (One noticeable objection to his Tractatus is the use of aphorisms and a highly subjective ordering criterion in lieu of a more systematically structured text. Why should logic be disemboweled, as it were, through an assortment of cryptic aphorisms?) His less gifted followers, through their historical misunderstanding, went off the (wrong) tangent. And that just in the field of logics. In all branches of knowledge, determinism came and went, or rather, ought to have gone, but has not—it has persisted, and has permeated the world, aided by the amplification of its staunchest ally, economic “progress.”

 

There follows a disrespectfully succinct summary of some of the “blows” that ought to have done away with determinism, mechanism, reductionism, Darwinism, etc. Those of you who are familiar with these scientific developments, need not read this section. Those who are not, may use it as an invitation for further reading into the works of the quoted scientists.

 

Euclidean geometry was superseded by non-Euclidean geometry, whose chief figures were: Nikolai Ivanovich Lobachevski (1793-1856); János Bolyai (1802-1860); and Berhard Riemann (1826-1866). If Lobachevski’s and Bolyai’s recognition is posthumous, acceptance of non-Euclidean geometry occurred under the influence of Riemann’s ideas, in 1866, Eugenio Beltrami’s in 1868, and Felix Klein’s in 1871.In 1927 Werner Heisenberg (1901-1976) published his indeterminacy, or uncertainty, principle. His  radical reinterpretation of the largely Newtonian basic concepts of mechanics as applied to atomic particles in the context of quantum theory should have dealt the coup de grâce to Newton’s mechanics. (It did, as a matter of fact. Yet, the notion of time as mere “duration” is still cardinal to, for instance, the financial world, with repercussions of global proportions.)

 

Logical positivism was wounded at its core—its true/false coercion and ensuing tacit adherence to the principle of bivalence—by Jan Lukasiewicz’s (1878-1956) discovery of three-valued logic as early as in 1917, nota bene: before Wittgenstein’s Tractatus. Many-valued logic (and multivalued calculi) were to follow, aided by the flourishing of the Warsaw school of logic, for the inception of which Lukasiewicz is to be credited.

 

As for natural selection and the Darwinian world-view, coupled by the modern conventional molecular biological approach, which insists that when the DNA sequence of any organism be known, then all would be evident, and indeed all the reductionism and mechanisms it reeks of, it is becoming apparent, as Brian Goodwin and Gunther Stent, among others, suggest, that morphogenenis and development can be viewed as a dynamic system.

 

The theory of complexity is just coming out of the closet, gradually gaining ground among biologists, mathematicians, and philosophers alike.

 

In sum, all  the mentioned developments in different but ever more interrelated branches of knowledge point to the fact that the world, life, and the very essence of being—ontology—must be reinterpreted and re-investigated through an entirely new (or entirely revivalist, in a sense) approach. Organisms are not merely collections of parts, such as genes, molecules and the various components of their organs. And what is more, they are alive.

 

The prodigious proliferation of tarmac, concrete blocks, buildings and skyscrapers the world over; the ongoing, unprecedented process of global deforestation and outright desertification; the cultural homogenization the world has undergone, for the sake of a global one-size-fit-all subculture by which to supplant the previous, manifold endemic cultures; all of this seems to be an unstoppable process of appalling destructive magnitude.

 

Over a century and a half ago Karl Marx had predicted, in true oracular tradition albeit in the disguise of a “modern scientist of history”, that the world would move, in a dialectical spasm, towards a global international proletariat. The current century, according to his predictions, was to herald and confirm the birth of a classless, international, transnational and supranational worldwide proletariat. But Communism has failed bombastically, despite the tenacious and forceful efforts the various regimes exerted to keep it alive. Mankind has “regressed” to god-worshipping, and, what is worse, if there is one single, overriding trend in the twentieth century, that is the one of unbridled nationalism. Marx has been proven completely wrong, and his historical determinism, flawed to cultivate the art of euphemism.

 

But hundreds of millions, from the Soviet Union to China, from Cuba to Vietnam, have partaken, willy-nilly, in this colossal experiment of “forget your property (if any) — your religion — your customs — your instincts…” Possibly as a reaction, we are witnessing the reemergence of long-forgotten tribal instincts, as nightmarish scenarios reemerge from the shadow side of humanity—ethnic cleansing, religious wars, etc.

