pietro pancamo
Decomposizione psichica

Il destinorizzonte
Stracci di sonno coprono,
masticano il corpo della notte
diafano di tenerezza;
lo avvinghiano
sinuoso di buio
– flessuoso di membra stellate –
e lo attraversano d’amore.
Poi, fosforescente,
lo sguardo della nebbia,
scosso di stanchezza,
si espande lento nel cuore
come un gas di desideri
volatilizzati.
Mentre il mio destino,
guantato dalla notte,
scende nei sobborghi dell’anima:
strade oscure di pensiero
e siepi d’amore
s’intersecano nel mio nome.
Il destinorizzonte
s’attorciglia
a questa landa di tempo.
«Chi» – si domanda –
«striscerà nella roccia del canto
la gioia, turgida
come i seni di un fiore incantato?».
Danzai nelle viscere di un sentimento
all’ombra de’ tuoi occhi.
Poi l’amore s’irradiò in rivoli di tempo.
«Che sia la vita!», urlava il nostro dio
(o soltanto noi).
Ma si sbagliò (o soltanto noi sbagliammo
perché non c’era
null’altro da fare) e
fu il tempo
(o continuò… )
Parole dal silenzio
Ricorda il mistero
che fioriva in un sospiro,
dove la morte ha tessuto il nido
come una spiaggia
di parole taciute;
come un barbaglio di sogni trasparenti,
orchestra di anime perdute.
Desideri esplosi nel cielo
mimano le stelle.
Regni abissali di morte,
fiorita nel respiro di Dio.
Leggende di anime affogate nel buio
sotto la volta di sentimenti castrati.
Malinconia: il pensiero animato di sole
rattrappito
nel sonno di una dolce tristezza.
E la morte vive all’inchinarsi del tempo
all’imbrunire della voce
in questa via del pensiero
ghiaiosa d’amore.
E gli uomini
(sogno di Dio, ossessione della morte)
spengono una scintilla
umida di storia;
ascoltano un nome
raggiato di follia.
In incognito
Dormo in incognito
per non farmi riconoscere dagli incubi.
Scavano per l’aria come talpe;
hanno un paio d’occhi
larghi e fotofobici.
Sul comodino
il lume acceso mi nasconde.
Decomposizione psichica
Musica come bava alla bocca:
e il cielo si gonfia tra le urla dei pazzi,
il loro sguardo è vento
che si perde nel labirinto di stelle.
Ogni parola è una stella
che splende di saliva: e cieli agitati
innevati di stupore
tramontano lontani,
evocati dalla morte.
Il mio cielo
è questo mio cervello
pieno di tralicci spezzati
e di barriere sventrate
e d’acque ferite
e di binari sradicati
che si mordono col ferro.
Dentro le vene,
aggrovigliate come un gomitolo
di dolore,
il sangue è un fiume abbandonato
terso di rumori prosciugati.
La morte è silenzio
stonato.
La voce trasuda parole d’accento piagato
ma è tiepido il grido del tuo respiro,
le piaghe troppo soffocanti
perché tu abbia il fiato d’urlare.
Morire da te
è una fuga troppo leggera
per avere il sollievo.
Così
un pantano di figure
nel cuore
e il giorno s’increspa
a raccogliere il tuo soffio.
Morbido silenzio, soffice
come una preghiera del sonno.
Il buio che adora fruscii e parole:
il buio, affannato dal mio respiro,
può solo accarezzare la
nausea di questa vita.
Nel giorno,
sputo della notte,
fiori freddi
come steli di pioggia.
Un’orma di luce
imbavaglia lo spazio.
Morte antologica permanente

PREFAZIONE:
le parole seguenti
sono un fango di cellule nervose,
tenute insieme dal silenzio.
Il silenzio è un’isteria di solitudine
che genera e accumula:
prodotti temporali,
energie cinetiche,
reazioni di gesti a catena.
I sogni, inseriti nella rassegnazione
come in un programma di noia pianificata,
sono gli arti di questo silenzio;
o, se preferiamo,
gli organuli ciechi del silenzio
che lavorano a tastoni
dentro il suo liquido citoplasmico.
Il silenzio può anche essere
la cellula monocorde
di un sentimento spaventato,
di un amore rappreso,
di un guanto scucito:
in tal caso
trasforma la solitudine
nella raggiera cerimoniosa
d’una nausea che procede,
maestosa,
con moto uniformemente accelerato.
(Si registra un’accelerazione a sbalzi
solo quando
un’effervescente disperazione
s’intromette con scatti sismici
a deviare il corso
dell’accelerazione stessa).