 

Androcratic, free-market, consumerist societies, with the US leading and inspiring the pack, have succeeded in making the world look the same by applying broad-sweeping concepts that are apparently at home everywhere, as they appeal to a component of the human psyche that most of us do not seem to be able to renounce—greed. An extraterrestrial observer, after a thorough evaluation of the world at the end of the twentieth century, could comment that it appears to be a Freudian and Adlerian delight—a turmoil of base instincts engendered by sex and power drives.

 

Caught in between these major and, although different, equally destructive forces, is a peculiar class of human beings: New Agers. How can they be characterized?

 

New Age (a sympathetic view)

 

Nowadays the Abrahamic religions are concerned with very un-Hermetic matters, while Freemasonry is no more than another fraternal order. In a way, this has been to the advantage of the Hermetic Tradition, which now no longer hangs on the fringes of other institutions. In fact, it has become its own church, developing its most exoteric side as the New Age movement. A backward glance at history confirms the diagnosis.

 

Like the Renaissance Hermetism that hoped to restore peace to Christendom and sanity to warring mankind, the New Age movement is ecumenical, undogmatic and pacifist. Like the alchemists, who believed that all matter is on its way to becoming gold, New Agers are dedicated to personal transformation and the realization of the latent potential in everyone. The occult sciences flourish, admittedly in their shallower modes, in divination systems (Tarot, Runes, I Ching), astrology, the science of plants (herbal medicine) and stones (crystals). Just as Paracelsus tramped through Europe chatting with woodsmen and wise women, the New Agers seek out and value the wisdom of indigenous peoples.

 

Like all exoteric manifestations, the New Age has its unfortunate aspects. But at its worst it is silly rather than vicious, and to our extraterrestrial observer it would seem the most humanistic and earth-friendly of all our religions. In addition, it offers doorways that are not sealed by dogma or religious authority, through which a self-selected few may pass to learn a deeper wisdom.

 

New Age (an unsympathetic view)

 

If New Age is all about awakening, why is it that it puts me to sleep? Those glossy book-covers with kitschy drawings; that recycled elevator music with pompous titles; and particularly those prophets or enlightened ones or whatever they are with their brand new catechism—they put me to sleep.

 

With all good faith I go to a “workshop”, that’s how it is called. So here is the enlightened one chatting away. The first impression to assail me is one of great torpor. But I can’t fall asleep, it would be impolite. So I listen. And what do I hear? A stupendous amount of conspicuous nonsense. Come to think of it, it is no small deed to amass so much nonsense in so little time. That’s noteworthy in itself, even if not necessarily praiseworthy.

 

I learn that we reincarnate 84,000,000 times; that I’ve got black ectoplasm pouring out of my mouth; that some of us are about to see ultraviolet lights; that extra-terrestrial beings with a third eye are watching (I wonder with which eye?), etc., etc. Although suspension of disbelief is a conditio sine qua non, there’s a curios infusion of pseudoscience too, so that terms are borrowed freely from physics, chemistry, biology, etc. They do make for a good mouthful. Stock phrases abound I suppose because there’s no grammar check to alert the enlightened one with “Stock phrase — use sparingly.” Logos is confused with Logorrhea.

 

Sentimentality of the basest kind thrives too, and that’s too bad, because there would seem to be room for humor. For example, from a catalogue of New Age books, here is a great title: Blame it on your Past Lives. Such a book actually exists. It should be a best-seller among losers, and I can already think of its sequel: Stake It All On Your Next Life!

 

Is that what it is? Am I surrounded by losers? As I was sitting among them Beck’s song kept revolving in my mind with its wicked refrain: “I’m a loser, baby, so why don’t you kill me?” Are all New Agers in dire need of therapy? Are they all seeking a psychic, emotional rescue? Should that be the case, then, out of compassion, I am bound to respect their misguided endeavors and say no more.

 

Indeed, New Agers, kitschy though they may be, are among the best representatives of the Western human race. For at least they sense that something is amiss. Unfortunately, they seem to do so only when something in their lives goes awry. Then they seek a remedy and, having rejected the Catholic confession, if they are Catholic; the gypsy tarot or palm reader; and the psychiatrist, they flock to this new breed of quacks, i.e., people who dispense reshuffled stock phrases in the guise of transcendental wisdom. How, why do they get away with it? They get away with it because those who attend their workshops and read their books are in most cases desperate people willing to believe and embrace anything.

 

We’ve all been there in our lives, helpless in the clutches of a depression. That’s when just about anything goes. Any painkiller capable of relieving us of our pain, we will welcome. In such a state of dire dejection, not only is suspension of disbelief automatically achieved, but the would-be enlightened will believe more than can be believed. And yet the Otherness is possessed of a sense of humor and, if you approach it so disarmingly, then you’ll probably never be able to sell it life insurance. The Otherness needs us, too, but has no interest in those who, having renounced a critical attitude, are willing to believe anything. The Otherness will snub such people altogether.

 

Those of you who have not read any typical New Age book must buy a few and see what I mean for yourselves. Usually the preface hastily informs the reader that the Author has been uncannily guided by such and such (a spirit, a reincarnation, a divine voice… ) and that (s)he has a message to impart a, nay, the message. Then commences a long litany of rules. They’re listed in the most canonical causal order, i.e., from A follows B; from B, C, and so on. Apparently, the Revelation, the Message consists of a grocery list. Only, in lieu of carrots, bread and parsley, the list is made up of stock phrases borrowed from a half-digested potpourri of comparative religion/pseudoscience compiled by second-class book browsers.

 

On the other hand, those whose life is in apparent order—rich in familiar and professional satisfaction—those who are “normal and healthy” seldom feel a need to approach that which, in fact, is deeply buried within us all. And then there are the masses, those who watch five hours of TV a day, and are bombarded by unceasing commercial advertisements—an average of 21,000 of them in a year, in the US; those who have gone brain-dead and, although still psychophysically functional, have in effect become clockwork dummies.

 

Until, one day, one of such dummies is found, bound and gagged, strangled in a closet, or a basement. Eventually, the “normal and healthy” relatives, exceptionally stirred from their lifelong lethargy, learn from the police that their beloved was not murdered, but rather died of autoerotic death.

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Giovanna Strano, "La Diva Simonetta"

7 Febbraio 2019 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #pittura, #personaggi da conoscere, #storia, #giovanna strano

 

 

 

 

 

La Diva Simonetta

Giovanna Strano

Aiep editore, 2018

pp 270

14,00

 

Si è da poco spenta l’eco della brillante seconda stagione televisiva de I Medici che mi ritrovo fra le mani un libro molto bello: La Diva Simonetta, di Giovanna Strano. Il romanzo mi fa ripiombare a capofitto nelle vicende della metà del 1400, nella scintillante Firenze della corte medicea. Riecco tutti i personaggi dell’epoca: Lorenzo e Giuliano de Medici, Clarice Orsini, Lorenzo di Pierfrancesco, Lucrezia Tornabuoni, Francesco de’ Pazzi etc.

Il libro è scritto in un bello stile d’altri tempi che ben si sposa con la riproduzione efficacissima del periodo storico. Davanti ai nostri occhi si snoda un affresco di straordinaria potenza, veniamo catapultati nella Firenze del ‘400, in piena fioritura di Comuni e Signorie, fra intrighi di palazzo, feste, ricevimenti, giostre di stampo ancora medievale, tornei e seducenti dame, alle quali galantemente dedicare le vittorie. E, in primo luogo, tanta, tantissima cultura, concentrata in una sola città, come mai s’è visto prima e mai si vedrà in seguito.

Lorenzo il Magnifico, grande statista ma anche mecenate delle arti, ha accentrato intorno a sé letterati, scultori e pittori, in una profusione di bellezza davvero sans par. Ed ecco la splendida Santa Maria del Fiore, i bassorilievi, gli arazzi, le liriche, le pitture sconvolgenti di Botticelli e di Verrocchio, del Ghirlandaio e di un giovane astro nascente: Leonardo da Vinci.

Ne risulta un rigoglio di colori, fiori e natura, di simboli volti ad esaltare, sì, i pregiati committenti, ma anche la bellezza della vita, l’essere umano a tutto tondo com’era nella sensibilità umanistica e rinascimentale. Ecco le liriche del Poliziano, e dello stesso Lorenzo che invita a godere la vita in quanto effimera, con un senso di precarietà e malinconia che già presagisce il barocco di due secoli dopo.