Per concludere,
l’evoluzione della nausea
può secernere un vuoto,
avente più o meno
le caratteristiche della morte;
o germogliare per gemmazione
quella strana forma di vita
identificata col nome di indifferenza,
la quale risulta essere (da approfondite supposizioni)
il chiasmo di paura e odio.
POSTFAZIONE:
le parole precedenti
sono un fango di cellule nervose,
tenute insieme dal silenzio.
Ogni allusione
a sentimenti e/o fatti reali
è voluta
silenziosamente.
prima di far cena,
mangiando fette di pandoro.
Che pensieri terra terra
vengono in mente
mandando giù bocconi
pastosi di burro:
pensieri... stomaco stomaco.
Tipo: «Sono stracco di vivere
a mia rovina;
sono stracco di vivere
alle mie spalle».
Insomma è un malessere transitorio che bisogna pur soffrire passando, tutto d’improvviso, dalla gioia al dolore. È un po’ come il malore successo a quelli che han volato da un fuso orario all’altro. Poi, quando la rabbia finisce, il mio pessimismo è solo rassegnazione.
Se vedo, però, intorno a me
sorrisi di compassione
per l’enorme sfiducia
che mi affligge il cuore,
mi rincacchio con passione
e, senza nemmen finire
di rovinarmi l’appetito,
corro a letto immusonito
saltando l’antipasto
(e figurati la cena!).
«Ah, sono stracco di vivere
a mia rovina;
sono stracco di vivere
alle mie spalle».
Pomeriggio sfaticato
A casa,
nel disordine alchimistico
delle ore scapestrate,
sfoglio un libro
foruncoloso di parole.
Allora esco
e vado a guardare i miei passi
che vorrebbero tanto
(come mille moschettieri)
essere uno
per ogni raggio di sole.
«Miao», fa il micio.
«Vruum», risponde l’automobile.
«Boh!», commento io. E torno a casa
galleggiando su questi passi
che ormai hanno capito
di essere ben pochi:
«Vorremmo tanto» – pensano –
«che i raggi di sole
(come tre moschettieri)
fossero uno
per ognuno di noi».
A casa,
nel disordine alchimistico
delle ore scapestrate,
mi ritrovo a fare
la critica letteraria
di uno starnuto
o della mia
scarpa sinistra.
Il traviato
Nel vero senso del cimitero
e di un riposo ossessivo
non sa più divincolarsi
dalle materie (o macerie) di studio
che pian piano disimpara con pigrizia
nella vecchi’aia del suo podere.
Traviato da un senso malinteso d’allattamento,
al contrario dei fratelli
partiti allo sbaraglio
(coraggiosi inermi in armi),
lui cerca rifugio
nella casa di famiglia:
la masseria
prensile e sterrata.
Morte antologica permanente
Siccome la vita
ci rovina la vita
(sempre!),
a giugno ho visitato
(un po’ turista, un po’ becchino
e un po’ parente sconsolato)
l’interessante morte
antologica permanente
delle mie speranze
migliori:
quanti sogni falliti
imbalsamati in bella mostra!
Li guardavo e piangevo
desolato nero,
dannandomi frenetico
la salute.
E adesso è soltanto
stanchezza rabbiosa
resistere ogni giorno
al ripetersi ingombrante del respiro
e della luce.
Delusione

DELUSIONE
La bravura simbiotica delle rime a incastro.
Il sogno è un conservante,
l’additivo artistico
per rimodernare
ambizioni letterarie,
o speranze, sopite ad honorem.
Comunque il sole
non è bello come prima.
Adesso mi pare una vecchia fotografia.
Il particolare, anzi,
di una vecchia fotografia
... ritagliato via
dall’alone di un sorriso.
Vecchio! La vita?
Ti piaceva…
«Sissì… Beh
in fondo vivevo
solo per ricordare me stesso:
per non avere rimpianti
o rimorsi».
E la seguivi, allora.
La seguivi!
«Sissì…
Magari non per nobiltà
o entusiasmo
o speranza. Nonnò…
Per una ragione, invece,
molto più romantica:
perché non mi scacciava…
Ma sì! Poi l’eco di uno sguardo,
l’eco di uno sguardo
s’infrange nel cuore:
e tutto quello che resta da vedere
è il desiderio di guardare».
Il nulla
I miei sogni leggeri, scanalati
fra ombre creole di tenera luce
e foglie di facciata
(ovvero blande
come ballerine
morse dal vento).
E quando l’incubo arriva
il nulla esce dal suo fuori
per annuire agli occhi del presente;
«io sono» – dice –
«un barbaglio di notti camuse
e la pioggia di quel che verrà:
del futuro mi rivelo
l’unica, insomma,
l(’)abile traccia!».