Una corte, quella dei Medici, piena d’intrighi, di amori licenziosi, di libertà di costumi che, tuttavia, non dimentica mai il fine principale: il bene e la prosperità di Firenze, quella stessa “Fiorenza” dilaniata fra Guelfi e Ghibellini per cui si era battuto Dante. Lorenzo vuol renderla più grande, sprovincializzarla, non farla precipitare nell’orbita papale, e non è impresa da poco.

Soprattutto, ritroviamo il maestro Botticelli all’opera sui suoi capolavori, in particolare sulla sontuosa Primavera, e su La nascita di Venere, ispirate da una figura di spicco della corte fiorentina: Simonetta Cattaneo Vespucci, la sans par.

Bellissima, intelligente, colta e volitiva, la ragazza ligure fa girare la testa a tutti gli uomini, compresi entrambi i fratelli Medici, Lorenzo e Giuliano. Ne è travolto e soggiogato lo stesso Botticelli che vorrà essere seppellito ai suoi piedi. Il libro ruota intorno a lei, ai suoi desideri, alla sua cultura, ai suoi amori, al suo inesistente rapporto con l’incolore marito, ai suoi abiti vaporosi, scelti per lei dal suocero, alle sue acconciature lussureggianti di trecce, boccoli e fiori. Solo chi la ama veramente sa apprezzarne l’anima incorrotta, gli altri, come l’avido suocero Piero Vespucci, la considerano un bell’oggetto, un trofeo da esibire, una pedina da utilizzare come esca in società.

Simonetta ama Giuliano de’ Medici. Se il legame che la unisce a Botticelli è quello dell’amor cortese - lui servo che venera colei che non potrà mai avere e che diventa per lui fonte di elevazione artistica - Giuliano incarna l’amore ossessione, quello fatale, la passione violenta che porta alla sciagura, che conduce inevitabilmente alla morte, unico contesto in cui i due amanti saranno liberi, svincolati dai doveri morali e dalle convenzioni sociali.

A due anni dalla morte di Simonetta, però, anche in Giuliano si è operato un cambiamento, il suo amore si è sublimato fino a somigliare a quello angelicato di Dante per Beatrice. Il giorno della congiura dei Pazzi, nella chiesa di Santa Maria del Fiore, egli va incontro al suo tragico destino sapendo che è l’unico modo per ricongiungersi alla sua amata, la bellissima fanciulla di Portovenere, “Madonna del Mare” come nessuna mai.

I difetti del testo, a mio avviso, sono due. In certi momenti somiglia più a un trattato di storia dell’arte che a un romanzo, i dialoghi ne risultano artificiosi e la narrazione perde scorrevolezza.  Inoltre, trovo sbagliata la scelta di affidare due momenti salienti della trama - la violenza subita dalla protagonista da parte del duca d’Aragona e il conseguente abbandono all’amore per Giuliano de Medici – a una prospettiva esterna, poiché il punto di vista si sposta verso Lorenzo di Pierfrancesco, sorta di narratore estraneo degli eventi. E il capitolo X, in cui si esplicita l’amore fra i due protagonisti, è troppo precipitoso.

Per il resto un bellissimo romanzo storico, un libro che ci immerge totalmente in un’epoca, nella multiformità delle interpretazioni, dei rimandi e dei simboli, ma soprattutto nell’arte, nella pastosità delle forme e dei colori. Ogni capitolo è ispirato a un’opera pittorica, la descrive, la fa rivivere, la anima. Le figure prendono vita e balzano giù dalle tele, le musiche si sprigionano, i fiori esalano effluvi di primavera, le bocche ridono. In una parola, siamo dentro la bellezza pura.

 

Giovanna Strano, "La Diva Simonetta"Giovanna Strano, "La Diva Simonetta"
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Radio Blog: Gianluca Pirozzi, "Nomi di donna"

6 Febbraio 2019 , Scritto da Chiara Pugliese Con tag #chiara pugliese, #radioblog, #poli patrizia, #recensioni, #gianluca pirozzi

 

 

 

"È così difficile trovare una raccolta di bei racconti e questi, contenuti in Nomi di donna di Gianluca Pirozzi, belli lo sono davvero, anzi di più. Sono originali, raffinati, scritti con maestria, sembra di avere fra le mani già un classico."

Una nuova recensione scritta da Patrizia Poli ci farà conoscere la raccolta di racconti di Gianluca Pirozzi Nomi di donna - L'Erudita edizioni.
Buon ascolto!

Lettura di Chiara Pugliese

 

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L'agenda

5 Febbraio 2019 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #come eravamo

 

 

 

Che ne sanno le ragazze di oggi dell’agenda anni 70/80? E non parlo della Smemoranda o del Moleskine o di qualche libercolo multicolore su cui le giovani d'oggi annotano pensieri o appuntamenti, ammesso che qualcuna ancora non usi il cellulare. Parlo del concetto “agenda” anni 70/80.

Ce n’erano di varie marche, ad esempio quella tenera dell’Holly Hobbie, ma, per lo più, si trattava di comuni rubriche dall’aspetto poco accattivante dentro le quali, però, costruivi un mondo. Più spazio privo di figure o scritte offrivano, meglio era.

La funzione originale sarebbe stata quella di annotare i compiti di scuola ma, in realtà, ci scrivevamo di tutto. In primo luogo il diario segreto che, come  vedrete, segreto poi non era. Quindi frasi, motti, testi di canzoni, bigliettini, figurine, ritagli di foto di attori e cantanti. Guai a dire bugie, l’agenda era lo specchio magico al quale ognuna di noi affidava la propria anima e la propria esistenza, vera, forte e incontaminata! Era, insomma, in parte simile a, e in parte molto più di, un profilo social.

E l’agenda, pian piano, giorno dopo giorno, si colorava, cresceva, straboccava, gonfia di biglietti di treni, concerti, cinema e teatri, di canzoni e poesie, fra Leopardi e Renato Zero, di figure umane che a rileggere si rianimano e riprendono vita: il professore d’italiano buonanima, la prof di latino, la terribile insegnante d’inglese, l’insulso e donnaiolo professore di filosofia. E poi compagni e compagne, feste, amicizie, amori, primi baci, delusioni, litigi e riappacificazioni.

L’agenda veniva sempre con noi, a casa degli amici, in vacanza, al mare, a scuola. Durante le ore di lezione le agende venivano scambiate sotto il banco, in modo da poter leggere cosa aveva scritto la compagna e poterci inserire sotto un pezzo nostro, l’equivalente di un odierno commento a un post. Era un modo per comunicare, per far sapere all’amica del cuore quella cosa che non si era riuscite a dirle a voce, per chiedere scusa, per ribadire un affetto o confessare un amore o un peccato d’invidia o gelosia.

Io, lo ammetto, non ho mai smesso. Ho ancora il vizio. Ho cominciato a scrivere l’agenda quando avevo diciassette anni e – con solo brevi interruzioni in periodi di particolare depressione (e qui si capisce il valore terapeutico dell’agenda stessa ) - ho continuato fino a oggi. In cantina ne ho scatoloni pieni, divisi per annate, una quarantina di volumi che qualcuno un giorno, dopo la mia dipartita, butterà via senza nemmeno aprirli.

Adesso mi limito ad annotare le cose che accadono e che faccio. Lo stile è piatto e ragionieristico in confronto alla vivacità di quelle prime rubriche degli anni di scuola. Durante l’adolescenza si è creativi, s’inventano soprannomi e battute fulminanti, si coniano espressioni e neologismi, un gergo da condividere solo con gli amici più stretti. È la differenza fra avere vent’anni e averne sessanta, è la differenza fra ribollire di vita - mantenendo un occhio aperto, compassionevole e commosso - e capire, invece, che tutti i giochi ormai sono fatti, che la vita la si può solo subire e non plasmare.

Che emozione l’agenda! Era un modo per dire “io esisto, sono qui e ho un’anima”, era conforto e rifugio, sfogo e divertimento, pianto e riso.

Quegli anni, quell’entusiasmo, quella sensazione che tutto fosse ancora possibile, non torneranno più. Adesso bisogna saper fare buon viso a cattivo gioco, sentirsi parte della vita così com’è, apprezzandone la bellezza e godendo delle piccole cose. (Magari pure annotandole sull’agenda, perché no?)