Qualche indizio di materia

Aeroplano
Se tento
di raggiungere il cielo
la distanza rimane invariata.
M’avvicino
soltanto alle nubi.
Filosofia
Parole e frasi sono gli intercalari del silenzio
che smette, ogni tanto,
di pronunciare il vuoto.
Allora qualche indizio di materia
deforma l’aria,
descrivendo le pause del nulla
prima che il silenzio
si richiuda.
(Le mani s’infrangono
contro un gesto incompiuto)
Gesti sinuosi
a intrecciare
il corpo di un uomo
mentre
danze attutite
risalgono il tempo
sfiorando i minuti
con un frullo di passi.
Frammento
A tratti nel buio
la filigrana di stelle
configura
la mia rabbia pensosa:
amore o incertezza, incertezza e amore.
Francesco Gazzé: il sentimento come ragion di scrivere
-

Il terzo uomo sulla luna
Francesco Gazzè
Baldini, Castoldi , Dalai, 2002
C’è un’acuta distanza (quasi totale, cioè irreversibile o giù di lì) fra i sentimenti e il mondo attuale… Al punto che ognuno di noi (se fosse onesto) si dovrebbe inquisire schiettamente, sottoponendosi magari a un discorsetto accusatorio tipo questo: “Dove finisce la televisione e dove comincia la mia identità? Ahimè, non resta più alcun confine di riconoscimento…”.
Chi lo sa: probabilmente, peggiorando in circolo (e continuando quindi, previa tv, a involversi dai sentimenti alle pulsioni, dall’intelligenza alla scimmia) la razza dominante del nostro pianeta ritornerà, spiritualmente parlando, allo stato selvaggio e brado, da umana che era.
E nel frattempo, l’arte che fa? Non ci salva? Sfortunatamente no, accidenti! Dal momento che, complice ancora il piccolo schermo, è ormai decaduta a cabaret, rivestendosi forse di motti arguti, ma anche di sfondoni assortiti, veicolati da un italiano, drasticamente ridotto al rango degradato di dialetto nazionale, buono per tutte le ignoranze e sgrammaticature.
Certo, per fermare il collasso, ci vorrebbe qualcuno in vena e in grado di dare l’esempio. Sì! Ecco la soluzione! Qualcuno ci vuole, che scriva e rifletta. Qualcuno che, discosto dalla massa e dalla tv, abbia una ricezione infallibile del cuore in genere e non delle emittenti varie.
Qualcuno, insomma, come Francesco Gazzè.
Dunque… fratello e paroliere com’è di Max il cantante e musicista, il Francesco in questione ha esordito in proprio nel campo della prosa, pubblicando nel 2002 (per i tipi della casa editrice Baldini&Castoldi, in seguito ribattezzatasi Baldini Castoldi Dalai) un volume di racconti, suggestivi e corti: Il terzo uomo sulla luna.
Che dire mai di quest’opera prima, che non ha mancato, naturalmente, di riscuotere lettori e commenti lusinghieri?
Beh per cominciare, non soffre d’illusioni Francesco Gazzè; anzi i dolori, appresi dalla vita, gl’insegnano a valutare (se non “auscultare”, addirittura) desideri, angosce, perplessità: la sua voce è composta d’inflessioni melodiche e, attraverso le pagine del libro, s’articola secondo le direttive di una salda ironia analitica, pronta a sublimarsi in acume poetico. Utilizzarlo (nell’attimo di un foglio, nel volgere di un libro) per catturare la libertà (dell’immaginazione) e farne sentimento, è facilissimo per l’autore. Egli sottrae alla forza isterica del giorno, della vita corrente e d’ordinanza la propria indole d’artista, aggira l’esuberanza maligna di pene e ansietà (che sono energia, adrenalina del dolore) per librare nella dimensione estatica della fantasia, fiabe d’incanto.
Mai sovrastate dall’affanno, quelle emozioni di pura leggerezza irradiate dal suo animo trovano respiro in novelle delicate e lievi, in tenui parole e trame carezzevoli che indulgono, talvolta, all’ariosa ecletticità del sogno.
Balza l’inchiostro da un racconto all’altro formando personaggi azioni ambienti, mentre nasce la pagina, come una lega metallica, dal miscuglio di lettere e bianco.
I segni e le pause rispettano i confini di storie fluenti e testi brevilinei che, senza cedere alla verbosità (ma con l’aiuto, nondimeno, di armoniose volute sintattiche), illustrano malinconia, gioia e dubbio.