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Pietruccio Montalbetti, "Amazzonia, io mi fermo qui"

3 Febbraio 2019 , Scritto da Patrizia Poli Con tag #poli patrizia, #recensioni, #luoghi da conoscere

 

 

 

Amazzonia, io mi fermo qui

Pietruccio Montalbetti

Editrice Zona, 2018

 

 

Il valore di Amazzonia, io mi fermo qui, ovviamente, non è nello stile, pur pulito e scorrevolissimo, ma nel contenuto.

Fra All’inseguimento della pietra verde, Fitzcarraldo e Passaggio a nordovest, in realtà un godibilissimo buon vecchio diario di viaggio in Amazzonia, scritto da Pietruccio Montalbetti, uno dei componenti la band - ma prima si diceva complesso – dei Dik Dik.

Montalbetti ha fatto un meraviglioso percorso in Ecuador, nel fitto della selva amazzonica, alle Galapagos e in Perù. È partito da solo, si è avvalso di compagnie occasionali, ha affrontato disagi e pericoli. Ne esce un ritratto di uomo curioso, innocente ma non sprovveduto, intelligente, sincero e gentile. Alcune scene sembrano un po’ cinematografiche e costruite ma non abbiamo motivo di dubitare della loro veridicità.

L’Amazzonia è un rigoglio di cose che pullulano, strisciano, volano, urlano; cose che pungono, avvelenano, azzannano. E di persone diverse da noi. Con innegabili differenze culturali che ci riesce difficile accettare. Noi occidentali, in particolare io, troviamo atroci le scene di brutali uccisioni di animali, anche se fatte per cibarsi, con buona pace di quelli che considerano non molto migliori le condizioni di vita e morte nei nostri allevamenti lager. Qui, almeno, sono mitigate per contrasto dalla dolcezza del protagonista, incapace di uccidere anche quando è attanagliato dai morsi della fame.

Di bello c’è la natura incontaminata - sebbene sempre più in pericolo - del bacino fluviale amazzonico. Cieli limpidi, alberi svettanti con in cima meravigliosi fiori colorati, pappagalli variopinti, bambini che sguazzano nudi e felici, scimmie di tutte le forme e misure. Ma anche insetti, vedove nere, anaconda, pirana e coccodrilli; anche insidie, agguati, teste mummificate, coltelli, acquazzoni e piogge incessanti; anche punture d’insetti, fame e pericoli.

Di buono c’è la libertà primordiale, il senso della vita come doveva essere all’inizio del tempo, fatta di cose semplici, di pura sopravvivenza, di affiatamento spontaneo e cameratesco fra compagni di viaggio, fra uomini di nazionalità, cultura ed estrazione diverse. C’è quel muoversi nella natura come fanno gli animali, annusando il vento, sviluppando sensi come l’olfatto che noi abbiamo atrofizzati, riscoprendo l’animale che è in noi. (Un po’ quello che l’etologo Marchesini ci invita a fare nel nostro rapporto col cane.)

Sorge prepotente la nostalgia per un mondo che non sarà mai più, che una parte di noi forse inconsciamente rimpiange, anche se, una volta presane coscienza per lo spazio d’un breve viaggio, è lieta di abbandonarlo per tornare con un sospiro di sollievo alla civiltà.

Le condizioni di vita degli indios, con le loro raccapriccianti zaza appese alle travi delle capanne - ovvero le teste rimpicciolite dei nemici uccisi - costituiscono un ecosistema che incuriosisce ma dal quale possiamo solo ritrarci, conservando, però, dentro di noi, il senso di un dubbio e di una possibilità. E se la civiltà e il progresso occidentali non fossero l’unico dei mondi possibili? Se ci fosse anche un’altra modalità, ancestrale, libera dai condizionamenti, dagli orari, dalla fretta, dall’obbligo di lavorare per vivere?

E colpiscono l’ospitalità e la generosità “da parte di gente che non aveva niente e per cui non ero niente”. La gentilezza, il riso, il pianto, il dolore, l’amicizia ci rendono universalmente umani.

Alla fine resta il rispetto per ciò che è diverso e non conosciamo. Resta la pietà per chi soffre. Soprattutto resta, prepotente, la nostalgia per questo eden incantevole e violento, insieme al fascino incontenibile dell’avventura, quello che ci fa sentire tutti, per un momento, un po’ Allan Quatermain e un po’ Indiana Jones.

 

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