Quindi sentimenti multiformi che, trasfigurati dall’ironia onnipresente, diventano profezia d’amore e riscatto umano, impreziosiscono il tessuto letterario di queste novelle e, intanto, sogni attraversano rapiti lo spazio di carta, per mutare in musica le parole e allietare le pagine con melodie narrative, pervase di sole.
Un sole inconfutabile che non splende a vanvera e, al contrario, sa illuminare (con cognizione di causa) la bravura di Francesco Gazzè, scrittore ben diverso da quelli che, discutibilmente, trascorrono la propria esistenza – intera ed effettiva – alla ricerca ossessionata d’interviste o trasmissioni, da cui lasciarsi ritrarre nell’atto retorico (persino narcisistico) di sproloquiare, di soffrire, d’incensarsi.
No: Gazzè si mostra, e dimostra, individuo di tutt’altro stampo e identità. Prova ne sia che, ne Il terzo uomo sulla luna – distinguendosi senza tregua o sosta da coloro (forse gli scrittori suddetti, per l’appunto!) che spesso raccolgono frasi, periodi e complementi in organismi grammaticali incapaci di poesia – trionfa, impeccabile e sincero, nel compito di “imprimere” corpo e consistenza a sistemi di parole, che ora si presentano a forma di nostalgia, ora di sorriso, ora di filosofia. Quella ad esempio, birichina e suadente, che dando segni d’ironia, impregna – “impastandolo” di sé – il brano intitolato Prima del gong:
“Assalito ovunque dalle sue farine, il giovane fornaio era tutto bianco come Pulcinella. Impastava energico la prima luce del giorno affondandoci le dita e il peso del corpo, colpendo l’impasto chiaro con gli schiaffi e poi lisciandolo sul palmo della mano quasi pentito, per trarre da esso qualcosa di buono, una forma. […] Anche una piccola radio portatile prendeva parte al lavoro [...] Sempre accesa sulla mensola più in alto [...] sancì, quella volta, la fine del mondo: per mezzo di una voce senza suono, lo speaker annunciò, interrompendo una nota trasmissione di musica leggera, che il pianeta stava implodendo a causa di un improvviso vuoto d’aria formatosi intorno al suo centro, e che in quelle ore la crosta terrestre aveva già iniziato ad accartocciarsi lentamente come la buccia di una pera marcia. Proclamava ciò in preda a una specie di terrore isterico che aumentò come una febbre a ogni parola. Riuscì comunque a precisare che i migliori geologi di ogni continente erano concordi nell’affermare con limitato margine di errore che all’intera umanità non restava più di mezza giornata prima della fine […] Il fornaio separò le mani dall’impasto, le avvolse in un panno asciutto prima di strofinarle davanti alla faccia come una mosca, andò alla finestra a controllare il panico che intanto s’era impossessato delle poche persone già sveglie in città. Se ne aggiunsero altre, e lui le osservò per l’intera mattinata affannarsi a realizzare subito sogni che tenevano chissà da quanto tempo incalcati nelle membra. Tutti insieme, in fretta, di corsa, alla rinfusa… prima del gong! […]”.
Lo si può inevitabilmente constatare: attraverso la “parabola” del fornaio, il racconto appena citato configura Francesco Gazzè come attento e minuto osservatore delle piccole cose, ch’egli delinea e traccia con snella incisività, manifestando un talento notevole di cronista “accorato”, superlativamente preso a studiare i contorni e il nucleo della realtà, per “rigovernarli in codice” con l’intervento e l’appoggio della fantasia.
Insomma, si cede quasi alla tentazione di vederlo – il nostro autore – come perennemente affacciato ad una finestra china sulla vita: sì, eccolo mentre (bloccandosi nel pieno raggio della finestra aperta) s’impone allo sguardo dell’aria e cerca di essere la pupilla del vento, per scoprire così gli uomini nelle infinitesime particole dei gesti. Risultato eccellente e lirico: Gazzè riesce in questo modo ad avvolgere, nei propri occhi di narratore, la vicenda complessiva delle persone comuni e quotidiane, con tutte le loro ansie, egoismi e volatili euforie. Che sono, in ultima analisi, i sottomultipli delle ore.
Chiaro dunque come il suo libro, altro non sia che un’antologia di contenuti e sostanze variegate: so-stanze da pranzo, di cui il lettore deve cibarsi (masticando a fondo col cuore e la mente) per mitigare la notte reciproca, instauratasi – ormai da troppo – fra l’uomo e i sentimenti.
-di Pietro Pancamo (pipancam@tin.it; pietro.pancamo@alice.it)-